C’è un film di David Cronenberg del 1986 intitolato La Mosca, dove un giovane Jeff Goldblum interpreta uno scienziato, di nome Seth Brundle, che inventa la macchina per il teletrasporto. Si tratta di due cabine: una scompone in atomi quello che ci metti dentro e lo trasmette all’altra, che lo ricompone come nuovo. Dopo un po’ di esperimenti la prova su di sé, ma non si accorge che nella cabina di partenza, insieme a lui, è entrata una mosca. Quando arriva tutto intero dall’altra parte è bello soddisfatto del risultato, ma dopo un po’ inizia a cambiare: perde pezzi, mangia roba molto zuccherata, si trasforma, e per il resto del film noi assistiamo a questa trasformazione nell’ibrido chiamato Brundlemosca, fino al finale abbastanza prevedibile.

Il cambiamento è graduale, prima perde i capelli, le unghie, i denti, poi si gonfia e si deforma, alla fine è un insetto antropomorfo, ma c’è una fase, più o meno a metà, quando non ha ancora perso del tutto le fattezze umane, in cui è identico a una mia collega che si chiama Barbara.

The many stages of the transformation from Seth Brundle (Jeff Goldblum) to the grotesque Brundlefly in "The Fly" (1986) from body horror master David Cronenberg
In una delle fasi successive diventa anche Ministro dell’Interno, tifoso della Sampdoria e infine lettore di Libero

L’altra mattina Barbara è entrata in ufficio a chiedermi di allargarle il buco.
Non c’è niente di sessuale, voglio specificare, si tratta di lavoro: io lavoro in una ditta che vende buchi; li produciamo con delle macchine specifiche capaci di realizzarne diverse centinaia nell’arco di una giornata, di diametro e profondità variabile, poi li confezioniamo e li spediamo ai nostri clienti. Vi sarà capitato di imbattervi in un buco, una volta o l’altra, e magari vi sarete chiesti chi l’ha fatto. Sette volte su dieci siamo stati noi, la mia ditta è fra le prime dieci produttrici di buchi in Europa, in Italia siamo primi per fatturato.

Il mio compito è di fare in modo che le dimensioni del buco prodotto corrispondano a quelle richieste dal cliente. Se ciò non avviene non si può modificare la macchina, perché richiederebbe troppo tempo, bisognerebbe fermare la produzione, si butterebbero via un sacco di soldi, e allora si modifica la richiesta del cliente. Ed è lì che interviene il mio ufficio, aprendo la richiesta e modificandola per farla corrispondere col prodotto che stiamo producendo. I clienti non si lamentano mai, le modifiche sono millimetriche, e poi se uno va a guardare dentro un buco è perché cerca qualcosa, quindi abbiamo un altro ufficio che si occupa di lasciare qualcosa sul fondo dei buchi che consegnamo. Molto spesso si tratta di spazzatura, carte di merendine che consumano i miei colleghi sulla linea di produzione, note scherzose che dicono Steven Suca o Carmine Buliccio (un giorno dovrò scrivere un post in difesa della bellissima parola buliccio, in via di estinzione per ragioni che sono indiscutibili, le condivido tutte, ma che impoveriscono il linguaggio), ma se la modifica è eccessiva e c’è il rischio che il cliente se ne accorga, bisogna andarci giù pesante. A mali estremi estremi rimedi, diceva coso: se vuoi spostare l’attenzione dal buco occorre depositare sul fondo dei buchi oggetti di valore, o molto delicati, come reperti archeologici, tubature fognarie e certe volte addirittura cadaveri. In questo caso abbiamo un altro ufficio che si occupa di tutti quei depositi che avranno conseguenze giudiziarie, ma con loro non lavoro mai, stanno all’ultimo piano e hanno una macchinetta del caffé che non usa nessun altro.

Uno degli articoli che vendono di più

L’altra mattina, quando Barbara è venuta a portarmi la richiesta sul modulo apposito, si è fermata a chiacchierare, e mi ha affascinato osservare la sua struttura aliena, quella testa gonfia, le protuberanze sulla faccia, le zampette sempre in movimento. Mi sono chiesto se gli esseri umani stiano continuando il loro processo evolutivo, e dato che immagino di sì, quanto ci metteremo a notare le differenze. Credo che sarà un cambiamento lentissimo, e che i risultati saranno visibili quando gli umani del futuro confronteranno sé stessi con quelli di un milione e mezzo di anni prima, cioè noi, e ci chiameranno primitivi, e poi torneranno a occuparsi delle loro faccende tipo se è il caso di esonerare l’allenatore della squadra ultima in classifica e chiamare Ballardini.

Però potrebbe succedere che il cambiamento sia repentino, come nei fumetti degli X-Men, e che fra noi si aggiri già qualche esemplare di una nuova specie, dotata di poteri che noi neanche ci sogniamo. Spero che quello di Barbara non sia leggere nel pensiero, o prima o poi mi mena con le sue zampe raptatorie.
Secondo questa teoria la nuova specie, più evoluta della nostra, sarebbe presto in grado di sopraffarci e condannarci all’estinzione, un po’ come fecero i Sapiens coi Neanderthal qualche anno fa.

L’assurdità è che il tema della sostituzione etnica sia entrato da tempo nella discussione pubblica come un fenomeno reale e non un tema da fumetti o da libro di antropologia. Certo, se è capitato allora perché non dovrebbe succedere di nuovo, si domandano i sostenitori di questa tesi, senza considerare che la sostituzione etnica di 400.000 anni fa, nei modi in cui può essere avvenuta, che ancora non conosciamo, ci ha messo dai 2.500 ai 5.400 anni, durante i quali le due specie hanno convissuto.

Non ho voglia di occuparmi di questa faccenda, chi la usa lo fa sempre e solo per giustificare il proprio razzismo, e con quelle persone non discuti, le eviti finché puoi e poi le meni forte. Torniamo a parlare del mio posto di lavoro, che ci sono un sacco di personaggi interessanti che vale la pena conoscere.

Uno di questi è Gioele, uno che se fosse un personaggio dei fumetti diresti che l’autore non si è sforzato granché per disegnarlo, ha preso un biker americano ciccione con la barba e gli ha messo addosso la divisa dell’azienda. Gioele è pelato, come tutti i bikers ciccioni americani con la barba che di solito indossano il casco a forma di elmetto nazista, e ha gli occhi sporgenti come uno affetto da esoftalmo, anche se nel suo caso si tratta di stupefazione: Gioele si stupisce di tutto, come i bambini, perché vive perennemente scollegato dalla realtà, e ogni volta che qualcosa ce lo riporta lui si guarda intorno e si meraviglia. È piacevole da guardare, all’inizio, ti mette di buonumore. Gli racconti dell’ultimo disco che stai ascoltando (Gioele è un grande appassionato di musica di qualunque genere) e lui sgrana gli occhi pieno di gioia, e per quanto la tua giornata sia stata fino a quel momento orribile ti senti contagiato e inizi a sorridere. Si dice che il contagio potrebbe estendersi ai tuoi genitali se avessi la malaugurata idea di accoppiarti con lui, dato che è un grande frequentatore di prostitute, ma sono bugie basate su pregiudizi, la maggior parte delle prostitute si prende cura della propria salute e ti obbliga a indossare il preservativo. Me l’ha detto Gioele mentre mi inculava.

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Io e Gioele condividiamo solo alcuni generi musicali, perché a me piace il pop melodico mentre lui predilige una variante del death metal molto incazzata col mondo e che ti induce una fortissima depressione, chiamata Maurizio Belpietro. Ma è un’altra condivisione che ci sta creando dei problemi che alla lunga potrebbero minare il nostro rapporto cordiale, e sono i ritmi biologici: io e Gioele, sebbene molto diversi fisicamente, ci mettiamo lo stesso tempo a trasformare ciò che mangiamo in materia fecale, e quindi capita spesso che quando uno dei due ha bisogno del bagno ci trovi dentro l’altro e si metta a smadonnare fortissimo, perché io e lui lavoriamo in due reparti che condividono uno spogliatoio diverso da quello destinato agli operai di produzione, e abbiamo di conseguenza il nostro bagno personale.

Potremmo usare quello dello spogliatoio della produzione, ma nessuno sano di mente farebbe mai una cosa simile, alla gente che lavora a stretto contatto coi buchi si strappa a poco a poco il tessuto della realtà, e dopo qualche anno cominciano a trasparire mondi paralleli con cui normalmente non entriamo mai in contatto; ci sono altre dimensioni oltre la nostra, e gli operai della produzione le frequentano tutte. Nel loro spogliatoio si annidano creature che neanche Lovecraft seppe immaginare, se non sei preparato potresti uscire pazzo o non uscire affatto.

Anche dei ragazzi della produzione avrei da raccontare parecchio, ma magari su questa storia dei colleghi ci torniamo un’altra volta.

Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music
Radio Tehran – Tamume chiza
Portishead – The Rip

Vi avevo lasciati sulle atmosfere noir dei Portishead e quindi ripartiamo da qui, da uno dei loro pezzi più famosi.

La canzone Sour Times compare nel loro primo album Dummy, del 1994, e insieme a Glory Box è uno di quei pezzi che ricordiamo per primi quando sentiamo parlare dei Portishead. Quel giro di basso che si chiude con un vibrato di corde e che si ripete per tutta la canzone, ne costituisce l’ossatura principale e diventa il suo elemento più riconoscibile. Quel giro lì è una campionatura di un pezzo di Lalo Schifrin che si intitola Danube Incident, e venne composto per la serie tv Mission: Impossible.

