L’ultima volta che mi sono trovato a scrivere questa rubrica era novembre 2016. Poi ho iniziato a fare altro, roba che al momento mi sembrava più importante e che magari oggi mi fa pensare bah; poi ho iniziato a viaggiare in Cina e ho scritto parecchio di quello, poi è scoppiata una pandemia e mi è toccato chiudermi in casa a fare niente, e allora ho pensato che magari alle persone che sono chiuse in casa come me farebbe piacere avere qualcosa da leggere, o da ascoltare, e mi sono rimesso al lavoro.

Stacco su un utente qualunque di internet che apre il mio blog, vede quest’articolo e con calma si alza, si mette la giacca, esce in strada e si fa tossire in faccia dal primo influenzato che trova.

Prima di tutto credo sia necessario un riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.

Quattro anni fa ci eravamo lasciati con una canzone dei Wu-Tang Clan, eravamo negli Stati Uniti, e fino a quel momento avevamo saltato un po’ di qua e un po’ di là dell’Oceano Atlantico, senza curarci troppo degli altri tre continenti. Ma oggi, grazie a quel genio di RZA, e al film di cui parlammo allora, possiamo introdurci alla scoperta di un’area geografica ancora inesplorata.
Potrei dirvi che in questi quattro anni mi sono documentato apposta per scrivere questo episodio di Centotre-e-tre, e voi potete fare la faccia del ragazzino davanti al suo computer nuovo.

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Tutto comincia nel 2003, quando RZA va a Pechino a lavorare con Quentin Tarantino per la colonna sonora di Kill Bill Vol.1, di cui è il produttore. Nei Beijing Film Studios si gireranno le scene all’interno del sushi bar di Hattori Hanzo, ma soprattutto la carneficina alla Casa delle Foglie Blu.

Sono famosi, i Beijing Film Studios, qui è stata girata gran parte della produzione cinematografica cinese negli anni della propaganda, dal 1949, anno della fondazione, fino al 2012, quando sono stati chiusi e tutta la produzione è stata trasferita nei più recenti studios della China Film Group Corporation, a Yangsong, non lontano da quella parte di Grande Muraglia di cui ho parlato in un altro post.

Al cospetto di Tarantino, RZA prende un sacco di appunti, e quando torna a casa si mette a lavorare a un suo film di arti marziali: The Man With The Iron Fists, appunto.

Mi sarebbe piaciuto trovare qualche dettaglio interessante da raccontarvi, del mese che RZA trascorse in Cina, tipo quella volta in cui, al Silk Street Market, si mise a contrattare con una negoziante sul prezzo di una collana di giada che lei sosteneva essere autentica e lui le disse “come on, man, stop da bullshit”, e tirò fuori l’accendino e sciolse la collana sotto lo sguardo imbarazzato e indignato della signora, e se ne andò fendendo la puzza di plastica bruciata; o di quell’altra volta in cui si prese una ciucca abissale in un piccolo bar dell’hutong accanto al Tempio dei Lama, e poi prese un taxi e si trovò a litigare col tassista che aveva cercato di fregarlo sul prezzo, e alla fine tirò fuori l’accendino e l’ultima immagine lo vede allontanarsi nella notte, mentre fende la puzza di pneumatici in fiamme; o di quell’altra volta in cui, in visita alla Grande Sala del Popolo, dove si riunisce il governo cinese, si trovò a discutere con una guardia che voleva perquisirlo per aver fatto suonare il metal detector, e allora tirò fuori l’accendino e lo depositò nel cestino lì accanto, perché RZA è una persona educata e rispettosa delle regole.

Mi sarebbe piaciuto raccontarvi questi e altri aneddoti interessanti, ma non ne ho trovato nessuno, e neanche delle foto. Giusto un diario di una sua visita precedente a un tempio Shaolin nello Hubei, regione che sono sicuro conoscete benissimo per altri più recenti motivi.

Ma andiamo avanti alla parte che ci interessa: è il 2012, quando il film finalmente esce, e nella sua colonna sonora troviamo, come prevedibile, un botto di canzoni hip-hop, e un paio di pezzi più vicini all’ambientazione asiatica.

Uno dei brani, Green Is The Mountain, è interpretato da Frances Yip, una cantante di Hong Kong che negli anni ’80 e ’90 sentivi ovunque in televisione, nelle sigle degli sceneggiati trasmessi dalla rete nazionale (nazionale di Hong Kong, non della Cina). Era così popolare che il 30 giugno 1997, fu chiamata a presentare la British Farewell Ceremony, evento con cui il Regno Unito riconsegnava il territorio di Hong Kong alla Cina.

Il giorno prima la regina Elisabetta II si era seduta al suo piccolo scrittoio, nella sua piccola stanza al castello di Windsor, e non si era alzata che molte ore più tardi, quando il sole era già tramontato e la piccola candela che le aveva fornito una fioca luce si era già consumata. La regina aveva chiamato un messo, il più affidabile di tutti, il giovane Hans ‘Cavallo Pazzo’ Delbruck, e a lui aveva affidato una piccola busta, raccomandandosi di non consegnarla ad altri che a suo figlio, il principe Carlo, quello con le grosse orecchie, e di sbrigarsi, “for the sake of the Queen and the Country”. Cavallo Pazzo si era inchinato ed era corso via, sicuro che si sarebbe trattato di un lavoretto facile: bastava prendere un taxi e farsi portare in città, a Buckingham Palace.

Avrebbe anche potuto guidare la sua moto da corsa, ma per tirarla fuori dal garage doveva aprire il portone, fermarlo con una pesante poltrona vittoriana perché in quel lato dell’edificio il vento soffiava sempre e gliela faceva sbattere, quindi tirare fuori la moto e portarla fin oltre l’angolo, sul lato dell’edificio in cui il vento era più clemente e non rischiava di buttargliela per terra; quindi doveva tornare al garage, rimettere a posto la poltrona, chiudere il garage e tornare a prendere la moto. Oltre l’evidente sbattone, c’era il fatto che di recente i suoi traffici erano stati presi di mira da qualche buontempone (sospettava un giardiniere), che durante la sua permanenza sull’altro lato dell’edificio, gli entrava nel garage e gli fregava i barattoli di marmellata di arance amare che sua mamma gli regalava ogni natale, e che lui custodiva come reliquie.
E poi la corsa in taxi gliela rimborsavano.

Una volta giunto a Buckingham Palace, però, il povero Cavallo Pazzo riceveva la più terribile delle notizie: il destinatario del suo messaggio non si trovava a Londra, ma a Hong Kong, e di lì a poche ore avrebbe dovuto salire su un palco e leggere il discorso che sua madre gli aveva preparato, davanti alle telecamere di tutto il mondo.

L’immagine del Regno Unito era nelle sue mani, non poteva fallire!

Cavallo Pazzo Delbruck chiese di farsi mandare un altro taxi, ma il centralino del palazzo si premurò di fargli sapere che i rimborsi per le spese di viaggio avrebbero coperto solo la tratta Londra-Volgograd, poi avrebbe dovuto arrangiarsi da solo.
Cavallo Pazzo Delbruck chiese di farsi portare una bici.

Nelle ore che seguirono, l’eroico messo nuotò attraverso la Manica con una bici sulla schiena, pedalò come un pazzo attraverso la Francia, la Germania, l’Austria, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Turchia, l’Iran, ma al confine con l’Afghanistan gli dissero che i talebani avevano preso il potere e girare in bici era stato dichiarato illegale: se l’avessero beccato gli avrebbero mozzato mani e piedi. Cavallo Pazzo pedalò a ritroso fino al confine col Pakistan, poi attraversò l’India, il Bangladesh, la Birmania, le regioni a sud della Cina, e finalmente arrivò a Hong Kong, dove il principe Carlo lo stava aspettando già da dieci minuti ai piedi del palco, e aveva una faccia scocciata che non vi dico.

Nel frattempo, sotto i riflettori, Frances Yip stava intrattenendo il pubblico. Aveva già cantato tutti i suoi successi, augurato al governo cinese tanta fortuna e prosperità, e strizzato l’occhio al Primo Ministro britannico Tony Blair. Oramai le restavano le barzellette, ma le uniche che conosceva erano quelle che si raccontavano per le strade della città, e la più gentile era “Quanti cinesi ci vogliono per governare un protettorato inglese? E senza contare quello che mi sta succhiando il cazzo?”.
Per fortuna in quel momento salì sul palco il principe Carlo, e tutti smisero di prestare attenzione alla cantante, che poté ritirarsi dietro le quinte, raccogliere i suoi bagagli e abbandonare la città.

Oggi Frances Yip vive altrove, fa la spola fra l’Australia, dove vive suo figlio, e l’Inghilterra, dove ha una relazione clandestina con Tony Blair, e a Hong Kong ci torna di rado, e sempre meno volentieri.
Questo la legherebbe a un’altra artista esule, Celia Cruz, ma di lei ho già scritto in un’altra puntata.

È anche vero che “artisti sotto una dittatura” è un aggancio che si presta a molte interpretazioni, e potrei davvero usarlo per la prossima puntata senza risultare ripetitivo, ma Hong Kong diventerà totalmente cinese solo nel 2047, e fino ad allora questo spunto non sarà valido, perciò o vi mettete comodi per i prossimi 27 anni o devo inventarmi qualcos’altro.

(continua)

Lunedì 20

Mi alzo quando lo decido io, e mezza giornata è già andata. Vado a piedi fino all’hotel di Shasha, così da arrivarci intorno all’ora di pranzo, che trascorriamo in uno dei ristoranti giapponesi del mall, seduti a una grossa tavolata di impiegati. Mangiamo anche piuttosto bene, per essere un locale da pausa pranzo.

Per digerire la mappazza mi faccio prestare la bici e cerco di raggiungere il quartiere di Chaoyang, dove si trova la sede della televisione, il famoso Palazzo Mutandoni. Proprio di fronte si sta costruendo una torre nuova, che dovrebbe diventare la più alta della città, e secondo il francese che viveva nell’altra stanza dovrebbe già essere visitabile, lui c’è stato e racconta di viste memorabili dalla terrazza panoramica.

Faccio un bel giro, passo davanti a un edificio senza finestre che ospita un ministero, supero la via delle residenze diplomatiche, dove ogni villetta è protetta dalla polizia e da cancelli antisfondamento, e se sei il fattorino che consegna la pizza ogni volta è un dramma.

Mi fermo per una bibita ristoratrice al Galaxy Soho, che fra tutti i mall di Pechino è il più figo, anche se i suoi addetti alla sicurezza non sanno scrivere “security” e sfoggiano grossi errori di ortografia sul giubbotto.

Cetamente

Il palazzo che voglio visitare è circondato da un cantiere, l’ampio ingresso è sbarrato da una palizzata. Non solo è chiuso, non ne è prevista l’apertura prima del 2019. Mi pento di non avergli mangiato tutta la marmellata, a quel fanfarone coi baffi.

Neanche Mutandoni è visitabile, a quanto capisco dai gesti della guardia che ci sta davanti. Ma non parliamo la stessa lingua, chissà cosa ci siamo detti.

Vabbè, torno indietro, tanto la bici è divertente da usare, e mi faccio tutto il viale, lo stesso che poi arriva a Tiānānmén, con uno scatto da rapinatore in fuga.

A sorpresa e mettendo a repentaglio la mia stessa incolumità scarto a sinistra, giù per Chongwenmen, fino al Glory Mall: il demone dello sport mi ha ormai posseduto, e la bici non mi basta più. Compro un paio di scarpe da corsa di una marca cinese che va per la maggiore.

Nei miei sogni perversi mi alzo un’ora prima tutte le mattine per correre, e in breve ritrovo la tonicità dei miei vent’anni.

Le proverei appena arrivato a casa, ma ho da preparare la cena, e mandare via Gordon Ramsey, che si aggira ancora per la cucina in attesa degli avanzi.

Mutandoni ha un fascino che voi che non avete mai giocato a Tetris non potete capire

Martedì 21

Prima ancora di fare colazione indosso le scarpe nuove e scendo in strada, carico come l’orsetto delle duracell. Per essere la prima volta che corro in dieci anni non me la cavo male, percorro l’intero isolato (un chilometro, più o meno) in meno di due ore, e quando rientro in casa sono ancora vivo e cosciente. Alive and kickin’, direbbero i Simple Minds, ma riferendosi alla mia milza.

Mi butto sul letto aspettando di morire, e mi rialzo solo per raggiungere a pranzo l’altra metà della coppia. Nonostante ogni muscolo del mio corpo sembri yogurt sono soddisfatto dell’impresa eroica appena compiuta, e per premiarmi faccio una cosa che non avevo ancora fatto prima, ma che desideravo da un po’: mi fermo a comprare da un negozietto che si affaccia sulla strada, dietro la stazione della metro. È un buco composto da una cucina in cui lavora un tizio e una finestrella da cui una signora vende i suoi prodotti. Fanno ravioli, baozi, e delle focaccette ripiene di carne che sembrano invitanti, i xiàn bǐng (馅饼)

Ne chiedo una, mi dice quattro. Faccio per darle quaranta, e lei ripete “no no, quattro”. Questa vende focaccette di carne per cinquanta centesimi l’una. Non sono enormi, sono più o meno della dimensione di una pizzetta, ma cinquanta centesimi? Voglio venire a vivere qui.

Naturalmente il negozietto della signora diventerà una meta obbligata ogni mattina dopo la corsa e la colazione.

Superato il pranzo in uno dei ristoranti del mall andiamo a Chaoyang, perché Shasha ne ha per le balle di stare in ufficio e decide di inventarsi una missione in città. Che la mia ragazza marini il lavoro per stare con me mi fa una tenerezza che mi lascia disarmato, ma proprio Chaoyang che non c’è un cazzo? Non potevamo andare a Sanlitun? Vabbè.

Finiamo a girare per l’ennesimo mall, figo quanto vuoi, ma praticamente deserto. Mi chiedo, ma in tutti questi enormi centri commerciali la gente ci va? Ci compra? Quelli che si affacciano su Wangfujing sono sempre affollati, ma quella è un’area molto turistica, ci sta. Qui non c’è anima viva. Poi penso che è martedì, durante l’orario di lavoro, e che i negozi sono di fascia piuttosto alta: si vede che in un quartiere di uffici come questo quando i dipendenti staccano preferiscono andarsi a spendere i lauti stipendi piuttosto che tornare a casa. Oppure non ho capito come funziona l’economia cinese, e mi sembra più probabile.

Prima di andare via ci prendiamo un gelato grattugiato da IceMonster, pubblicizzato come uno dei migliori dieci gelati al mondo. Avessero detto della Cina avrei potuto crederci, ma così si guadagnano un enorme SEH!

Ice Monster’s monster

Si tratta di una montagna (letteralmente) di ghiaccio tritato e cosparso di succo, adornato con pezzi di frutta sciroppata e accompagnato da una bevanda, magari non avessi ingurgitato abbastanza liquidi così. Non è male, specie se lo mangi in una città dove il pavimento si scioglie per il caldo e l’umidità non ti lascia respirare, ma il gelato du caruggiu non ha rivali.

Mercoledì 22 agosto

La bici di Shasha ha un pedale rotto. Ne compriamo un paio online pagandoli cifre ridicole e quando arrivano mi attrezzo per sostituirlo.

Per prima cosa vado dal ferramenta sotto casa e provo a spiegargli che mi serve una chiave inglese del 10. Non avendo idea di come spiegarglielo senza imparare a memoria una frase lunga e complicata (che poi credo che “chiave inglese del 10” si dica Shí hào bānshǒu , 十号扳手, ma non sono sicuro) mi esibisco nel gesto internazionale della chiave inglese, facendo una c con pollice e indice e muovendola come se stringessi un dado. Si vede che in cinese questo gesto significa “sono alla ricerca di qualcuno che mi dilati l’orifizio posteriore”, perché il ferramenta mi guarda schifato, mi tira la chiave e si allontana.

