Mi sono comprato una mascherina in farmacia, l’ho pagata 140 euro. Ma dicono che se non ce l’hai muori, e insomma, mi sono appena comprato casa, sarebbe un bello scazzo morire prima di andarci ad abitare. Però il medico mi ha detto che se non sono malato la mascherina non mi serve a niente, mi ha detto che ho buttato via 140 euro.
Mi sono immaginato gli strepiti di mia moglie, le sue critiche sulla mia incapacità a far quadrare il bilancio domestico.
Per salvare il nostro matrimonio ho cercato di ammalarmi, per non buttare via i soldi, ma dalle mie parti il virus non riesce ad attecchire, bisogna andare nei paesi più fortunati, in Lombardia e nel Veneto, dove la gente è ricca e non si fa mancare niente.

Per entrare a Vo’ Euganeo, uno dei comuni colpiti dall’epidemia, bisogna oltrepassare un posto di blocco, sorvegliato da poliziotti in tuta spaziale e troupes televisive che la mascherina se la sono fatta disegnare sulla faccia dalla truccatrice, perché fa audience. Non mi hanno lasciato entrare in paese, hanno detto che è pericoloso.

Quando mi sono allontanato è arrivato un ghanese che per 5 euro mi ha venduto un sacchetto di plastica con dentro delle fettine impanate. “Devi dire che sono per tua figlia che sta nella zona rossa, sennò non entri”.

Sono andato davanti al poliziotto alle transenne e gli ho mostrato la sporta. Mi ha detto di posarla lì e allontanarmi, avrebbero chiamato mia figlia per fargliela raccogliere.
Non capivo come questo potesse aiutarmi a passare, ma appena ho posato il sacchetto a terra sono stato circondato da un nugolo di giornalisti in cerca di storie commoventi, che hanno distratto la guardia e mi hanno permesso di sgattaiolare via.

Ho camminato da solo sulla strada che conduce al paese. Era un pomeriggio di sole, sembrava estate. Ma non era estate, era febbraio, e gli insetti che di solito senti ronzare intorno, e gli uccelli che inseguono gli insetti e cantano, non c’erano. C’era un silenzio inquietante, nessun motore lontano, nessuna voce. Mi sono immaginato che questa storia del virus fosse tutta una montatura per tenere i curiosi lontano, e che in realtà a Vo’ Euganeo fossero arrivati gli alieni. Magari in questo momento mi stavano puntando addosso un qualche raggio disintegratore, e questo sarebbe stato il mio ultimo pensiero.
Mi sono vergognato di morire pensando agli alieni, e sono arrivato in paese canticchiando il ritornello di Saturday Night Fever.

In paese non c’era anima viva. I negozi erano chiusi, le strade deserte. Era spettrale, come qualunque paesino italiano alle tre del pomeriggio.

E come in qualunque paesino italiano, sapevo dove avrei potuto trovare qualcuno, e mi sono diretto alla piazza principale, al bar dei vecchietti.

L’insegna diceva Bar Sport, ma i suoi avventori non sembravano praticarne alcuno da parecchio tempo. L’unica attività alla quale si dedicavano ogni giorno era il sollevamento del bicchiere, e gliene potevi leggere in volto gli effetti, nel colore rubizzo del naso e nella vetrificazione dello sguardo. Quando li sentivi parlare, capivi dallo scorrere impastato delle parole che il flusso di pensieri là dentro stava attraversando una strada tortuosa per trovare l’uscita.

Ma a me non interessava la dialettica, ero arrivato fin lì per prendermi il coronavirus, e non me ne sarei andato a mani vuote.

Mi sono avvicinato a un anziano che sfoggiava la divisa da giovane, berretto da baseball e giacchetta grigio topo, e gli ho offerto la mia mano da stringere.
Lui non si è mosso, mi ha squadrato dall’alto in basso con diffidenza, e mi ha chiesto chi fossi e come fossi entrato in paese.

“Sono un candidato della Lega alle prossime elezioni”, gli ho risposto pronto. Non sapevo se ci sarebbero state elezioni comunali a breve, ma se sei un candidato della Lega la cosa non ti fa molta differenza, tu la campagna elettorale la fai comunque.

L’anziano in divisa da giovane mi ha fatto un sorrisone, e mi ha offerto da bere. Intanto che tracannavo un bicchierone di un liquido scurissimo e troppo aspro, mi ha raccontato che in paese ci sono un sacco di problemi, e che è ora che qualcuno cambi le cose, perchè qui son tutta gente per bene che lavora e paga le tasse, e a loro gli scansafatiche non ci piacciono, e sti negri è ora che se ne vadino da un’altra parte.

Ho posato il bicchiere, l’ho guardato dritto negli occhi e gli ho detto “mi piacciono gli uomini di polso”, poi ho cercato di buttargli la lingua in bocca.
L’anziano sportivo si è divincolato strillando, e i suoi strepiti hanno fatto alzare in piedi gli altri avventori, l’Anziano-che-gioca-a-carte, l’Anziano-che-legge-il-giornale e i tre Anziani-che-discutono-di-calcio.

Ormai ero in ballo, mi sono buttato addosso a chiunque, cercando di limonarli, e nella foga siamo finiti in strada, ad agitarci sul marciapiede.
Si era fatta un’ora più consona, e adesso circolava qualche passante. Un gruppetto di ragazzini sulla bici si è fermato ad assistere allo show di me che importunavo i Voeuganesi.

Dopo un po’ è arrivata una pattuglia di carabinieri.

“Documenti”, mi hanno intimato da dieci metri di distanza. Io ho tirato fuori la carta d’identità e mi sono avvicinato, ma questi hanno fatto un salto indietro e mi hanno gridato di non muovermi, che in base alle vigenti norme di sicurezza non mi era consentito avvicinarmi di più.

“Allora che facciamo?”
“Potrebbe seguirci in caserma”
“Non ci vengo in caserma”
“Eh in questo caso non lo so”

Siamo rimasti un po’ lì a guardarci, poi sono andati via.

I ragazzini hanno interpretato il mio gesto come un moto di ribellione, e hanno deciso di emularlo mettendosi a cantare “la disoccupazione ti ha dato un bel mestiere, mestiere di merda, coronasbirro”.

Intanto il signor Bepi, un pensionato che stava montando in servizio in quel momento, si è lasciato convincere a baciarmi con la lingua dietro il compenso di una damigiana di amarone, e si è appartato con me su una panchina.

Ci siamo abbracciati con passione, ma proprio mentre stavo per cacciargli in gola un metro di muscolo grondante umori, ha adocchiato la mia fede nuziale e si è fermato.

“Ehi bello, a che gioco stai giocando? Io non sono quel genere di uomo, sai?”
“Ma no, sono sposato solo sulla carta, in realtà non viviamo neanche più insieme. Sto aspettando le carte del divorzio”

Non ha voluto saperne, ha detto che senza un documento del giudice lui questa storia non la portava avanti, e se n’è tornato al bar.

Anch’io sono tornato a casa, e ho detto a Shasha che volevo il divorzio.
Lei non ha capito, va bene che litighiamo spesso, ma è perché siamo entrambi orgogliosi e impazienti, e non ci stiamo ad avere torto né a lasciare all’altro l’ultima parola, ma ci amiamo, sappiamo di poter contare uno sull’altra, e facciamo un sacco di sesso stupendo. Perché ci dovremmo lasciare?

Le ho spiegato che dovevo divorziare per mettermi con Bepi, prendere il coronavirus e salvare il nostro matrimonio, ma non ha capito. Davvero volevo lasciarla perché potessimo stare insieme?
Ammetto che messa così non l’avrei capita neanch’io.
È scoppiata a piangere, ha detto che lei un marito così scemo non se lo merita, poi si è asciugata gli occhi e ha deciso che questo matrimonio andava salvato, e che ci avrebbe pensato lei.

Mi ha fatto vedere il suo computer, c’era un negozio cinese online che vendeva boccette di coronavirus a 2.900 kuai.

