Sotto l’armadio (con la radio)

Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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