Lalo Schifrin è infatti il compositore del tema più famoso dopo quello di 007, che ricordiamo tutti grazie ai film con Tom Cruise. Della vecchia serie tv non parla più nessuno, destino infame quello delle vecchie serie tv che aprono la strada a migliaia di produzioni simili e poi vengono dimenticate, finché arriva uno piccoletto che ne fa un remake in chiave moderna ed è il trionfo e la condanna insieme: tutti si ricorderanno per sempre del piccoletto e nessuno più della vecchia serie tv. Io per esempio la vecchia serie la ricordo, ma mi piace molto di più il ciclo di film del piccoletto, di cui peraltro è uscito l’ultimo capitolo non troppo tempo fa e me lo sono visto giusto ieri sera, e adesso mi sento come dopo due ore stravaccato sul divano a guardare video di Tiktok e a mangiare cioccolata: non è male, ti intrattiene, ma è solo fuffa.

È una vita durissima quella di noi appassionati di cinema di spionaggio, escono pochi film e non sempre di buona qualità. Non che il ciclo di Mission: Impossible lo sia, o che si possa definire spionaggio, è più un film che parla grossomodo di spie con ottime scene d’azione, ma perlomeno quel che vedi ti diverte e alla storia tirata per i capelli smetti di pensarci. È successa la stessa cosa con Skyfall, uno dei migliori 007 del ciclo con Daniel Craig, che quando finisce sei soddisfatto, almeno finché non ripensi a quel che hai appena visto. Se n’era parlato qui, un sacco di anni fa.

Adesso che anche lui è uscito di scena col botto non sappiamo se e quando uscirà un nuovo film, chi lo interpreterà, quali altri stereotipi di James Bond verranno abbandonati per svecchiare il personaggio. Per un po’ mi sono consolato interpretando io l’agente segreto britannico, ma ormai anche quel ruolo non mi appaga più, ci vuole qualcosa che mi distragga.

Per fortuna il mondo delle storie di spie è più ampio di quello rappresentato dagli agenti indistruttibili che saltano giù dai palazzi, e cercando un po’ si riescono a trovare prodotti che lo raccontano in una chiave diversa.
È il caso di Slow Horses, una serie tv prodotta da Apple che racconta le vicende di un gruppo di agenti scartati dall’MI5, e guidati da uno strepitoso Gary Oldman untissimo e carismatico. Mi ha coinvolto così tanto che mi sono letto subito anche i romanzi tradotti in italiano (per il momento sono tre, ma immagino che col tempo verranno tradotti tutti, circa una decina), e adesso sto cercando altri prodotti del genere.

Slow Horses (TV Series 2022– ) - IMDb

Lalo Schifrin invece ci andava giù pesante col cinema. Oltre a Mission: Impossible compose anche la colonna sonora della saga dell’Ispettore Callaghan e di quella di Amityville, due nomi che i lettori più giovani difficilmente conosceranno, visto che non hanno ancora ricevuto alcun rilancio. No, aspetta, di Amityville sì, ne esce praticamente uno all’anno, e hanno tutti in comune la stessa trama: famiglia si trasferisce nella casa infestata e muore; ogni nuovo film mantiene il nome della cittadina nel titolo, ma oramai sono come gli spaghetti western degli anni ’70, hanno raschiato il fondo e non sanno più cosa evocare per farci capire che stavolta la minaccia è seria, mica come le altre volte. Pare che i prossimi film della serie si intitoleranno Amityville giramento di palle, Amityville la vicina di casa che tiene il volume a stecca, e Amityville la bolletta del gas.

Schifrin avrebbe dovuto comporre anche la colonna sonora de L’Esorcista, ma quando fece ascoltare la composizione al regista del film, questo lanciò la cassetta dalla finestra e affidò il lavoro a Mike Oldfield.
La cassetta prese in faccia un giovanissimo Hans Delbruck, figlio di immigrati tedeschi, che la ascoltò e ne rimase talmente impressionato da imparare a suonare il pianoforte. Qualche anno dopo mise su un complesso con alcuni amici e incise alcuni brani su quella stessa cassetta, che aveva conservato appositamente a quello scopo, poi portò la cassetta all’ufficio di William Friedkin, che in quel periodo stava lavorando al film Sorcerer, lo aspettò fuori e quando lo vide avvicinarsi gliela tirò in faccia gridandogli che non si buttano i rifiuti dalla finestra.

Su Friedkin e le storie che girano intorno al suo film più famoso ci sarebbe da scrivere un episodio apposta, ma noi siamo qui per parlare di musica, quindi per ora fermiamoci a Lalo Schafrin, poi la prossima puntata vedremo.

(continua)

Quand’ero bambino trovavo in edicola dei giornalini in un formato che stava a metà fra Topolino e i quotidiani nazionali; credo fosse lo stesso delle riviste patinate, ma a casa mia non si leggevano quelle riviste lì, oppure ero io che non le notavo, e di conseguenza il mio riferimento era un altro.

Erano i fumetti dell’Editoriale Corno, che pubblicava in italiano i fumetti della Marvel degli anni ’70, e lo faceva in riviste che ospitavano un po’ di tutto, dall’Uomo Ragno ai Fantastici Quattro, spesso troncando a metà la storia che mi stava appassionando per proporti l’inizio di una che aveva per protagonista un tizio che viveva nella giungla e di cui mi fregava generalmente poco.

Una delle serie che leggevo con meno entusiasmo, ma che è stata capace di sopravvivere fino a oggi al mio boicottaggio, si chiamava I Vendicatori. Ne avrete sentito parlare anche voi, probabilmente, dato che tre dei film a loro dedicati compaiono nella classifica dei più visti di tutti i tempi.

Quando questi film sono usciti in Italia il nome del loro supergruppo non è stato tradotto, forse perché Vendicatore è un termine che evoca cose brutte, ti viene più facile associarlo a un personaggio a cui hanno fatto delle cattiverie terribili, poi lui si è preso male e ha deciso di rispondere con la stessa moneta; in quei film lì non si parla di vendetta, i concetti morali che vengono espressi sono altri, più elevati probabilmente, e c’era il rischio di confondere il pubblico.

La vendetta è un sentimento tutto sommato semplice, non nasce dal ragionamento, è più che altro istinto: mi dai uno schiaffo e te ne do uno indietro, mi fai del male e trovo il modo di fartela pagare; al limite la razionalità sta nel concepire un piano per ferirti con più efficacia, ma il sentimento che sta alla base è sempre quello, istintivo, atavico, che condividiamo con gli animali. Credo che sia una versione appena più complessa della reazione al dolore che prova la maggior parte delle specie, l’autodifesa. Essendo la nostra in grado di elaborare le emozioni, abbiamo sviluppato forme di autodifesa più complesse, ma alla fine è sempre quella roba lì, quel sentimento basico che condividiamo coi cani.

Quindi no, i cani non sono meglio delle persone, ma non è di questo che volevo parlare.
Lascio due parole di contesto per quei due tre che mi leggeranno fra un mese e non capiranno a cosa mi riferisco:

In brevissimo, una ragazza è stata uccisa dal suo ex, lui è scappato ma l’hanno preso dopo qualche giorno. Nel frattempo ovunque, giornali, televisione, social e mondo reale, si è celebrato il rito collettivo del desiderio di vendetta, talvolta definita col suo nome e altre mascherandola dietro al concetto di giustizia, che però deve sempre includere mutilazioni fisiche sennò non vale.

Quello che ci tenevo a evidenziare qui sopra, per quegli stessi due tre, è che desiderare la violenza nei confronti di una persona che ha commesso un crimine violento non ci mette dalla parte del giusto, ma da quella che ha commesso il medesimo reato.

Perché è di quella roba lì che stiamo parlando, di quella reazione istintiva che ci rende parte del regno animale. Esprimerla è solo naturale, non ci rende migliori, non dovrebbe farci sentire parte della squadra dei Buoni, ci rende solo esseri umani. Neanche ci qualifica come mammiferi, perché l’istinto all’autodifesa ce l’hanno anche i rettili. Stiamo solo esercitando il nostro dovere di specie, quello di opporsi all’estinzione, e lo stiamo facendo nel modo più elementare possibile, ma essendo noi creature complesse lo abbiamo decorato con qualche parola in più. È la stessa ragione per cui quando vogliamo accoppiarci e abbiamo scelto il nostro partner lo invitiamo a cena fuori invece di annusargli il culo e poi zompargli addosso. Ci abbiamo appiccicato un costrutto più o meno civile, ma il concetto è rimasto lo stesso.

Quello che dovremmo essere capaci di fare, se volessimo davvero stare dalla parte dei Buoni, è augurarci che questo tizio sconti la sua pena in un istituto che lo metta in condizione, in un futuro non troppo lontano, di essere reinserito in società ed essere utile in qualche modo. È bruttissimo da leggere, quando sei ancora scosso da una tragedia, ma una società evoluta dovrebbe porsi questo come obiettivo, non Hammurabi.

Il problema è che se ci guardiamo intorno, di società evolute non se ne vedono granché. La tendenza generale sembra premiare i comportamenti istintivi a scapito della razionalità, l’ostentazione della forza rispetto alla ricerca del dialogo, la punizione dove servirebbe maggiore comprensione.

Istinto, forza e punizione, peraltro, sono proprio i tre elementi che compongono il terreno ideale in cui avvengono i femminicidi: uomini che si fanno guidare dal cazzo e puniscono le loro ex per averli lasciati.