Aggiusto la bici e torno ad avventurarmi per le vie della città.

Ora vorrei aprire una parentesi e dedicarmi a un problema che ritengo angosciante per me e per tutti quelli che si trovano in vacanza lontano da casa: i regali.

Perché dobbiamo fare i regali a tutti quando torniamo da un viaggio? Cos’è, Natale? Da un po’ di tempo se non porto indietro qualcosa dalle vacanze mi sento in colpa, come se dovessi dimostrare a delle persone che anche se mi trovavo lontano stavo pensando a loro. E invece no, non è vero che ci ho pensato, uno va in vacanza proprio per pensare ad altro, sennò venivo a stare tre settimane a casa vostra, no?

Se fosse per me mi comporterei come a natale, che non regalo un cazzo a nessuno, ma quegli stronzi dei miei amici mi portano sempre qualcosa dai loro viaggi, e mi fanno sentire una merda.

Non si tratta di una questione economica, figurati se sto a micragnare per un amico con tutto quello che butto via in cazzate, il mio problema grosso è che il più delle volte non so proprio cosa cazzo comprare.

Quest’anno sono stato via tre settimane, durante le quali il mio gatto è stato accudito da mia madre e mia sorella. Tutti i giorni gli davano da mangiare, gli pulivano la cassetta e giocavano con lui. Sdebitarmi mi pareva il minimo, e se con mia sorella è abbastanza facile, dato che ha due bambini e trovare qualcosa che piaccia a loro è indubbiamente più semplice, fare il regalo giusto a mia madre è stato un casino. Anche perché applicare la stessa proprietà transitiva che adotto con mia sorella e comprare qualcosa a suo figlio sarebbe da stronzi egoisti.

E aggiungi anche i miei amici, che oltretutto non hanno figli e spesso neanche una moglie. E mio padre che, bontà sua, mi ha chiesto una cosa specifica, ma mi ha chiesto un colbacco, e io dove cazzo lo trovo un colbacco ad agosto?

A me fare i regali mette ansia, sempre. E quando sono in vacanza mi obbliga a pensarci per giorni, e soprattutto ad avventurarmi in posti da cui normalmente mi terrei alla larga.

È con questo spirito che quel mercoledì ho varcato l’ingresso di Inculopoli, il mercato dei falsoni di Silk Street, dove l’unico modo per concludere un buon affare è andarsene senza comprare niente.

Luoghi da cui tenersi lontanissimi

Quando si affrontano certi rischi è fondamentale avere un piano a cui attenersi con precisione maniacale, ogni gesto improvvisato può portare a risultati catastrofici. E io ce l’avevo un piano: andare diretto al reparto giocattoli e comprare un orrendo pupazzetto che mi era stato commissionato da mia nipote. Cosa mai poteva andare storto?

Quindi entro, attraverso abbigliamento con la cera nelle orecchie per non farmi irretire dal canto suadente delle commesse e dei loro “hey sir!”; camicie da uomo mi tenta tre volte, mostrandomi un sasso che dovrebbe diventare uno splendido modello a righe, poi mostrandomi feste eleganti in cui farei un figurone con la mia nuova camicia senza colletto, e infine pregandomi di comprare qualcosa sennò non sa come dar da mangiare ai suoi figli; e quando calzature mi offre le mie sneakers preferite a un prezzo da elemosina sento come una perturbazione nella Forza, come se milioni di voci gridassero terrorizzate e a un tratto si fossero zittite, ma è solo un attimo, e riesco a superare incolume anche questa prova.

Giungo ancora integro nell’animo e nel portafogli al cospetto di Giocattoli, e affronto il suo guardiano, la Commessa di Lerna dalle nove teste, ognuna fa un prezzo diverso, e quando ne zittisci una ne nasce subito un’altra che prende il suo posto e ti applica un ulteriore 10%.

Vuole duecentocinquanta soldi, ma la mia fermezza è inattaccabile, e per il corrispettivo di dodici euri mi porto a casa un orrore di plasticaccia che mio padre al mercato lo pigliava in omaggio insieme a un topolino da due soldi.

Nonostante la palese fregatura mi sento vittorioso, e nella mia testa parte un film bellissimo in cui torno a casa con due borse piene di ogni genere di preziosità, Shasha mi chiede dove le ho comprate, io dico Silk Street e lei fa la faccia della bionda nella doccia in Psycho, e io per rassicurarla poso le borse e le vado vicino col dito sotto il suo mento, e dico “un tizio apre la porta e gli sparano e tu pensi che quello sia io? No cara, io sono quello che bussa!”, ma neanche nel mio bellissimo film mentale Shasha coglie la citazione, c’è poco da fare, se ti metti con una cinese che ha la metà dei tuoi anni certe affinità culturali te le puoi scordare.

Mi sento così sicuro di me stesso che devio dal piano originale e vado a comprarmi un portafogli nuovo.

“Monblòn?”, mi chiede la signora.

“Wallet”, ripeto, pensando che non parli inglese.

Con aria cospiratrice, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno ci stia spiando, apre un cassetto chiuso a chiave. È pieno di portafogli allineati uno contro l’altro, senza una scatola, pelle contro pelle come in un porno. Ne tira fuori due, me li mostra. Dentro c’è scritto Mont Blanc. Per dimostrarmi che sono fatti di pelle vera passa sotto il primo la fiamma dell’accendino. “Originale, pelle vera! Alta qualità!”.

Non m’interessa un prodotto costoso, voglio solo un portafogli intero, e per farle capire come sono abituato ad andare in giro le mostro quello che ho in tasca. È così malridotto che se avesse le gambe reciterebbe in The Walking Dead.

“Investire nella qualità!”, insiste lei, citando le parole del filosofo cinese ChāoShì (超市).

“Vabbè, quanto vuoi?”, chiedo, più per parlare che per reale interesse, ma ormai il demone dell’acquisto ha arrotolato le sue spire intorno alle mie caviglie, e si sta arrampicando su per le cosce restituendomi fremiti di gelida aspettativa. Non posso più sfuggire, me la devo giocare meglio che posso.

“880 soldi”, spara. Che sono 110 euri.

“Ma tu sei fuori! È lo stesso prezzo che mi hanno chiesto ieri al negozio della Camper all’Oriental Plaza! Ciao!”

Mi acchiappa veloce per un braccio, e sottovoce, perché non ci sentano le spie del governo che chiaramente stanno acquattate dietro gli scaffali, mi chiede quanto sono disposto a spendere.

Vi risparmio tutta la contrattazione, perché è stata lunga ed estenuante, ad un certo punto io ho offerto “Dodici euro e ti insegno un trucco per finire GTA5”, e lei ha rilanciato con “Quaranta euro e il contatto WeChat di mia figlia”. In conclusione mi sono portato a casa un Mont Blanc “originale ma senza custodia né garanzia” per venticinque euri, più i complimenti della signora per avere condotto la trattativa in modo esemplare.

Quindi mi hanno fregato due volte, e la cosa peggiore è che mi sento anche un mago della finanza. Un po’ come se il tuo governo ti trascinasse in bancarotta facendoti credere che ti sta liberando da tutti i lacci in cui eri stato incastrato dalle legislature precedenti, sono così convinto delle mie abilità che immagino di tornare in Italia e aprire una società per vendere in borsa titoli spazzatura, poi distruggo una lamborghini strafatto di quaalude.

Se me ne andassi ora chiuderei con un danno contenuto e qualche soddisfazione, ma il destino ha in serbo un’ultima amara sorpresa.

Accanto all’uscita c’è un negozio che vende tè. Conosco il marchio, è Wu Yu Tai, ci abbiamo comprato a natale, è affidabile, e in questo punto vendita di sicuro parlano inglese.

Non guardo neanche i prezzi, mi faccio consigliare, non calcolo i cambi. Prendo cinque bustine da 50 grammi, e la commessa mi regala una zolletta di un’altra qualità.

Il dubbio mi viene solo dopo, mentre sono in bici sulla via di casa. Mi fermo, prendo il telefono e calcolo la spesa nella mia valuta.

57 euro. Ho speso 57 euro per due etti e mezzo di tè. Non sono un coglione, quando i coglioni mi incontrano si inchinano e mi chiamano sua maestà.

Mi prende la carogna, vorrei tornare indietro e farmi ridare i soldi, ma non credo che otterrei granché, non so se esiste il diritto di recesso in un paese dove i diritti sono barzellette raccontate a cena dai funzionari di partito. Ancora oggi, quando lo racconto, lo sento bruciare come se mi avessero marchiato a fuoco sulla spalla la A di Astronzo.

Torno a casa, posteggio la bici e vado a comprare qualcosa al supermercato, almeno lì non devo contrattare e non mi fregano, poi salgo e chiamo Shasha.

“Sei stato a Silk Street? Quanto ti sei fatto fregare stavolta?”

“Aspetta, ti mostro. Dov’è il sacchetto? Oh cazzo, l’ho lasciato appeso alla bici! Ti richiamo!”

Con tutto quello che ho speso ci manca solo che me lo faccia pure fregare. Corro giù per le scale come una slavina e tracimo nel piazzale. Il sacchetto è ancora lì.

C’è anche un uomo con la maglietta nera e la scritta police che mi chiede chi sono.

Non so come capisco subito che non si tratta di un fan della band di Sting, e che non parla inglese.

Col sacchetto della spesa in mano gli spiego a gesti che non ho il portafogli con me, cioè, ce l’ho, e l’ho pure strapagato per essere un falso, cosa per la quale dovrebbe essere a Silk Street ad arrestare commercianti truffaldini invece che qui a verificare le mie generalità, ma anche se ho il portafogli non ho i documenti, quelli sono in casa, per cui se mi lascia salire un momento poso la spesa che dentro ci sono anche due gelati e vorrei riuscire a mangiarli senza doverli leccare dal fondo della borsa, e recupero sia il passaporto che il telefono, col quale posso chiamare la mia fidanzata , che lei sì, parla cinese, e gli spiegherà chi sono e cosa ci faccio qui.

Non capisce, e ferma una signora con un bambino di sei anni che stanno tornando a casa. Si vede che li conosce, perché chiede al bambino di tradurre quello che sto dicendo. Il bambino va in crisi quasi immediatamente.

Nel frattempo io salgo e recupero passaporto e telefono, con cui chiamo la mia interprete. Il poliziotto esamina il mio passaporto e non capisce cosa voglia dire APR. Gli dico aprile, glielo dico in cinese, quello so dirlo, ma ancora non sembra capire. Passa il documento al bambino, che chiaramente non sa che farsene, essendo scritto in italiano, e lo dà alla madre.

In questo momento il mio futuro è nelle mani di una casalinga di Pechino, che sfoglia il mio passaporto con la determinazione di chi sogna di ricevere un encomio dal Presidente Xi per avere smascherato una spia occidentale.

Che una sconosciuta vicina di casa spulci nel mio passaporto mi fa girare parecchio i coglioni, e vorrei strapparglielo di mano, ma cerco di essere accomodante finché non capisco cosa succede. È il problema di dover dipendere da un visto per entrare nel Paese, ti rende prono ad abusi a cui non puoi permetterti di reagire. Pensateci la prossima volta che vi viene voglia di maltrattare l’ambulante in spiaggia, o fuori dal supermercato: non siete dei machos che fanno rispettare l’ordine, siete piuttosto dei codardi che se la prendono con qualcuno che, in una situazione di pari opportunità, vi piglierebbe legittimamente a calci in culo.

Vengo scortato in caserma, che per fortuna è proprio di fronte e, grazie alle spiegazioni di Shasha, arriviamo a chiarire la situazione: al mio arrivo avrei dovuto presentarmi in quest’ufficio per dichiarare la mia presenza e farmi rilasciare un modulo. Quello che ho compilato sull’aereo e consegnato alla dogana, e il visto che mi ha aperto la porta alla frontiera cinese non contano, serve anche questo foglietto bianco e azzurro.

Un po’ perché l’indomani partirò comunque, un po’ perché sono tre settimane che mi vedono gironzolare senza che abbia fatto niente per nascondermi, un po’ perché capiscono la situazione, decidono che non sono una spia, ma solo uno sprovveduto turista. Vedermi indossare ridicole magliette dei Monty Python facilita loro la decisione.

Mi lasciano andare promettendomi che se decidessi di tornare a Pechino non avrò problemi a farmi accettare il visto, a patto che vada subito a registrarmi a un ufficio di polizia.

Superato anche questo piccolo intoppo resta da affrontare il dramma vero, la mia ultima cena a Pechino.

Fosse per me inviterei Shasha e altri undici persone, sceglieremmo un ristorante con veranda dotato di un tavolo abbastanza lungo da poterci sedere tutti sullo stesso lato, e poi accuserei un commensale a caso di essere un traditore, ma non ce l’ho neanche in Italia undici amici.

Andiamo al barbecue coreano, un posto dove ti danno tanta carne che per ogni persona che si siede a tavola muore un vegano. È così porco che a confronto l’hotpot è la minestrina dell’ospedale.

Tutti i tavoli hanno un braciere nel mezzo, con una cappa appesa sopra, e la tua dotazione comprende, oltre alle abituali bacchette, un forchettone per muovere la carne, una paletta e un paio di grosse forbici.

tipo il cenone di capodanno ma con meno lenticchie

Il cibo viene consegnato a fette in grandi piatti, da cui lo metti a grigliare secondo il tuo gusto. Ogni tanto il cameriere torna e ti cambia la griglia, per evitare che annerisca. Se lo fa per una questione di igiene o perché il nero della brace cambierebbe il sapore alla pietanza non lo so, ma alla lunga mi rompe le balle che questo arriva, mi prende la fettina che sto arrostendo con tanto amore e me la sbatte su un mucchio di altra carne senza la minima cura.

Quando Shasha ordina al ristorante non ha affatto il senso della misura, e in quest’occasione non si smentisce: il cameriere prova per quattro volte a trovare un posto sul nostro tavolo, poi ci rinuncia e va a prendere un carrello.

Al momento di pagare il conto siamo finiti entrambi in cima alla lista dei ricercati della polizia vegana

Giovedì 23 agosto

Cosa c’è da dire dell’ultimo giorno? È il giorno della separazione, dell’attesa infinita, di tornare a parlarsi attraverso uno schermo, di non potersi toccare, di uscire vedere fare cose andare a cena sempre con qualcun altro, di fare progetti e non sapere se si realizzeranno, non sapere neanche se e quando ci rivedremo. Non si parla granché l’ultimo giorno, si guarda l’orologio e si aspetta l’ora di chiamare una macchina che mi porti all’aeroporto, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, perché se ti negano il visto per venire qui abbiamo esaurito le opzioni, e non lo so se potremmo reggere un altro anno così.

Non c’è molto altro da raccontare, ci metto un’ora e mezza a consegnare il bagaglio perché tutti quelli davanti a me hanno la valigia troppo pesante, e la aprono e ne dividono il contenuto in altre borse più piccole lì davanti all’impiegata, fermando tutta la fila. E questo succede praticamente per ogni gruppo di cinesi che mi precede, probabilmente gente di ritorno al paesello in cui le regole per l’imbarco non le hanno mai lette.

Quando arriva il mio turno metto la valigia sul nastro, l’impiegata mi rilascia un foglio insieme al passaporto e me ne vado a cercare un wifi da cui iniziare il nuovo ciclo di conversazione a distanza con la ragazza che amo.

Ed è tutto.

