E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Venerdì
Il venerdì è un altro giorno di tempo mezzo e mezzo. Il piano è raggiungere l’Isola delle Correnti, il punto più a sud della Sicilia, stare un po’ lì a vedere che succede e poi andare a visitare Scicli, che io ho da cercare una cosa un po’ nerd, solo che alla rotonda sbaglio strada. È una cosa fra me e le rotonde, non riesco mai a imbroccare l’uscita giusta, una volta dovevo andare a Copenhagen per fidanzarmi con una bionda scandinava, e invece sono finito a Praga e ho finito per sposare una mora cinese. Non che mi lamenti eh, se avessi sposato una morra sarei finito nel vortice del gioco d’azzardo scrauso in locali malfamati dove uomini loschi con cicatrici sulla faccia ti puntano addosso pietre, forbici o fogli di carta, e se non sei abbastanza scaltro da prevedere le loro mosse finisci male.

Comunque sbaglio strada, mi infilo in autostrada e l’uscita dopo è a 15 chilometri, e a quel punto cosa fai, torni indietro? Già che siamo andati di qui arriviamo a Scicli e al mare ci andiamo dopo.
Scicli è splendida, una conca di pietra piena di case basse ricoperte di polvere gialla, sembra un villaggio western nascosto in un canyon. Somiglia un po’ a Modica, ma Modica è una versione di Scicli che ha fatto la guerra e poi è stata invasa dalle cavallette e non hanno più avuto tempo di rimettere a posto.
A Scicli c’è la statua dell’uomo vivo, il Cristo a cui Vinicio Capossela ha dedicato una canzone. È quella la cosa nerd che volevo fare, e non ce ne andiamo prima di averlo trovato, dentro una chiesa dove si è appena tenuto, indovina un po’, un matrimonio.

Con le tre dita tre vie pare indicare, nemmeno lui nemmeno lui sa dove andare

Appagati (io) e soddisfatti (sempre io) veniamo via, e ci concediamo il mare quotidiano. Anche perché nel frattempo il tempo è migliorato molto, e ne vale di nuovo la pena. Ci mettiamo in cammino per l’isola delle Correnti, la punta più a sud dell’isola, e per arrivarci attraversiamo la zona di Pachino, dove si coltiva l’omonimo pomodoro. Serre ovunque ti volti, tutte uguali, teli di plastica opaca da cui si intravedono piante basse, e tutto lungo la strada pubblicità di aziende agricole dai nomi molto vari, come Europomodori, Pomodoroni, Pomodorazzi, Superpomodori, Quiilveropomodoro, Carciofi…No scherzo pomodori.

Ci sistemiamo in uno stabilimento fighetto che non ha molto senso davanti a una spiaggia libera enorme e deserta, ma la presenza dell’unica doccia in zona e dell’unico bar ci sussurra all’orecchio cose malvagie come “Ma tanto siete in vacanza, dai. C’è un Cristo su uno scoglio che ci guarda a braccia aperte e dice “Ma vi pare che dovete pagare in un posto così?”. “Ma tanto siamo in vacanza, dai.”

Il lusso sfrenato di quel posto ci dà alla testa, e l’unico motivo per cui non mi metto a telefonare a mezzo mondo per parlare di lavoro con un forte accento milanese è perché lo sta già facendo il mio vicino di ombrellone e vorrei ucciderlo. Però ordiniamo due insalatone, ben consci del fatto che in Italia l’insalata è soggetta a un misterioso ricarico fiscale, per cui all’esercente costa al massimo un paio di euro, ma tu devi tirarne fuori almeno dieci e ricevere un piatto di lattuga delle buste dell’hard discount, scondita. Dato che ci troviamo nella zona di Pachino ci sono anche dei pomodorini, sconditi, anonimi, una tristezza che mi pervade il cuore e mi fa riflettere sulla caducità della vita.

Raggiungo a nuoto e a piedi l’isola di fronte alla spiaggia, ma più a piedi, che l’acqua in Sicilia è bassa per chilometri, tanto che alle Lipari ci vanno in bici. Poi mi inoltro lentamente sul sentiero che gira intorno al faro, facendo ahi ahi ahiahiahi quando pesto i sassolini, perché non indosso neanche un paio di ciabatte, e ahimadonnabufala quando pesto un cardo, che qui crescono rigogliosi.
E poi sono di là, a osservare il Mediterraneo che diventa Ionio, e ci sono solo io e il mare e il sole e le onde si infrangono pigre sugli scogli, e mi sento così piccolo di fronte a tanta maestosità che mi viene naturale farmi delle domande sulla vita, sull’universo, sulla grandezza del mondo e sulla piccolezza del mio pisello, e chiedermi se ci sono delle correlazioni e se gli allungapene sono davvero efficaci come promettono.
Torno indietro più ricco nello spirito, ma solo lì. Mi fanno male i piedi.