Non ho granché da dire sul femminicidio, sono un uomo e ho esercitato molte volte il mio potere sulle donne, e probabilmente a qualcuna è venuto il dubbio che potessi finire anch’io in cronaca, perché di comportamenti sopra le righe ne ho avuti quanti ne vuoi. Non credo di poter dare lezioni a nessuno e quindi non ne do, mi limito a contenere il mio istinto e cerco di imparare a essere migliore, però mi interessa questa deriva vendicativa, la punizione come ragione di essere, perché la sto vedendo ovunque, negli uomini che ammazzano le compagne e in quelli che vogliono impedirglielo, in quelli che piove governo ladro e nel governo che promette di costruire una società migliore.

È appena stato emesso un nuovo “decreto sicurezza”, perché si vede che prima non eravamo abbastanza al sicuro. In realtà in dieci anni i reati sono scesi in media del 25%, ma a questi poveri cristi degli elettori di destra devi pure darglielo un motivo per votarti di nuovo, e quindi aumentiamo la pena per una manciata di reati già esistenti, anche se non è mai successo nella storia che l’inasprimento di una pena portasse a un calo del reato in questione, mai, per nessuno, neanche per i furti di biciclette.

Quello che trapela, mi sembra, è l’espressione della stessa triade di cui sopra, appagare gli istinti più bassi, esibire la propria forza, punire. Che sia per appagare i propri bisogni o quelli dell’elettorato di riferimento fa poca differenza, ad un certo punto della nostra storia ci siamo trovati di fronte a un bivio, e abbiamo abbiamo preferito dare più importanza alla soddisfazione dei bisogni immediati, mangiare e scopare, che a quelli a rilascio più lento, come l’educazione, e oggi ne stiamo raccogliendo i frutti.

Per me quel momento è abbastanza definito:

Quello è stato il momento in cui una parte degli italiani hanno trovato il modo di evitare tante menate che non potevano o non volevano capire, hanno potuto lasciarsi alle spalle le responsabilità di tenere in piedi un Paese vecchio e pieno di problemi, e si sono lanciati dietro al carrozzone da cui usciva un sacco di musica allegra e promesse per il futuro. Che ci pensasse qualcun altro a far funzionare il sistema, loro avevano già dato.

Peccato che di quel sistema facessero parte certi valori che garantiscono il funzionamento dell’essere umano, prima ancora di quello di uno Stato: l’empatia, il rispetto per i più deboli, il senso di responsabilità, generosità, educazione, diritti delle donne sono solo i primi che mi vengono in mente.
Si sono attenuati tutti questi principi, come se quei pochi che ancora cercavano di mantenerli fossero stati annacquati in mezzo alla massa di persone che avevano cominciato a voltarsi dall’altra parte. L’espressione “patriarcato” è venuta fuori con insistenza più di recente, e un po’ li raccoglie tutti questi concetti, ma secondo me ce n’è un’altra più efficace e che ci riporta al centro del tema di questi giorni: “avere il cazzo”.

El Macho | Minion movie, Minions movie characters, Despicable me

Oggi gli uomini sembrano avere un grosso problema a dimostrarsi tali, seguendo quei precetti che sono stati inculcati nelle loro testoline semplici da decenni di celodurismo a mezzo televisivo, e sono andati in crisi. Non si sentono più maschi alfa, adesso che gran parte dell’attenzione si è spostata sugli omosessuali, sulle donne indipendenti, sui maschi sensibili, e per reazione hanno cominciato a fare l’unica cosa che la società in cui sono cresciuti è stata capace di insegnargli, alzare la voce e ribadire il loro essere gli unici autorizzati portatori di cazzo certificato. Quindi più cazzo per tutti, nelle declinazioni in cui esso è interpretato: esibizione di forza, prevaricazione, autoritarismo, chiusura. Quindi, di conseguenza, crescita dei movimenti di estrema destra, crescita degli episodi di violenza sui soggetti più deboli e sulle minoranze, intolleranze sparse.

Non succede solo da noi, guarda chi hanno appena eletto in Argentina (no, non è Jimmy Page), in Olanda, chi è stato presidente negli Stati Uniti dopo Obama, chi viene fuori nell’est europeo. Ci sono altri fattori, non è una conseguenza così diretta della crisi del maschio, ma mi sembra che il cazzo abbia una sua responsabilità.

Mi sembra che ci sia una tendenza all’imbarbarimento, e limiterei le responsabilità al cazzo, se non fosse che con l’aggressività sta aumentando anche il numero di sciroccati che si bevono qualunque minchiata. Sembra il film Idiocracy in versione pulp, e questo non credo che dipenda dal testosterone fuori scala, quindi forse la causa principale è un’altra. Ma allora cosa sta succedendo?

Idiocracy (2006) - IMDb

Non escludo che si tratti solo di una sensazione personale dettata dall’età: si sa che un effetto dell’invecchiamento riguarda la nostalgia per il passato, e si finisce per illudersi che una volta le cose fossero migliori. Magari i coglioni sono sempre stati così tanti, magari prima erano anche più rissosi di oggi, e ho letto da qualche parte che la destra in Europa ha fatto molti più proseliti nella prima metà del Novecento che in tutti gli anni successivi messi insieme, ma io vivo adesso, non nella prima metà del Novecento, e finora non mi era mai capitato di trovarmi i fasci al governo contemporaneamente in Italia, Olanda, Ungheria, Polonia, Russia e Argentina, 105 donne ammazzate in un anno e per contorno una streppa di scemi che mi dicono che i vaccini ci uccideranno tutti e il riscaldamento globale non esiste. Sì, perché ci sarebbe anche questo dettaglio che ci stiamo arrostendo, e neanche lentamente.

Passerà, credo. Un effetto positivo di questa esibizione sproporzionata di virilità è la risposta altrettanto decisa di chi preferirebbe altre parti del corpo a dirigere il mondo, magari quella preposta a farlo, e se finora ha tenuto la voce bassa perché è educata magari adesso comincerà a farsi sentire di più, e alla lunga le due forze contrapposte finiranno per bilanciarsi e le cose riprenderanno il loro ciclo. E magari la stessa cosa succederà in contrapposizione alle altre forze crescenti, gli idioti smetteranno di ottenere visibilità, i movimenti democratici si riprenderanno le piazze e tutto tornerà a funzionare in un modo più o meno accettabile.

Solo che per allora saremo tutti evaporati.

Io scusate ma a questo punto mi sento in dovere di dire una cosa a quelli che magari è lunedì pomeriggio e hanno già finito di lavorare, che magari son di quelli che lavorano la mattina e poi si ritrovano col pomeriggio libero che avevano già programmato di non fare niente, che magari volevano approfittarne per andare dal barbiere marocchino fuori dal lavoro che è così bravo e limarsi un po’ quella roba in testa che sta cominciando ad assumere una forma un po’ da dipinto surrealista, ma che magari la loro moglie gli ha ricordato che hanno comprato tipo mezzo chilo di carne per fare il bollito e se non ci si mettono dietro gli va a male e allora magari dal barbiere marocchino fuori dal lavoro ci possono andare il giorno dopo, e allora magari hanno programmato di tornare a casa, mettere su il bollito e intanto che cuoce quelle tre ore farsi una bella partita alla playstation e finire Uncharted 4, che fra tutti gli Uncharted è quello migliore più per la grafica che per la storia e il tipo di gioco, che alla fine tutti e quattro sono sempre uguali, ti arrampichi, ammazzi della gente, risolvi degli enigmi che ci riuscirebbe anche il mio gatto, ti arrampichi su cose che si rompono e resti appeso per un pelo, verso la fine viene fuori un elemento soprannaturale che per ammazzarlo devi sparargli un po’ più a lungo, e poi finisce. E io sono arrivato al punto in cui si intuisce che potrebbe esserci un elemento soprannaturale, quindi immagino che.. no aspetta, stavo parlando di voi, che magari siete arrivati giusto a quel punto del gioco in cui intuite che potrebbe venir fuori un elemento soprannaturale e allora vi siete fatti l’idea di trovarvi verso la fine del gioco, ma non avete ancora guardato su Google e quindi non ne siete così sicuri, ma nel dubbio avevate programmato di passare il pomeriggio a giocare, o almeno finché non fosse tornata a casa vostra moglie, che magari è andata a Milano per lavoro e quindi non arriverà alle sette come al solito, perché magari siete di quelli che la moglie gli torna a casa alle sette, e in funzione di questo rientro inusuale al tran-tran coniugale avete pensato di approfittare e accelerare la parte videoludica della vostra giornata per arrivare in fondo a questo gioco e poterlo magari disinstallare e dedicarvi a qualcos’altro, ma non sapete bene cosa perché magari anche voi siete di quelli che hanno sottoscritto un abbonamento che mette loro a disposizione qualche centinaio di giochi e si sa che quando hai tanto da scegliere finisci per non scegliere niente e spiluccare, succede coi giochi ma anche col cinema e con la musica, e se siete particolarmente dotati di autostima e cazzi grossi anche con le ragazze, ma quello è un mondo che ho frequentato troppo poco per potermi esprimere con cognizione di causa quindi passo oltre. Magari succede che prima di mettervi a giocare volevate preparare il bollito, che ci mette ore a cuocere per garantire un brodo davvero gustoso che potrete conservare e utilizzare un’altra volta per farci dentro i tortellini se volete mangiare italiano, oppure come base per l’hot pot se volete accontentare l’altra metà della coppia, perché magari siete di quelli che si sono sposati una ragazza cinese, e metà dei loro pasti è composta da piatti asiatici, e l’hot pot è una di quelle cose che quando fuori fa freddo sono buonissime da mangiare, e se sono fatte con un brodo di carne fatto come si deve sono ancora migliori, e siccome questa è una regola che dovrebbe valere in ogni coppia perché fa funzionare meglio la relazione magari avete pensato di dedicarvici con dedizione, e avete deciso di giocare solo una volta che il vostro bollito fosse stato avviato, o come si dice da queste parti, inandiato. Solo che magari eravate appena tornati dal lavoro, dove avevate mangiato solamente un po’ di riso col brodo avanzato dalla cena precedente, e quindi magari avete anche un po’ di fame, e magari ieri siete andati a fare la spesa e vi siete portati a casa il classico strappo alla regole dalla vostra dieta sana ed equilibrata, e questo strappo alla regola è un salame di Varzi al barbera che aiutami a dire madoonna che buono con due o perché una sola non rende l’idea di quanto sia buono, e magari aprire il frigo per prendere gli ingredienti per il bollito magari vi ha messo faccia a faccia con quel salame lì e allora magari avete tirato fuori dal congelatore due panini, perché magari siete di quelli che i panini li comprano a chili e poi li congelano e se li mangiano caldi uno alla volta, e avete pensato che un panino bello caldo e croccante ripieno di fette di salame di Varzi al barbera sarebbe stato un ottimo modo per passare il tempo, e così ve lo siete preparato intanto che facevate il bollito, ma quando il panino era pronto e vi siete seduti a tavola per mangiarvelo vi è caduto l’occhio su quella bottiglia di cannonau che avete aperto ieri sera e di cui avete già asportato metà del contenuto per accompagnare la cena gustosa da cui, ricordo, avete avanzato un po’ di brodo che avete utilizzato per il pranzo di oggi al lavoro, e oggi al lavoro sarebbe stato bello finire il brodo e il riso e la carne e le verdure avanzati accompagnando il tutto col resto della bottiglia di vino, ma nell’azienda in cui fingete di lavorare non è permesso portare alcolici, e quindi adesso magari vi trovate con un panino gustosissimo davanti e mezza bottiglia di ottimo cannonau Cantina Santadi che vi guarda dal tavolo e vi chiede cosa state aspettando, e voi vorreste risponderle che state aspettando vostra moglie, ma in realtà neanche lo sapete a che ora arriverà vostra moglie, e avete fame, e adesso che avete davanti agli occhi bottiglia e panino avete ancora più fame, e allora sai che c’è, magari decidete che quella bottiglia merita di essere riaperta per accompagnare il vostro panino.