Avrei delle considerazioni da fare in coda, su quel che ho capito dei cinesi, sul libro che sto leggendo a proposito della Rivoluzione Culturale, sui racconti di famiglia della mia fidanzata che si sposano con quelli dell’autore del libro, e su come tutto questo abbia una grossa influenza sulla Cina di oggi, tanto che senza tenerne conto si rischia di prendere grossi abbagli; avrei anche da raccontare a che punto siamo io e Shasha, come procede la nostra relazione a distanza (spoiler: mentre scrivo queste righe lei sta dormendo nella stanza accanto), ma credo che per il momento vada bene così. Mi riservo di concludere questo lungo racconto prima o poi, e lascio aperto il conto dei capitoli per alimentare i miei sensi di colpa, ma per il momento è tutto.

Fine.

Venerdì 17 agosto

Non ho mai capito perché il venerdì 17 debba essere considerato un giorno sfortunato per qualcuno, mentre per altri è il 13. È pur sempre un venerdì, cosa ci può essere di brutto in un venerdì?
A meno che tu non sia il comandante della Costa Concordia, ovvio.

Il mio venerdì lo passo da solo, Shasha è tornata a lavorare, e sono senza idee su come spenderlo. Pechino offre ancora parecchie attrazioni, per esempio non ho ancora visitato il parco Beihai, o le due torri in mezzo all’hutong, ma devo ammettere che neanche me ne frega. Ho voglia di girare la città e guardare come vive, i miei interessi da turista li ho già soddisfatti tutti. E poi dopo ferragosto c’è pieno di comitive di italiani, e preferisco rimandare il più possibile il momento in cui dovrò vergognarmi di nuovo dei miei connazionali.

Sulla guida ho letto di un negozio di aquiloni in Shichahai, vicino al laghetto su cui si affacciano diversi ristoranti e locali parecchio turistici. È la stessa area del parco Beihai, fra l’altro, magari ci faccio un passo.

Per arrivare in zona la prendo larga e mi fermo a una libreria enorme non lontano daTiānānmén. Quella di Wangfujing è ben fornita, soprattutto di roba che non devi sfogliare, tipo giocattoli, miniature e strumenti musicali, ma in questo periodo ci stanno facendo dei lavori dentro, e alcuni piani sono chiusi; questa è ancora più grande, e vende veramente qualunque cosa, comprese le racchette da ping pong e le scarpe. Alla fine i libri sono la parte minore, e se sei interessato proprio in quell’articolo mi sa che è meglio se vai da PageOne.

Dopo avere ciondolato per un po’ nell’edificio raggiungo l’area del parco, e decido che fa un caldo fotonico, che il negozio non c’è (c’è, ma non lo trovo anche se ci passo davanti) e soprattutto che è già passato mezzogiorno e ho fame.

Passo davanti a un ristorante thailandese e butto un occhio al menu, piuttosto accattivante. C’è una pagina in particolare che mi attira, e non capisco come mai, visto che mostra un piatto di larve del bambù saltate in padella col peperoncino. Faccio un giro dalle parti del lago lì dietro per vedere se trovo qualcosa di meglio, ma devo essere passato dal lato dove non c’è niente, e dopo alcuni minuti sono di nuovo davanti alla pagina delle larve, e ho ancora più fame di prima.

Entro.

Ordino una padellata di larve, un’insalata di ananas e uno degli innumerevoli piatti con spaghetti e verdura che mi rendono la cucina asiatica tutta uguale.

L’ambiente è raffinato, ci sono due ragazze a un tavolo impegnate in una conversazione molto intensa, e un bambino al tavolo accanto che strilla mentre i genitori cercano di dargli da mangiare. Una delle due ragazze si gira spesso a fissare i vicini con quello che dovrebbe essere un eloquente sguardo d’odio, ma loro non lo considerano abbastanza eloquente e non si scusano né cambiano tavolo. Ci sono altre famiglie sedute qua e là, e ci sono due cameriere con la faccia antipatica, ma che in realtà si rivelano piuttosto cortesi e veloci nel servizio.

Le larve mi arrivano in un grazioso cestino di vimini, e per fortuna non si muovono, sennò non le avrei mica mangiate. Così invece non ne lascio neanche una. Sono poco saporite, sanno un po’ di nocciola, e hanno la consistenza del peperoncino quando lo togli dal forno e sembra fatto solo di buccia.

Me ne vado soddisfatto, anche se il conto è un po’ più elevato di quello a cui sono abituato.

È ancora presto per interpretare il perfetto uomo di casa che passa al supermercato e poi va a preparare la cena, e troppo tardi per andare a cercare altri negozi strani che poi tanto non troverei lo stesso.

Allungo la strada del ritorno fino a Chongwenmen e mi infilo nel Glory Mall, il grosso centro commerciale dove sono entrato una volta per cenare da un Genki, la scorsa vacanza.

Magari ci trovo qualcosa di interessante. L’idea è quella di cazzeggiare e magari trovare qualcosa di economico e abbastanza scemo da regalare agli amici. In realtà il posto perfetto per quel genere di acquisti sarebbe un mercato tipo Silk Street o Pearl Market, ma sono anche posti dove dei trattare sul prezzo, abilità del tutto assente dal mio curriculum. Di solito ci prendo delle fregature colossali, perciò mi ci tengo lontano.

Il Glory Mall è il classico centro commerciale con diversi livelli che si affacciano al centro, nel quale è stato allestito un palco. Il giorno in cui ci capito io si sta tenendo una specie di celebrazione del Giappone promossa da uno dei negozi del complesso, e sul palco due bamboccioni bianchi con la testa tonda cantano in playback quella che sembra la sigla di un cartone animato per adolescenti problematici. Il pubblico partecipa, scatta foto, sono quasi tutti adulti. A un piccolo stand accanto al palco due donne distribuiscono depliants per promuovere vacanze in Giappone.

Cercando informazioni per scrivere questo post ho scoperto che il 17 agosto 2018 in Giappone ricorreva il Tanabata, una festa tradizionale derivata da un’analoga celebrazione cinese, detta Qīxī. In pratica ci sono queste due stelle, Orihime e Hikoboshi (per noi Vega e Altair, due vertici del cosiddetto Triangolo Estivo), che si possono ritrovare solo il settimo giorno del settimo mese lunare, che non è quello solare che usiamo noi, e se sto a spiegarvi come funziona finiamo fra sei episodi invece che due, perciò vi rimando a questa pagina dove la signora Wiki sa essere molto più eloquente di me, e vado avanti.
Insomma, il Tanabata in Giappone va fortissimo, ed essendo considerata la Festa del Doppio Sette, anche in Cina ha un sacco di fans. Le date coi numeri uguali hanno un effetto particolare sui cinesi, mentre noi importiamo il Black Friday loro si spendono il patrimonio l’11 novembre per festeggiare i single, dato che Alibaba, il principale negozio online del Paese (il loro Amazon, per capirci), istituisce in quel giorno una massiccia campagna di promozione su moltissimi articoli.

Qīxī in Cina è come il nostro San Valentino, e chiaramente i negozi ci vanno giù pesante. Non ho capito chi siano i due faccioni, né perché sul cartellone accanto al palco ci sia scritto una cosa che potremmo tradurre con “Riguardo Huixi Tanabata”. Suppongo che in quel centro commerciale, all’interno delle celebrazioni per Qīxī, l’agenzia di viaggi giapponese abbia organizzato un evento per festeggiare l’analoga festa e invitare i pechinesi a comprarsi un pacchetto volo+hotel, ma vorrei saperne di più sui due pupazzoni bianchi. Se avete delle informazioni a riguardo fatemelo sapere, io intanto ignoro la festa e proseguo nella mia esplorazione.

Mi infilo in un’area dedicata allo sport e ai videogiochi. Ci sono postazioni dedicate alla realtà virtuale, sulle quali investirei volentieri un po’ di soldi, ma se la scazzatissima addetta mi spiega come indossare gli occhiali e i guanti, e soprattutto mi fa delle domande, io non so cosa rispondere.

Proseguo un po’ deluso, e finisco nel paradiso dello sportivo di città. Un ring su cui picchiare i tuoi amici secondo lo stile che più ti aggrada, una piattaforma dove tirare di scherma e una selezione di armi che sembra tirata fuori da Assassin’s Creed Black Flag, una saletta per il tiro con l’arco, e poi la figata: un tapis roulant inclinato per imparare a sciare.

A ogni postazione un insegnante è disponibile a impartire lezioni. Un sacco di bambini si stanno dedicando a diverse attività, o sono in coda in attesa del proprio turno di lezione.

E dai videogiochi nessuno, neanche qualche bulletto brufoloso. Che decadenza, madonna! Questa società è allo sfascio!

Sabato 18 agosto

La mattina di sabato accompagno Shasha dal dentista. Dovrebbe farsi togliere il dente del giudizio e ne è terrorizzata, e devo accompagnarla per evitare che salti l’appuntamento e si nasconda per un’ora nello studio del tizio lì vicino che insegna pianoforte: c’è un tizio che ha una vetrina e quando ci passi davanti lo trovi seduto a leggere il giornale da solo, o a leggerlo mentre un bambino si esercita al pianoforte contro la parete. Il cartello mostra anche altri strumenti, quindi immagino che sia in grado di leggere il giornale anche con un sottofondo di chitarra o di batteria.

A sentire la mia fidanzata non è certo che il medico la opererà, conta di impietosirlo con una scena madre che sta provando da giorni, e che prevede un lungo monologo molto intenso accompagnato da un violoncellista. Se non dovesse bastare giocherà la carta estrema: far togliere il dente del giudizio al violoncellista.

È interessante come lo studio presenti un’anticamera e un’area di lavoro separate solo da un vetro. Tranne per una banda opaca posta più o meno all’altezza di dove si trova la faccia del paziente sulla poltroncina, tutto il resto è visibile, perciò uno può starsene seduto in poltrona a godere degli spasmi di dolore del malcapitato di turno. O a farsi prendere dall’ansia se la visita successiva è la sua.

Per lenire la tensione e la noia il tavolino in sala d’attesa offre una discreta varietà di caramelle e barrette di cioccolata, che hanno il duplice scopo di mettere il paziente a proprio agio e procacciarsi nuovi clienti. Un po’ come se il parcheggio del gommista fosse disseminato di chiodi.

Appena arriviamo una delle assistenti accompagna Shasha nella stanza di vetro, mentre l’altra mi offre un tè caldo. Guardo la mia fidanzata giocarsi tutte le carte, dal buttarsi in ginocchio allo scagliare il violoncello contro la parete, con grande disappunto del musicista. È tutto inutile, bisogna estrarre il dente. Shasha viene accompagnata fuori dalla stanza e sparisce in una sala sul retro di cui ignoravo l’esistenza. Si vede che è lì dove si praticano le operazioni più serie. Lo capisco, in caso di incidenti è più facile occultare il cadavere se non ci sono testimoni.

Dopo un quarto d’ora riappaiono tutti, dentista, fidanzata e assistenti. Tranne la fidanzata sono tutti allegri e si sbracciano in saluti. Shasha no, lei sfoggia il muso delle grandi occasioni e si tiene una mano sulla bocca. Bene, se non altro non dovrò sentirla lamentarsi.

Torniamo a casa e niente, passiamo così il resto della giornata, con lei a letto a lanciare lunghi sordi muggiti di dolore e io a dispensarle tè freddo e parole di conforto.

Domenica 19

Shasha sta meglio, nel senso che non è morta durante la notte e il dente ha smesso di farle un male fottuto, passando a semplice dolore che ti tiene sveglia per ore. Per festeggiare propongo di andare a comprare del torrone, ma in Cina non si trova così facilmente, e in alternativa decidiamo di festeggiare andando a fare i matti al Museo Nazionale. C’è sempre quella mostra là, sull’arte degli aborigeni, che le interessa. Io appena sento aborigeni attacco a ripetere “Ma aboriggeno, ma io ettè, checcazzo se dovemo dì!” e giù a ridere. Shasha si domanda per l’ennesima volta cosa l’abbia fatta innamorare di me.

Quando esci dalla metropolitana di Tiānānmén hai sempre da affrontare una coda spaventosa per accedere alla piazza, non importa quale uscita prendi; anche quella davanti al palazzo del governo, la più lontana dal museo e dalla Città Proibita, è inavvicinabile senza sorbirsi ore di attesa per i documenti.

L’idea di andare al museo diventa subito pochissimo allettante, e mettiamo in pratica il piano B, andare da Page One.

Ci sono capitato spesso in questa libreria, molto più che nelle altre ben più grandi e vicine, perché ha un aspetto moderno e una selezione di titoli piuttosto recenti, oltre a un’ottima sezione dedicata all’arte e all’architettura, dovesse interessarvi quel genere di articoli. E ci si trovano anche dei fumetti, sebbene relegati in “letteratura per bambini”. Molte delle persone che la visitano lo fanno proprio perché attratti dall’aspetto, e passano il tempo a farsi i selfie davanti agli scaffali, o a tirarsela da grandi pensatori con un libro in mano, contro una delle vetrate ai piani superiori.

Chiaramente è stato un attimo abbandonare la ricerca dei libri che tanto non c’erano e dedicarci al photobombing. Credo di essere finito in almeno una decina di scatti di giovani cinesi sofisticate, e in questo aspetto devo dire che la sintonia con la mia fidanzata è stata totale: trovarci a fare facce annoiate dietro ragazze con la bocca a culo di cane ci ha svoltato la giornata.

Non è durata molto, dopo la libreria abbiamo tentato di pranzare in un posto che si chiamava Snack qualcosa, un postaccio dove abbiamo aspettato un’ora e ricevuto un piatto sbagliato prima di ricevere quello giusto e scoprire che faceva schifo.

Per raddrizzare la giornata siamo dovuti tornare a casa e ho preparato un risotto che hanno suonato alla porta e c’era Gordon Ramsey che mi pregava di fargli almeno lavare i piatti.

Sul Netflix coreano troviamo la trilogia del Signore degli Anelli, che incredibilmente Shasha non ha mai visto. La cosa figa di uscire con una ragazzina è che puoi sfoderare tutti i pilastri della tua gioventù e fare dei figuroni ogni volta.

Se nella frase qui sopra vedete dei riferimenti sessuali avete dei problemi.

Il problema è che la mia fidanzata si innamora perdutamente di questi film e tutte le sere mi obbliga a guardarne uno, con effetti disastrosi sulla nostra vita sessuale.

Se vedete dei riferimenti sessuali anche nella frase qui sopra siete delle brutte persone e dovreste stare lontani dagli asili. Vergogna!

Piove, uggia, trista. Il tempo migliore per andare a vedere Yíhé Yuán (頤和園),il Palazzo D’Estate dell’imperatore. Quello vero però, non la copia scrausa dell’altra volta.

Che poi sarebbe dell’imperatrice, visto che venne fatto costruire dalla vedova Cixi come residenza estiva, ma non mi metterò a raccontare la storia del sito, che è lunga e si trova su wikipedia.

Esco di casa e scopro con gioia che la temperatura si è abbassata notevolmente, ora invece di avere un phon che ti soffia in faccia ti sembra solo di stare nello spogliatoio della piscina.

Prendo la metro e scendo alla fermata giusta, da lì seguo la folla fino all’ingresso Nord, poco più avanti.

Il biglietto comprende diverse attrazioni, ma non ho capito quali siano; forse la mia Lonely Planet lo spiegherebbe anche, ma non ho voglia di leggere, le do solo qualche occhiata ogni tanto. Sarà perché ho comprato la versione inglese, l’unica approfondita su questa città; in italiano trovi solo una National Geographic striminzita su Pechino e Shanghai o un volume enorme che copre tutta la Cina. Mi sto impigrendo, leggo malvolentieri in inglese, non spiccico una parola di cinese e quando mi puntano una pistola in faccia gli do direttamente il portafogli senza sbattermi a contrattare. Di questo passo dove andremo a finire? È tutta colpa dei social, secondo me. Vabbè, faccio il biglietto e passo i cancelli.