La sera andiamo a cena in uno di quei ristoranti che Hemingway definiva di secondo grado ma mascherati da ristoranti di primo grado, dove la pasta lascia un dito di olio nel piatto, ma la paghi come all’Osteria Francescana di Bottura, che fino a ieri credevo fosse il giornalista e mi domandavo perché avesse un ristorante e perché continuasse a fare il giornalista con quello che guadagna dalla sua seconda attività.

Sabato
Facciamo su armi e bagagli, dove per armi intendo una delle brioches monumentali della pasticceria Mangiafico, e andiamo a Catania. Il piano sarebbe di cazzeggiare fino alle cinque cinquemmezza, riportare la macchina all’autonoleggio e imbarcarci. Facciamo un giro veloce in piazza del Duomo, vediamo il mercato del pesce, ci spingiamo fino al teatro Bellini, ma quando entriamo a visitarlo mi chiama mia sorella e mi racconta che è scappato il cane. Di lì fino al ritorno a casa è solo ansia, ci buttiamo su una panchina a disperarci e facciamo venire l’ora di andare all’aeroporto vagando senza costrutto come zombi. L’unica cosa degna di nota è l’accampamento allestito fuori dall’aeroporto per fare rispettare le norme anti covid: fanno entrare solo nelle due ore precedenti alla partenza, praticamente quando inizia il check-in, così tutti si ammucchiano all’ingresso o sulle poche panchine all’esterno. Peraltro c’è solo un bagno, quello di un bar lì davanti, dove si assiste a scene di lotta degne di un film di gladiatori.

Ed è tutto, se sono qui a scrivere queste note è perché il cane lo abbiamo ritrovato il giorno dopo, sporco e stremato dopo due giorni di corse nei boschi sotto un temporale pazzesco. Passiamo tutti la domenica a dormire senza neanche disfare le valige, a quanto ci siamo divertiti ci penseremo lunedì.

Tutto è bene eccetera eccetera

Sugnu sempre alla finestra e viru genti spacinnata
Sduvacata ‘nte panchini di la piazza, stuta e adduma a sigaretta

Gente ca s’ancontra e dici “ciao” cu na taliata
Genti ca s’allasca, genti ca s’abbrazza e poi si vasa

Martedì
Ormai fare colazione a brioche enormi e arancini alla pasticceria Mangiafico è diventato un rito, e con gli occhi ormai abituati al banco dei dolci riusciamo a notare anche qualche particolare della clientela seduta ai tavolini intorno: sono tutti ciccioni da queste parti. E chissà perché, mi chiedo, mentre addento un cornetto che sarà mezzo chilo, così pieno di crema che se me ne avessero servito un secchiello in cui galleggia un po’ di panbrioche le proporzioni sarebbero rimaste le stesse.

Oggi facciamo i turisti, almeno per un po’, e ce ne andiamo a Noto, una delle capitali del barocco siciliano, che da queste parti ha un sacco di capitali, manco fossimo in Sicilia. Noto sta a due passi ed è oggettivamente bellissima, ma i negozi per turisti rendono tutto mediocre, sembra di stare di nuovo a Cefalù. O a Roma. O a Parigi. Vabbè, ci siamo capiti.
Non è una città molto grande, soprattutto considerato che una volta usciti dalla via principale del centro storico non c’è più niente di interessante da vedere. Ce la sbrighiamo in un’oretta, poi decidiamo che i turisti sono noiosi, soprattutto l’hipster (ma esistono ancora?) conciato come un riassunto delle due Guerre Mondiali: ha i baffi a manubrio stile impero asburgico, il taglio di capelli da cancelliere nazista, i pantaloncini dell’uniforme degli Africa Korps e una camicia che era già passata di moda nel 1918.
Lo accompagna sua madre, decrepita, un residuo bellico, di cui lui si serve come di uno sherpa, obbligandola a trasportare una grossa borsa da fotografo, mentre lui si spara le pose marziali davanti alla scalinata di una delle numerose chiese lungo la via.

Andiamo al mare in una riserva naturale che sta alla fine di un lungo sterrato pieno di buche, dopo un posteggio abusivo che neanche ti garantisce una sorveglianza minima, e dopo aver pagato un biglietto di ingresso. Ne vale comunque la pena, la spiaggia di Eloro è un piccolo tesoro, quasi deserta, così pulita e tranquilla che vengono a deporci le uova le tartarughe.
Non ci sono, non ne vediamo neanche una, ma c’è un piccolo recinto rotondo delimitato da stecchi, con un cartello che ci avvisa di non calpestare quella piccola zona di spiaggia, in quanto vi hanno deposto le uova le caretta caretta, le tartarughe che abitano questa parte di Mediterraneo.
Non vediamo neanche le uova, a meno che tutti quei pezzettini di roba bianca non siano quel che resta dei gusci dopo la schiusa.
Dopo un po’ arrivano due ragazze tedesche, e una si mette in topless, attirando l’attenzione di un autoctono, che le si piazza sfacciatamente davanti e finge di armeggiare col telefono per potersela lumare in pace. Oppure armeggia davvero e le fa un video, non lo so, in ogni caso sono molto imbarazzato per lui. La ragazza invece non gli presta la minima attenzione, e continua a godersi il sole chiacchierando con l’amica.