Comprarlo su TaoBao era stata anche la mia prima idea, ma non parlando la lingua non ero stato in grado di procedere all’ordine corretto, avevo provato a tradurre letteralmente le parole corona e virus, ed ero solo riuscito a farmi arrivare a casa l’imperatore Tang Taizong con tutte le sue concubine. Erano tutti raffreddati e passavano la giornata sul divano con la copertina sulle gambe a guardare Netflix e scroccarmi litri di tè.

La boccetta del virus è arrivata un mese e mezzo più tardi, quando in Italia tutti si erano ripresi dal panico collettivo ed erano tornati a vivere normalmente, i bambini erano tornati a scuola, nei supermercati l’amuchina restava invenduta come al solito e le farmacie non sapevano più come smaltire le quantità enormi di mascherine che erano state costrette a ordinare durante i primi caotici giorni.

Non so se sia stata colpa del corriere Bartolini o del viaggio in aereo, o della scarsa qualità del prodotto, ma la boccetta mi è arrivata aperta, e qualunque cosa ci fosse stata dentro se n’è andata.

Mi sono immaginato cosa sarebbe successo nei giorni successivi: un altro caso qua e là, altra psicosi, gente che dà di matto e svaligia i supermercati, altri che se la prendono coi cinesi, scuole chiuse, telegiornali monotematici. Onestamente non me la sono sentita di tornare ai livelli di allarmismo immotivato da cui eravamo appena usciti, se proprio dovevamo spaventarci allora che ne valesse davvero la pena, mi sono detto.

Sono tornato sulla pagina del negozio in cui abbiamo comprato il coronavirus. “Shasha, come si scrive, in cinese, ebola?”

Che poi provaci un po’ a tirare su i piedi e giù in acqua con sto freddo ci hai pure un’età ma sei cretino io se ti viene la polmonite non ti ci vengo a casa a farti le spremute, provaci a zittire quella bocca che ti si spalanca nella testa e urla nonononono. Hai una forma stampata in testa e non te ne schiodi.
Ma no, è che non ho niente da dire, è difficile fare esercizio autoimposto di perdita dell’equilibrio se non hai niente da dire, anche quando qualcosa da dire ce l’hai ma non sai come dirlo e allora forse perdere l’equilibrio ti aiuta a tirare fuori quelle cose che.
Certe bottiglie contengono una sostanza capace di aiutarti a perdere benissimo l’equilibrio, ma non sta in tutta la bottiglia, è una cosa che si trova fra la metà e il fondo.
E intanto qui non si perde niente, troppa punteggiatura a tenere il freno, troppe immagini quadrate ordinate sistemate a modino mica come il mio armadio. Forse dovrei chiudermi nell’armadio, chissà come la prenderebbe il gatto a vedersi arrivare un intruso, perlomeno i peli che sfoggio sul maglione comincerebbero a essere i miei.
Ma come fai, provaci tu a tirare su i piedi e giù in acqua con sto freddo e hai appena finito di mangiare se ti viene una congestione io non ti vengo a ripescare e il bagnino a marzo sta facendo ancora la stagione invernale sulle piste, ce la fai a stare a galla altri tre mesi? Che poi cosa vuol dire provaci tu, sono io quello che ci deve riuscire, se ci riesci tu cosa mi cambia?
Che poi cosa vuol dire perdere l’equilibrio, cosa faccio, abbandono le virgole e i punti e faccio flusso di coscienza come coso? A me il flusso di coscienza sta sul cazzo, troppo facile da scrivere e complicato da leggere, me lo faccio per conto mio, cosa vuol dire che scrivo una roba incasinatissima passo da un argomento all’altro senza separare neanche con una virgola una parentesi incastro le frasi una nell’altra e ogni tanto ci sparo un pensiero peso come una fucilata di notte e te la sbatto lì e ti dico leggila? Ma chi te lo fa fare, sei mica il mio analista. Magari lo fossi, vorrebbe dire che posso permettermi un analista invece di aprirmi testa e torace ogni due tre giorni per capire cosa sta succedendo lì dentro, non è qualcosa che uno fa così per noia, ti costa anche una certa fatica, l’altra sera ero a cena fuori e al mio tavolo era seduta la Etta, che sarebbe la versione umana di Yoda, ma che a parte quello con me è sempre gentile, non mi fa mai volare il piatto per la stanza, per dire, e mi ha fatto notare che sono dimagrito tantissimo, e io per rassicurarla che sto bene mi sono mangiato tre antipasti e due piatti monumentali di taglierini all’astice che erano di un buono che ci tornerei anche stasera, e lei si è rassicurata e ha detto che se c’è l’appetito c’è tutto e magari hai solo un tumore che ti sta mangiando un po’ alla volta anche mio marito era così, e magari è quello oppure tutta l’energia che brucio a ficcarmi le mani in testa e tirare ogni volta che con le dita riesco ad abbrancare un pensiero di cui vorrei liberarmi, e tiro tiro ma quello stronzo è viscido e alla fine mi scappa dalle dita e torna a rintanarsi laggiù dove non arrivo neanche con una bacchetta, ma non lo farei lo stesso, ti pare che mi infilo una bacchetta in testa, e poi dove la faccio passare, nel naso no che fa schifo, in bocca tossisco, nelle orecchie c’è da farsi male seriamente, negli occhi forse è l’unica, ma ci sto già cacciando dentro le dita non ci passa, è per quello che quando mi guardi li ho lucidi e ti chiedi se ho pianto, non ho pianto, ci ho ficcato le dita dentro per tirare fuori quel pensiero là, e tu mi domandi che pensiero, e io te lo dico, segno che non sono riuscito a tirarlo via, sennò ti risponderei che pensiero?
Che pensiero?
Che pensiero?
L’ho chiesto prima io.
Cosa?
Che pensiero.
Che pensiero?
L’ho chiesto prima io.
Cosa?
Poi nel silenzio della notte si sente una fucilata e dalle case qualcuno pensa ai bracconieri, qualcuno a un regolamento di conti, qualcuno a un suicidio, ma nessuno dei tre casi merita che si accenda una luce, o non sono cazzi loro o non c’è nessuna urgenza, oramai il danno è fatto, girati di là e fai tacere il cane, domani vado a vedere cos’è successo. E invece non è morto nessuno, ancora. Ma se aspetti un po’, un bel po’, vedrai che otterrai soddisfazione. Che certe volte uno mica muore così, di colpo. Uno muore una riga alla volta, un pensiero alla volta, una resa alla volta. Oggi all’ortografia, domani ai pensieri viscidi che vuoi stare lì e stacci, ti faccio vedere che io vivo bene lo stesso, guarda qua, GTA5, mi fai un baffo, ti chiudo in una gabbia di cazzate che voglio vedere come te ne tiri fuori, e lui non aspettava altro, prima o poi lo spegnerai quel giochino del cazzo, e io lì ti aspetto, ti salto addosso la sera prima di andare a dormire, mentre ti lavi i denti, al lavoro quando sei da solo e sbadigli, per la strada appena hai svoltato sul ruscello e non ti vede nessuno, ti prendo da solo quando non puoi chiedere aiuto e ti mangio la cartilagine delle ginocchia, ti rendo difficile camminare, ti faccio pendere verso il bordo della strada, come sarà caderci dentro di questa stagione, lasciarsi andare, perdere la brocca e nuotarci in quel palmo d’acqua fredda? Perché non ci provi? Perché io non ti mollo sai, ti schiaccio contro il muro e ti arpiono la gola e finché hai un filo d’aria è mia, sei mio, tutto mio, la penna è mia, il controllore è mio, il treno è mio. Scusa, ogni tanto mi scappa la citazione, abitudine, dopo un po’ che ti metti una maschera ti si incolla alla faccia e ti scordi di levarla.
Cos’è stato questo botto? Cacciatori?