La visita inizia subito in salita, perché c’è un bordello di gente e perché è, in effetti, in salita: superato il ponte sul fiume, che scavalca un porticciolo grazioso, inizia la scalata alla Collina della Longevità, il cui nome fa intuire che non sarà certo sui suoi tre milioni di scalini ripidissimi che ti schianterai, vai avanti impavido!

Come la maggior parte dei palazzi cinesi anche questo è composto da diversi edifici che fungono da porte. Salendo ne attraversi diverse, alcune sobrie in cima alle mura di una specie di fortezza, altre più decorate.

In cima alla collina c’è un tempio con le pareti ricoperte di piccoli Budda scolpiti, qualche bancarella di souvenirs e tre ragazzini che in un ottimo inglese mi hanno chiesto di fare una foto con loro.

Poi sono sceso dall’altra parte attraverso un bosco, giù per un sentiero reso scivolosissimo dagli aghi di pino e dall’umidità, e ho raggiunto il lago.

Come tutti i palazzi imperiali anche questo è pieno di colori, resi ancora più vividi dal contrasto con la vegetazione scura. I templi spuntano fra gli alberi, la collina restituisce un aspetto più vivace della monotonia pianeggiante offerta dalla Città Proibita. E il lago è enorme e pieno di barche. La maggior parte sono traghetti che fanno la spola da un lato all’altro, li riconosci dalla prua a forma di drago, ma ci sono anche tantissimi pedalò in affitto. Con questo caldo, madonna.

Prima di salire a vedere la torre, l’elemento più appariscente del complesso, prendo il traghetto per fare un giro del lago, ma non è un battello per giri panoramici, è un servizio di trasporto vero e proprio, e mi molla dall’altra parte di questa superficie enorme. Col cazzo che torno a piedi, vado a vedere un altro tempio su un isolotto al di là di un ponte parecchio imponente e poi rifaccio la fila per tornare da dove sono partito. Nel frattempo faccio la foto alla statua di un bue di bronzo: dopo il toro di New York la mia collezione di bovini metallici si va allargando.

Sul traghetto del ritorno una ragazza mi si siede accanto e mi domanda una foto insieme. Certo, rispondo, ma ne voglio una in cambio sennò i miei amici dicono che tutte questi ammiratori me li sono inventati.

Per quella sul suo telefono usa un filtro scemo che ci disegna le orecchie da coniglio. Ma perché le asiatiche si abbandonano tutte a questi atteggiamenti infantili? Non credo che potrei mai stare con una di loro.. oh wait…

Sbarcato nuovamente da dove ero partito mi sembra l’ora giusta per abbandonare il complesso, così risalgo a fatica la collina passando per la torre, vado a visitare il tempio coi budda scolpiti sulle pareti e ne trovo un altro gigantesco all’interno, quindi ridiscendo dall’altra parte più che soddisfatto della visita e me ne vado a prendere la metropolitana.

Mi fermo solo per visitare il porticciolo sotto il primo ponte, che non è niente di speciale, giusto una passeggiata senza protezioni su un molo strettissimo per vedere negozi di qualunque genere di pacchianeria turistica.

Scoprirò solo molto più tardi di avere saltato tutta la parte riservata alle stanze dell’imperatrice, con gli arredi, i mobili e quelle cose che ti fanno capire come vivevano in un posto del genere, e che fin dal mio primo viaggio in Cina mi sono domandato perché non ci fossero mai: di solito visiti una di queste strutture e passi da un tempio all’altro, da una sala del trono all’altra; i cartelli ti spiegano che lì dove adesso c’è un negozio di souvenirs prima stavano i sacerdoti di questo e quell’altro, e laggiù dove sono appesi tutti quei pannelli con la storia della ricostruzione del palazzo una volta si conservavano i fagioli. Vabbè, mi sono chiesto, ma i mobili? Tipo l’imperatore dove mangiava? La sua camera da letto si può vedere? All’interno della Città Proibita non lo so, nella metà che ho visitato non c’era niente, ma qui si può, sta tutto in quella parte di struttura a destra del lago, guardando il palazzo. Quella che non mi sono cagato.

La sera andiamo al Temple Bar, il locale di musica dal vivo che somiglia a quello che frequentavo a Genova quand’ero pischello. Ci avevamo fatto un salto la sera di Natale, ma non c’era nessuno. Stasera suona un gruppo italiano milanese, gli Octopuss, con due esse.

Non ho capito come abbia fatto un trio funk rock milanese a finire in una tournèe cinese, ma a quanto pare da queste parti hanno un discreto seguito, non è la loro prima volta, e leggendo in giro ho scoperto che partecipano a una sorta di scambio culturale fra Italia e Cina. La loro pagina su youtube è piena di esibizioni nelle principali città del Paese.

Sono bravi, meriterebbero più pubblico di questi quattro gatti, me e fidanzata compresi. Shasha mi chiede se voglio andare a salutarli, ma non mi va di farmi riconoscere come italiano, non saprei cos’altro dire tranne “ehi bravi, sapete, sono italiano anch’io”. Estigrancazzi. Poi penso che la maglietta di Emergency che sto indossando mi identifica fin troppo bene, rivelando oltre alla cittadinanza anche le simpatie politiche.

Giovedì 9 agosto

La regola, quando sei in vacanza, è che ti alzi un po’ quando ti pare. Questo diventa ancora più vero quando la tua fidanzata, che non è in vacanza, si alza alle sette per andare a lavorare e di colpo è l’ora di punta in metropolitana: accende tutte le luci di casa, sbatte tutti gli sportelli e ti parla a voce altissima come se invece che sotto le coperte con gli occhi chiusi e la bolla al naso fossi in cucina a prepararle la colazione. L’unica differenza fra la camera da letto e la fermata di Sanlitun è che sono ancora orizzontale e in mutande.

Chiaro che appena se ne va rispengo la luce e mi rimetto a dormire.

Il piano al risveglio sarebbe di andare a vedere la tomba di Mao. Shasha non capisce questo mio interesse per i morti imbalsamati, già a Natale ho tentato di visitare il mausoleo e ho trovato chiuso, mi chiede se ho un problema di necrofilia. Le dico che no, sono solo curioso di vedere un cadavere imbalsamato, specie se è quello di un leader mondiale. E poi mi affascina la venerazione che gli tributano i cinesi, come se fosse un santo laico.

Insomma mi preparo, esco e, come tutte le volte, finisco imbottigliato all’ingresso di piazza Tiān’ānmén, dove devi sempre esibire il documento e si creano delle code allucinanti.

Chiaro che al momento di entrare nel mausoleo è passato mezzogiorno e hanno già sbaraccato. Anche la salma di Mao rispetta degli orari, quando stacca se ne torna a casa o si ferma a un baretto lì dietro a farsi un bicchiere con gli amici. Dicono che sia più simpatico di quel che sembra sul lavoro.

Vabbè, vado a Qianmen, appena lì dietro, e provo a ordinare il lu zhu huo shao. Però non dal tizio ostile, magari vado da un altro. Ma magari provo a mangiare un’altra cosa.

se mangi qui e sopravvivi diventi immortale, pare

Insomma, sono finito nel solito buco infame, sporchissimo, gestito da due donne di cui una lavava i piatti e l’altra sputava per terra, a mangiare i mian tiao meno invitanti della mia vita.

Non sono stato male, quindi almeno la cucina era pulita, oppure la cuoca non soffriva di malattie trasmissibili con la saliva.

Sulla via del ritorno mi perdo intorno alla solita piazza, trovo un grosso ufo, che poi sarebbe il teatro dell’opera, e lentamente ritorno verso l’hotel di Shasha, che mi aspetta per cena.

Finiamo la serata con una zuppa senza infamia né lode.

Lunedì 6 agosto

Ho chiaramente un problema coi parchi cinesi. L’anno scorso volevo visitare lo Yong he Gong (雍和宮), il tempio dei Lama, e nonostante si trovi proprio all’uscita della metropolitana, ben visibile, ho tirato dritto e mi sono infilato nel parco Ditan (地坛公园), poco più avanti. Per me i templi stanno nei parchi, facile.

Quest’anno l’ho rifatto, dopo una scrupolosa indagine su quale fermata della metro avrei dovuto prendere per visitare il Palazzo Estivo dell’Imperatore, e chiaramente senza chiedere aiuto a Shasha perché uomo no chiede informazione, uomo arrangia, ho deciso che la fermata giusta era Yuanmingyuan (圆明园) invece di Beigongmen (北宫门), la fermata successiva.

Quest’estate a Pechino andavano tantissimo le maniche separate dalla maglietta.


Poco male, una sola fermata di differenza cosa vuoi che cambi?

Cambia che se non sai leggere le indicazioni in cinese paghi il biglietto ed entri nel Parco delle rovine del vecchio palazzo estivo (圆明园遗址公园), che sta proprio accanto all’altro.



E come avrei potuto accorgermene? Secondo la Lonely Planet c’è un lago, e questo è chiaramente un lago, ma dove dovrebbe esserci un palazzo c’è quello che con palazzo fa rima. Tre ore a camminare nella giungla insieme a un milione e mezzo di cinesi rumorosissimi e altrettanto rumorosissime cicale, che però in proporzione sono dieci volte tanto.

A quel punto, chiarito l’equivoco, sarei potuto uscire e andare a visitare il parco giusto, ma mi ci sarebbero volute altre tre ore, così ho proseguito la visita fingendo di trovare davvero molto interessante l’area su cui sorgeva il Palazzo prima che, nel 1860, durante la Seconda Guerra dell’Oppio, l’esercito inglese lo distruggesse.

A capo dell’operazione fu Lord Thomas Bruce, conte di Elgin, Alto Commissario britannico in Cina, che colse l’occasione per depredare le rovine di tutto quello che gli capitò sottomano. Non è un caso che la stessa persona fu responsabile della spoliazione dei marmi del Partenone, e adesso se vuoi vedere il tempio greco nella sua interezza devi farti un viaggio ad Atene e uno a Londra.

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La maggior parte degli edifici era fatta di legno su una base di pietra, per questo la stragrande maggioranza di ciò che resta sono le fondamenta degli antichi padiglioni, alte un metro, in mezzo all’erba. Uno dei più curiosi, almeno per noi occidentali, è quello a forma di svastica che sorge su uno dei laghetti. Non si tratta del simbolo nazista, ma del più antico simbolo religioso, coi bracci prolungati verso sinistra, in senso antiorario. Per poterne cogliere la forma è necessario arrampicarsi su una delle collinette che circondano lo specchio d’acqua e aguzzare la vista. Ben poca soddisfazione per uno che voleva vedere la principale attrazione cittadina dopo la Città Proibita.

“Fortuna – Biella – Italia”, con la F del logo Fila

Terminata la visita, fingendo di esserne rimasto molto soddisfatto, sono tornato in centro e con la mia fidanzata ho raggiunto il quartiere di Qianmen, dove sorge l’imponente Porta Zhèngyángmén.

Situata sul lato sud di Piazza Tiān’ānmén, questo massiccio edificio è ciò che resta degli antichi bastioni che circondavano l’area, insieme alla Torre degli Arcieri che le sta di fronte.

Non so se i due edifici siano visitabili, non ho visto persone entrarci, ma non ero granché interessato: stavamo andando da Siji Minfu a mangiare l’anatra alla pechinese, il mio stomaco aveva tutta la mia attenzione.

Dalla Torre degli Arcieri parte Qianmen Street, la classica strada pedonale su cui si affacciano negozi delle principali marche straniere e locali. Un po’ più interessante è una delle strade che la attraversa, Dashilar, dove le marche occidentali non trovano spazio ed è tutto un susseguirsi di scarpe taroccate e roba da mangiare. Oppure i vicoli, che poi è dove ci siamo diretti noi, dato che Siji Minfu sta in uno di questi. Ha anche un ristorante più grande e figo, ma questo costa meno.


lu zhu huo shao dovrebbe significare “bollito e cotto”, ma non fidatevi del mio cinese

Prima dell’anatra ci fermiamo in una bettola dove servono il lu zhu huo shao (卤煮火烧) uno stufato di maiale dove al posto della carnazza mangi polmoni, trippa, intestino, fegato e tofu. Mi faccio spiegare bene come si chiama perché voglio tornarci e ordinarlo da solo. Shasha mi spiega che è facile, in questo posto è l’unico piatto: c’è un grosso pentolone all’ingresso, tu ti siedi e al cameriere dici “uno”, lui se ne va e torna con una tazza fumante.

Gli avventori ci osservano con una certa ostilità, il cuoco dietro al pentolone non vuole che gli faccia la foto. Magari se torno da solo scelgo un altro locale, tanto qui intorno c’è pieno.

Sull’anatra di Siji Minfu ho poco da dire, mi è piaciuta di più quella di Natale al Made In China per il servizio, ma eravamo in un hotel a 5 stelle, ci mancherebbe che il servizio fosse ordinario. Questa comunque vale l’attesa, se vi piace l’anatra alla pechinese.

Neanche le zampe abbiamo lasciato!

Martedì 7 agosto

Mi lascio convincere che i pechinesi in macchina non sono pericolosi come sembra, e decido di fare un giro con la bici della mia fidanzata, molto migliore degli scassoni che puoi affittare in giro.

Perché a Pechino le bici le trovi ovunque, te le tirano proprio dietro. Hai un’applicazione sul telefono con cui sblocchi il lucchetto digitando un codice e inizi a pedalare. Quando non ti serve più la molli, possibilmente in un parcheggio per biciclette, ma il più delle volte dove capita. Ho visto bici nelle aiuole, ricoperte dai rampicanti o inglobate dalle siepi.

Le aziende che noleggiano bici a Pechino sono due, Ofo, che abbiamo anche qui, e l’altra che non mi ricordo. Cercando su google ho trovato quest’articolo che mi suggerisce Mobike, e parla di un terzo fornitore da poco sul mercato in città, ma non mi pare né il nome giusto né di avere visto altre marche in giro. Sono tutte bici da passeggio dall’aspetto pesante: le Ofo costano di più e hanno le ruote più grandi, mentre le altre, di cui posso fornire testimonianza diretta, sono delle Grazielle più goffe, e per fare un chilometro devi sudare come a una tappa montana del Giro d’Italia.

La bici di Shasha appartiene a una categoria decisamente superiore, col telaio leggero e le ruote da corsa, ti permette di coprire lunghe distanze senza faticare. Essendo priva di rapporti è un po’ limitata quando cominci a prendere velocità, ma tutto sommato è un bene: su quelle piste ciclabili lunghissime e larghissime rischieresti di piantarti al primo incrocio.

La bici aveva bisogno di una gonfiata alle gomme, perciò mi sono fatto spiegare da Google come si dice “gonfiare le gomme” in cinese e sono partito verso Chongwenmen, che mi sembrava una zona abbastanza affollata da avere un’officina per le biciclette.

Non ne ho trovate, e quando pronunciavo la mia frase a memoria ricevevo risposte che non ero in grado di capire, non avendo imparato anche le possibili risposte.

Un signore sotto l’ombrellone mi ha indicato una strada e ha fatto un gesto con le braccia che poteva significare “grande” oppure “mongolfiera”. Ho pensato che in entrambi i casi sarebbe stato qualcosa di molto visibile, e sono partito in quella direzione.

Sono tornato verso casa, l’ho superata e ho continuato a pedalare nella direzione opposta, ma di officine neanche l’ombra. E neanche di mongolfiere.

Mentre ero fermo a consultare la mappa sul telefono due uomini dal marciapiede mi hanno detto qualcosa, così ho risposto “gonfiare le gomme”.