A una certa ora torniamo a casa, che è a venti minuti, ci fermiamo al supermercato a comprare prosciutto e melone e pranziamo all’ora di merenda in cortile. Sbagliamo tutto, il melone sa di zucca, il prosciutto è buono ma è poco, Shasha ha deciso di condurre una battaglia personale contro i carboidrati e mi proibisce di comprare del pane, e io prosciutto e melone senza pane non riesco mica a mangiarlo, mi resta un buco nello stomaco che ci passa una mano. Per fortuna dopo poco andiamo a cena.

Prima del ristorante ci facciamo un aperitivo all’enoteca locale, che è enoteca e salumeria, un abbinamento che ha senso solo in Sicilia, e ci ritroviamo con una bottiglia di bianco e la promessa di tornare per una degustazione possibilmente l’indomani. Poi andiamo a cena da Retrogusto, un ristorante piccolino dietro casa, dove ci sfondiamo, letteralmente. Nel senso che se mangio ancora un gamberetto mi esce Alien dalla pancia. Ci portano un antipasto da dividere che da solo farebbe un pasto completo, poi io ordino un primo, Shasha un secondo, dividiamo un contorno e mezzo litro di vino.
65 euro. Sono commosso.

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Day 6
Primo giorno di tempo incerto. Non piove, ma è nuvoloso e c’è vento. Che si fa? Andiamo in spiaggia al lido di Noto, per fare prima. Ci stiamo giusto un paio d’ore, poi torniamo ad Avola e compriamo tipo 60 euro di pesce, che grigliamo felici in cortile.
No, raccontiamo le cose come sono successe davvero, ci metto ore ad accendere il fuoco, faccio un fumo enorme che entra tutto in casa impregnando ogni stanza con un aroma di incendio che non riusciamo più a mandare via, mentre nugoli di mosche si posano sul tavolo, sul cibo e sulla mia faccia.
Alla fine ci riesco, ma non prima di avere invocato dei e diavoli e averli maledetti entrambi.

Poi è troppo tardi per andare di nuovo al mare, così ci spingiamo fino a Siracusa, facciamo un giro a Ortigia, e veniamo via un po’ insoddisfatti, come se ci aspettassimo di trovarci ancora un po’ di quell’atmosfera da presepe che abbiamo respirato a Noto. Oh, la piazza della cattedrale merita da sola una visita, soprattutto se hai visto tutto Malena e non sei scappato via a metà proiezione inorridito dalla recitazione della Bellucci, ma insomma, manca qualcosa. Veniamo via e andiamo all’enoteca salumeria vicino a casa e ci facciamo una degustazione di nero d’Avola e ci portiamo a casa tre bottiglie.

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Day 7
Dato che il meteo ha messo brutto decidiamo di non andare al mare e torniamo a Siracusa a vedere il parco archeologico, che ieri siamo arrivati che era già chiuso. Siccome siamo ricchi ci prendiamo, oltre al biglietto, anche la guida. Ma non quella con le cuffiette, questa è una signora robusta con un cappello di paglia a forma di elmetto tedesco senza chiodo. Ci raggruppa con altre sette otto persone fra cui il Simpatico, la Nonna, Quella Che Non Capisce e Quello Che Resta Indietro.

Il parco archeologico di Siracusa è il secondo più esteso d’Italia dopo quello di Roma, e comprende un teatro greco, un anfiteatro romano, diverse latomie, che sarebbero le antiche cave dove gli antichi siracusani andavano a tagliare via dal monte le pietre per farci mattoni, piastrelle, sampietrini da tirare alle guardie e tutto un catalogo di forme e dimensioni per ogni uso necessario all’epoca. Volevi un busto di Archimede da metterti in sala? Andavi dai cavapietra, ti compravi un blocco di giuggiulena, come chiamano l’arenaria da quelle parti, e te la martellavi fino a tirarci fuori un ritratto dello scienziato siracusano, che però, date le tue scarse doti artistiche, veniva fuori col becco al posto del naso e una specie di spiovente in testa molto somigliante a un tetto su cui ha nidificato una famiglia di corvi. Lo buttavi via, ma secoli più tardi veniva recuperato da Carl Barks che ne faceva un personaggio fondamentale nelle storie di Paperino.

Del parco archeologico tutti ricordano l’Orecchio di Dionisio, che però chiamano Dioniso, confondendolo col dio alcolista, e infatti una volta entrati nella famosa cava a forma di esse, attaccano a sbraitare come se fossero ubriachi. Ma la Neapolis siracusana ospita anche un teatro dove ancora si mettono in scena le stesse tragedie di quei tempi là, e un’arena dove non combattono più i gladiatori, ma più che altro perché gli animalisti oggi si opporrebbero a farli scontrare coi leoni, poveri leoni. Mettici dei gladiatori novax, e poi vediamo quanti animalisti si direbbero contrari.