2.
Mi sveglio molto presto, il fuso orario o il fantasma del cuoco di Picota che mi ha tenuto compagnia per tutta la notte. Vorrei alzarmi, ma i miei compagni di stanza dormono ancora, magari aspetto, dev’essere presto. Passa il tempo e sento l’edificio svegliarsi piano piano, qualcuno va in bagno, qualcuno scende a fare colazione. I miei compagni di stanza no, sono sempre nella stessa posizione. Magari sono morti e io mi sto facendo gonfiare la vescica per una cortesia inutile verso due cadaveri. Spunto con la testa e vedo il mio vicino di letto con la bocca spalancata da cui sale un gorgoglio ritmico, come un geyser che sta lentamente tornando in attività. Immagino che anche la ragazza nell’altra branda sarà in ottima salute. Vabbè, senti, mi alzo. Cerco di fare più piano che posso, ma ogni movimento produce lo stesso frastuono di un ciclo produttivo all’Italsider. Dopo un po’ mi rendo conto che se evito di muovermi con attenzione ci metto la metà del tempo, e forse disturbo meno.

Scendo a fare colazione e non c’è nessuno, solo io e un tizio che legge il telefono. Mi servo un succo di qualche frutto inesistente in natura, dal sapore dev’essere stato estratto dall’albero del polistirolo, e una bella tazza di quella sbobba annacquata che qualcuno si ostina a definire caffè americano. Non è caffè, smettila. Il caffè ha un sapore e un odore e una consistenza ben precisi, questa sostanza non ha ancora trovato una sua collocazione neanche nella tavola degli elementi. Se venisse fuori che la raccolgono da un tubo in una discarica non ci sarebbe niente di strano.

la chiesa dove si adora il signor Morto e i pasticcini pesantoni

Faccio la seconda colazione al Forno dos Clerigos. È quella panetteria dove mi reco in pellegrinaggio ogni volta che torno in città, sotto la chiesa che porta lo stesso nome. Prendo un pastel de nata pesante come solo un dolce portoghese sa essere, e mi racconto per l’ennesima volta che ne mangerei a chili perché è così buono. Non è vero, buono è buono, ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.
Prendo anche una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Credevo che le cose più grosse e pesanti del pastel de nata si trovassero solo nei cataloghi di artiglieria.

Mi scrive Marzia, dice che verrà a fare colazione lì, ma che è ancora in albergo. Da quanto ho capito alloggia in una specie di ex carcere fuori città, senza riscaldamento e con la colazione sparata in camera mediante irrigatore a canna. Non ho capito perché non abbia prenotato nel mio stesso ostello, lo conosceva anche lei e come me lo ha adorato da subito. Dice che se ne sono occupate le sue compagne di viaggio, che però non erano mai state a Porto. Boh, rinuncio a capire, certe volte nella testa di Marzia succedono cose misteriose.

Dopo un po’ che non la vedo arrivare mi alzo, o perlomeno ci provo, e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato.
Non mi dice granché, ma ho tempo da perdere, magari proseguo verso una direzione sconosciuta. In quel momento ricevo un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

La trovo al tavolino che sta macinando un panino al prosciutto. Accanto a lei è seduta Vivienne Westwood, o perlomeno spero tanto che lo sia: è tutta viola, i capelli, la montatura degli occhiali, una pelliccia e gli anfibi. Sembra un incrocio fra una bici, Iggy Pop e il Teletubbie Tinky Winky. Mi limito a due saluti due, i gestori ci stanno guardando male e credo di aver visto spuntare da sotto il banco qualcosa di metallico con un percussore e un grilletto. In Portogallo sanno essere molto rudi coi clienti.
Ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno, andremo a pranzo tutti insieme alla Taberna Do São Pedro, un altro di quei posti per cui vale sempre la pena tornare da queste parti.
Le lascio alla loro colazione e me ne vado a vedere la Sé.

La guida della città descrive la Sé come una cattedrale-fortezza; ai tempi della scuola ero un bimbo gracilino e facevo un sacco di assenze, perciò ho saltato sia la lezione in cui spiegavano le cattedrali, sia quella in cui descrivevano le fortezze. Però ho giocato a un sacco di videogiochi a tema fantasy, quindi la Sé la immagino come un edificio altissimo, goticissimo, dalle pareti spesse come tutta casa mia, abitato da creature deformi che mi puntano addosso un’ascia bipenne ed emettono suoni biascicati attraverso le zanne, poi mi vendono una pozione che mi restituisce +10 al mana.

Niente di tutto ciò. Per essere grossa è grossa, e pure massiccia, ma somiglia più a una sobria fortezza medievale che a una cattedrale gotica, anche se i pilastri all’interno sono grossi e nerboruti come le braccia di mia sorella, seppure meno pelosi.

Pilone Tupparello

Le creature deformi ci sono, ne incontro due. Indossano palandrane e invece dell’ascia bipenne mi puntano addosso un volantino e mi chiedono se voglio fare una foto per beneficienza. Accetto volentieri, una foto insieme a una creatura deforme starebbe benissimo nel mio album di Facebook.
Di certo meglio delle vostre con la bocca a culo di cane e la fronte in avanti per nascondere il risultato della dieta. Del fatto che non ne state seguendo nessuna, intendo.

La giovane baffuta volontaria dell’Ente Turistico Ecclesiastico Della Madonna Del Cerchione o di qualche associazione analoga mi spiega a grugniti che sarà lei a fare la foto, io devo solo mettermi là davanti a quella parete di azulejos e fare la faccia da uno che non vedeva l’ora di farsi fotografare.

Cioè come se me la facessi da solo? Eh ma te la faccio io. E se me la faccio da solo? Noi te la stampiamo su carta fotografica e la mettiamo in questo libretto interessantissimo che mostra tutte le meraviglie della cattedrale, non so se hai afferrato il sottinteso, se non l’hai afferrato guarda l’occhiolino che ti sto strizzando da mò. Credevo fosse l’orifizio da cui respiri, con voi creature deformi che abitate le cattedrali-fortezza è sempre difficile capire. Allora, ti metti davanti alla parete o devo tirare fuori i tentacoli? Non c’è niente che possa fare, sono al massimo della potenza. Dovrò spegnere tutto. Ma dovrete faticare per prendermi. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi.

Mi metto in posa e faccio tutte le smorfie del mondo, da quella triste a quella scoglionata, ma la tizia è abile e riesce a prendermi proprio nel momento in cui rido. Mi lascia andare senza sacrificarmi al suo dio sanguinario e riprendo il giro.

Il chiostro della cattedrale è insignificante, le tombe di San Carralho e San Colombão Certenholi sono anonime, la stanza piena di roba barocca è carina, ma evitabile. L’unica cosa che attira la mia attenzione sono i gabbiani. Hanno tutti l’elmo e una piccola alabarda.

Torno all’uscita e mi ferma la creatura di prima, il cui approccio non è diventato più gentile neanche adesso che ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso tanti momenti felici. Cara mia, se speri che adesso ti libererò dall’incantesimo che ti ha gettato addosso la strega cattiva devi proprio cambiare atteggiamento. Piuttosto bacio il parroco.
E anche la foto che cerca di rifilarmi, ma cos’è? Va bene, rido, ma sembro un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è, dai. E te la devo pure pagare? Ma vai, vai.

Mentre scendo verso il ponte Dom Luís mi specchio in una vetrina. Vedo un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è. Vado a cercare un’altra vetrina, questa è rotta.

(continua)

 

“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

Parto sotto i peggiori auspici. La prima volta che sono stato in Portogallo sono andato in macchina, ma ho avuto problemi e mi si è piantata in autostrada. Chiama mio padre, fregagli la macchina mentre guarda se arriva il carro attrezzi, raggiungi la Malpensa in ritardissimo, posteggia di corsa nel posteggio sbagliato che ti costerà alla fine più del biglietto e via.
Il giorno prima della partenza mi si accende la spia dell’olio, ma non posso andare in treno, ho degli impegni inderogabili lunedì, devo tornare presto per andare a lezione, è il giorno in cui si decideranno i ruoli dell’Amleto, e se non vado si pigliano tutti i migliori e mi tocca fare Ofelia.