Si sono consultati un attimo, poi hanno indicato un punto più avanti, mi hanno spiegato che avrei dovuto svoltare a destra, ma non alla prima, alla seconda.

Mi sembravano parecchio sicuri di sé, e poi cos’avevo da perdere?

Dopo avere svoltato alla seconda mi sono trovato in un hutong, a sorpresa. Non sapevo che ce ne fosse uno così vicino a casa. Ho proseguito e sono finito davanti a una baracca di lamiera, senza porta e priva di una parete, dove degli uomini molto sporchi stavano armeggiando intorno a pezzi di motorino.

Ho sparato la mia frase, di cui ormai mi sentivo sicurissimo, e questi hanno fatto cenno di sì. Finalmente!

Da dietro la baracca è spuntato Bilbo Baggins, una creatura dall’aspetto di un bambino di dieci anni ma coi baffi, e ha attaccato a pompare con vigore olimpico, mentre gli altri guardavano me e la bici e commentavano cose irripetibili (non che fossero cose brutte, è che proprio non le saprei ripetere). Quando ha finito ho ringraziato e me ne sono andato. Nessuno mi ha urlato dietro ladro fermati, quindi deduco che in Cina farsi gonfiare le gomme nella tana degli hobbit è gratis.

Sono uscito dall’hutong di fronte all’incrocio di Chongwenmen, dov’ero già arrivato prima, ed essendo già sulla strada giusta ho proseguito verso nord, per arrivare all’hotel di Shasha. Non sono entrato perché a quel punto avevo già la maglietta zuppa di sudore, stavo facendo attività fisica a un tasso di umidità tropicale, e ho proseguito infilandomi in una strada appena lì dietro.

Era un ospedale. Immaginate un cortile di ospedale, coi barellieri, le ambulanze, gli infermieri in camice, i parenti in visita e uno scemo in bici che cerca di levarsi dalle balle il prima possibile.

Andare in bici a Pechino ti permette di capire qualcosa di più di questa città e della gente che la abita. A Pechino non importa se hai la precedenza, se il semaforo ti dice che puoi passare e se sei su una pista ciclabile: qui queste regole sono considerate semplici suggerimenti dati da qualcuno che pretende di saperne più di te.

Ogni strada è affiancata da una corsia per le bici larga abbastanza da consentire il passaggio di un’automobile, e da un marciapiede, spesso ancora più largo. Le macchine passano più che altro sulla corsia a loro dedicata, ma ogni tanto si infilano nella ciclabile, se devono posteggiare, se devono svoltare a destra, se hanno fretta, se non gliene frega un cazzo; le moto sono rare, i Pechinesi vanno tutti in giro sui motorini elettrici, che non richiedono l’uso del casco, e occupano abbastanza equamente la corsia ciclabile e il marciapiede. Qualcuno ogni tanto passa per la strada carrozzabile, ma viene guardato con sospetto e di solito dopo un po’ smette.

I pedoni camminano sul marciapiede e sulla pista ciclabile senza notare alcuna differenza. È difficile capire se lo facciano per rappresaglia verso i motociclisti invasori o se siano i motociclisti ad aver reagito al comportamento invadente dei camminanti, ma ad oggi sembrano aver trovato una convivenza pacifica in entrambe le corsie: se cammini sulla ciclabile dopo un po’ qualche apino ti arriva dietro e ti suona, ma finisce lì. Sul marciapiede una volta sono stato investito da un motociclista che guardava il cellulare, ma a parte le mie bestemmie in una lingua a lui sconosciuta non ci sono state conseguenze. D’altronde funziona così dappertutto, vai piano e stai attento, perché chiunque all’improvviso potrebbe tagliarti la strada.

Anche agli incroci, naturalmente, è il caos. Tranne quelli sui viali più trafficati, dove degli addetti in divisa regolano gli attraversamenti di pedoni e mezzi a due ruote grazie a bassi cancelletti che si aprono a fisarmonica e ai loro modi bruschi, in tutti gli altri casi fai un po’ come ti pare. Se sei un pedone puoi finalmente avere la tua rivincita, aspettando che scatti di nuovo il rosso per attraversare in tutta calma: una volta ho provato l’ebbrezza di fermare un taxi che stava ripartendo mettendogli una mano sul cofano.

La mia fidanzata mi ha spiegato che nessun automobilista è sceso a picchiarmi solo perché in quanto straniero godo di quella strana immunità figlia dell’ignoranza linguistica e di una specie di imbarazzo, ma se fossi stato cinese sarebbe scorso il sangue. Le ho risposto che ho deciso di attraversare dopo aver visto buttarsi in strada un uomo che ne spingeva un altro su una sedia a rotelle.

“Stava cercando di farlo investire! I portatori di handicap sono un peso per la società!”

Il mio giro in bici attraverso la città è stato interessante, lungo, e mi ha permesso di scoprire quartieri che non conoscevo, come Sanlitun, dove i palazzi moderni ospitano un sacco di negozi e ristoranti esattamente come i palazzi più vecchi e come grossomodo la maggior parte delle aree cittadine, ma sono parecchio più fighi; sono passato per il quartiere residenziale delle ambasciate, dove davanti a ogni villetta c’è una guardia armata e un cancello corazzato; ho scoperto come si vive dietro i viali, con le ruspe che tirano giù palazzine per ricostruire edifici stilosi, e persone che escono in ciabatte per comprare la verdura sotto casa; mi sono bullato ai semafori coi ciclisti cinesi, che arrancavano sulle loro bici a noleggio per attraversare l’incrocio, mentre io in due pedalate ero fuori dalla loro vista; ho scoperto che d’estate, sotto ogni ombrellone aperto in strada c’è qualcuno che ti vende bibite fresche, che le guardie al Soho Galaxy indossano una pettorina con scritto “Secuity” perché l’inglese in Cina lo parlano davvero in pochissimi, che certe volte per attraversare un viale particolarmente trafficato ti conviene caricarti la bici in spalla e prendere la passerella sopraelevata, che in giro per la città ci sono certi palazzi costruiti in quello stile austero e pesante della Russia brutalista che mi fanno venire voglia di vedere tutto, fotografare tutto, e poi organizzare un viaggio in Russia e poi comprarmi l’orologio a cucù più figo del mondo.

Quando torno a casa ho giusto il tempo di fare una doccia e raggiungere Shasha fuori dall’hotel, che andiamo a cena da Din Tai Fung a mangiare gli xiao long bao più buoni del mondo.

Sabato 4 agosto

Con enorme sprezzo del pericolo sono riuscito a importare illegalmente un pezzo di pecorino sardo stagionato, con cui ho in mente di produrre un ordigno rudimentale in grado di sconquassare la routine gastronomica di casa. Per completare la ricetta ho bisogno di altri due ingredienti, basilico e pinoli, e nei supermercati che ho visitato non ce n’è traccia. Il parmigiano se l’è portato Shasha dall’ultimo viaggio in Italia, è un po’ asciutto, ma lo faremo andar bene.

La complice delle mie diavolerie gastronomiche dice che c’è un posto dalle parti di Sanlitun, un grosso mercato di verdura fresca. È un po’ lontano, ma dovremmo trovare tutto quello che ci occorre, così sfidiamo il gran caldo e andiamo a prendere l’autobus.

Non ero mai salito su un autobus pechinese, in genere mi sposto in metropolitana perché è più facile pianificare l’itinerario, essendo le mappe bilingue. Leggere un cartello alla fermata del bus è come trovarsi di fronte una tavoletta in caratteri cuneiformi, o conosci il cinese o non c’è verso.

Lungo tutto il percorso mi comporto come un bambino noioso con la mamma, punto il dito su ogni edificio dalla forma inconsueta e chiedo a Shasha cosa c’è dentro. Considerato che a Pechino un palazzo su tre sembra un’astronave o un quadro di Escher faccio prestissimo a esaurire la pazienza della mia accompagnatrice, e di lì in poi sono costretto a tirare a indovinare. Grazie alla mia fervida immaginazione sono quasi sicuro di avere superato lungo la via: una chiesa raeliana con annesso ristorante sul campanile, un acquario con vasca sulla facciata dove nuotano le balene, la sede del Movimento Clandestino Per La Liberazione Delle Peonie, la villa dove abita il famoso miliardario cinese Hans Delbruck Chan, una pizzeria.

Giunti a destinazione iniziamo a vagare lungo il marciapiede per trovare il posto, che non è segnato da nessun cartello. Proviamo a seguire la puzza di verdura marcia, ci infiliamo in un vicolo e superiamo una parata di bidoni maleodoranti, scavalchiamo una pozza di liquame e capiamo di averlo trovato, e di essere entrati dall’ingresso delle merci.
Dentro è come ti aspetteresti di trovare un mercato, solo molto più grosso. Ci sono decine di banchi di pesce ricolmi di creature gigantesche, pezzi di animali sconosciuti, robe viscide di cui finora avevo solo letto in qualche racconto di Lovecraft, stomaci grandi come bagagliai ricolmi di mani e piedi e frammenti di arpione. Inutile dire che comprerei tutto e mi viene immediatamente una voglia pazzesca di sushi.
Dopo il pesce la carne, e quella non mi ha stupito più di tanto, insomma, una volta macellata qualsiasi bestia perde parecchio del proprio fascino. Comunque ce n’è tanta, e molto grossa.
Dopo la carne entriamo nella giungla della verdura. I colori sono vividi e ti colpiscono in faccia, le zucchine sono grosse come estintori, la frutta sembra tutta finta per quanto è perfetta e lucida. Penso subito agli ogm, è il mio pregiudizio sulla Cina, per me un paese che non rispetta i diritti umani commette tutte le cattiverie immaginabili, compreso raccontarti il finale delle serie tv. In realtà, pur essendo all’avanguardia nella ricerca in quel campo la popolazione cinese guarda con diffidenza alle colture geneticamente modificate, e il suo utilizzo è ad oggi molto limitato. Inoltre la Cina orientale è uno dei territori più fertili del mondo, e garantisce fino a due raccolti di riso all’anno, quindi magari non ha bisogno di additivi chimici per produrre zucchine grosse come la mia minchia coscia.

Compriamo del basilico, anche lui purtroppo vittima dello stesso gigantismo, e un po’ di pinoli. La signora al banco intuisce i nostri piani e ci offre un barattolo di pesto già pronto, ma se devi comprare del pesto industriale è bene sapere che ne esistono di due tipi: uno è quello prodotto da Novella, a Sori; l’altro è quello da non comprare.

Vi prego di notare le dimensioni delle carote

Andiamo a pranzo in una birreria di vecchia conoscenza, Great Leap Brewing, e ci sfondiamo di hamburger.
La prima volta eravamo stati in un piccolo locale nascosto in un hutong, dove non servivano cibo. Qui fanno anche dell’ottima carne, e l’ambiente è più spartano.
La cosa migliore di questa catena di bar è la grafica di magliette e sottobicchieri, ispirata alla propaganda russa degli anni ’20.
Anche il nome è di chiara ispirazione politica, ma l’ho scoperto solo di recente, documentandomi sul governo di Mao mentre scrivevo questo diario.

La mia birreria preferita fuori dall’Italia

A proposito, per scrivere questi post mi sono affidato molto alle mie impressioni e ho cercato di colmare le mie lacune leggendo in giro per la rete, ma ci sono grosse probabilità che abbia scritto anche un mucchio di cazzate. Se ritenete che ci siano delle inesattezze, o volete aggiungere qualcosa di vostro scrivetemi, sarò felice di correggere gli errori e imparare qualcosa.

Già che siamo in giro ci dedichiamo a un po’ di shopping sfaccendato dentro qualche centro commerciale, e in pratica con una cinquantina di euri mi rifaccio il guardaroba.

Trovo anche un bellissimo modello del Millennium Falcon coi mattoncini uguali identici ai Lego, ma falsi. Oddio, l’azienda che li produce si chiama Lepin e ha pure un sito e vende in tutto il mondo, perciò se sono falsi sono falsi ufficiali, ma quando vedi la linea dedicata a Star Wnrs non puoi che inchinarti alla sfacciataggine.

Bisognerebbe dedicare un articolo ai bellissimi falsi cinesi

Il nostro sabato di relax si conclude da Genki Sushi a Chongwenmen, non lontano da casa. Sul trenino dell’orso mangione scorrono diverse qualità di cibo indicate dal colore del piattino, un menu davanti al tavolo ti mostra tutti i prezzi. Una piccola spillatrice di acqua calda ti permette di riempirti il bicchiere, che puoi trasformare in tè macha con la polverina verde a disposizione sul tavolo.

 

Domenica 5 agosto

Ci si alza presto e si raggiunge l’hotel, dove siamo attesi da un paio di colleghe di Shasha e un minivan con autista per andare a Mutianyu, una settantina di chilometri a nord di Pechino, a vedere un pezzo della Grande Muraglia.

Quello di Mutianyu non è il tratto più visitato di quest’opera architettonica che sta tra il vabbè e il cioè-ma-ci-rendiamo-conto-di-cos’hanno-costruito, alla stessa distanza dal centro di Pechino sorge il complesso di Badaling, molto più conosciuto e affollato. Siccome stare in coda è brutto, ma starci schiacciati su un muretto in salita in cima a un monte è pure peggio, l’idea di andare a Badaling non ci sfiora neanche per sbaglio. 

L’ingresso dell’area di Mutianyu

Non che qui non ci sia nessuno, all’arrivo il piazzale è pieno di pullman e gente in coda per fare il biglietto, e una volta raggiunta l’area da cui si diramano i sentieri e parte la seggiovia devi attraversare una distesa di negozietti di magliette e collanine e ti scrivo il nome e magneti e burger king, ma almeno sulle mura sei relativamente libero di muoverti e fare qualche foto decente.

Se uno vuole davvero godersi la Muraglia da solo hahahahaha! Ma sei serio? Da solo? In Cina? Hahahahaha! Comunque, se uno volesse visitare delle aree meno affollate dovrebbe allontanarsi di più dalla città, verso est: Jiankou, Gubeikou, Simatai e Jinshanling sono più difficili da raggiungere, offrono meno servizi e mantengono ancora l’aspetto originario. La più lontana dista due ore e mezza di macchina dalla città, niente di impossibile, ed è considerata la migliore.

Mutianyu è la scelta migliore fra quelle più facili, diciamo. Arrivi in cima e hai un percorso in entrambe le direzioni che si snoda lungo la cresta del monte: noi siamo andati a destra, ma ho scoperto dopo che a sinistra è meglio, più autentico, dicono. Non so cosa ci sia di autentico in una struttura ricostruita completamente nel 1986, ma quel che vedi è una copia esatta di quel che c’era prima, quindi fidati, è meglio a sinistra. Va detto che alla fine del percorso di destra arrivi a una torre, tipo la quarta da dove sei partito, da cui non si può proseguire perché il resto della costruzione non è stato restaurato. Da una delle finestre riesci a vedere davanti a te la sezione originale, ed è identica a quella su cui ti trovi tu, ma coperta di erbacce.

La parte non restaurata sarebbe proibita al pubblico, ma se ti ci avventuri nessuno viene a fermarti.

La sezione di Muraglia che si sviluppa sulla sinistra dal punto di partenza comprende la sciocchezza di 23 torri: intuisco che a incamminarsi in quella direzione si può andare avanti fino alla completa perdita delle forze, svenimento, attesa dei soccorsi che ne hanno per le balle di farsi tutta quella strada per recuperare un turista cretino, e morte lenta ma felice sui gradini, osservando un panorama unico al mondo.

Perché, diciamocelo, la Grande Muraglia è soprattutto un grande sbattimento: certe scalinate sono quasi verticali, coi gradini alti e senza niente a cui appoggiarti, e se ci vai ad agosto come ho fatto io devi anche tenere conto del caldo feroce.