Finito il tour andiamo a mangiare cinese, perché Shasha se sta troppo a lungo senza mangiare cinese si trasforma in un affittacamere spagnolo coi baffi neri e i capelli unti legati in un codino. Già nel teatro greco ha iniziato a sbarellare e ha chiesto alla guida se quiere una habitación doble con media pensión.
Il ristorante è a Ortigia e c’è scritto vendesi sulla porta. Strano che in una regione dove si mangia da dio pochi abbiano voglia di provare i ravioli al vapore. È un peccato, perché è tutto fatto in casa ed è molto gustoso. Però a ogni boccone piango in silenzio pensando alla caponata.
Peraltro questa seconda visita a Ortigia ci soddisfa molto più della precedente, e finiamo per ricrederci un po’ sulle qualità locali. Ma non siamo noi che abbiamo cambiato idea, scopriremo più tardi che nella notte la vecchia Ortigia noiosa e turistica è stata sostituita con New Orleans.

Dopo pranzo abbiamo voglia di un caffè e un po’ di dolce, ma non sappiamo quale bar scegliere, così torniamo alla macchina e guidiamo fino a Modica, dove abbiamo letto che si produce una cioccolata molto buona. Facciamo il pieno di cioccolata e anche di matrimoni, che in questa zona della Sicilia sembra che ci si sposi soprattutto alla fine di settembre, in ogni città che visitiamo ci sono assembramenti davanti alle chiese con palloncini color confetto e signore con lunghi abiti Pantone, mentre gli uomini sono tutti raggruppati in un angolo del sagrato e fanno la faccia da duri come impone l’abito.
Modica mi ricorda un po’ Matera, grigia, con le case ammassate, piena di stradine. La differenza che salta subito agli occhi è data dalle grate alle finestre, panciute come nel resto di questa parte di Sicilia, e dal fatto che non c’è James Bond che fa le corse in macchina nei vicoli.

Tornati ad Avola andiamo a mangiare in un posto di cui non ricordo il nome, una pizzeria locale dove forse non si vedevano turisti dall’85, perché a momenti ci fa pure l’inchino. Mangiamo della pasta fatta in casa e tanto di quel pesce fritto che ancora adesso, a distanza di settimane, quando sento la parola “calamari” ingrasso.

Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa
‘ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra
mi sentu stranizza d’amuri

Domenica
Noi in realtà saremmo venuti fino in Sicilia per il mare, ma il mare di Palermo non ci sembra questa gran cosa. Forse a Mondello, ma bisogna spostarsi coi mezzi pubblici, e a quanto leggo la spiaggia è piccola, e qualcuno dice pure sporca. L’unica sarebbe allontanarsi dai centri abitati, ma senza una macchina come fai? Insomma, andiamo a Cefalù. Troviamo una spiaggia a 15 euro 2 persone che ci fa abbandonare la politica della spiaggia libera in favore del lettino e dell’ombrellone. La doccia fa cagare come quella della spiaggia libera, in ogni caso. Dopo un’ora di acqua e sole io sarei già a posto e mi infilerei nelle stradine del centro storico a cercare da mangiare, ma Shasha esige il suo tributo di Mediterraneo e tocca restare fino alle 4. Poi raggiungiamo la cattedrale facendo a gomitate coi turisti in una delle uniche due strade percorribili, tutte piene di cazzate fintissime. È il paradosso del turismo, che migliora le condizioni di vita di un luogo grazie al denaro speso dai turisti, ma ne rovina l’aspetto proprio a causa del turismo. Tutte le località turistiche del mondo finiscono per assomigliarsi, con la sola differenza dei cartellini del prezzo sopra l’espositore delle calamite da frigo, scritti in lingue diverse.
Ci prendiamo una granita in piazza, quella buonissima dappertutto, e un aperitivo in un bar ai margini del centro storico, non lontano dalla stazione. Sono le quattro passate, abbiamo perso di poco il treno per il ritorno e per quello successivo bisogna aspettare altre due ore. Dopo mezz’ora non ne possiamo più, siamo in astinenza da cibo di strada e macchine che ti arrotano sulle strisce.
Ma più dal cibo di strada, qui non c’è un cazzo, solo negozi di souvenir e tedeschi che ciondolano.

Ce ne andiamo, ma passiamo tipo un’ora che però sembra una settimana a girare per le strade dove o è tutto chiuso o è un posto che si chiama Sicily Store, e fa un caldo porco e l’umidità è la stessa che nel Borneo e se mi strizzo la maglietta faccio mezzo bicchiere di brodo, e figurati se strizzo le mutande, abbiamo bisogno di una doccia livello quando ti si rompe la tuta spaziale e sei su Marte.

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Lunedì
È il giorno in cui lasciamo Palermo per il remoto sud-est trinacrico. Prendiamo il treno fino all’aeroporto, dove dovremmo ritirare la macchina a noleggio, ma prima facciamo una colazione al bar sotto casa, e decido che non posso più vivere senza quelle grosse brioche fritte ripiene di ricotta e cioccolata, le iris. Le troverò anche in quelle terre così lontane?
Spoiler: sì, ma non così buone.
Spoiler 2: sticazzi, mangerò cose che non me le faranno rimpiangere.