Nonostante la nube nera di morte che aleggia su di me per tutto il viaggio arrivo sano e salvo, posteggio nel posto giusto e mi imbarco con comodo.
L’aeroporto della Malpensa ha un casino di bagni, e intanto che aspetto li uso tutti. Sarà l’acquapanna dell’autogrill, che ne so.
Per ingannare l’attesa faccio un giro nei negozi del duty free e rischio di comprarmi tre maglioncini eleganti per sessanta euri. Eh ma tre sono troppi, quanto costa uno solo? Sessanta. Ah ecco. Sono un affare! Per voi di sicuro. Due quanto costano? Sessanta. Uno e mezzo? Sessanta anche le frazioni. Grazie arrivederla. Sto andando in un posto dove i prezzi me li ricordo molto bassi, magari il maglioncino me lo compro lì, eppure mi fermo più di quanto sarebbe accettabile a fissare un cappotto fighissimo per cui non sborso trecento sacchi solo perché non saprei come farlo stare in valigia. Eppure diventerò grande prima o poi e queste cazzate impulsive non le farò più, lo so.

All’imbarco c’è coda. Noto due tizie vestite da suore color tortora, forse sono missionarie, oppure sono suore da poco tempo e non hanno ancora cambiato il piumaggio. Però hanno un rosario che spunta dalla tonaca che dovrebbe essere classificato come arma, ha dei grani di legno grossi come chicchi d’uva, e un crocifisso che da solo peserà mezzo chilo. E se fossero due terroriste? Il fanatismo religioso c’è sicuro, a me questi favoritismi non piacciono, mi viene una gran voglia di mettere una bomba sull’aereo e dare la colpa a loro.

Alla fine non erano terroriste, atterriamo a Porto vivi e posso andare a prendere la metro. Perché rispetto a cinque anni fa c’è una metro che ti porta diretta in centro!
E ci mette ore!
E non arriva più!
E sedute con me ci sono due studentesse erasmus di Torino che non fanno altro che parlare delle loro avventure sentimentali in città, tipo che Marina aveva quest’amico che si chiamava Pippo ed è venuto a trovarla e la sua coinquilina ficona se lo voleva fare e gli si è presentata mezza nuda in camera, ma Pippo aveva paura e ha chiesto a Marina di dormire con lui per tutta la durata della sua permanenza, e alla fine in quella casa non ha scopato nessuno. Nomen omen.

..

La camera del Rivoli Cinema Hostel è piccola, ha due letti a castello e quattro armadietti incassati fra questi e il muro che per aprirli devi infilarti in uno spazio minuscolo. Ed è mista. La divido con un tizio costaricense che somiglia al protagonista di Atlanta, un musone che in tutta la permanenza avrà detto sì e no quattro parole. C’è anche una biondina ceca parecchio carina che vive a Barcellona. Con lei invece ci parla un casino, il marpione.

La mia branda è sopra, la presa della corrente sotto, non ci sono mensole dove appoggiare il tablet o il telefono, o un libro: a letto si dorme e basta.
Meglio, così mi alzo presto, penso.

Faccio subito un giro di ricognizione, ho appuntamento con Marzia alle otto davanti alla chiesa di Trindade, quindi mi resta un’ora per andare a vedere una parte nuova della città. Nuova per me, intendo.

Mi infilo in quella parte di città che non conosco, il quadrato sopra Clerigos e Aliados, e trovo un sacco di locali appetitosi dove cenare e dopocenare. Ho la fame di quello abituato a scofanarsi il frigo alle sei e mezza che si trova alle otto passate con lo stomaco ancora vuoto, se non inglobo subito qualcosa di solido aggredisco un passante.

Alle otto meno otto minuti capisco di essermi perso da qualche parte vicino al confine con la Spagna. Chiedo a una ragazza come arrivare a Trindade e quella mi chiede “in macchina?”. Indica un punto in cima a una salita che potrebbe essere lo Stelvio, dice che se ci arrivo vivo poi devo girare a destra.

Alle otto meno tre minuti sono a Trindade, e ho imparato che quando stai per morire di infarto la fame non la senti più. Mi scrive Marzia, dice che non sta bene e resterà in albergo. Le auguro di non sentire più la fame e scendo verso il Douro a cercare qualcosa da mangiare.

Mi infilo da Picota, un buco in Rua das Flores, dove si vantano di essere specialisti della francesinha. Non vedo cosa ci sia da specializzarsi nel prendere un toast e coprirlo con qualsiasi cosa hai in frigo. È la terza volta che vengo a Porto e non l’avevo mai assaggiata, la specialità cittadina.
Ecco, non lo rifarò.

Scendo al fiume, volevo aspettare domani, ma non ce la faccio.

E l’emozione, cristo, che mi prende.
Sto lì mezz’ora a guardare il fiume buio, le luci di Gaia, il ponte. Sono tornato solo per questo momento, potrei tornare a casa appagato.
Invece cammino indietro, faccio qualche foto e vado a dormire, con la francesinha nella pancia che mi ammonisce di fidarmi più dell’istinto e lasciare perdere i consigli del cazzo.

2.
Colazione al Forno dos Clerigos. Un pastel e una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Buono, eh? Ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.

Dopo un po’ mi alzo e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato. Mi incammino verso una direzione sconosciuta, ma vengo fermato da un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

Due saluti due, ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno e me ne vado a vedere la Sé.

Riassunto della puntata precedente:
È il mio compleanno, Pino e Lorenzo mi portano a bere in un posto in culo ai lupi. 

Peggiorerà.

2.
“E quindi.. come ci si sente ad avere quarantacinque anni?”, mi chiese Pino quando lo raggiunsi al tavolo. Non guardava verso di me, fissava delle schiene dietro cui era scomparsa la cameriera, alcuni minuti prima. Se non fosse riemersa si sarebbe gettato a salvarla?

“Pino, me l’hai già chiesto prima”, risposi.
“Sì, scusa. Senti, e se ce ne andassimo? Questo posto fa schifo.”
“Felice di sentirtelo dire, ma dovremmo aspettare che torni Lorenzo, no?”
“Ma no, ha detto che restava fuori a pensare, non credo che tornerà. Raggiungiamolo, vieni.”

Si diresse verso l’uscita. Che gentili, mi avevano pagato da bere. Raggiungemmo la macchina di Pino e ci trovammo il nostro amico con un sorrisone irragionevole.

“Sorpresa!”, esclamò, posando una scatola colorata sul cofano.
“Ma siete cretini, mi avete fatto un regalo?”

Inciampai a lungo nel nastro dorato, per essere certi che non si aprisse subito lo avevano legato come una coppa.

“Ma chi vi ha insegnato a incartare i pacchi così?”
“Nessuno, abbiamo seguito un video su quelle modelle giapponesi che si fanno appendere nude”, rispose Pino.
“Sono gli stessi nodi!”, confermò Lorenzo. “Ne avremo guardati duecento! Ad un certo punto abbiamo pensato di regalarti un dvd di quello invece del..”, venne interrotto da una gomitata del socio, ma ormai ero venuto a capo del groviglio e stavo finalmente scoprendo cosa si celasse sotto quel mucchio di carta.

“Cazzo, il Millennium Falcon!”
“Vola davvero!”
“Proviamolo!”

Tre uomini oltre la quarantina con troppa birra in corpo si ritrovarono così in mezzo a un parcheggio nei primi minuti di un giorno di fine gennaio, a cercare di governare un drone di plastica a forma di Millennium Falcon, sotto gli sguardi compassionevoli di ragazzini che avevano un’idea del tutto diversa di quello che dovrebbe eccitare un maschio adulto.

Sarà stato il freddo che intorpidiva le mani, o la confusione portata dall’alcool, sarà stata l’umana disabitudine al volo, dopo due minuti il glorioso Millennium Falcon, la nave che ha fatto la rotta di Kessel in meno di dodici parsec, stava impigliata di traverso nelle fronde di un abete, misero come un sacchetto di plastica sospinto dal vento.

“E ora chi lo va a prendere, lassù?”
“Chi ce l’ha buttato lo va a prendere.”
“Non è mica mio, io non ci vado!”
“Tecnicamente è ancora tuo, l’hai pagato. E mi stavi mostrando come funziona, io non l’ho ancora usato.”
“L’ha pagato Lorenzo, devo ancora dargli i soldi.”
“Io lassù non ci vado!”
“Lorenzo è stato lasciato dalla fidanzata ed è depresso. Vorresti fare arrampicare un potenziale suicida su un albero di quindici metri?”
“Ma l’ha lasciato due anni fa! A quest’ora si sarebbe già ammazzato!”
“Possiamo smettere di parlarne, per favore?”