Però ne vale la pena: una biscia di pietra si allunga sui monti fin dove riesci a vedere, ti senti all’interno di una qualche saga epica. Se poi sei quel tipo di persona là è un attimo immaginarsi le armate di Saruman che tengono sotto assedio il Fosso di Helm. Mi sono voltato verso la mia fidanzata e, nel tono più enfatico possibile, le ho detto “Cavalca con me”.
Lei ha capito un’altra cosa e mi ha tirato le mutande.

Il lato che va avanti per sempre. Un turista tedesco in forma ha iniziato a camminare in quella direzione ed è arrivato a Busalla.

Oltre che per essere il più lungo pezzo di Muraglia restaurato, la sezione di Mutianyu si distingue dalle altre anche per il fatto che i suoi parapetti sono merlati, cosa che obbligava i soldati che si occupavano della sua manutenzione a pulire mooolti più angoli. Oggi questo compito è affidato ad alcuni inservienti piuttosto anziani, che se la percorrono tutta avanti e indietro con la scopa e la paletta.

Quando arrivi al punto che le tue ginocchia ti fanno scrivere dal loro avvocato è il momento di decidere come scendere a valle:
farla a piedi a quel punto o sei Messner o sei scemo, quindi la scelta rimane fra la seggiovia dell’andata o un emozionante toboga. È un lunghissimo scivolo in metallo che affronti seduto su uno slittino di plastica dotato di un’unica leva: se la spingi avanti sollevi i freni e lo slittino prende velocità. Quanto possa andare veloce non lo so, perché essendo lo scivolo sempre molto affollato si è rivelata una lunga processione di slittini che andavano pianissimo, ma trovandomi fra due membri del mio gruppo ho potuto fermarmi ad aspettare chi stava dietro e recuperare in volata la distanza con chi avevo davanti, e ho capito che gli slittini possono raggiungere anche velocità da fratture scomposte.

Lo scivolo visto dalla seggiovia

Il consiglio più importante che mi sento di darvi, se doveste visitare la Grande Muraglia, è di portarvi una maglietta di ricambio. Mi ringrazierete.

Peraltro qui ho provato per la prima volta l’esperienza della celebrità, una cosa che a Pechino succede di rado.

Ero seduto su un muretto nel piazzale degli autobus, in attesa che i miei compagni di viaggio tornassero coi biglietti, e una famiglia mi si è avvicinata chiedendomi di fare una foto con loro. Erano cinesi di qualche posto in cui i turisti stranieri non si avventurano, e non avevano mai visto un occidentale. Sono stato immortalato con tutti i parenti, dal nonno ai nipoti.

Probabilmente se avessi chiesto dei soldi in cambio me li avrebbero dati volentieri.

Siamo tornati a Pechino e abbiamo pranzato tardi al ristorante Jin Ding Xuan, vicino a Lama Temple dov’ero già stato con Shasha a Natale: si mangia cucina cantonese, ma io non ho mica ancora capito la differenza, per me i ristoranti asiatici si dividono in Quelli che cucinano il sushi e Quelli che cucinano piatti diversi dal sushi. Ho ancora moltissimo da imparare.

Comunque qui puoi provare il dim sum, o diǎnxin, come lo chiamano fuori da Hong Kong: in pratica sono piccole porzioni di molti cibi diversi, perlopiù cucinati al vapore. Non so cosa intendano i cinesi per piccole porzioni, io in tutti i posti dove sono stato ho avuto la tavola piena di piattini carichi di roba, lì come altrove.

La cucina cinese è un po’ tutta uguale

E insomma, ci risiamo. A sette mesi di distanza dall’altra volta sono ritornato in Cina, a casa della mia, sempre più seriamente, fidanzata.
“Quindi le cose fra voi vanno bene”, mi direte. Sì, ma le conclusioni si fanno alla fine, e qui siamo all’inizio, quando sono entrato all’aeroporto di Orio al Serio a un’ora indecente della notte e ho affrontato un’altra volta la massa di profughi in attesa dell’imbarco.

Due parole sui post che seguono: questa volta ho scritto tutto e, avendo già diviso il racconto in giorni, non finirà come al solito che inizio a scrivere e alla terza puntata mi rompo le balle perché sono già passati sei mesi e mi sono messo a fare altro.
Però devo ancora allegare le foto del viaggio, quindi magari mi rompo le balle di editare i post e smetto lo stesso, chi lo sa. 
Se tutto andrà secondo i piani dovrebbero essere 12 episodi non troppo lunghi, ma non contateci troppo.

Per il momento inizio, è Giovedì 2 agosto, siamo all’Aeroporto di Orio al Serio. No, campo profughi di Orio al Serio. Esattamente come l’altra volta, ma con persone diverse.

Sapendo già cosa mi aspetta mi impadronisco della prima sedia libera e mi accampo. Poi chiedo a una signora accanto a me di darmi un’occhiata alla valigia e vado a vedere se i cubicoli giapponesi dove ti fanno dormire, che ho scoperto troppo tardi la volta precedente, sono liberi. Leggo che costano 9€ l’ora, e sono tutti occupati.

La signora a cui ho chiesto di guardarmi la valigia è ucraina, sta tornando a casa in aereo per la prima volta e non sa come si fa. Si vede che a Bergamo ci è venuta in bici. Non parla molto, ma non mi molla fino all’imbarco; la aiuto a portare una borsa che da quanto pesa dev’essere piena di sassi, lei mi aiuta a saltare la fila prendendo a gomitate chi ci precede. In fondo è uno scambio vantaggioso.

Il lottatore ucraino con cui ho condiviso l’attesa dell’imbarco

In aereo provo a dormire col nuovo cuscino da viaggio comprato apposta dopo un’attenta valutazione delle offerte sul sito cuscinidaviaggiochenontifarannopentiredellacquisto.it, che a sorpresa fa cagare come tutti i cuscini da viaggio. Vengo comunque svegliato a un’ora dall’atterraggio da una voce metallica che dice “biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette, biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantasette.. biribiribiribì biribiribiribì ora sono le undici e cinquantotto..”.

È la suoneria di qualcuno seduto davanti, che evidentemente sta dormendo coi tappi nelle orecchie e non sente. Sente tutto il resto dell’aereo, e spera che qualcuno la spenga, ma non succede, e il supplizio va avanti fino alle biribiribiribì e venticinque, quando l’omone seduto accanto a me chiama la hostess e le fa capire che se non trova subito il responsabile strappa un’ala dell’aereo a morsi e la usa per farle un’endoscopia. Glielo dice in russo, non ci sono prove che siano state queste esatte parole, ma neanche prove contro. In ogni caso funziona, la hostess individua il tizio seduto due file più avanti e lo fa scendere dal velivolo. Sì, in volo. È per questo che i biglietti della Ukrainian Airlines sono così convenienti e le recensioni su tripadvisor tutte negative.

A Kiev so già come funziona, faccio la coda per i passeggeri in transito e vado a mangiare da Ararat, il ristorante appena oltre le scale, dove l’attesa al tavolo è eterna, ma il cibo è decente. Insieme a me uno ordina un cognac e una coca cola. Qui sono le nove di mattina.

Mangio due ravioli due col bacon e la cipolla e me ne vado, sopraffatto dallo scazzo della cameriera. Anche l’altra volta la cameriera mi ha fatto venire voglia di morire, si vede che in quel ristorante le prendono così per scoraggiare quelli che tengono il tavolo occupato senza ordinare.

Visto che ho tempo decido di rischiare il ristorante “Spirito di Italiano”, che sa di posto davvero genuino. Bisogna sempre trovare nuovi modi di farsi male, ma la ciabatta Enzo E Lorenzo è pesante abbastanza da narcotizzarmi per qualche ora e farmi passare meglio il viaggio fino in Cina.

Se dovessi perdere il lavoro ho già trovato un’alternativa all’estero all’altezza delle mie capacità

Venerdì 3 agosto

Pechino. Al terminal 2 pubblicizzano un nuovo washlet, che per quelli pratici dell’igiene intima sarebbe il gabinetto con bidè incorporato. Oltre quello mi aspetta l’interminabile coda alla dogana, che però stavolta non c’è. Dal mio viaggio precedente è stata tutta sostituita con un sistema elettronico di lettura delle impronte digitali, consegna di un bigliettino che ti manda a uno sportello dove un poliziotto ti guarda il passaporto, ti fa lo scanner facciale, ti ripiglia le impronte, casomai avessi cambiato identità in bagno, ti sorride e ti manda via. Cinque minuti in tutto.

Shasha mi aspetta fuori, con un sorriso che mi farebbe passare la fatica anche se fossi arrivato in Cina a piedi. Andiamo a prendere la macchina e torniamo a casa, è l’una passata.

Appena apro la portiera vengo assalito da una folla di parrucchieri che mi circondano puntandomi addosso i loro phon, o almeno questa è l’impressione che ricavo dalla calura pazzesca che copre la città. Il pensiero “come farò a sopravvivere?” mi occupa tutta la testa, e neanche mi rendo conto che nel viaggio mi sono caduti dalle tasche sia il telefono che il portafoglio con dentro un sacco di quattrini. Me ne accorgo solo più tardi, in casa, e naturalmente vado nel panico: tutti i documenti, cinquecento euri in contanti, la carta di credito, il bancomat stanno viaggiando nella notte pechinese sul sedile posteriore di uno sconosciuto. Se fossimo in Italia potrei già immaginarlo completamente ubriaco mentre cerca di comprarsi una mercedes con la mia carta di credito, ma in Cina gli autisti di Didi (滴滴) sono più onesti dei tassisti, e questo, una volta richiamato, ci garantisce che tornerà a riconsegnare la mia roba, basta che gli paghiamo la corsa. Dobbiamo stare svegli un’altra ora e mezza prima di risolvere questa cazzata, e a  quel punto finalmente possiamo andare a dormire. Sono quasi le quattro.

Shasha si alza tipo dieci minuti più tardi e va al lavoro, io mi sveglio a mezzogiorno sereno e riposato come uno al primo giorno di ferie, mi vesto con la calma di chi ha davanti tutto il giorno e faccio amicizia col suo nuovo inquilino: Eyup se n’è andato, adesso la stanza è in affitto su Airbnb, e quando arrivo c’è uno spilungone francese di nome Adrian. Ha i baffi, non ama la cucina cinese e mangia un sacco di marmellata. Dice che resterà per una decina di giorni.

Ciao, sono a Pechino e sono vivo nonostante abbia viaggiato con Ukrainian Airlines!

Superate le cordialità di rito esco per andare all’hotel di Shasha, col passo tranquillo di chi conosce bene la strada e sta attento a non fare il minimo sforzo per non ritrovarsi fradicio di sudore al terzo passo: l’umidità è al 91% da queste parti.

Vado a fare colazione da Starbucks, più per il wifi gratuito che per una reale passione per i prodotti offerti, e comunque il cappuccino non è male, solo che te lo servono nel bicchiere e lo devi bere dal foro del coperchio. Pagano tutti col telefono tramite una delle varie applicazioni disponibili collegate al proprio conto corrente, da Alipay, che è nata proprio per questo, a WeChat, che è come se io pagassi con WhatsApp. Nessuna di queste opzioni si può collegare a un conto corrente estero, quindi per me solo la vecchia tradizione dei contanti e delle carte. Sarà per questo che la commessa mi rivolge il suo sguardo più ostile mentre mi dà il resto?

Quando la mia fidanzata mi raggiunge andiamo a mettere una spunta sul primo dei miei buoni propositi cinesi: comprarmi un telefono.

Prima di partire mi sono informato sui modelli e le differenze di prezzo fra qui e là, e mi sono presentato in un negozio superfigo tipo Apple Store ma cinese con un’idea ben chiara, poi Shasha e il negoziante si sono parlati in quella lingua che ignoro, e lei mi ha tradotto “è appena uscito questo modello qui, perché non te lo prendi? È migliore di quello che volevi tu, e costa svariati soldi”. Provo a confrontare il prezzo con quello del mercato italiano, e scopro che in Italia quel telefono lì neanche lo vendono, però sembra un buon modello, e andrei a spendere più o meno lo stesso di quel che avevo in mente. Va bene dai, fammi pagare.

Solo che il negozio tirato a lucido del centro commerciale non è abilitato ai pagamenti con carta di credito, e il commesso ci chiede di seguirlo fuori, nel sottoscala di un altro edificio molto meno figo, pieno di persone sudate in attesa di sottoscrivere contratti e piccoli banchetti dove sudati rivenditori delle diverse marche di telefonia cinese espongono i loro prodotti in modo parecchio meno fashion. Qui una signora vestita male seduta in mezzo a scatole vuote passa la mia carta di credito su un pos del secolo scorso, mi restituisce uno scontrino lungo mezzo metro e siamo liberi di andarcene. Da notare che in tutta questa operazione il telefono nuovo è sempre stato nel suo sacchetto, che tenevo io. Se fossimo scappati fra la folla non ci avrebbero beccati mai più.

Boh però mi avrebbero rintracciato tramite il telefono, eh, giusto.

Restiamo in zona Oriental Mall per la cena, in uno dei mille ristoranti al piano interrato. Questa volta hot pot, si comincia subito benissimo.

Quelle striscioline appese a sinistra sono budella di anatra, e sono buonissime

Dovevo venire in Cina per scoprire che besugo è la traduzione genovese di un pesce che in inglese si chiama besugo

Titolo scarso, eh? Pensate che la prima idea è stata “la Cina in cucina”, poi mi sono vergognato.

I cinesi quando si incontrano non si dicono ciao, si chiedono “Nǐ chī le ma?”, che vuol dire “Hai già mangiato?”, e io a un popolo che prima ancora di chiederti come stai ti offre da mangiare non posso che volere un sacco di bene.

A Pechino trovi da mangiare dappertutto più o meno a qualunque ora, i baretti e i ristoranti chiudono tardi, ovunque ti giri c’è un chiosco che cucina roba.

A Wangfujing c’è una strada chiamata Dashamao Hutong che sulle guide viene chiamata “The snack street”. Ci trovi solo bancarelle che vendono spiedini di qualsiasi cosa. I cinesi infilzano ogni specie animale o vegetale, puoi comprare fragole caramellate, calamari grigliati, pezzi di carne la cui origine resterebbe ignota anche alla polizia scientifica, e gli scorpioni.

In effetti tutti parlano di questo vicolo perché è l’unico posto in tutta Pechino in cui puoi trovare gli scorpioni grigliati. Perlomeno l’unico di cui si parla.

L’entomofagia è la pratica di mangiare gli insetti, ma i ragni non sono insetti, quindi si dovrebbe parlare di entomo- e aracnofagia, ma è anche vero che non ha senso cercare un pelo in un piatto pieno di zampette. Questo regime alimentare è diffuso in gran parte del mondo, ma non da noi, che pertanto ci prendiamo la briga di schifarci se a un pranzo di lavoro ci mettono davanti un piatto pieno di larve grosse come mandarini. È successo a una mia amica in una città della Cina in cui si trovava ospite, ed è la sola ragione per cui accetto che i cinesi, davvero, si mangino i bagoni.

Nei dieci giorni di permanenza in Cina non ho mai trovato nessun altro posto al di fuori del vicoletto di Wangfujing, e anche lì i due banchi presenti erano del tutto snobbati dalla seppur numerosa clientela. Inoltre i cinesi che conosco io si farebbero investire da un’auto piuttosto che infilarsi in bocca un millepiedi.

Ma com’è il cibo cinese? È buono? Ero partito prevenuto, abituato al cibo meno che mediocre servito nei ristoranti genovesi, dove fra un all you can eat e un sushi bar (che è come se un ristorante francese facesse la pasta al pesto) ti tocca accontentarti di una quindicina di piatti ibridi, sempre gli stessi ovunque, cucinati peraltro in maniera dozzinale.