Poi magari succede, perché succede sempre quindi è molto probabile che sia successo anche a voi, che il panino finisce quando il bicchiere di vino è ancora a metà, e allora sorge in voi quel dubbio che sorge a chiunque nelle stesse condizioni: che faccio, finisco il bicchiere e buona lì o mi faccio un altro panino?

Non è una domanda semplice, e se andate a consultare i testi di filosofia scoprirete che questa domanda è già stata posta molte volte, sebbene in forma diversa, perché nei circoli di filosofia quando si ponevano le domande che si sapeva sarebbero finite nei libri di testo si badava molto a porre delle domande dalla caratura più elevata, e allora invece di salame e vino si usavano termini come coscienza e senso della vita, ma se andaste a consultare dei libri di economia vi accorgereste che la stessa domanda è stata posta anche lì, ma per la stessa ragione dei filosofi anche fra gli economisti si è badato a mimetizzare la domanda sotto uno strato di concetti difficili come bisogni primari e andamento di mercato.

Noi invece che siamo fra amici e non dobbiamo fare la gara a chi ce l’ha più lungo possiamo parlarci chiaro e senza tante menate e dirci in tutta sincerità che l’unica risposta possibile è mi faccio un altro panino, in culo alla promessa di mangire meno carboidrati e possibilmente anche meno insaccati, che poi magari siete di quelli che in ogni caso hanno ridotto di molto il consumo pro capite di focaccia e state mangiando un casino di salame solo perché magari vostra moglie nel suo ruolo di donna in carriera è tornata dalla Polonia con una borsa di insaccati polacchi che magari non influenzano granché la sua carriera ma hanno un effetto importante sul vostro girovita, ma a parte quello non siete così viziosi e quindi magari vi potete raccontare che un altro panino stavolta non sarà questa grossa eccezione alla regola, e quindi magari ve lo preparate, cadendo così nell’altra metà del trappolone, che scatta quando finite il bicchiere di vino e vi ritrovate con ancora mezzo panino in mano.

Ed è qui che arrivo al punto introdotto fin dal titolo di questo post e vi lascio con un consiglio che sono sicuro che vi tornerà utile se doveste trovarvi in una situazione che a me non è mai capitata ma che posso facilmente immaginare essendo io dotato di una fantasia fervida e una forte empatia verso categorie di persone meno fortunate di me: se doveste trovarvi un giorno con mezzo panino al salame al barbera in mano e un bicchiere vuoto davanti e l’ultima parte di una bottiglia di cannonau Cantina Santadi aperta, assicuratevi che il bicchiere sia molto piccolo, così da poter accogliere solo una piccola parte del contenuto della bottiglia, sufficiente a terminare il panino che state mangiando e lasciandovi così il tempo di giocare un po’ con la playstation prima dell’arrivo della vostra consorte, e lasciando il resto della bottiglia a disposizione per futuri bagordi, perché se il bicchiere è troppo ampio potrebbe capitare che nel versare il vino ne restasse giusto meno di un dito nella bottiglia, e lo sanno tutti che meno di un dito non è una quantità da lasciare nella suddetta bottiglia, che lo spirito del nonno ubriacone si rivolterebbe nella tomba, e non dite di no, perché tutti lo abbiamo avuto un nonno ubriacone, ubriacone è già incluso nella parola nonno, d’altronde come altro potrebbe diventare un nonno che avesse voi per nipoti, dai, siamo onesti, amici sì ma scemi no eh.

Quindi mi raccomando, se il bicchiere è ampio abbastanza da contenere quasi tutto ma non tutto tutto il vino non cadete nell’errore di rimettere il tappo alla bottiglia che a quel punto conterrebbe solo il vino sufficiente a essere definita non piena, non vuota, ma sporca con un po’ di fondo, e nessuno ama bere da una bottiglia sporca ma con un po’ di fondo, e quindi finireste per buttare via quel poco vino che ancora è rimasto, che magari non sarà il vino sardo più buono del mondo, ma è comunque un cannonau più che dignitoso che non merita di finire nello scarico, e voi lo sapete, quindi se doveste trovarvi nella condizione di scegliere se sacrificare il fondo della bottiglia o il vostro fegato sono sicuro che scegliereste il secondo e quindi finireste per finire la bottiglia riempiendo il bicchiere fino all’orlo, e bevendo con attenzione quanto basta per completare il travaso dalla bottiglia, e poi vi mettereste lì con dedizione a finire quella quantità vergognosa di vino senza neanche più l’ausilio di un terzo panino col salame, giusto un pezzo di parmigiano per gradire, due fette di salame polacco per gradire, un altro pezzo di parmigiano per gradire, qualunque cosa appena appena salata per gradire fosse anche un pacchetto di piselli secchi aromatizzati all’aglio o i biscotti alla cipolla per gradire che avete comprato al supermercato cinese per gradire che non avreste mangiato neanche sotto tortura per gradire e invece sono inaspettatamente buoni ma magari non legano tanto con questo vino, ma oramai è andata, fammi causa cazzo vuoi.

Ecco, per concludere, il mio suggerimento è di dotarvi sempre di bicchieri molto più piccoli o bottiglie molto più grandi, oppure di non avere un gioco da finire sulla playstation, o il rischio di ritrovarvi a scrivere su un blog invece di sparare a dei tizi in mezzo alle rovine di un’antica città pirata sono molto alti.

E comunque se mentre scrivete avete su l’ultimo disco di Arlo Parks viene tutto meglio.

Innanzitutto una nota per i milioni di lettori che arrivano qui da fuori Genova:
Melina Riccio è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che può capitare di incontrare in giro per Genova, mentre butta mangime ai piccioni o si trascina dietro il suo carrello per la spesa. Può sembrare una delle tante pensionate che ciondolano per i nostri centri storici, ma Melina Riccio è molto di più, è un’artista di strada. Anzi, a Genova per qualche anno è stata la writer più popolare, la Banksy locale, direi. Fino a qualche anno fa, in città come altrove, non era difficile imbattersi nei suoi “murales”. Si trattava di brevi elenchi di parole, talvolta in rima, riguardanti perlopiù il nostro rapporto con l’ambiente cittadino e la natura, cose semplici tipo “la spazzatura fa paura alla natura”, o “amore certo casto bello”, scritte in stampatello con un pennello piuttosto largo sui muri e sui grossi bidoni metallici dell’indifferenziata. Ne parlo al passato perché da un po’ di tempo non mi capitano i suoi lavori sotto gli occhi, e magari si è ritirata per sopraggiunti limiti di età, ma magari invece è attivissima, non prendetemi in parola su questo (ma neanche sul resto, sono un cazzaro).

Melina Riccio - Costruttori di Babele

Essendo uno spirito inquieto, Melina Riccio ha portato la sua opera in giro per l’Italia, magari senza coprire grosse superfici coi suoi slogan futuristi, ma semplicemente lasciando la sua firma corredata da una stella. Fuori dalla stazione di Roma, o da quella di Venezia, un occhio attento può ancora rilevare il tag di Melina, scritto piccolo su una piastrella o enorme su un palo dell’illuminazione.