La si fece breve, nessuno voleva arrampicarsi, andò chi nutriva maggiore interesse al recupero, e dato che il drone era un regalo per me non mostrarvi interesse sarebbe stato scortese, oltre che falso.
Pino andò a prendere una torcia in macchina, mentre Lorenzo mi aiutava a raggiungere il ramo più basso, un paio di metri sopra la mia testa.
In un paio di minuti ero già a metà salita, a un’altezza dalla quale non me la sarei cavata con un braccio rotto in caso di caduta. Non ci pensai, era divertente stare lassù, da quant’era che non lo facevo? Quand’ero ragazzino ci vivevo sugli alberi, ogni volta che ne avevo l’occasione mi appendevo a un ramo e dondolavo a testa in giù, poi raggiungi quell’età in cui capisci che per farti notare c’è bisogno di essere bravi in altri campi, e agli alberi ti ci appoggi solo quando vuoi fare il tenebroso. Perché, poi? A Tarzan e a Newton nessuno ha mai dato del tenebroso.

Il fascio di luce mi mostrava la posizione del relitto, mi ci stavo avvicinando. Quando fui più o meno alla stessa altezza cercai di spostarmi in orizzontale su un grosso ramo, ma quelli a disposizione non sembravano in grado di reggermi. Ce n’era uno abbastanza robusto un po’ più in alto, forse avrei potuto salire ancora, arrivare al drone e provare ad accovacciarmi per colpirlo con un piede, era fatto per resistere a una caduta del genere.
Io però no, pensai distrattamente. La potenza di quel gesto atletico mi convinse a tentare, a dispetto del freddo, del pericolo e del poco allenamento. Salii ancora di un metro e iniziai a camminare lungo il ramo, tenendomi alle fronde intorno.

Adesso lo vedevo, a un paio di passi da me, un disco di plastica grigia un po’ più grande di un frisbee. Per raggiungerlo avrei dovuto stendermi sul ramo e allungare un braccio, non sembrava complicato.
La giacca invernale mi rendeva difficili i movimenti, era un volume in più che mi portavo appresso, ma senza non sarei arrivato fin lì, già le mani erano diventate insensibili per il contatto col legno gelido. Feci un paio di applausi per riattivare la circolazione, mi alitai sulle dita, poi iniziai ad accucciarmi.
Fin lì mi ero tenuto a un ramo che mi stava all’altezza della cintura, ma per potermi distendere avrei dovuto abbandonarlo, e non vedevo altre sporgenze a cui affidare il mio equilibrio precario. Di tenermi allo stesso su cui mi trovavo era impensabile, mi sarei ribaltato, e le mani intorpidite non sarebbero state in grado di appendersi a niente, sarei volato giù come una pera.
Restai appeso alla mia ancora e allungai una gamba nel buio sottostante. Scalciai. La mia scarpa non incontrò nessuna astronave.

Mentre a dieci metri dal suolo si svolgevano attività pericolose all’interno del Dumme Esel si stava preparando un dramma altrettanto letale: la cameriera aveva realizzato che il nostro tavolo si era liberato ed era corsa ad avvertire il proprietario che quei tre uomini se n’erano andati senza pagare il conto. Lui aveva scavalcato il banco con una luce omicida negli occhi e si era affacciato alla porta.

“Eccoli là, sono ancora nel posteggio!”, aveva detto, poi le sue mani erano andate a chiudersi su un bastone appoggiato all’uscio che tutti i clienti conoscevano come “il bastone fortunato di Cesare quando va per funghi”, ed era uscito senza neanche mettersi la giacca.

Alle sue spalle un codazzo di clienti che aveva assistito alla scena e non vedeva l’ora di condividere su facebook un po’ di violenza gratuita.

Lorenzo fu il primo ad accorgersi del pubblico:
“Qualcuno si è accorto del drone, se non ti sbrighi a recuperarlo te lo fregano!”
Pino, la cui distrazione nel saldare il conto era stata evidentemente dolosa, mi diede un suggerimento diverso:
“Resta lì e non fare rumore, torniamo subito!”, poi prese l’amico per un braccio e lo trascinò alla macchina.

Lo slittìo delle gomme sparacchiò manciate di ghiaia verso i nuovi arrivati, che poterono solo bestemmiare in direzione dei fanali posteriori della macchina di Pino, mentre sparivano oltre la curva del monte.

Dalla mia posizione sentii Cesare dire a qualcuno “Te li sei fatti scappare, il conto glielo paghi tu!”, e il lamento della cameriera un po’ più in là, verso l’edificio. Non ci volle molto a ricostruire l’accaduto, e a decidere che tutto sommato non faceva così freddo su quell’albero, avrei potuto starci ancora un po’.

Vabbè, a quarantacinque ci sono arrivato, pensavo, mentre le mani si rattrappivano sulla corteccia gelata e i rami più sottili cercavano di levarmi gli occhiali. Sotto di me, parecchi metri più in basso, un amico illuminava con la pila l’oggetto che stavo cercando di raggiungere. Il fascio di luce spariva da qualche parte più su di dove mi trovavo, e più lontano dal tronco a cui cercavo di restare appollaiato. Ma chi cazzo me l’aveva fatto fare?

Il mio fine settimana di celebrazioni scatenate era coinciso con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e forse per questo tutti i miei amici avevano il telefono staccato quando li avevo chiamati per uscire. Gli unici che ero riuscito a recuperare erano Lorenzo, un maniaco depresso con la vita sociale azzerata da decenni di benzodiazepine, e Pino, la sola amicizia rimasta nel buco di paese in cui mi ostinavo a vivere, ma con cui non mi capitava mai di uscire perché faceva il benzinaio notturno all’autogrill, e nei pochi venerdì sera liberi che si concedeva non volevi averlo seduto vicino perché i suoi capelli odoravano di gasolio.

Ma era una serata particolare, quarantacinque anni meritano di essere celebrati nel migliore dei modi, e quale modo migliore di sfondarsi di alcool fino a perdere i freni inibitori e poi buttarsi in qualche locale a caccia di femmine?

“Eh per esempio alla birreria tedesca di Clavarezza. Hanno la Dunkel Draften che mi piace.”
“Io in discoteca non ci voglio venire, c’è troppa gente.”

Cinque minuti che era iniziata e la mia serata di festa grande mi aveva già rotto i coglioni.

“Ragazzi, dai, alla birreria ci potete andare quando volete, stasera andiamo a spaccarci in un locale con della gente! Conosciamo delle donne, cazzo!”
“Alla birreria ci sono le donne, la cameriera è carina”, puntualizzò Pino.
“Ha diciassette anni! E le altre femmine presenti sono la moglie del barista e la sua mucca che tiene nel cortile dietro il bar. E se le scambiasse di posto non se ne accorgerebbe nessuno!”
“Io torno a casa, non mi sento bene”, disse Lorenzo, e me la vedevo già la mia serata immerso nei miasmi oleosi di un tavolino isolato, scartato dagli sguardi del mondo, a far venire l’ora in cui puoi andare a dormire senza sentirti troppo sconfitto.
Mi arresi, e dopo mezz’ora di tornanti al buio su un passo alpino ci ritrovammo seduti al Dumme Esel, l’unico locale della valle che tenesse aperto oltre le diciannove, contando anche la stazione ferroviaria e le cabine telefoniche.

L’arredamento ricordava una tipica birreria bavarese rilevata da un nostalgico degli anni ’70 e che avesse subito un pignoramento in tempi recenti: c’erano quattro tavoli di legno, due tavolini di formica verde malattia e un bancone impiallacciato faggio con ripiano in finto marmo; alle pareti alcuni tappetini che i fornitori di birra ti regalano per farsi pubblicità, di marche prodotte in paesi dove certamente non si parlava tedesco, e un quadretto della Guinness comprato durante il viaggio di nozze a Dublino. Dietro il banco, fra le bottiglie di Biancosarti e di grappa Nardini, campeggiava l’unico cimelio che giustificasse l’ispirazione teutonica: una foto di Rummenigge con la maglia dell’Inter, autografata.