Ecco, la cucina cinese originale non è molto diversa, nella sostanza: un sacco di zuppe, con o senza spaghetti dentro (spaghetti di riso o di soia, quelli di grano che mangiamo noi non li usano), diversi tipi di stufato e padellate di verdura, o carne, o entrambe. La cucina al forno non la considerano, non usano la farina di granturco né i derivati del latte come burro e formaggio. Il pane è diffuso, ma come un alimento occidentale, la stessa cosa che succede qui con l’hamburger.

Però, se a cucinarla sono dei cuochi e non dei facchini, la cucina cinese è proprio buona, e il mio primo impatto vero è stato la sera di Natale, quando mi sono seduto al tavolo del prestigioso Made In China.

Che già me lo chiami Made In China e penso che adesso la sedia si rompe e la forchetta è di plastica e il cameriere ha i baffi finti e se guardo dietro la parete di bottiglie preziose scopro che c’è solo una trave a tenerla in piedi e separarla dall’officina allestita dietro, tipo set cinematografico. Made in China, ma dai!

Il tavolo è in un angolo appartato, le luci sono soffuse e il cameriere non ha i baffi. Provo a spingere una parete e non si muove niente, tiro i capelli al tizio seduto al tavolo accanto e sembrano veri anche quelli. Guardo sotto al tavolo, sopra gli scaffali, tiro giù sei o sette bottiglie per cercare telecamere nascoste, non trovo niente. Mi sa che è un ristorante vero.

Allora ordiniamo. Cioè, Shasha ordina, io non so neanche dire buonasera.

Spinaci con crema di senape e semi di sesamo e melanzane al vapore. E io sarei a posto così, ma in quel ristorante sono famosi per l’anatra alla pechinese, il cui nome lascia intuire che non sia il caso di mangiarla in un’altra città.

l’anatra alla pechinese è quella nel piatto

L’anatra alla pechinese è un piatto che risale all’impero Yuan, che sono quelli venuti prima dei Ming, che erano interpretati da Max Von Sydow e amavano to play with things a while before annihilation. Stiamo parlando della fine del 13° secolo, metà del 14°, anche se la sua vera fortuna risale al tardo impero Ming, grossomodo quando Colombo stava in mezzo all’Atlantico cercando di convincere il suo equipaggio che una volta arrivati nel Catai ci sarebbe stato papero arrosto per tutti. Poi è andata a finire come sappiamo, ma intanto a Pechino la corte si godeva questo piatto raffinato, diventato così celebre che neanche trent’anni più tardi apriva il primo ristorante specializzato, Bianyifang. C’è un ristorante in città che porta lo stesso nome: non è proprio lo stesso ristorante, ma è parente, risale alla metà dell’800, ed è comunque il più antico ristorante cittadino.

Noi però avevamo lo sconto al Made In China.

Come si mangia l’anatra alla pechinese?

I cinesi a tavola stanno molto attenti all’igiene, al punto di bere acqua calda perché quella fredda fa male, perciò non vedono di buon occhio infilarsi il cibo in bocca con le mani. Se a casa ognuno è libero di fare come gli pare l’etichetta richiede che qualsiasi pietanza venga consumata aiutandosi con le bacchette o il cucchiaio. Sì, anche gli involtini primavera, e se li mangiate con le mani sappiate che dalla cucina vi stanno guardando come degli zozzoni. È per questo che ogni pietanza nella cucina cinese viene servita già tagliata in bocconcini, compreso il pesce e il pollame.

Scordatevi la coscetta strappata via e rosicchiata con gusto tenendola per l’osso, il piatto tipico di Pechino viene servito a fette in tre piattini: in uno trovate la carne magra, in uno la pelle arrostita e nell’ultimo la carne più grassa. Insieme alla portata principale il cameriere porta delle piccole sfoglie di pane, tipo crèpes, in cui vanno arrotolati i bocconi di carne. A piacere si può aggiungere della cipolla fresca tagliata a bastoncino e della salsa, che sui tavoli non manca mai.

Come viene preparata non ve lo spiego, e neanche lo voglio sapere: una cosa che ho capito della cucina cinese è che dietro quella porta succedono cose che mi farebbero passare l’appetito, a prescindere da quanto sia buono il risultato.

La cena di Natale è stata il momento più elegante dei miei pasti cinesi, ma se devo dire la verità non la più soddisfacente. Non tanto per la qualità del cibo, credo che il Made In China sia il posto migliore in cui mi sono seduto (di sicuro il più caro), quanto per il menu. Perché l’anatra è buona, ma preferisco il pollo. Forse è una questione psicologica, se invece che con Carl Barks fossi cresciuto con Doug Savage i miei sentimenti verso i pennuti sarebbero ripartiti diversamente. A parte che sarei molto molto più giovane.

A Pechino comunque non c’è solo l’anatra, neanche impegnandosi si corre il rischio di morire di fame, neanche se sei vegano, fruttariano, pisquano o adepto di qualche altra aberrazione alimentare. Per dire, volendo potresti nutrirti di cibo italiano ogni giorno senza sederti mai due volte nello stesso ristorante. Per dire, eh? Io per esempio non ci ho neanche mai provato, non mi piace la cucina cinese in Italia, figurati se provo quella italiana in Cina. Metti che mi portano la pasta col cappuccino e non sanno fare bene né la prima né il secondo.

Però ho mangiato in un giapponese straordinario, impraticabile qui a casa, come ho già spiegato più sopra, e in un coreano, novità assoluta per un provinciale come me. Il pollo fritto gangnam style è entrato di prepotenza fra i miei piatti preferiti.

You House, il giapponese spettacolare nell’hutong Wudaoying

Ho fatto anche una colazione vietnamita, ma sulle colazioni gli asiatici hanno tutti qualche problema. D’altronde se non usi burro e zucchero che colazione puoi preparare? Per fortuna, a volersene servire, la capitale è piena di bar in stile occidentale che ti preparano caffè e brioche. Il caffè espresso ormai si trova dappertutto ed è generalmente bevibile, tranne da Starbucks, ma loro sono malvagi e ci odiano, e lo fanno cattivo per dispetto. In un bar di Shanghai ne ho bevuto uno buono, ma così forte che non ho dormito tre giorni. E per prepararlo ci hanno messo un quarto d’ora, giuro, un quarto d’ora per una tazzina di espresso lavorandoci in due. Sembrava che stessero maneggiando una bomba. Il cliente cinese non ha fretta, si prende la tazzina, se la porta al tavolino e la sorseggia come faremmo noi con un bicchiere di vino rosso.

Io e le colazioni non ci siamo trovati in sintonia, devo ammetterlo. La mia testardaggine a non voler mangiare italiano mi ha tenuto lontano dalle sponde sicure; la tipica colazione pechinese a base di jianbing, una frittella arrotolata in un’altra frittella più unta, mi ha reso facile passare direttamente al pranzo senza allontanarmi troppo dai canoni. La cosa più simile alla nostra è la colazione del sud, di cui la mia ragazza è portabandiera, e che comprende gli youtiao: delle frittellone a bastoncino da inzuppare nel latte di soia. Molto vicino alla focaccia nel latte dei nostri nonni (vabbè, nonni..).

Sennò, se siete coraggiosi potete provare il douzhi, succo di fagioli fermentati. Chi l’ha provato dice che odora un po’ di uovo, quindi immagino sia come bere peti.

È passato un po’ di tempo dal mio viaggio in Cina, e buona parte di esso l’ho trascorsa a cercare nella mia città ristoranti che mi offrissero la stessa qualità trovata a Pechino. Che non vuol dire che a Pechino si mangia sempre e solo bene, fuori dal Tempio del Cielo ho mangiato in una bettola infame, e ho mangiato malissimo. L’unica ragione per cui ne conservo un ricordo positivo è che l’ho trovata da solo, sono entrato, ho ordinato e pagato. Non era difficile, parlavano inglese, e come gli inglesi facevano da mangiare: il peggior pasto in dieci giorni di permanenza.

mangiar male a Pechino si può eccome

Ma il resto è stato squisito, e nei tre giorni passati a Shanghai ho scoperto che la cucina del Sud è anche meglio. Ma di quella preferisco parlare in un altro capitolo, se mi venisse voglia di scriverlo.

(magari continua)

Piazza Tien An Men, che poi sarebbe Tiān’ānmén, che poi non sarebbe neanche il nome della piazza, ma dell’edificio che su di essa si affaccia e costituisce l’ingresso principale alla Città Proibita, è stata la piazza più grande del mondo finché non ho scoperto che ne esistono altre sei molto più grandi di cui cui ignoravo l’esistenza, ma resta una piazza molto più importante di quelle sei piazze puzzone capaci solo di allargarsi a dismisura per due ragioni storiche.

Fu qui, infatti, che il 1° ottobre 1949, Máo Zédōng si affacciò alla terrazza, e come tutti i leader che si affacciano alla terrazza diede il via a un radicale cambio di gestione: via il Guómíndǎng e la sua cricca, che si rifugiò a Taiwan da dove proclamò la Vera Repubblica Cinese Di Cui Non Frega Un Cazzo A Nessuno, dentro il Partito Comunista Cinese e la sua cricca, che da allora trattano il Paese come una cosa loro esattamente quanto quelli di prima e di prima ancora e su e su fino all’Imperatore Giallo, padre di tutto il popolo cinese.

i parrucchieri cinesi sono persone davvero bizzarre (foto wikipedia)

Mao in cinese vuol dire gatto, e quando mai si è visto un gatto fare qualcosa per gli altri?

Poi non è vero, gatto si scrive , mentre il padre della rivoluzione si scrive , che vuol dire capelli, ma il discorso vale lo stesso: avete mai visto dei capelli fare qualcosa per gli altri?

La sua salma mummificata è esposta in un edificio al centro della piazza dove non mi hanno lasciato entrare perché, in quanto blogstar internazionale, sapevano delle mie posizioni critiche verso il governo cinese, e se credete alla versione ufficiale per cui ho tentato di entrare con lo zaino, proibito dal regolamento, siete dei gonzi.

Comunque ho visto le foto, non è niente che trent’anni di chirurgia estetica sulla faccia di Berlusconi non ci abbiano già mostrato.

Del secondo episodio importante avvenuto in piazza Tiān’ānmén ho già accennato: nell’aprile del 1989, in seguito alla morte del segretario generale di partito Hu Yaobang, considerato un riformatore, gli studenti accusarono l’ex leader Deng Xiaoping di averlo deposto perché contrario alla sua politica dittatoriale, e scesero in piazza per chiedere più libertà di informazione. Nello stesso periodo, in Unione Sovietica, Gorbaciov stava dando il via a quel processo che di lì a pochissimo avrebbe fatto svanire la Cortina di Ferro. Anche gli studenti di Pechino volevano essere parte di quella rivoluzione, e con loro anche alcuni membri del Partito. Hu Yaobang era stato uno di quelli, e da Segretario Generale aveva avviato un processo di modernizzazione del Paese che comprendeva più diritti per i suoi cittadini. Nel 1987 Deng Xiaoping, che pur non ricoprendo cariche centrali restava di fatto il padrone di casa, lo destituì fra molte polemiche, lasciando chiaramente intendere che lui con le riforme tutte le mattine dopo colazione, specie se stampate su carta non troppo spessa. Alla morte dell’ex Segretario Generale non si ebbe alcuna riabilitazione da parte del Partito, e questo, oltre a un generale malcontento, suscitò la protesta degli studenti, che presero a radunarsi in piazza Tien An Men davanti al palazzo governativo, pretendendo democrazia. Le proteste si estesero in tutta la Cina, si ebbero degli scontri, che aizzarono ancora di più i manifestanti e ne fecero aumentare il numero. Durante la visita del premier sovietico la piazza era assediata al punto che la delegazione dovette entrare nel palazzo del governo da un ingresso laterale. Il 19 maggio il vertice del Partito Comunista Cinese si riunì per imporre la legge marziale in città. Prima di allora una sospensione delle garanzie costituzionali e il divieto di raduni pubblici erano stati imposti un mese prima a Lhasa, in Tibet, in seguito a disordini che provocarono la morte di numerosi manifestanti.

qui è dove a Deng ha iniziato a stringere il culo (foto Getty)

Una misura estrema non viene mai praticata nella storia di uno Stato e poi due volte di fila in un mese, di cui una nel centro della capitale. Qualcosa stava decisamente scappando di mano.

L’allora segretario generale Zhao Ziyang, appartenente all’ala riformista del Partito, tentò di evitare che la situazione degenerasse, arrivando a incontrarsi con gli studenti e chiedendo loro di andarsene per la loro sicurezza, ma non venne ascoltato.

Era in corso una spaccatura ai vertici, e questa indecisione si rifletteva all’esterno: l’esercito era stato mobilitato, ma non sembrava intenzionato ad agire; stava in periferia, bloccato da più di un milione di cittadini che erano scesi in strada per manifestare il loro sostegno agli studenti in piazza. Pechino, in quei dodici giorni che seguirono la proclamazione della legge marziale, non sembrava più avere un leader.

Alla fine vinsero i falchi. Zhao Ziyang venne condannato agli arresti domiciliari a vita, e con lui tutti i riformisti del partito. Il 3 giugno l’esercito si fece strada con la forza e si presentò in piazza Tien An Men. Il resto lo sapete, ma se dovesse servire un ripasso questa è la testimonianza di uno studente la sera che i carri armati entrarono in piazza.

Per scrivere questo paragrafo mi sono letto un bel po’ di articoli dall’archivio di Repubblica di quei giorni. È un po’ triste notare come tutti i giornalisti di allora vedessero come inevitabile la vittoria della democrazia, magari a lungo termine. A trent’anni da quegli eventi, all’ultimo congresso del Partito, il “pensiero di Xi Jinping”, l’attuale presidente, entra di fatto nella Costituzione. Le sue teorie e i suoi progetti per il futuro sviluppo del Paese sono state inserite nella carta costituzionale come già avvenne per Mao e per Deng Xiaoping (ma per lui l’inserimento avvenne dopo la sua morte). Questo significa, fra le altre cose, che la sua posizione al governo si fa ancora più potente, che opporsi al suo pensiero significa andare contro la Costituzione e quindi contro il Paese, e che nessuno crede davvero che se ne andrà alla fine del suo mandato, come fecero i suoi predecessori, quando questo avverrà nel 2022.

Intanto l’anno scorso l’ultimo cinese a ricevere il Nobel per la Pace è morto in carcere, cosa che non succedeva dai tempi del nazismo.

cambio della guardia

Per entrare in piazza Tien An Men bisogna superare un controllo: c’è un gabbiotto in cui si entra a due per volta, ti controllano i documenti, ti fanno mettere lo zaino sul nastro e ti fanno passare. Quando ci sono arrivato io il giorno di Natale era pomeriggio, faceva molto freddo e iniziava a fare buio. Saremo stati quattro o cinque a superare il controllo, e a me è toccato un tizio giovane con la faccia simpatica che non indossava neanche la divisa. Mi ha chiesto qualcosa in cinese, gli ho risposto in inglese che non capivo, si è messo a ridere e mi ha lasciato passare. Ho notato spesso questa tendenza a liberarsi del problema facendo finta di non vedere, ma anche quando entri in metropolitana e c’è un funzionario con la paletta che dovrebbe perquisirti lo fa in maniera estremamente sommaria, e il suo collega allo scanner dei bagagli spesso dorme.

Verrebbe da chiedersi che senso ha mettere su un sistema di controllo così capillare se poi è solo di facciata, ma anche da noi la sicurezza viene sbandierata soprattutto a destra, e ormai la Cina di comunista ha solo il nome.