Negli anni ci si è interrogati molto se quella di Melina fosse davvero arte o semplici scarabocchi, ma non credo di poter dare io la risposta definitiva (anche perché l’ho già fatto). Quello che però mi sento di dire oggi è che se Melina Riccio avesse un sacco di soldi da spendere per le sue opere nessun critico avrebbe dei dubbi, quella sarebbe arte contemporanea e la gente pagherebbe un sacco di soldi per andarla a vedere esibirsi. Certo, Melina Riccio a quel punto non dovrebbe limitarsi a dipingere e fare collage, dovrebbe anche scrivere musica e cantare, e a quel punto tutti si renderebbero conto di quello che io ho capito solamente ieri sera, quando per la prima volta in vent’anni sono riuscito ad andare a un concerto di Bjork.

Bjork, una retrospettiva in quattordici puntate

Bjork è una signora di una certa età e dall’aspetto un po’ squinternato che ogni tanto fa uscire un disco che divide a metà la critica: da una parte quelli che la considerano un genio assoluto e dall’altra quelli che trovano i suoi lavori inascoltabili e pallosi oltre l’umano. Per capire da che parte stia dovremmo andare per ordine e proporre una retrospettiva ragionata in quattordici puntate in cui analizzo ogni singolo brano a partire da quando suonava con gli Sugarcubes, ma farei felice solo me stesso e solo per i primi dieci minuti, perché comunque è vero che Bjork è pesante, non lo scopriamo oggi. Ma è anche un genio, forse addirittura superiore a Melina Riccio.

Di Bjork con gli Sugarcubes avevo scritto qui, perciò partiamo dalla sua produzione solista, che è più facile e si inizia col botto.

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Il suo primo disco solista lo incide nel 1977 a 11 anni, ottiene il disco di platino in Islanda, ma la verità è che il disco era una raccolta di cover in islandese e ha venduto 5000 copie su una popolazione di poco superiore a quella di Messina. Lasciamo perdere.

Debut è del 1993, e insieme ai due album successivi, Post (1995) e Homogenic (1997), compone l’intera discografia di Bjork che si può ascoltare senza cominciare a sentirsi scomodi sulla sedia. A dar retta a certe voci, il resto della produzione della cantante è stato fortemente influenzato dalla sua relazione con Matthew Barney, un artista visivo statunitense che ha conosciuto nel 2001 e con cui ha convissuto fino al 2013. Non è un’ipotesi così astratta, Vespertine è l’album che segue la trilogia meravigliosa, ed è appunto del 2001, e prima di incontrare questo personaggio Bjork si accompagnava a musicisti del calibro di Tricky e Goldie.

Ora, di sicuro Bjork non è un contenitore vuoto che chiunque arrivava riempiva a piacimento (nessuna allusione sessuale qui), e anche nei primi dischi è molto presente quella dissonanza sonora che dilagherà successivamente, ma le influenze sonore dei due signori qui sopra, e anche di Howie B, che collaborò al terzo album, si sentono parecchio.

La stessa cantante ha pubblicato una specie di guida all’ascolto dell’album che celebra la fine della sua relazione col compagno, Vulnicura, del 2015, spiegando come l’intero album sia una specie di processo di elaborazione del lutto e descriva i suoi diversi stati emotivi prima e dopo la rottura.

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Ce la siamo persa, Bjork. Da Vespertine in avanti la sua voce e la sua musica sono state accomunate solo per essere registrate contemporaneamente sulla stessa traccia, ma andavano ognuna per la sua strada ignorandosi a vicenda. Tappeti sonori densissimi, effetti barocchi, echi, atmosfere ambient, la produzione di Bjork negli anni ha preso una strada che anche i critici più eccitati hanno cominciato a guardare prima con sospetto, e poi con sempre più disaffezione. Dall’altra parte le sue apparizioni in pubblico sono state caratterizzate da abbigliamenti sempre più bislacchi e complicati, fino al Coachella di quest’anno, in cui si è presentata sul palco, fra le altre cose, in un abito su cui erano stati cuciti quasi 1500 led che reagivano al suono.

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Non mi piace dare la colpa a qualcun altro di questo suo ripiegarsi su sé stessa, preferisco credere che faccia tutto parte di un suo percorso interiore che non siamo tenuti a capire o apprezzare, ma solo accettarlo e andare avanti. Se e quando deciderà di tornare a meravigliarci col suo pop extraterrestre saremo qui ad aspettarla.

Io però nel frattempo avevo comprato il biglietto per il suo concerto di Milano, e mentre la data si avvicinava stavo maturando una certa apprensione. Su setlist avevo già sbirciato la scaletta del concerto, sempre la stessa per tutte le date, e conteneva praticamente solo canzoni degli ultimi due album: il pesantissimo Utopia e il meno pesantissimo ma comunque sempre difficile da digerire Fossora. Perdipiù ero da solo, non essendo riuscito a imbarcare nessuno dei miei amici e familiari in questo progetto assurdo. “A vedere chi? Ma tesseiffuori!”, mi hanno risposto tutti quelli a cui l’ho chiesto. L’unico che avrebbe accettato è stato il mio amico Musicadimerdillo, che è abituato ad ascoltare gente che suona la verdura sotto la doccia, e per lui Bjork è una passeggiata nel bosco, ma quel giorno doveva strapparsi le unghie a morsi e non poteva venire.

Sono andato a Milano da solo. Prima del concerto una voce ha spiegato che Bjork non vuole vedere telefonini durante il concerto, perché la distraggono e danno anche fastidio a chi vi sta vicino, perciò sul sito sarebbero state messe a disposizione gratuitamente foto comunque migliori di quelle che potrete fare voi coi vostri cellulari di merda. Per questa ragione le foto che trovate a corredo del mio post non le ho scattate io, le ho prese dal sito ufficiale. I video invece li ho scroccati a quelli che se ne sono sbattuti le balle e il telefono l’hanno usato lo stesso.

Vabbé, ma il concerto com’è stato?

Qui i pareri si dividono. Qualcuno che l’aveva già vista altre volte l’ha trovata particolarmente intonata, ma noiosa oltre l’umano, quindi in linea con la sua produzione discografica. Matteo Bordone, giornalista del Post, è uno di questi, e il giudizio molto severo che esprime nel suo podcast (che non vi linko, essendo solo per abbonati, ma se siete abbonati lo avete sicuramente già ascoltato) è che fa sta roba complicatissima da ascoltare e poi neanche te la spiega: in un’ora e quaranta di esibizione ha detto solo “grazzi” un paio di volte alla fine. Però la trovo una critica ingiusta: ochei, non ti fa gli spiegoni sul palco, ma rilascia interviste, scrive roba sui social, non è un’artista chiusa in casa che produce roba ermetica e ti lascia l’incombenza di interpretarla. Io ai concerti difficilmente vedo artisti che chiacchierano col pubblico. Certo, ci sono quelli che introducono le canzoni dicendo due parole, ma ce ne sono tantissimi che salgono sul palco, fanno la loro roba e se ne vanno senza dire niente né fare soste. Cazzo, ho visto De Gregori per anni e in tutto l’avrò sentito pronunciare meno di dieci parole.

Il concerto di Bjork è la versione in grande, più tecnologica, più rumorosa e (poco più) musicale del portone di casa di Melina Riccio.

MELINA RICCIO - Drawing - Outsider Art Now

Ci sono questi due livelli di tende trasparenti su cui vengono proiettate le immagini, e la scenografia è grossomodo tutta lì. C’è una piattaforma su due piani e Bjork e le sue ragazze lo percorrono avanti e indietro, c’è una specie di cabina che ricorda un po’ la testa di un polpo.
Le ragazze in questione sono le Viibra, un settetto di flauti e clarini che fanno anche da corpo di ballo, muovendosi in sincrono e componendo figure. Il resto della band sono Bergur Þórisson (che lascio scritto senza la traslitterazione così vi resta la curiosità di sapere come si pronuncia), ingegnere del suono, Katie Buckley all’arpa e soprattutto Manu Delago, percussionista bravo abbastanza da giustificare tutto quel circo e il costo del biglietto. Per dire, ad un certo punto si è messo a suonare delle ciotole dentro una vasca piena d’acqua, ma in generale la base ritmica del concerto, quando c’era, si sentiva forte.

Il concerto è stato un’ora e quaranta di musica noiosa, ma la coreografia, le immagini che scorrevano alle spalle dei musicisti, il carisma di quella piccoletta stramba vestita da omino Michelin, e probabilmente il fatto che questo fosse uno dei pochissimi concerti a cui ho desiderato partecipare per anni, hanno fatto scorrere il tempo molto velocemente. Il tizio seduto accanto a me con un grosso problema di traspirazione ha contribuito ad allungarlo un’altra volta.

Non è un’esperienza facile, e probabilmente non è neanche davvero un concerto. È più vicina a uno di quei videogiochi fatti apposta per mostrarti le capacità della nuova console, ambientati in un luogo pieno di forme che si muovono e suoni che hanno poca musicalità, ma sotto tutta quella roba messa lì per confonderti c’è sempre la stessa Bjork di Post, che gioca con la techno e agita il braccio sopra la testa per tenere il ritmo, che strilla e si mette a ballare. O perlomeno ci prova, visto che l’abito è piuttosto ingombrante.

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Prima del pezzo che chiudeva il concerto ci ha detto “if you feel like dancing don’t hold it”, come se fosse facile mettersi a ballare su quella roba, ma poi gli strumenti si sono allontanati e il ritmo si è fatto sentire più chiaramente, e se non fossimo stati tutti seduti e sedati dal tappeto sonoro ininterrotto che ci ha portati fin lì magari ci sarebbe venuta voglia di alzarci e saltellare. Invece la musica finisce, ci alziamo e ce ne andiamo.
Io peraltro stavo vicino all’uscita, e cinque minuti dopo la fine del concerto ero già all’imbocco della tangenziale.