Ci danno la macchina, solo che prima devono portarci fino a Cinisi e poi farci spaventare da un’impiegata con racconti orribili di furti d’auto, incidenti, righe sulle fiancate, per farci fare un’assicurazione extra. Rifiuto, figurati se vado a pagare 120 euri in più perché questa si deve prendere la sua percentuale, e l’impiegata dell’autonoleggio smette di colpo di essere amichevole e mi tratta con una freddezza immotivata che mi regala anche un po’ di soddisfazione. Vaffanculo, stronza, fattelo pagare da qualcun altro il tailleur nuovo.
Comunque partiamo, e finiamo imbottigliati subito dentro Palermo, poi di nuovo a Bagheria, poi in tutto il tragitto fino a Enna. Ogni due tre chilometri la strada si restringe e restiamo imbottigliati. E io che mi lamentavo delle autostrade liguri.
A Enna non ne possiamo più e usciamo a cercare da mangiare. Shasha trova su google un ristorante con buone recensioni, e per raggiungerlo saliamo fino in cima alla città, che sta su un monte, poi scendiamo dalla parte opposta senza vedere niente di questo posto che dev’essere anche interessante, così arroccato, e finiamo nella parte nuova, in basso, in mezzo a un quartiere anonimo che potrebbe stare benissimo in qualunque periferia del mondo.
Il ristorante promettente è una trattoria per operai in pausa pranzo, due primi due secondi caffè e basta. Siamo perplessissimi.


Trattoria Francesca, accà si mangia como na vota, dice il cartello. Una volta dentro scopri che non si riferisce al menù: sono sintonizzati su Radio Margherita, e la cuoca canta tutto il tempo le canzoni di Al Bano e Romina e quelle di Masini, aggiungendo malessere a disagio.
Capisco come devono sentirsi i marziani quando atterrano sul nostro pianeta e cercano di mescolarsi alla popolazione.
Mangiamo due porzioni abbondanti di tagliatelle fatte in casa, e non spendiamo neanche tanto, ma a parte questo non merita di essere ricordato a lungo.

Arriviamo ad Avola senza grossi impicci, tranne un cantiere ogni chilometro, che vorrei tanto uccidere qualcuno e capisco quelli che odiano i Benetton come se fossero loro in persona a sabotare i viadotti autostradali. Io cerco di capire che la realtà è più complicata di così e non si può addossare tutte le responsabilità su una persona, e infatti non vorrei uccidere i Benetton, è eccessivo, ma devo ammettere che prendere a calci una pecora adesso mi farebbe sentire un po’ meglio.
La casa è figa livello due punti esclamativi, e Pino è un simpatico cicciottello paraculo che sa fare bene il suo mestiere, ma merita davvero tutti i complimenti perché si sbatte a renderci il soggiorno il migliore possibile.

La spiaggia di Avola è un po’ un cesso, ci sono cicche ovunque, il degrado spunta dai bordi, neanche l’acqua sembra granché; facciamo un bagno veloce e andiamo a visitare il paese senza passare da casa. Il paese sembra meglio, ma per capirlo dobbiamo spingerci fino al centro, sulla piazza della bella chiesa barocca. Mangiamo tre panini ottimi e ci beviamo due birre a testa da U Putiaru, e spendiamo 20 euri. Torniamo a casa sporchi di sale e soddisfatti.

Sparunu i bummi
Supra a Nunziata
‘N cielu fochi di culuri
‘N terra aria bruciata
E tutti appressu o santu
‘Nda vanedda
Sicilia bedda mia
Sicilia bedda

Venerdì
Il volo per Palermo arriva a Genova in ritardo, perciò la nostra vacanza parte in ritardo. Mentre ci imbarchiamo ci si attacca alla schiena l’inevitabile coppia con bambina, che finisce seduta inevitabilmente accanto a noi. La bambina è la solita: capricciosa, stridula, settata su un volume da concerto rock, ma la novità è data dal fatto che la madre riesce a essere più rumorosa della figlia, attaccando bottone con chiunque le capiti vicino e raccontando ogni tipo di aneddoto sulla sua vita e quella di ogni familiare le venga in mente. Non sta zitta per tutto il volo, coperta solo occasionalmente dagli strilli della figlia o dai messaggi del personale di bordo. Vorrei annullarmi con la musica, ma la batteria del telefono ormai mi dura solo poche ore e non posso permettermi di scialare, o rischio di non arrivare più all’airbnb che abbiamo affittato.

Provo il WiFi di bordo per accedere al ricco menù che però di ricco non ha proprio niente e neanche funziona. C’è una selezione di musica di una cinquantina di pezzi, raccolti in venti playlist dai titoli accattivanti, ma che in pratica contengono sempre le stesse canzoni, solo raggruppate in ordini differenti. Il palinsesto di Radio Capital, ma con titoli sconosciuti.
Poi ci sono i film, con un paio di cose che sarebbero anche interessanti, ma tanto il WiFi si stacca da solo dopo pochi secondi, neanche partono. Passo un quarto d’ora a entrare e uscire dal menu principale, poi mi arrendo.