Era l’unico locale aperto di venerdì sera nel raggio di venti chilometri, e consisteva di quaranta posti a sedere compresi gli sgabelli al banco: quella che ci accolse oltre la porta non era la folla in un locale di successo, era l’ultima curva prima del suicidio di massa.
Ciondolammo un po’ in attesa che si liberasse un posto, e arrivò la cameriera, sgusciando fra una mandria di manzi postadolescenti che le rivolsero muggiti di approvazione. Bisognava capirli, il corpo di una ragazza che ti si struscia contro era qualcosa di sconosciuto, facile che si spingessero fin lassù apposta per quell’esperienza, per alcuni di loro la cosa più vicina al sesso che sarebbero riusciti a ottenere.

Pino la salutò con un entusiasmo fuori luogo, lei ci condusse a un tavolino vicino ai cessi da cui si stavano alzando tre bimbi in bomber, appagati dal boccale di birra che doveva aver danneggiato in modo serio il loro equilibrio, perché ci franarono addosso in uno scroscio sguaiato di risate e porchidii. Lorenzo mostrò la sua faccia insofferente n.21, con gli occhi stretti che scappano a destra e le labbra che stentano a contenere un insulto. Pino lo mise a sedere con una spinta decisa.

Dal cicaleccio degli avventori saliva la risata acuta della moglie del barista, e la linea di basso di un classico dei Guns’n’Roses. Era il momento in cui avremmo dovuto parlare di qualcosa. Pino guardò il suo bicchiere, poi Lorenzo che guardava il proprio e poi me, e decise che dei tre ero quello che offriva maggiori spunti di conversazione.

“Allora, come ci si sente ad avere quarantacinque anni?”
“Hai presente quando ne hai compiuti quarantatre lo scorso novembre? Uguale.”
“Beh cazzo, quarantacinque sono un traguardo importante, sei..”
“Vecchio?”
“Adulto!”
“Lo ero anche prima, credo.”
“Ma a quarantacinque è certificato, quando dici quarantacinque la gente ti immagina sistemato, con una posizione, una famiglia, dei figli che vanno a scuola. Tu invece sei ancora lì a cazzeggiare. Come ti senti? Fortunato?”
“Mi sento un alieno. E credo di dare quest’impressione anche all’esterno, perché quando conosco qualcuno e gli racconto come vivo mi guardano come se ad un certo punto dovesse aprirmisi la faccia e uscire Lady Gandal.”

Pino rispose con la faccia di quello che gli hanno raccontato una barzelletta difficile, e Lorenzo alzò gli occhi dal bicchiere:
“Il generale di Goldrake, quello che gli si apriva la faccia e sotto c’era una donna cattiva che lo dominava. Bellissima metafora del rapporto di coppia, se volete il mio parere. È un esempio che però calza più a me che a te, scusa.”
Lorenzo cercava sempre di spostare la conversazione sui suoi drammi sentimentali, che da un paio d’anni erano uno solo, sempre lo stesso, una storia finita malissimo da cui non era riuscito a riprendersi e aveva scoperto il magico mondo degli antidepressivi. Lo ignorai, sennò in dieci minuti ci saremmo aperti i polsi con gli stuzzicadenti.

Alla terza birra Lorenzo ci stava parlando della sua ex. Eravamo riusciti a deviare il discorso raccontandoci serie tv di cui a nessuno fregava davvero qualcosa e cercando di immaginare entro quanti mesi Trump avrebbe scatenato una guerra atomica con la Cina, ma quella vecchia volpe ci aveva presi in contropiede raccontandoci una storia innocua su un articolo che aveva letto, e non si sa come era finito a sputare veleno su quella stronza di merda e a riproporci i soliti discorsi che oramai conoscevamo a memoria. Una volta Pino mi aveva suggerito di scrivere le frasi che sentivamo ripetere più spesso e tenerle in tasca, e mostrarle al nostro amico appena ne recitava una.

Cercammo di ricondurlo su un terreno meno sassoso, ma sapevamo che era inutile, quando partiva si fermava soltanto per sfinimento, suo o nostro. Allora andai in bagno.
Ma c’era la coda.
Come se servisse un bagno in una birreria in mezzo al nulla, pensai, e guadagnai l’uscita senza neanche indossare la giacca.
Lo sbalzo termico mi incrinò gli occhiali, e quando riuscii a trovare ciò che stavo cercando in mezzo alle gambe faceva troppo freddo per rilassare la vescica, contrattasi alle dimensioni di una biglia. Tentai di riattivare l’impianto con alcuni massaggi, ma l’immagine che davo di me stesso all’esterno mi fece desistere, e tornai sui miei passi.
Sulla porta incrociai Lorenzo, che si allontanava con la faccia da cospiratore.

“Dove vai?”, gli chiesi.
“A pisciare”, rispose lui, e si allontanò svelto.

(continua)

Va sempre come dovrebbe andare, solo che finché non lo capisci ti domandi che strada prenderà, azzardi anche delle previsioni, ti concedi il lusso di sperare.

Se sono qui a scrivere è perché alla fine è andata in quell’altro modo.

 

Dovevo partecipare a un workshop di scrittura con Paolo Nori, uno dei miei autori preferiti, e il tema era qualcosa di delizioso: i matti.

Tutti abbiamo il nostro matto preferito, quello che grida “isotopi di figa” alle ragazze in galleria, quella che scrive rime discutibili sui muri a caratteri cubitali, quella che oggi ti dice che era tutta la vita che cercava uno come te e domani.. vabbè, ma lo sapete, ci siete passati anche voi. Tanto che certe volte il vostro matto preferito siete proprio voi che ancora pensate a quella volta là, che ci parlate e vi fate le vostre ragioni e le spiegate anche a interlocutori che dalla parte di chi vi guarda devono essere nascosti da un muretto, perché non ci sono mai, e il dubbio che stiate parlando da soli è fortissimo.

Siete i vostri matti preferiti solo perché odiare sé stessi è un atto ancora più insano.

Officina Letteraria, una scuola di scrittura genovese, aveva promosso questo laboratorio che doveva svolgersi nell’arco di due fine settimana questo gennaio, e chiedeva, come esame di ammissione, di descriversi in 350 caratteri. Poi Paolo Nori avrebbe letto i testi e selezionato i partecipanti.

Mi sono fatto due conti, ho pensato che a gennaio avrei goduto di una situazione economica piuttosto florida, è il mese in cui festeggio il compleanno, e i parenti mi mollano qualche diecieuri, ma soprattutto è il mese in cui sono di turno a raccogliere le offerte dei fedeli per riparare la cappelletta della Madonnina di Mordor, cui sono devoto da quindici anni. Più o meno da quando vanno avanti i lavori, interrotti dopo pochi giorni perché finiscono sempre i fondi.

Ho spedito le mie due righe di testo, che dicevano:

350? E chi è capace? Io manco ci so contare fino a 350, alle elementari avevo la maestra part-time e quand’è arrivata a 213 le è scaduto il contratto e non l’abbiamo più vista.
Di lì in poi il mio insegnante è stato il bidello. Per questo oggi non so raccontare chi sono, ma se vuoi ti faccio dei pavimenti che ti ci specchi.

Niente di pazzesco, ma non è che puoi raccontare una vita ricca di episodi in 350 caratteri, soprattutto una come la mia, che ho sventato colpi di stato e vinto premi nobel e stretto la mano ad attrici famose e dormito sul divano, ma a loro è bastato.
Poi lo so che la selezione è stata fra dieci tizi che hanno spedito una descrizione in italiano e altri quattro che hanno scritto “Mi chiamo Ciccio ho 34 anni abito a Genova faccio l’infermiere mi piace scrivere mia moglie dice che sono divertente tifo la sandoria”, non penso di essere un genio, sono sicuro che per raggiungere il numero hanno tirato dentro anche la zia di Paolo Nori, ma quando ho ricevuto l’email mi sono sentito comunque lusingato.