Magari è stato più noioso e superfluo e ridondante di molti altri concerti, ma per me che era il primo, e su cui avevo pochissime aspettative, è stato pazzesco. Quando ho riconosciuto in mezzo a quel casino Venus as a boy mi sono lasciato scappare un’esclamazione che quello vicino a me ha staccato gli occhi dal telefono su cui seguiva la partita dell’Italia; quando ha presentato i musicisti, sentirla parlare con quel suo accento assurdo, dopo una vita che la ascolto solo attraverso delle casse (vabbè, anche stavolta in realtà, ma ci siamo capiti) è stata un’emozione.
Insomma, io Bjork la voglio rivedere prima possibile, e stavolta non voglio comprare il biglietto in piccionaia, voglio stare davanti. Non mi importa del costo, ne vale la pena. Per lei ne vale la pena.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music
Radio Tehran – Tamume chiza

Nella scorsa puntata abbiamo ascoltato un pezzo dei Radio Tehran, una band iraniana di cui non so niente, tranne quelle poche informazioni che forniscono le piattaforme di streaming: formati nel 2009, hanno pubblicato un disco, 88, e l’anno dopo si sono sciolti. Il cantante si chiama Ali Azimi e ha proseguito la sua carriera da solista, è ancora in giro e ha pubblicato altri album, perlopiù in lingua farsi, da cui il detto “farsi da solo”.

Poi magari invece è famosissimo, sono io che non approfondisco la conoscenza degli artisti di cui parlo e sto ignorando un fenomeno che tutta la critica musicale considera il nuovo dio della musica, la persona che sta rivoluzionando la cultura iraniana grazie alle sue canzoni, il manifesto politico di una generazione, nonché l’autore della colonna sonora del prossimo film di James Bond che avrà per protagonista un attore arabo, che non è l’Iran ma per i produttori di Hollywood sticazzi è un po’ tutta la stessa roba.
Se le cose stanno effettivamente così mi spiace, ma deve procurarsi un social media manager migliore.

Non avendo altro da raccontare sui Radio Tehran direi di passare subito al prossimo gruppo, tramite il collegamento “artisti che si chiamano come una città”. Avrei potuto sfruttare la parola “radio” nel nome e collegarmi al primo gruppo di Manu Chao, ma la pachanka è quel genere musicale che i primi trenta secondi ti fa venire una voglia pazzesca di ballare, e subito dopo di sparare al giradischi. Avrei potuto scegliere fra gli artisti che la parola l’hanno inserita nel titolo di una loro canzone, e così al volo mi vengono in mente i Queen, i Clash e Roger Waters.

Ho pensato invece di appoggiarmi alla città, perché mi offriva un’occasione troppo ghiotta per parlare dei Portishead.

Loro non so se li conoscete, ma sono sicuro che avete ascoltato almeno un paio dei loro pezzi più famosi:
Numb è la canzone in sottofondo a un vecchio spot della Nissan Primera (peraltro girato a Genova);
Glory Box faceva da colonna sonora alla pubblicità di un profumo con Sophie Marceau e a quella di un paio di jeans con un bambino che ha delle fantasie su una signora.

I Portishead negli anni ’90 sono stati un gruppo così importante da essere diventati leggendari con due soli album, prodotti con molta calma molto tempo fa. Per dare una misura della loro grandezza: quando pubblicarono il terzo album, Third, a distanza di undici anni dal precedente, la piattaforma di streaming che lo riproduceva registrò 327.000 ascolti nelle prime 24 ore; oggi sono numeri che probabilmente direbbero poco, Harry Styles con l’uscita di As it was (2022) ne ha totalizzati 8 milioni e 300mila il primo giorno, ma nel 2008 la musica in streaming era solo all’inizio (Spotify sarebbe nata pochi mesi dopo l’uscita di Third).

Diffusione della musica in streaming nel Regno Unito dal 2008 al 2016

Quella musica lì erano in pochi a praticarla, i pionieri erano stati quei mostri dei Massive Attack, cui prima o poi dovrò dedicare una puntata perché sono dei mostri, poi erano venuti i Morcheeba e i Portishead. In Italia ci avevano provato i Casino Royale con un album a cui sono affezionato per averli visti in tournée per la prima volta proprio in quell’anno. Qualcuno lo chiamava Bristol sound, per essere nato da quelle parti, tutti gli altri trip-hop. I Portishead non volevano essere etichettati in quel modo, e con Third avevano provato altri suoni; sono sempre stati degli outsiders, e non credo sia un caso se da quell’album sono passati ormai quindici anni; eppure nessuno si azzarda a dire che il gruppo si sia sciolto: ancora l’anno scorso si sono esibiti in un concerto benefico per l’Ucraina, e siamo ancora tutti qui ad aspettare l’annuncio di un disco nuovo, sicuri che prima o poi arriverà.

Io per primo mi sto facendo dei film sul Primavera Sound di Barcellona del 2024, di cui ho già il biglietto in tasca, e sogno di trovarmi sotto il palco durante un memorabile concerto reunion dei Portishead, o perlomeno se proprio tutto il gruppo non si potesse, della loro straordinaria vocalist, Beth Gibbons, una delle voci più strane, delicate e lunari che potete ascoltare in giro. Dopo i Portishead cercate Out of season, il suo disco solista: contiene meraviglie.

Ma Portishead è anche il nome di una città inglese, dicevamo. Si trova nel Somerset, a una quindicina di km da Bristol, tanto per dare un riferimento geografico a chi non conosce a memoria ogni cittadina britannica. Pare essere collegata alla band di cui sopra per essere stata la città dove si trasferì Geoff Barrow, il dj dei Portishead, quando i suoi genitori si separarono. È la classica città inglese che se la vai a visitare su google ha un cielo nuvoloso e le case basse e il porto che si affaccia sulle coste gallesi e quell’aria così tipicamente deprimente che la tua mano se ne va a cercare la boccetta degli psicofarmaci.
Ehi, quante vibrazioni positive in questa puntata!

Dal 1928 al 2000 la città ospitò la più grande e più trafficata stazione radio per comunicazioni ad alta frequenza (HF) al mondo, che credo significhi che c’erano queste grosse antenne che vedete nella foto, e permettevano all’Inghilterra di scambiarsi messaggi radio via mare con qualcuno che stava in Australia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la radio permise di comunicare con la flotta mercantile e con gli aerei che pattugliavano l’Atlantico, e la sua utilità ne garantì la sopravvivenza almeno fino all’avvento delle comunicazioni satellitari, dopodiché venne gradualmente smantellata. Oggi al suo posto sorgono dei quartieri residenziali.

I membri della band omonima l’hanno descritta “dreary”, triste, e non si può dire che abbiano esagerato: guardando un po’ sulla mappa si nota la scarsità di esercizi commerciali e luoghi di divertimento. Però c’è un bar che sfoggia dei bicchieri con scritto Portishead brewery, indispensabili per un fan che non vuole rinunciare ai suoi feticci. E immagina che figo invitare a casa gli amici e offrire loro una birra in un bicchiere stiloso, mentre la voce suadente e malinconica di Beth Gibbons si diffonde dagli altoparlanti, accompagnata dagli archi di un’orchestra. Nota buffa: il disco live con orchestra è accreditato alla New York Philarmonic Orchestra, ma nessuno dei suoi membri compare nel disco.

(continua)

Mi sono reso conto, con un certo fastidio, che questo blog si sta riempiendo di necrologi, e il fastidio è dovuto alla consapevolezza che la causa stia nel mio anno di nascita, che col tempo mi trovo a condividere con sempre meno persone.
Oggi purtroppo se n’è andato uno dei pilastri dei miei vent’anni, una donna un po’ più vecchia di me, che ha avuto una vita molto ma molto peggiore della mia, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Si chiamava Sinéad O’Connor, e non ho mai imparato a pronunciare correttamente il suo nome (è più o meno Scinèid).

Ora non voglio mettermi qui a raccontare le sue disgrazie, ci sono un sacco di informazioni disponibili in rete se uno ha voglia di andarsele a cercare, e se non ne ha voglia non vedo perché dovrei premiare la sua pigrizia riassumendogliele io.

Oltretutto fra le reazioni alla sua morte sui social ho letto diversi commenti di disprezzo per cose che o non erano vere o richiedevano un minimo di contesto, e l’ultima cosa che ho voglia di fare è mettermi a discutere con questi personaggi, che tanto sarebbe tempo perso. E comunque torniamo sempre a quella volta che strappò in diretta tv la foto del papa, un gesto potentissimo allora, ma che ancora oggi, fra i milioni di contenuti che ci affollano la giornata, riesce ancora a farci fermare per un momento il respiro. A certi fa ancora andare la lingua e le dita, non c’è niente da fare.

Se fermi l’immagine al fotogramma giusto puoi vedere il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei

Forse non è stata un’artista indimenticabile, è esplosa con una canzone che non era neanche la sua (e il cui autore è morto di morte prematura, come lei e come un altro ottimo interprete dello stesso brano, ma non sarò io a dire che la canzone porta sfiga), ha pubblicato qualche disco perlopiù ignorato dal pubblico, ha collaborato con un sacco di artisti più o meno famosi, coi quali ha tirato fuori delle perle. Ma era un’artista della madonna, e se non avesse sabotato la propria carriera con una caparbietà invidiabile, oggi saremmo molti di più a celebrare la sua scomparsa.