Mi metto a leggere, che è meglio, ma devo leggere sul telefono, quindi anche quello riesco a farlo solo per un periodo molto breve. Per fortuna il volo finisce subito.

Mentre scendiamo su Palermo decido che vale la pena rischiare di morire e spengo la modalità aereo. Dai su, è ora di finirla con questa cazzata della modalità aereo, non serve a niente, non previene niente, gli aerei moderni possiedono strumenti molto sicuro, le cabine sono schermate, neanche se tutti i passeggeri accendessero tutti i loro telefoni contemporaneamente riuscirebbero a disturbare la strumentazione di bordo. Lo ha detto anche Il Post, perciò mi fido.

Non c’è campo, comunque. Riaccendo la modalità aereo e l’aereo comincia a scuotersi in mezzo a una nebbia da non vedere a un metro. Sono stato io?
Se adesso ci piantiamo dentro la roccia di Punta Raisi mi incazzo. Fra l’altro non mi ricordo mai di scaricare della musica nuova, e ogni volta che affronto la morte ho Vasco Brondi nelle orecchie.

Sopravviviamo all’atterraggio e l’aereo si ferma senza problemi davanti al terminal.
Bonus: nessuno applaude. Si vede che è passata la moda, ma preferisco raccontarmi che siano diventati più intelligenti. Poi mi ricordo che a Genova siamo stati imbarcati per file che venivano chiamate una alla volta, ma questo non ha impedito agli zombi da aeroporto di ammucchiarsi davanti all’ingresso del gate fin da un’ora prima, “così quando ci chiamano siamo già lì pronti”.

L’aeroporto di Palermo è piccolo e poco interessante, come tutti gli aeroporti del mondo. Quello che distingue gli aeroporti non è la quantità di attrazioni che contiene, ma le sue dimensioni. Quindi ci sono aspetti piccoli e poco interessanti, aeroporti grandi e poco interessanti, e aeroporti giganteschi per niente interessanti, perché anche le cose che potrebbero risultare interessanti, cioè i negozi e i ristoranti, in un’area molto grande si moltiplicano fino a riempirla, ma senza variare nella sostanza, quindi finisci per girare per un’area enorme tutta uguale.

Arriviamo a Palermo in treno in poco più di tre quarti d’ora, così suddivisi: trenta minuti dalla stazione di Punta Raisi a quella di Palazzo Reale, dove abbiamo la casa, e altri venti per attraversare la strada. A Palermo nessuno ti fa sconti, è un continuo fiume di macchine, c’è un casino feroce. Non si fermano sulle strisce, non provano neanche a rallentare. Lo sanno che dovrebbero, ma ti osservano mentre ti corrono sui piedi per vedere cosa fai, e se fai quello che farebbe chiunque con un minimo di istinto di conservazione, aspettare, accelerano e se ne vanno soddisfatti di avere vinto ancora una volta l’eterna sfida palermitana col pedone.
Alla fine capiamo la tecnica: devi buttarti senza mostrare paura, gli automobilisti palermitani si fanno intimidire facilmente da un atteggiamento sfrontato, e si fermano.

Via dei Cappuccini è stretta e senza marciapiedi, e la sera sembra un po’ una strada di Kabul, ma è così tutto il centro di Palermo, ci si fa presto l’abitudine. C’è una grossa discarica sotto casa, piena di vecchi televisori, sacchi della spazzatura, materassi sfondati, calcinacci, pezzi di sedie, e accanto tre bidoni che vengono svuotati regolarmente.

Non so bene come funziona la gestione dei rifiuti a Palermo, non mi sembra lineare. Per capirci meglio farò l’esempio del gatto.
Quando passiamo la prima volta, venerdì sera, un gatto è stato appena investito, e il suo cadavere giace accanto al marciapiede. Quando ripassiamo, un paio d’ore più tardi, qualcuno lo ha colpito ancora, e la sua carcassa occupa uno spazio ancora maggiore.
La mattina seguente, sabato, le suore del convento di fronte gli hanno messo un sacco della spazzatura davanti, così che gli automobilisti evitino di schiacciarlo ancora, ma quando torniamo nel tardo pomeriggio il gatto è ancora lì, il caldo cittadino lo ha gonfiato e la puzza ti aggredisce la gola fin da lontano. Il sacco nel frattempo è sparito. Il gatto, o ciò che ne rimane, verrà rimosso il lunedì mattina, e la strada ripulita con la candeggina.

Ma torniamo al viaggio. La casa di via dei Cappuccini è carina, ma è molto calda perché è stata ricavata nel sottotetto. Capita spesso con Airbnb di finire alloggiati in miniappartamenti ricavati dall’ultimo angolo possibile di un vecchio edificio: a Parigi mi capitò di dormire per cinque notti in uno sgabuzzino superaccessoriato con tanto di cucina a gas e forno a microonde. Era una merda. superaccessoriata, ma sempre una merda.
Questo di Palermo sembra un appartamento vero, e col deumidificatore acceso tutto il giorno si sta abbastanza bene.