Per tre secondi. Poi ho letto che le lezioni sarebbero state il 13 e 14 gennaio, e ho nominato la Madonnina di Mordor in un modo che probabilmente le si è incrinata la cappelletta.

Perché io il 13 e 14 gennaio sarò a Porto, Portogallo, a mangiare polpo grigliato da quel beone di Adão. E se il giorno in cui ho prenotato il volo avessi scelto un’altra data sarebbe stata il fine settimana successivo, quello in cui compio gli anni, e avrei avuto lo stesso problema, dato che il workshop si articola su due weekend consecutivi. Perciò, vedi? Era proprio destino che non partecipassi.

Lunedì tornerò a lavorare, andrò dal mio capo e gli farò una tirata sul destino e su come sia stupido tentare di opporvisi, gli spiegherò che tutto è già stato deciso, che siamo solo burattini, che arrabbiarsi non serve a niente, mettersi di traverso ci fa solo male, molto meglio assecondare gli imprevisti cercando di attutire la botta il più possibile. Lui non capirà, non è il tipo che si dilunga su questioni filosofiche, e mi chiederà di farla breve. Allora io gli dirò che mi servono venerdì e lunedì di ferie.

Sarà allora che scoprirò che anche lui è devoto alla Madonnina di Mordor, e che per le prossime riparazioni serviranno molti più soldi.

È che non dormo. Almeno non quando dovrei. Resto sdraiato sulla schiena con gli occhi chiusi ad osservare l’incessante lavorìo dei miei pensieri, a commentare che non è così che si comporta un cervello, ai miei tempi le cose le facevamo funzionare altroché.

Il sangue rallenta, le mani si fanno piombo. Gambe, spalle, tutto inizia a gemere, mi obbliga a cambiare posizione senza trovarne mai una. Il cuscino è troppo basso, quell’altro troppo alto, senza è troppo senza. Ho tolto la coperta e la maglietta, ho tutte le finestre spalancate, ma non entra un refolo d’aria ad asciugarmi la patina umida sulla pelle. Rumore, quello sì. Di camion, di treni, un antifurto, un fanatico della discoteca che rientra tardi da chissà quale rave e non si arrende al fatto che anche la techno ad un certo punto finisce.

Un borbottio si fa strada nella stanza, e il cervello lo registra quando è già molto forte. È un merci che sta transitando sui binari dietro casa. Il rumore basso è quasi piacevole, potrebbe accompagnarmi verso il sonno. Mi sintonizzo sulla sua frequenza cercando di lasciarmi dietro i mille pensieri che strepitano e mi si aggrappano alle caviglie. Ci riesco.
Poi frena. È un fischio interminabile, il grido di agonia di una bestia gigante, e sono di nuovo nella stanza. Il cervello si batte dei cinque da solo e riprende a raccontarmi cose di cui non voglio più sentire parlare.

Prendo il telefono, provo a leggere qualcosa, ma lo schermo luminoso ricaccia la mia stanchezza ancora più indietro, la sento rannicchiarsi in fondo, come la convincerò a tornare qui? Meglio lasciar perdere il telefono, ho già abbastanza pensieri autoprodotti senza bisogno di farmene regalare di nuovi. Richiudo gli occhi e rilasso i muscoli.
La campana della chiesa mi ricorda che sono già passate due ore dal mio primo tentativo di concludere questo giorno. E il cervello è svelto a calcolare quante ne mancano alla sveglia domattina. Poche, troppo poche. Il pensiero mi procura altra ansia, il sonno si divincola e torna a nascondersi nel suo cantuccio.

Penso ai racconti che sto scrivendo. Per lavorarci non occorre tenere i sensi vigili, si immagina meglio con gli occhi chiusi, e mi distoglie dal circuito ozioso in cui sta correndo il mio ipotalamo.
Solo che per inventare serve concentrazione, la concentrazione mi tiene sveglio, e appena mollo il guinzaglio la testa si rimette a proiettare le solite repliche.

Restare a letto non serve a niente, mi arrendo e vado a farmi un panino, magari il torpore post-prandiale mi aiuterà.

Il frigo è vuoto e gelido, e se guardo dentro di me non vedo altra differenza che un barattolo di senape.
Lo spalmo su un pacchetto di crackers, il modo più veloce per riempirmi la pancia alla svelta senza accendere fornelli. Se riesco ad addormentarmi ora avrò gli incubi, ma non è che i pensieri della veglia siano più rassicuranti.

Torno a girarmi nel letto, ma i pensieri sono sassi sotto la schiena, è come cercare di dormire sul greto di un torrente, e intanto suonano le tre.

Vabbè, mi alzo, tanto ormai a che mi serve dormire tre ore. Dice un importante studio condotto da scienziati che di sicuro riposano più di me che se non dormi almeno otto ore è come se non avessi dormito affatto, si spappolano le cellule, si spengono le sinapsi, i testi di Vasco Brondi cominciano ad avere un senso.

Imbraccio la chitarra e provo per l’ennesima volta a tirar fuori un barré decente, mi arrendo al terzo tentativo. Accendo il computer e provo a scrivere due righe. Mi arriva una notifica dal social nulla: un tizio che non ho mai sentito nominare vuole essere mio amico, un bot porno mi segue su tumblr, dieci indirizzi palesemente falsi si sono iscritti al mio blog. Elimino ogni segnetto rosso dalle icone dello schermo e apro il primo dei racconti abbozzati che tengo a portata di ispirazione, ma non è l’ora giusta, o lo spirito giusto, o il flusso ininterrotto di pensieri sbagliati mi ha annacquato l’immaginazione, sto a guardare lo schermo come lo guarderebbe una mucca.

Il cane viene a chiamarmi, già che sono in piedi perché non andiamo a fare due passi, mi chiede. Già, perché no?

Dieci minuti più tardi siamo per la strada, nel silenzio rotto solo dal gracidio che arriva dal fiume. Abbiamo un sacco di tempo, prendiamo la strada che sale al monte. Lui corre avanti, incredulo di questa passeggiata regalata, io resto indietro a farmi compagnia coi soliti pensieri.

Quando incontriamo l’alba ci fermiamo a guardarla tutti e due.

“La sofferenza stimola l’organismo a rilasciare endorfine. Le endorfine sono sostanze analgesiche in grado di procurare stati d’animo piacevoli. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì: ci si può drogare di emozioni forti.”

Guardo il professor Hans Delbruck con rispetto e timore. Ogni volta che vengo a trovarlo è come aprirmi un chakra, ma col trapano, che comunque è un modo come un altro per migliorarsi, guarda il dentista, ogni volta che ti buca la faccia il suo conto corrente migliora tantissimo.

“Ma perché il dolore e non il piacere? O un bello spavento, tipo?”
“Perché il dolore è un’emozione economica, facile da procurarsi, e non ha bisogno di collaboratori, basti tu. Anzi, se sei da solo riesce pure meglio.”
“Allora è per questo che penso sempre a cose dolorose, o mi perdo nei ricordi malinconici, o trovo così appagante piangermi addosso!”
“No vabbè, che c’entra, quello è perché sei un narcisista, ma il pianto in generale è un’attività troppo piacevole per non destare sospetti.  È perverso quanto ti pare, ma se ci sono persone che amano farsi picchiare perché a uno non dovrebbe bastare farsi un pianto ogni tot? Oltretutto tu sei un insicuro, e il dolore è un alibi straordinario per commettere qualunque bassezza: se soffri hai sempre ragione, e se oltre a soffrire riesci ad accusare qualcun altro del tuo dolore sei a posto!”

Insomma, il professor Hans Delbruck mi ha aperto gli occhi sulla mia condizione di drogato. Mi ha suggerito di procurarmi la stessa sostanza tramite emozioni positive, che costano un po’ di più, ma non mi riducono come un consumatore di metanfetamine, che è grossomodo il mio aspetto attuale.

“Proverei la gioia. Non trascurerei neanche il divertimento, finché ce n’è. Ma al tuo posto mi farei prima di tutto un giro nell’altruismo, la generosità, quelle robe lì. Magari potresti fare volontariato.”