Se gli irlandesi sono stati considerati per secoli gli sfigati d’Europa, lei è stata di sicuro la sfigata d’Irlanda, ha incarnato per tutta la vita le disgrazie di cui è stato protagonista il suo popolo, dagli abusi dei preti all’esilio, al lutto. Per tutta la sua breve vita si è portata dietro un peso enorme, senza mai riuscire a conviverci. Ha cercato una quadra ovunque, nell’impegno sociale, nel cristianesimo, nel rastafari, alla fine si è perfino convertita all’islam, ma quel macigno non l’ha mai posato, e alla fine c’è rimasta sotto.
Poteva finire quarant’anni fa in un vicolo con una pera nel braccio, o nel suo letto imbottita di anfetamine durante una qualunque delle crisi che l’hanno perseguitata, e non ci sarebbe stato niente di inaspettato. Ha superato tutto, ha cercato sempre di trovare un modo, ma si vedeva che i mostri che aveva dentro se la stavano mangiando; poi l’anno scorso suo figlio si è ammazzato, e immagino che abbia semplicemente smesso di resistere.

A guardarla da lontano si potrebbe definire una fra i tanti artisti che fra gli ’80 e i ’90 hanno azzeccato un paio di canzoni per poi tornare nell’anonimato, ma è chiaro che non è così: la settimana prima che uscisse Nothing Compares 2U, a febbraio del 1990, la testa della classifica la occupavano i Technotronic, ma non so chi se li ricorda, oltre a me. Così come pochi si ricordano di Crystal Waters, e non credo che leggeremo mai da nessuna parte il necrologio di uno dei Kris Kross (di quello ancora vivo, peraltro. Lo sapevate? No, appunto).
Non era una qualunque, aveva una carriera spianata davanti: il secondo album, quello di Nothing Compares 2U, vendette 7 milioni di copie, e subito dopo partecipò al concerto di Berlino di Roger Waters per celebrare la caduta del muro. Era un fenomeno, e piaceva a tutti. Almeno finché non cominciò a dire quello che pensava, e quello che pensava non piaceva a tutti, perché era incazzata con l’America, era incazzata con la Chiesa Cattolica, e anche se aveva le sue ottime ragioni per essere incazzata il pubblico cominciò a fischiarla.

Trovatevi qualcuno che vi guardi come Sinéad O’Connor guardò il pubblico del Madison Square Garden alla fine della sua canzone.

Di lì in poi il termine “spianata” riferito alla sua carriera assunse tutto un altro significato.
Però noi c’eravamo. Noi che ci eravamo innamorati della sua testa rasata e della sua voce incazzata e delle lacrime e di quegli occhi che guardavano il mondo come se fosse stato un gatto che aveva di nuovo cagato fuori dalla cassetta.
Per noi Sinéad O’Connor ha rappresentato una grossa fetta della nostra vita. Non ci siamo limitati a cantare le sue canzoni, abbiamo modellato il nostro immaginario femminile su di lei, e da allora abbiamo subìto una bizzarra attrazione verso le ragazze coi capelli cortissimi, gli occhi grandi e il naso a punta e parliamo di noi stessi al plurale per imbarazzarci di meno. Abbiamo continuato a seguirla attraverso i suoi dischi mediocri, le sue dichiarazioni che col tempo si sono fatte meno incazzate e più tristi, e i suoi cambi di pelle per cercare di sopravvivere, che abbiamo interpretato come stranezze di una persona allo sbando.

Era l’otto luglio del 2010 quando sono riuscito a vederla dal vivo, al Porto Antico di Genova.
Aveva i capelli lunghi, non era più la ragazza su cui avevo costruito il mio immaginario femminile, adesso sembrava più sua madre, ma neanch’io ero più quel ragazzino là.
Portava un vestito a fiori e una chitarra, ma gli occhi erano sempre quelli, sempre splendenti di una rabbia che non aveva ancora smesso di bruciarle dentro. Aveva detto anche allora qualcosa contro la Chiesa, un riferimento al vescovo che abitava poco distante, o qualcosa del genere, non ricordo.

Stamattina in rete si trovano commenti di ogni genere, alcuni molto belli e toccanti. Vabbè, ci sono anche quelli negativi, ma appartengono tutti agli stessi profili che negano il riscaldamento globale, l’utilità dei vaccini e il nazismo di Putin.
Tolti i terrapiattisti, l’opinione comune è che se ne sia andata una persona stupenda, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più. Fra tutti, ne vorrei riportare due, che mi hanno colpito per ragioni diverse. Mi scuso in anticipo per la traduzione povera e i tagli, non posso riportare il link perché Elon Musk è fondamentalmente un idiota.

L’Irlanda negli anni ’80 era un luogo buio che si stava spostando verso la luce. Erano i nostri artisti e, più di tutti, i nostri musicisti, che indicavano la strada da seguire.
Piccola di statura, i capelli rasati, Sinéad O’Connor cominciò a prendere a calci le ultime vestigia di rispettabilità del nostro passato cattolico. Il fatto che la sua testa fosse rasata non era dovuto al caso; dato il modo in cui i corpi e le azioni delle donne erano controllati, lei era il simbolo supremo di chi eravamo, e di chi volevamo essere.
E poi si mise a cantare.
“Mandinka” cambiò molte cose, perché era arrabbiata e cruda ed energica e rassicurante, tutto insieme. Poi arrivò “Troy”, e all’improvviso questo folletto incazzato con gli anfibi (non nel senso che era in lite con le sue scarpe, n.d.t.) stava cambiando le classifiche e il modo in cui vedevamo noi stessi.
Lavorai in un hotel dove alloggiava durante quell’iniziale esplosione di popolarità che non si addiceva alla sua figura – piccola, vulnerabile, circondata da persone che volevano qualcosa, ma lei se ne lasciò travolgere. Suonò all’Olympic Ballroom, e sia noi che lei fummo storditi dalla sua esibizione. Ad un certo punto non aveva più canzoni da cantare, e dovette ripeterne qualcuna. Non importò a nessuno.
Poi arrivò il successo vero, e tutte le belle cose finirono.
Ci sono persone migliori di me – fra cui Sinéad stessa, nella sua autobiografia – che possono raccontarvi la storia del suo dolore e di tutto ciò che le è successo, e di tutte le persone che l’hanno abbandonata così brutalmente.
Immaginate di essere gravati da qualcosa della grandezza e della magnificenza di quella voce, e di non esserne felici; per lei questa cosa era talvolta un macigno.
Non cambiò niente nella sua musica; quel dolore era sempre lì, ed è così triste che qualcuno che ci ha dato così tanto non abbia potuto godere di quella generosità che ci ha sempre mostrato.
(…) Siamo stati fortunati ad averla avuta, e dovremmo chiederci cos’altro avremmo dovuto fare per tenerla con noi; la sua sofferenza avrebbe dovuto essere qualcosa che andava condiviso fra tutti noi, perché glielo dovevamo, alla fine.
Riposa in pace, Sinéad.
Nothing – nothing – compares.

Philip O’Connor (giornalista irlandese)

L’anno scorso ero in Irlanda per lavoro. Stavo bevendo una pinta fuori da un pub di Dalkey con alcuni nuovi amici, quando una donna ci passò accanto con passo determinato. Piumino chiuso fino alla nuca e la testa china coperta da una sciarpa. Uno dei miei nuovi amici borbottò un’esclamazione, saltò in piedi e la inseguì. Trenta metri più avanti il mio amico e la donna si abbracciarono, e lui mi fece cenno di raggiungerli. Fu là, sotto la luce dei lampioni, col freddo che ci condensava il respiro, che incontrai Sinéad. Mi guardò negli occhi, e con una dolcezza disarmante, disse “oh, sei tu, Russell”.
Tornò al tavolo con noi e ordinò un tè caldo. In una conversazione senza barriere passammo dalla recente ondata di calore su Dublino alla politica locale, da quella americana alle proteste per i diritti delle popolazioni locali che stavano avendo luogo in diversi paesi, ma specialmente in Australia. Ci parlò dei suoi caldi ricordi della Nuova Zelanda, di fede, di musica, film e di suo fratello, lo scrittore. Ebbi l’opportunità di dirle che per me lei era un’eroina.
Quando la sua seconda tazza si stava raffreddando all’aria della notte si alzò, ci abbracciò tutti e si allontanò a grandi passi verso i lampioni offuscati dalla nebbia.
Noi quattro ci siamo seduti e, con parole diverse, abbiamo espresso lo stesso pensiero. Che donna straordinaria.
Che il tuo cuore coraggioso riposi in pace, Sinéad.

Russell Crowe (gladiatore)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music

Nella scorsa puntata abbiamo parlato di Gary Numan, che ci è servito per introdurre il tema degli artisti che compongono brani per spot pubblicitari. Adesso potrei utilizzare questo gancio per collegarmi praticamente a chiunque, visto che solo fra i nomi più noti compaiono David Bowie che canta una canzone sull’acqua minerale, Sting su una Jaguar e perfino John Lydon si è imburrato il culo senza vergogna per venderlo più facilmente. Ma sarebbe troppo semplice, e le cose troppo semplici non sono divertenti, come finire il videogioco coi trucchi o vincere le elezioni promettendo l’impossibile, quindi ho cercato di rendere tutto un po’ più interessante.