Posiamo i bagagli e per prima cosa andiamo a mangiare il pani câ meusa da Nino u ballerino, definito un’istituzione dalle guide cittadine.

È un chiosco abbastanza nuovo, dove lavorano persone pochissimo ballerine, e tutto quello che gli chiedi è finito, compresa la ricotta e le arancine. Ai tavoli intorno siedono solo turisti che come noi si sono fatti fregare dalle guide cittadine. Da evitare, a saperlo prima. Molto meglio la focacceria Testagrossa, poco più avanti, dove più tardi proviamo il mangia e bevi (della pancetta arrotolata in un cipollotto e condita col limone) e ci regalano due panelle perché vanno provate. Non lo sappiamo ancora, ma diventerà la nostra seconda casa.



Sabato
Facciamo colazione vicino a casa, alla pasticceria Cappello, un locale storico che è solo storico, dato che cappuccio e brioche sono uguali a quelli di qualunque pasticceria italiana, ma va detto che non ho provato le paste, magari sono quelle a fare la differenza.

Poi iniziamo il giro. Prima andiamo al mercato di Ballarò, colorato, rumoroso, vivo. I banchi di pesce fresco sono dappertutto, e dappertutto c’è gente che compra. Un pescivendolo svuota i ricci di mare e versa la polpa in bicchieri di plastica: se non avessi ancora il sapore del caffè in bocca gli chiederei se sono in vendita, hanno l’aria di essere deliziosi. C’è un tizio che vende le sigarette di contrabbando in mezzo a un incrocio. Farei un sacco di foto se fossi uno a proprio agio a fotografare le persone. Le fa Shasha al posto mio, e devo dire che nessuno la picchia, ma è anche vero che il contrabbandiere di sigarette non lo fotografiamo.

Dal mercato raggiungiamo i Quattro Canti, l’incrocio fra le due strade che dividono il centro cittadino in quattro quartieri. Adesso che è diventato area pedonale te lo godi, mica come prima che c’erano le macchine e sembrava di stare in una galleria con tutto lo smog e il casino. Ci sono carrozzine coi cavalli in attesa di clienti e c’è qualche banchetto, ma nell’insieme non è diventato un trappolone da turisti come mi sarei aspettato. Lì accanto la fontana Pretoria non fa la figura che meriterebbe, è una fontana vabbè. Tutte le fontane se ci levi l’acqua sono vabbè, anche quelle di Roma: tu immagina Anita Ekberg che ciabatta nella fontana di Trevi asciutta. Vabbè.
Arriviamo alla Chiesa di San Cataldo che sembra già mezzogiorno, prendiamo una birra e un mojito e ci rilassiamo. Scopriremo poi che erano le dieci di mattina, quindi abbiamo ufficialmente infranto l’ultimo tabù prima dell’alcolismo.

A noi piacciono i mercati, dovunque andiamo ci perdiamo a girare per banchi di pesce e frutta, ci facciamo convincere ad assaggiare qualcosa, ci portiamo a casa cibi che poi regolarmente non abbiamo voglia di cucinare. Dopo la pausa, quindi, raggiungiamo l’altro mercato famoso di Palermo, quello della Vucciria, che però è chiuso, oppure siamo noi che non lo troviamo, oppure sono quei due tre banchetti che salgono su per il vicolo e puzzano di turista e anche se a uno dei tavolini è seduto Bunna degli Africa Unite, fanno abbastanza schifo al cazzo, andiamo via. Io poi manco li ascoltavo, gli Africa Unite.

Delusi da quella che dovrebbe essere una delle anime di Palermo, cerchiamo il riscatto e raggiungiamo il terzo mercato cittadino, il mercato del Capo, e stavolta è davvero ora di pranzo, così ci sediamo al tavolo di una pescheria che si chiama Fish m Chips, prendiamo un couscous di pesce, un’insalata di polpo, sei sarde a beccafico e quattro arrosticini di calamaro. Più due birre, 36 euro senza scontrino. Per il posto in cui siamo è caro, ma a Genova ci avremmo lasciato lo stipendio.

Torniamo verso casa, ci fermiamo alla cattedrale e visitiamo il palazzo Reale, poi rientriamo stanchi come se fossero le sei. È l’una.
Dormiamo un po’, poi usciamo di nuovo.
L’idea sarebbe di andare a cena, ma passiamo davanti a Testagrossa e quasi quasi ci prendiamo una cosa, tipo un altro panino con la milza, per fare merenda.
A quel punto la cena è diventata un di più, e gironzoliamo annusando la città. Le strade si sono riempite di gente che prende l’aperitivo o sciama alla ricerca di quello buono. Ai Quattro Canti adesso ci sono degli sposi che si fanno le foto, degli artisti di strada che suonano Romagna mia (ma perché?), altri che improvvisano un rock parecchio Zeppelin, solo chitarra e tastiera. Nelle piazze della Kalsa ci si prepara per il jazz festival, il teatro è ricoperto di strisce argentate che lo fanno somigliare al gonnellino delle ballerine hawaiane nei vecchi cartoni animati di Hanna & Barbera.
Troviamo un bar accanto al teatro, che si chiama Cantavespri, e ci facciamo il nostro aperitivo. Il piatto di assaggi che a Genova ti regalano, qui costa 8 euro, presentato come una gran prelibatezza. E poi siamo noi quelli attaccati al denaro.
Tutto intorno si stanno allestendo palchetti, si montano casse e microfoni. Sarebbe da aspettare l’inizio dei concerti, dev’essere una città divertente dopo il tramonto, ma sono solo le otto e ne abbiamo già le palle piene.