Intanto che decidevo mi sono messo da bravo in coda al SerT, che loro di tossici se ne intendono, e in attesa della dose di serotonina mi sono lamentato un po’ per lo squallore del posto in cui mi trovavo, che insomma, io merito di meglio, e guarda un po’ che gente.
È arrivata un’infermiera col culone e un grosso porro in mezzo alla faccia, mi ha dato una tavoletta di cioccolata per placarmi l’astinenza e mi ha detto di avere pazienza. Aveva una bella voce, e il suo gesto è stato così gentile e inaspettato che mi sono innamorato di lei seduta stante e le ho chiesto di uscire.
Ho sentito subito un lavorìo all’ipofisi, mi si è contratto lo stomaco, e un carico di neurotrasmettitori si è sparato in vena urlando di gioia. Perché noi drogati di emozioni siamo soggetti all’innamoramento facile, basta tenerci su l’autostima e ci facciamo piacere anche i morti.
Lei purtroppo o per fortuna aveva una consapevolezza di sé molto superiore alla mia, e mi ha liquidato con un sorriso:
“Vedrà che dopo l’iniezione si sentirà subito meglio”
“Per te invece ci vorrebbe una rinoplastica”, ho sibilato, livido di insoddisfazione. Il mio stomaco si è contratto di nuovo, altra dose di alcaloidi in circolo a rimescolar le carte.
Ma aveva ragione, una volta riportato a galla l’umore ho cominciato a vedere il mondo con più raziocinio, a capire cosa voglio davvero e cosa cerco solo per noia.
Sono andato su Amazon e mi sono comprato un altro ukulele, una camicia, un caricabatterie, un tablet, dei fumetti a caso e poi ci ho provato con la mia vicina di casa. Perché un conto è sapere cosa vuoi e un altro è cercare di ottenerlo.

Ci voleva un altro due di picche per farmi finalmente ascoltare il consiglio del professor Delbruck: ho cercato un’attività di volontariato che mi permettesse di sostituire le emozioni negative con altre positive in grado di stimolarmi l’ipofisi, e magari di trombare, che mettila come ti pare mi sembra ancora il modo più spiccio di riportare l’autostima a livello.
Mi andava bene chiunque, il lusso di scegliere lo avrei lasciato a quelli che hanno tempo da perdere con fesserie come l’amore, a me bastava ficcare.
Quindi no ospizi, no barboni e no bambini. Tutto il resto era grasso che cola.

Le malate terminali vanno bene, non sono molto più magre delle ragazze con cui sono solito uscire, e rispetto a certi personaggi che ho frequentato sono di gran lunga più spiritose.

Mi sono presentato al reparto dell’ospedale dicendo che sono un attore, ho proposto delle letture che aiutassero le pazienti a sopportare la loro condizione, e soprattutto mi sono detto disposto a farlo gratis. Lo staff era entusiasta, mi ha lasciato subito libertà d’azione, entra dove vuoi, scegli chi ti pare, ce ne fossero come te!

La totale libertà di entrare nelle camere e studiare le cartelle cliniche mi ha permesso di effettuare una cernita accurata, e dopo poco ho puntato la mia preda: Jessica. Single, accudita dalla madre anziana, quindi in pratica sempre sola. Capello biondo cenere sfumatura topo, occhio di colore non pervenuto in quanto rivoltato. Zero inclinazione al dialogo, quindi zero menate e zero interruzioni mentre parlo. Poteva essere la mia donna ideale.

Ho chiuso la porta e iniziato a leggere delle cose simpatiche, per rompere il ghiaccio, ma la mia voglia di buttarglielo era così pressante che ho posato il libro e le ho chiesto secco come si veste una malata smaliziella. Non mi ha risposto, ma non mi ha neanche detto di no, al che ho dedotto che ci stava e sono andato a verificare di persona.

Non è stato soddisfacente. Sarà che sono un romantico e il sesso tanto per farlo non mi piace, ma se non ci avessi messo tanta convinzione io sarebbe stato come scopare da solo. Comodo, ma come dire, poca soddisfazione.
No, ci voleva un minimo di coinvolgimento, avrei dovuto avvicinare una donna ancora cosciente che mi facesse sentire desiderato e stuzzicasse la mia autostima.

Ho conosciuto Sabrina, una mora affetta da un male che non aveva ancora cominciato a divorarla da dentro, o perlomeno non ne portava troppi segni. Sotto il pigiama si indovinava un fisico interessante. Mi sono fatto avanti.

“Ciao, mi chiamo Pablo. Vorrei alleviare la tua sofferenza leggendoti qualcosa. Ti va?”
“Preferisco la sofferenza.”
“Ma perché? Non vorresti stare meglio?”
“Perché la vita fa schifo, è un pozzo di dolore e ogni sforzo che faccio per migliorarla finisce in un bagno di sangue, e sono stufa di accollarmi tutte queste croci da sola e non essere capita e voglio morire sola in un angolo.”
“Posso provare a convincerti? Magari scopri che esiste un sottile filo di speranza a cui aggrapparti, e basta tirarsi fuori un paio di centimetri per ritrovare la voglia di andare avanti”
“L’unica speranza è la benzodiazepina”
“Eh mi spiace, non ne ho. Però ho un racconto di Stefano Benni. Te lo posso leggere?”
“Ce l’hai John O’Brien?”
“Se devo scegliere un suicida preferisco Hemingway”
“Hemingway non ha capito un cazzo, la vita non è un safari in Tanzania o un panfilo a Cuba, la vita è su un marciapiede di Las Vegas a fare marchette. Il dolore vero che ti svuota è quello che ti spinge a lasciarti morire di alcool, non una cazzo di paranoia insensata che ti fa vedere mostri dappertutto.”
“Non mi sembra un giudizio accurato. Come se si potesse fare una classifica del dolore, poi.”
“Certo che si può! Io in questo letto soffro più di te che stai seduto su quella sedia a leggere il cazzo di Stefano Benni del cazzo!”
“A parte che non vedo come potresti soffrire, dato che non ho ancora cominciato a leggere, ma sei una presuntuosa. Vabbè, sei malata, ma non mi sembri così sofferente. Nella stanza di là c’è una messa molto peggio, è catatonica, sbava e soffre pure di secchezza vaginale.”
“Ma come ti permetti? Ma cosa ne sai di quel che ho passato io? Io ho tutto il diritto di dispensare giudizi, e voi dovete starvene tutti zitti e accettarli, perché nessuno di voi ha sofferto quanto me! Io sono la Disperazione e la Morte! Io sono l’angoscia del futuro, il peso del passato e l’aridità del presente! Io mi sono reincarnata mille volte nelle peggiori forme di dolore per poter ascendere al sublime e guardarvi tutti dall’alto della mia saggezza distillata da ettolitri di lacrime!”

Me ne sono andato sennò gliela mostravo a schiaffi, la sofferenza. Madonna che presuntuosa di merda! Dalla porta aperta la sentivo ancora gridare “Io sono sposata al degrado! Io ascolto i rapper di Scampìa!”.
Sulla porta ho incontrato Briatore che le portava i fiori. Mi ha detto che era la sua fidanzata, si era fatta ricoverare per un gonfiore alle caviglie, ma aveva voluto farsi mettere fra i terminali per sentirsi più vicina alla loro condizione e provare empatia verso le persone sfortunate. Era così altruista, la sua fidanzata!

Ochei karma, il volontariato è una cazzata, me l’hai fatto capire benissimo, grazie. Alla fine siamo solo un branco di egoisti in cerca di gratificazione. Ma se neanche questa è la strada cosa mi resta da fare?
Camminando verso casa ho iniziato a sentire le fitte dell’astinenza, le vetrine mi restituivano l’immagine di un omino sciatto, mi sono chiesto che razza di futuro può avere uno sfigato come me e quando mi renderò conto che le porte aperte sono finite e non mi resta che arrendermi alla solitudine e alla miseria.

Ero preda di un violento calo di endorfine, mi serviva subito qualcosa di forte o mi sarei ritrovato sul divano a singhiozzare davanti alla foto di qualche ex.

(continua)