centotre-e-tre n.13: Pablo Picasso was never called an asshole

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
El Chapo Guzman – Los Tucanes de Tijuana
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III

Il Pulcinella è considerato la prima opera del periodo neoclassico di Stravinskij. Gli venne commissionato da Sergej Djagilev, fondatore dei Balletti Russi di cui ci sarebbe da raccontare parecchio, che la sua relazione con Nižinskij meriterebbe un post a parte, e mi permetterebbe di raccontare della mia visita al cimitero di Montmartre, dove il ballerino è sepolto. E invece resto su Pulcinella, tratto da un libretto attribuito un po’ a Giovanni Pergolesi e un po’ ad altri autori meno conosciuti, e messo in scena nel 1920 all’Opéra di Parigi. In quell’occasione l’allestimento delle scene fu curato nientemeno che da Pablo Picasso, ideatore anche dei costumi.

Cimitero bellissimo, peraltro. Roba che uno vorrebbe morire apposta per andarci ad abitare

Cimitero bellissimo, peraltro. Roba che uno vorrebbe morire apposta per andarci ad abitare

E sarà proprio lui il filo conduttore per il prossimo passaggio.

Io e Picasso abbiamo condiviso ben più del nome, fin da quella volta a Barcellona in cui mi trovai davanti a uno scarabocchio, forse un bozzetto per un menu, ed ebbi la sensazione che nella mia testa si sganciasse qualcosa. Credo che sia un po’ come quando ti togli il reggiseno. Non me ne sono mai tolto uno, ma quando mi riesce di sganciarlo mi sento più o meno come quella volta, come se la logica dicesse “vabbè, io aspetto fuori, ci vediamo quando hai finito”. Una liberazione dagli schemi, un liberi tutti. Da qualche parte nella mia testa ho sentito “Ah ma allora si può anche così! Bene!”.
Poi vabbè, altri pittori mi hanno dato sberle ancora più forti su quegli stessi schemi, e non vi dico le ragazze che il reggiseno non se lo volevano far togliere, ma il primo che me li ha allentati è stato sicuramente lui.
Degli incontri successivi di qua e di là dell’Atlantico non sto a raccontare, ma sono stati così numerosi che quando mi sono trovato all’ingresso di una sua mostra a Marsiglia, qualche tempo fa, ho preferito stare fuori a prendere il sole.

“Come, non sei entrato?”
“No, dai, due palle Picasso!”
“Due palle Pi.. Oh! Ma come ti permetti? E ti chiami pure come me! E il legame empatico che si è creato fra noi dove lo metti?”
“Ancora con questa storia? Non c’è nessun legame, ci chiamiamo allo stesso modo, punto. Neanche lo sai se mi chiamo così per te o per Neruda. Fra l’altro scrivo, e non so dipingere. Qualche dubbio ti sarà venuto?”
“Sei un ingrato! Chi ti ha introdotto a un diverso punto di vista sul mondo, io o quel piagnone di Neruda? Chi ti ha mostrato che si può essere diversi da tutti gli altri e avere ragione, io o quel cileno di merda? Non mi aspettavo un voltafaccia del genere, sono davvero deluso!”
“Ma deluso di che? Ho visto tutto quello che hai fatto, sono stato perfino a Guernica!”
“E al Guggenheim? Ci sei venuto al Guggenheim?”
“Non ho avuto tempo”
“Sei stato due volte a New York e non hai trovato il tempo di entrare al Guggenheim!!”
“Ho visto quello di Bilbao, vale?”
“Stronzo!”

Ogni volta così. Capirete che dopo un po’ uno si scogliona pure.
È per questo che la nuova puntata di centotre-e-tre sarà dedicata a un pittore che amo.

Badass old men

Badass old men

Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso nasce a Malaga nel 1881, e trascorre i primi dodici anni della sua vita a imparare il proprio nome per intero. Nel 1895 si trasferisce a Barcellona, dove si vede costretto a imparare il proprio nome anche in catalano. Ormai ha deciso di diventare un pittore, non ha più tempo per questi studi a suo dire inutili, e se ne va a Madrid.
Qui diviene un assiduo frequentatore del Quatre Gats, una taverna bohemiènne sullo stile del Chat Noir parigino, uno di quei posti dove vai a vedere che aria tira e ti ritrovi con degli sconosciuti a bere vino siciliano, decantando il fantastico palinsesto di Radio3 e la settimana prossima andiamo a vedere la mostra di Leighton a Tarragona, vieni?
Guarda, verrei volentieri, che coi preraffaelliti ci vado sotto di brutto, ma ho dei dipinti da finire, vorrei organizzare una mostra, se trovassi il posto.

In quel momento passa di lì il gestore del locale, Pere Romeu, che lo prende per un braccio e gli fa “Senti ricciolino, con questo aglianico il tuo conto arriva a diciassettemila pesetas belle tonde. Ho capito che sei uno spiantato come la maggior parte dei clienti di questo bar, maledetto me e quando ho deciso di dare rifugio agli artisti invece che agli agenti di borsa, e allora ti faccio una proposta: io ti faccio allestire la tua mostra qui dentro, tu mi porti amici danarosi e il tuo debito lo azzeriamo, che ne dici?”

Si organizza la mostra nel febbraio del 1900, e a settembre di quello stesso anno Picasso si trasferisce a Parigi, braccato dai sicari di Romeu.

Insieme a lui il poeta Carlos Casagemas, che come tutti i poeti si strugge d’amore praticamente per chiunque se lo caghi. A Barcellona si innamora della cameriera del Quatre Gats, che parla come un portuale e rovescia il vino addosso ai clienti. Dice che di lei ama il temperamento sanguigno, e che una donna così saprà scaldare il suo cuore ghiacciato da troppe delusioni. Quando Picasso si rifugia a Parigi se lo porta dietro, sperando che il cambiamento d’aria lo riporti sulla via della ragione, ma la ville lumière sembra fatta apposta per accentuare i problemi di cuore, e il povero Carlos perde la testa per la bella Germaine, la classica faccio cose vedo gente che si cerca e gli riempie la testa di illusioni.
Ovviamente finisce malissimo: una sera, al ristorante, Carlos ordina la tarte tatin, ma gli portano un pasticcio alla panna. Lui tira fuori la pistola e si spara alla tempia.

Picasso ci resta così male che butta via tutti i colori della sua tavolozza e tiene solo il blu, colore della malinconia, dell’inquietudine e del vivere male. Non è un caso che il tasso di suicidi nel villaggio dei Puffi sia così elevato.

Quadri che ti vengono a strappare delle cose dentro senza farsi notare

Quadri che ti vengono a strappare delle cose dentro senza farsi notare

La svolta cubista è a un passo: Les Demoiselles D’Avignon è del 1907, io mi ci sono trovato davanti nel 2011, centoquattro anni più tardi, e ancora il suo autore aveva delle cose da dirmi.

“Allora? Ti piacciono? Eh? Sono o no più bravo io di Dalì?”
“Vabbè, siete diversi, che ti devo dire..”
“Diversi un cazzo! Vai a vedere se il MOMA le espone, le sue opere! Vai a vedere se le espone il Guggenheim, ingrato de mierda!”
“In realtà sì e sì”
“Coma mierda”

Il resto della vita di Picasso ve lo lascio scoprire da soli, non sarà difficile. Io mi prendo una pausa, magari meno lunga dell’ultima volta, e vi lascio con un brano che ci porta, finalmente, in Inghilterra.

(continua)

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E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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