Gary Numan ha tre figlie, Echo, Raven e Persian. Se volete triggerare la ministra Roccella potete fermarvi qui, vi ho fornito un ottimo argomento; per tutti gli altri ho una domanda: cos’hanno in comune queste tre parole, corvo, eco e persiana inteso come abitante della Persia e non come oscurante per la finestra?
Mi è venuto in mente Sandman, il fumetto di Neil Gaiman, che di sicuro le contiene tutte e tre, ma per trovare il momento esatto in cui appaiono insieme bisognerebbe leggersi tutti i ventimila volumi dell’opera, e ho ancora da finire Sniper Elite 5, non posso perdere tempo in futilità.

Il Neilgaimanometro segna alto

Ho deciso di lasciare perdere Echo, e ho scoperto una poesia di un poeta iraniano dedicata a un corvo.
La potete leggere tradotta in inglese qui. Poi magari me la spiegate, che io quando a scuola facevamo l’analisi delle poesie mi leggevo i fumetti sotto il banco perché non avevo tempo da perdere in futilità.

Lui si chiama Nima Yushij, o Yooshij, a seconda di chi lo traduce, ed è stato uno dei più importanti poeti iraniani. Di più, è quello che ha liberato la poesia persiana dalla rigidità della metrica, e l’ha arricchita di temi più attuali della coppia di innamorati che guardano la rosa sbocciare sotto la luna e si struggono di nostalgia. Ha “tolto la poesia dai rituali di corte e l’ha portata per strada”, si è scritto di lui. Era il 1922, non troppo tempo fa, e la sua figura è ancora molto presente nella cultura iraniana, tanto che esiste una band, e qui volevo andare a parare, che si è ispirata alla sua opera, e ha messo in musica un suo componimento.

Si chiamano Radio Tehran, e li potete ascoltare qui sotto.

Prima di salutarci volevo raccontarvi di quella volta che ho provato a usare una poesia per rimorchiare una ragazza ed è finita malissimo.

La premessa obbligatoria è che io e la poesia esistiamo nello stesso universo, ma il rapporto fra di noi non diventa mai più stretto di così. Ho studiato qualcosa a scuola, come tutti, ho apprezzato qualcosa dopo gli studi, come molti, ho un paio di autori che mi sono più simpatici di altri, ma se devo spiegarvi cosa sta dicendo Umberto Saba alla capra mi metto a ruminare con lo sguardo assente.

Possiedo qualche libro, comunque, perché almeno un paio di volte ci ho provato a esplorare quel mondo di frasi che vanno a capo prima del punto, e più o meno li ho letti fino in fondo.
Uno di questi è una raccolta di Edward Estlin Cummings, poeta che ho scoperto grazie a Woody Allen: in Hannah e le sue sorelle, Michael Caine riesce dopo lunghe insistenze a irretire Barbara Hershey con una sua poesia.
Ho pensato che se ha funzionato con un inglese, la cui natura non è certo incline agli slanci passionali, figurati con un italiano, e mi sono comprato il libro e mi sono studiato la poesia, così da poterla citare con disinvoltura quando si fosse presentata l’occasione.

L’occasione si è presentata a Londra, dove lavoravo come portiere di notte e addetto alle colazioni in un piccolo B&B di Paddington, negli ultimi mesi del secolo scorso.
La ragazza si chiamava Elizabeth, era una polacca dai capelli neri con due occhi azzurri che mi ricordavano il cane di un’altra ragazza di cui mi ero perdutamente innamorato, e quindi mi innamorai anche di lei per proprietà transitiva. Solo che il cane della ragazza di prima mi voleva molto bene, mentre lei non mi cagava di pezza. Faceva la cameriera ai piani dell’hotel, e ogni mattina, dopo avere terminato il mio lavoro, andavo a cercarla per i corridoi e le sussurravo rime di cui io stesso faticavo a comprendere il significato.
Lei mi guardava con occhi pieni di deisderio, e mi chiedeva di tornare in cucina e prepararle un tramezzino col cheddar e il bacon, e se per favore potevo metterci anche un uovo sodo.

Un giorno la convinsi a venire con me al parco. Speravo che lontano dall’ambiente di lavoro si sarebbe lasciata un po’ andare, e per mostrarle la mia bontà d’animo le dissi che avevo composto una poesia apposta per lei. Quella volta ero andato sul nostrano, dato che Cummings si era rivelato incomprensibile avevo tradotto in inglese una canzone di Ivano Fossati, e gliel’avevo letta.

Se le avessi letto la formazione dell’Arsenal forse avrebbe avuto una qualche reazione, ma neanche l’arrunchio italiano era riuscito a smuoverla, era un caso senza speranza. La riaccompagnai alla fermata della metro e me ne andai a cercare cd usati a Berwick Street, come al solito. Adesso però avevo dato un senso al verso di Cummings che dice “nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani”. Probabilmente non il senso che gli attribuiva l’autore, ma in quel momento rifletteva benissimo la mia delusione, e alla fine la poesia, come la pittura, credo che dovrebbe essere questo: un traduttore di emozioni. Che siano quelle che provava l’autore o altre non importa, se ci trovi qualcosa di utile ha funzionato.

Alla fine con Elizabeth non ci furono altri sviluppi, tornai dall’esperienza londinese solo com’ero partito, ma la collezione di cd era cresciuta parecchio, e oramai col proprietario di Reckless Records ci davamo del tu.
Che poi se parli in inglese è anche l’unica forma possibile.

(continua)

Stamattina alle tre e mezza ero seduto sul gabinetto e cercavo di capire dove mi trovavo. Mi trovavo sul gabinetto, l’ho già spiegato, ma una parte di me non ne era ancora del tutto cosciente. Stavo aggrappato al telefono come un naufrago per non annegare un’altra volta nel sonno, e la prima cosa che mi è capitato di leggere è stato il messaggio di un’amica che mi scriveva che è morto il mio scrittore preferito.

In quello stato di semi incoscienza mi sono chiesto chi fosse il mio scrittore preferito, e onestamente non saprei rispondere neanche adesso che sono passate due ore e sono già pronto al secondo caffè, ma nella zona grigia in cui mi dibatto a quelle ore non lo avrei saputo indicare neanche se avessi a casa il suo busto in marmo.

Questa è la conversazione che hanno avuto i miei due neuroni funzionanti:
“Ma chi, Saramago?”
“Ma no, è già morto, siamo anche stati sulla sua tomba l’anno scorso”
“Ma che tomba, era un albero”
“Siamo stati sul suo albero l’anno scorso”
“Sì vabbé adesso era un macaco”
“No un ulivo”
“No dico Saramago”
“Nel senso che diventerà come Gandalf?”
“Ma chi?”
“L’ulivo”
“A me l’ulivo fa venire in mente più D’Alema”
“Quindi è morto D’Alema?”
“Ma non è il mio scrittore preferito”
“E allora chi è?”
“Un segretario del PD coi baffetti”
“No, dico lo scrittore”
“Qui non c’è scritto. Aspetta che apro google”

Era Cormac McCarthy, come ormai sanno già tutti, e non è stata una grossa sorpresa perché aveva 89 anni, e dato che aveva appena pubblicato due romanzi avremmo dovuto aspettarci il prossimo fra 15 anni, ma uno a 104 anni che cosa ci deve raccontare ancora, lasciamolo crepare in pace poveretto.

Non so se era il mio scrittore preferito, mi sa che neanche ce l’ho uno scrittore preferito unico al di sopra di tutti gli altri. È stata comunque una botta, più di quella ricevuta due giorni fa per la scomparsa di Francesco Nuti, di cui amo tuttora smodatamente due film, ma che alla fine sentivo vicino come il lontano parente simpatico che racconta le barzellette.

C’è stata un’altra scomparsa eccellente in questi giorni, ma non credo valga la pena di aggiungere contenuti, il carrozzone è già pieno così. Speriamo che non finisca come nel 2016, non gioco al fantamorto e buona parte dei miei eroi hanno raggiunto un’età ragguardevole, vorrei centellinarmi i lutti per quanto possibile.

Comunque McCarthy scriveva come uno che ha girato tutto il mondo a raccogliere le parole più adatte e poi si è seduto alla scrivania e le ha provate tutte una per una per trovare quella che ci stava meglio, io quando leggo i suoi libri mi sento come se stessi di fronte a un fantasma, a una di quelle cose che sai che non potrebbero esistere eppure ce l’hai davanti e ti sta dicendo delle cose e insomma ci dev’essere un motivo se le sta dicendo proprio a te, forse sei l’Eletto ed è il caso che lo stai a sentire, e il pensiero che questo privilegio è solo legato all’aver comprato un libro ed è un’esperienza ultraterrena che potrebbe vivere chiunque eppure non c’è la fila davanti alle librerie, a me è una cosa che mette una profonda tristezza.

Sarà che l’opera di uno scrittore richiede una partecipazione attiva da chi ne fruisce, mentre per un film o un disco basta che ti siedi e stai sveglio, ma quando muore un gigante della letteratura non assistiamo a scene di lutto collettivo, cordoglio nazionale, funerali di stato. È più facile che ne goda un pluripregiudicato il cui unico contributo all’arte è stato scorreggiare al G8.

Ciao signor McCarthy, io non porterò il lutto in tuo onore. Oggi tornerò a casa un po’ più triste, mi leggerò qualche altra pagina del tuo libro e berrò un po’ di quel prosecco che ho stappato l’altroieri per festeggiare una bella giornata, e anche questa lo sarà, alla fine.

Grazie per ogni linea di dialogo che mi hai obbligato a rileggere all’indietro per capire chi dei due stesse parlando, per ogni pagina che mi sono ripetuto ad alta voce per ascoltarne la musica, per ogni capitolo che quando finiva era come aver terminato una tappa di montagna, per i cavalli.