Peraltro il gabbiotto in cui avvengono i controlli si trova alla medesima altezza del punto in cui il rivoltoso misterioso fermò la colonna di carri armati, quel giorno là. Fa un casino contrappasso dantesco.

Essendo un luogo molto vicino a dove lavora la mia ragazza, e di conseguenza a quel regno del cibo di cui ho parlato la volta scorsa, la piazza è diventata una meta abituale. Ci sono tornato per visitare il Museo Nazionale, per entrare nella Città Proibita, e sopratutto per farmi i selfie stufi: in pratica mi metto davanti a un punto riconoscibile e mi faccio una foto mentre sbuffo o mi caccio due dita in gola. Manifestare il proprio disappunto in vacanza è sempre un momento di grasse soddisfazioni.

viva la revolución,
più o meno

In piazza Tien An Men c’è poco da scegliere, il punto più interessante è l’oleografia di Mao appesa alla Porta.

Quello che non mi aspettavo era che il mio gesto mi avrebbe fatto diventare una celebrità. I cinesi si fermavano a guardarmi, qualcuno mi indicava agli amici, qualcuno rideva. Diversi mi hanno fatto la foto. Se fra questi ci fosse qualche agente in borghese lo scoprirò quando andrò a richiedere il visto per tornare a Pechino, il prossimo agosto.

Lo so, avrei dovuto aspettarmelo, d’altronde sono una blogstar internazionale che ha preso posizioni durissime contro il governo cinese, e vedermi lì a sbuffare in faccia al simbolo stesso del Partito non poteva che essere interpretato come un gesto di sfida all’ordine costituito.

Li ho sentiti borbottare frasi di stima, chi elogiava la mia audacia, chi l’irriverenza.

“Oh, l’intrepido!”, dicevano. “Oh, il monello!”, “Oh, lanciostory!”. Questi ultimi non ho capito bene a cosa si riferissero, forse è un termine cinese per i dissidenti che hanno un blog su cui ogni tanto postano anche racconti di fantasia.

Il mio gesto di sfida avrebbe avuto un seguito? Sarei stato io la miccia che avrebbe fatto esplodere la nuova Primavera Cinese?

Dopo dieci minuti che non era ancora scoppiato niente mi ha pigliato freddo e me ne sono andato.

Passando nuovamente davanti al gabbiotto del controllo ho ritrovato il tizio di prima, che stava fumando una sigaretta. Mi ha salutato con un cenno della mano.

Un post condiviso da Pablo Renzi (@grugef) in data:


(continua)

Prima di partire mi sono documentato un minimo, ho comprato una Lonely Planet e fatto una lista delle cose che avrei voluto vedere, ma devo ammettere che non ci ho trovato niente di irrinunciabile, l’arte orientale non mi ha mai preso più di tanto. Quello che mi affascinava era la gente, come vive in una città che da sola è grande quasi come il Lazio (16.808 km² contro 17.232), governato da quella che di fatto è una dittatura. Ho letto un po’ di articoli per niente rassicuranti su quartieri demoliti dall’oggi al domani, persone arrestate, inquinamento feroce, temperature polari.

Quando sono arrivato alla fila per il controllo passaporti avevo in mente tutte queste cose, mi sono sentito indifeso, come se fosse bastato uno scazzo dell’addetto alla dogana per farmi chiudere in uno stanzino in attesa del volo di ritorno. E poi avevo mal di testa, il telefono inutilizzabile, un panino mangiato a bordo così cattivo che capisco quando la Russia cerca di abbatterli, gli aerei ucraini.

Dopo quella che mi è sembrata un’eternità la signora che mi ha controllato il passaporto è stata gentile, mi ha sorriso e liquidato in un attimo. Sotto la sua postazione cinque bottoni con le faccine mi permettevano di assegnare un giudizio al servizio ricevuto. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo a pigiare la faccia triste, forse mi avrebbero deportato? O avrebbero deportato lei? Nel dubbio ho scelto quella sorridente, e sono entrato in Cina.

Pablo Polo raggiunse il Catai dopo un viaggio assai avventuroso attraverso l’Ucraina e un sacco di paesi che finiscono in -stan.
Appena giunto chiese udienza all’Imperatore, che viveva a Pechino nella Città Proibita, ma la lista di attesa era lunga, e venne alloggiato presso la dimora di uno degli uomini più influenti del Paese, il Mandarino Yu.
Costui era un funzionario di grande potere e capacità, tanto che l’Imperatore gli aveva assegnato l’amministrazione di Shanghai, il porto più importante del regno, e lì si era trasferito.
Nella dimora pechinese stava sua nipote, la Clementina Yu, che si prese in carico l’ospite.

Il giorno di Natale mi sono svegliato da solo. Fuori, in cucina, stazionava il Coinquilino, una creatura mezza umana e mezza turca trasformata in statua di cera mentre cazzeggiava su youtube. È così da allora, occupa mezzo tavolo col suo portatile e fuma una sigaretta dietro l’altra per fedeltà al detto “fumare come un turco”. Quando ti serve il tavolo devi solo spostarlo un po’ più in là, lui non si oppone.
Comunicare non è stato facile, quando mi sono presentato mi ha risposto Yup, come Pippo. Ho pensato che fosse il suo modo di dire “sì vabbè, mollami che ho da fare” e non ho insistito. Inoltre Shasha mi aveva disegnato una piantina con le indicazioni per raggiungere la metropolitana, e in tasca avevo la mappa e la guida. Stavo in una botte di ferro.
Avevo anche solo venti euri nel portafoglio e ignoravo se il mio bancomat potesse funzionare in quella parte di mondo, ma avevo anche la carta di credito, e quella sono sempre tutti felici di prendertela e clonarla con comodo nel retrobottega.
Insomma, sono uscito, intrepido come Saturnino Farandola.

Alla luce del giorno il quartiere non sembrava male: vecchi palazzi, qualche edificio basso, un po’ di verde. Una scuola, una stazione della polizia, un supermercato, tutti collegati fra loro da un intrico di cavi rivestiti di gomma nera che un po’ seguivano la strada e un po’ la scavalcavano, raggomitolandosi contro le pareti come bisce. Non sapevo cosa ci passasse dentro, se elettricità o fili del telefono, ma facevano un bel po’ impressione.

Il palazzo dove abita Shasha è in centro, ma parlare di centro in una città così grande è un po’ vago.
Pechino si è estesa in cerchi concentrici intorno alla Città Proibita, che di fatto è il centro della città, la Zona 1. Tutto quello che ci sta intorno è diviso in aree più o meno circolari, delimitate da strade a scorrimento veloce del tutto simili ai raccordi anulari che circondano Roma.
La mia ospite vive nei paraggi di uno di questi stradoni, a ridosso della Zona 2. Da casa sua a Piazza Tien An Men ci vogliono 40 minuti a piedi, ma buona parte del percorso la impieghi per passare sotto lo svincolo e girare intorno alla “Torretta d’angolo sudorientale della città di Pechino” (北京城东南角楼), traduzione offertami da Google Traduttore quando ho cercato di capire cosa fosse quell’edificio che mi si stagliava davanti e mi ostruiva il passaggio.

tipo la casetta giocattolo che tuo nipote tiene in giardino, ma grande come il palazzo dove abita tuo cugino, ma non quello scemo, l’altro

Torretta, me la chiama. Ho visto caserme più piccole. Ma Pechino è un po’ tutta così, le dimensioni delle strade ti fanno sempre pensare a parate militari, le parate militari mi riportano sempre a Tank Man, lo sconosciuto in camicia bianca che il 5 giugno del 1989 fermò una colonna di carri armati lungo il Viale della Pace Eterna, come venne tradotto dai giornalisti. Il nome vero non so quale sia, ma era dove stavo cercando di arrivare quel pomeriggio di sole, ci lavorava la mia ragazza e avevamo una cena prenotata nel suo hotel.

Superata la Torretta mi si è aperta una strada piena di negozietti che vendevano cibo, fra cui uno con la stessa insegna bianca e rossa di KFC, ma al posto del colonnello Sanders c’era il Signor Lee, che vendeva noodles. Sul lato dove camminavo io, invece, due grossi alberghi internazionali.

Non era facile camminare così fuori dalla mia comfort zone: fermare sconosciuti, comunicare a gesti era qualcosa di cui avrei fatto volentieri a meno, ma c’ero costretto, non ero sicuro di trovarmi sulla strada giusta, e quando sei povero e impossibilitato a chiedere aiuto approcciare un passante e mostrargli la cartina diventa di colpo facilissimo. Mi stava anche venendo fame, ma non abbastanza da entrare in un ristorante e violentarmi così a fondo da dover gesticolare frasi come “cosa posso mangiare?”, “accettate il mio bancomat?”, “non so come altro pagare”, “la prego non chiami la polizia!”, “non è colpa mia, ho mangiato a mia insaputa”.

Fuori dalla stazione ho incontrato tre ragazze che parlavano italiano. Sembravano più perse di me, così mi sono avvicinato. Una viveva lì, stava accompagnando le sue amiche all’hotel, e quando le ho raccontato cosa stavo facendo mi ha offerto il suo telefono per chiamare Shasha. Ho rifiutato, volevo cavarmela da solo, dopotutto si trattava soltanto di camminare nella giusta direzione per mezz’ora, ma la verità è che mi faceva sentire come entrare in un ristorante e tentare una conversazione di cui sopra. Qualcosa di troppo difficile, o troppo esposto, o non lo so. Se lo sapessi non me lo porterei dietro da quando sono nato, credo.

Ho ripreso a camminare, e dopo poco ho trovato un bancomat, ci ho infilato la tessera dentro e quello me l’ha restituita dicendo sorry. E lì mi sono un po’ preoccupato.

mi spiace,
il pollo flitto è finito

Ma la cartina parlava chiaro, dalla stazione vai dritto fino a incontrare il grosso viale che ti porta a piazza Tien An Men, non puoi sbagliare. Dovevo solo fermarmi prima.
Ho ripreso la marcia, e dopo poco sono arrivato all’incrocio. C’era un vigile, gli ho mostrato la mappa, gli ho indicato il punto in cui pensavo di trovarmi, gli ho indicato me e lui. Ha capito e fatto di sì con la testa. Gli ho indicato dove dovevo andare, ha alzato un braccio e borbottato qualcosa mentre lo puntava di là. Perfetto.

Mentre camminavo sotto dei palazzi che per forma e dimensioni somigliavano a castelli futuristi osservavo le macchine che mi sfilavano accanto, lungo il viale a venticinque corsie che arriva in piazza Tien An Men e che onestamente non ho voglia di vedere come si chiama. A Pechino hanno tutti auto di grosse dimensioni, tre volumi, nessuna utilitaria, nessun fuoristrada. Non sono tutte berline lussuose, la maggior parte sembrano avere già una decina d’anni e appartenere a una fascia economica, ma a quanto pare non ci sono problemi di posteggio in questa città.
Oltre alle macchine un casino di scooter elettrici che ti arrivano dietro e non li senti, e vabbè, le bici. Le bici sono ovunque, le raccogli da terra o appoggiate ai muri, ci sblocchi il lucchetto col codice che ottieni via telefono e te la usi finché ti serve, poi la riblocchi e la molli dove capita; se c’è posto in uno dei portabici che trovi ovunque, o in un posteggio apposito, sennò contro un muro o in un’aiuola.
Lungo il mio avvicinamento alla stazione ne ho scavalcate diverse, mollate sotto la superstrada che ho dovuto aggirare, vicino a casa.

Alla metro di Dongdan ho trovato un’altra banca, e stavolta mi sono avvicinato alla macchinetta con fare meno smargiasso, per non intimorirla. Ha funzionato, sono riuscito a ritirare 1000 yuan, pagando per commissione solo un rene. 1000 yuan sono 128 euri, grossomodo.
Col cuore leggero di chi apre il bigliettino sotto il tergicristalli e scopre che è la pubblicità di un’immobiliare, mi sono arrampicato su per le scale dell’hotel dove lavora Shasha, un edificio gigante in vetro e acciaio con una grossa fontana davanti all’ingresso.

Lei era sulla porta, preoccupata come una mamma il primo giorno di scuola di suo figlio. Di più, come se la scuola fosse a dieci chilometri di distanza, raggiungibile solo a piedi attraverso un territorio soggetto a bufere di neve e abitato solo da lupi. Lupi stupratori, oltretutto. E malati di aids.

Quando mi ha visto ha detto “Ah, eccoti, ho telefonato a Eyup e mi ha detto che eri già uscito”.
Ah, quindi è il suo nome, non stava facendo dei versi.
Ci sono rimasto anche un po’ male, ma poi mi ha fatto cenno di seguirla nella food court.

L’hotel si trova in un edificio molto molto grande in cui è situato anche un centro commerciale lussuoso, suddiviso in tre piani. A quello inferiore, sotto il livello stradale, si trova la food court: un intero piano dedicato esclusivamente a ristoranti e take away. Considerato che l’edificio è 100.000 metri quadrati è come entrare in un ristorante grande un quarto della Città del Vaticano.

“Cosa vuoi mangiare?”, mi ha chiesto mentre entravamo in un recinto di banchetti fumanti.
“Qualsiasi cosa”, le ho risposto. Nel senso che volevo mangiare ogni piatto, assaggiare ogni pietanza, riempirmi ogni centimetro quadrato di stomaco con alimenti il più lontani possibile da quelli con cui mi nutro di solito. Mi sono guardato intorno con avidità, cercando una rivendita di esotismo, ma la mia ospite aveva già deciso dove portarmi, e mi ha fatto sedere a un tavolino appartato. Mi sono trovato davanti una zuppa con gli spaghetti, (汤面- tāngmiàn) in Oriente esistono migliaia di ricette per fare la zuppa con gli spaghetti, se non parli la lingua capisci di quale zuppa si tratta solo quando ci infili le bacchette dentro e tiri su qualcosa di solido. Può essere un pezzo di carne, una rana, un piede umano, la figurina di Bistazzoni che ti mancava per finire l’album. Insieme alle bacchette ti danno anche un cucchiaio, per il brodo e per aiutarti a tirare su meglio gli spaghetti, nel caso non fossi un mago con le bacchette.
“Scusate, ma io e le bacchette ci frequentiamo da anni, potrei eseguire un’operazione chirurgica a cuore aperto usando solo un paio di bacchette, la serie tv McGyver si è ispirata a me per la mia eccellente manualità, grazie”, ho sogghignato allontanando il cucchiaio, e mi sono lanciato sugli spaghetti come uno che ha appena fatto Milano-Pechino però a piedi e digiuno.

“Ehi guarda, c’è anche il mio bar preferito!”

Quando ho finito la cameriera ci ha sostituito il tavolo perché il nostro era da strizzare.

Anche la mia ragazza era fradicia, e puzzava di brodo. Oltretutto era in pausa pranzo, avrebbe dovuto tornare a lavorare e incontrare un ospite importante tipo il presidente dell’associazione Nemici Di Quelli Che Mangiano Il Brodo, e per questo era così incazzata che mi ha lasciato.

Per fortuna i camerieri cinesi, a differenza dei loro pari portoghesi, sono estremamente servizievoli, e appena la mia ormai ex ragazza ha lasciato il locale si sono presentati in due con una nuova ragazza sottobraccio e me l’hanno fatta sedere davanti.
“Questa è la sua nuova ragazza, signore”, mi ha spiegato la cameriera. “Per evitarle correzioni ai post precedenti gliene abbiamo trovata una con lo stesso nome, solo scritto diverso. Quella di prima si scriveva 沙沙, e indicava il suono che fa la pioggia quando cade, questo si scrive 杀杀 e vuol dire uccidi uccidi”.
Avrei dovuto stare più attento.

(continua)