You left 
Your tired family grieving 
And you think they’re sad because you’re leaving 
But did you see Jealousy in the eyes 
Of the ones who had to stay behind? 
And do you think you’ve made 
The right decision this time?

Sono appena tornato da Londra, dove mi ero nascosto per sfuggire alle annuali polemiche sul festival di Sanremo, ma non sono riuscito a evitarle in toto, c’è rimasto quello strascico fetente di chi butta lo spettacolo in politica e la politica in caciara, e quest’anno mi sembra che sia andata peggio del solito, con questa moda recente del bullismo razzista a occupare ogni spazio pubblico disponibile. Sono francamente stupito che alle ultime regionali, in Abruzzo, Casa Pound abbia totalizzato solo lo 0.5%. Vuol dire che siamo ancora più ignoranti di quanto pensassi, e crediamo davvero che sia la camicia nera a fare il fascista, e non l’atteggiamento.

Vabbè, la storia ce l’ha già mostrato una volta come va a finire, basta avere pazienza e tenerseli lontani finché non li appenderanno di nuovo tutti quanti, e i loro simpatizzanti torneranno a nascondersi sotto i sassi e negare di avere mai votato quella roba lì.

Nel frattempo Londra si sta preparando ad affrontare la Brexit: c’è una grossa dogana all’aeroporto che ricorda tantissimo quella cinese, ma probabilmente c’era anche prima, non atterravo sul suolo britannico da diversi anni, che ne so se è una novità. E per strada non c’è altro segno che lasci presagire un cambiamento, gli stranieri sono sempre più numerosi dei locali, e se hai l’albergo a Earl’s Court sembra di stare in Italia, la tua lingua è parlata in ogni tavolo di ristorante, dentro qualsiasi negozio e pure dalla signorina che ti consegna le chiavi della stanza.

Insomma, non lo so se Londra si stia davvero preparando a uscire dall’Europa, ho provato a chiederlo al Primo Ministro, ma Downing Street è chiusa da un grosso cancello sorvegliato giorno e notte, non mi hanno lasciato avvicinare. Nè hanno acconsentito a lasciarmi aggiungere il numero di Theresa May al mio gruppo whatsapp “pizzata coi leader europei”. Peggio per lei, continuerà a farsi portare le alette piccanti da KFC.

A guardare bene i dettagli si intuisce che qualcosa stia cambiando: la Torre dell’Orologio, quello che chiamiamo Big Ben, è tutta fasciata. Pensavo a un restauro, ma su un lato le impalcature sono coperte di francobolli, e c’è un’etichetta con un indirizzo, ma non sono riuscito a leggerlo, era troppo in alto.

E domenica, al cambio della guardia, i militari smontanti sono usciti dal cancello con una valigia in mano e sono saliti sull’autobus per Victoria Station.

Non che la cosa mi abbia preoccupato, avevo una prenotazione per il monologo di Sir Ian McKellen al piccolo teatro di Hampstead per quel pomeriggio, di tutto il resto mi fregava pochissimo. “Fintanto che rimane un po’ di Londra ce la visitiamo!”, ho detto al mio amico dottor Hardla, che mi accompagnava in questa trasferta.

You shall not pass (away)!

Sono andato in viaggio con una compagnia differente perché la mia fidanzata non parla ancora bene l’italiano, e ciò la rende immune alle polemiche sanremesi, mentre io e il mio amico siamo particolarmente sensibili e quindi ci incazziamo, poi ci deprimiamo, poi ci mettiamo a bere pesante, e quando siamo ubriachi andiamo a molestare le diciottenni per strada. Di solito poi i loro fidanzati ci menano, e per un po’ abbiamo cercato di giustificare la palese incapacità nell’azzuffarci con l’alcool che ci mina i riflessi, ma oramai non ci crede più nessuno, e anche i nostri amici più sfigati si sono messi a farci le prepotenze.

Londra ci è sembrata abbastanza lontana da fugare ogni rischio. Oltretutto gli alcolici vengono centellinati col maledetto misurino, e ogni cocktail risulta carissimo e annacquato, rendendoti impossibile la ciucca.

Molte cose sono cambiate dall’ultima volta in cui sono venuto in città: Tottenham Court Road è molto più grande, hanno tirato giù diversi edifici e li stanno sostituendo con palazzi moderni, come è successo al quartiere della finanza, nella City (il mio preferito in assoluto è il Walkie-Talkie, al 20 di Fenchurch Street); il municipio sta dentro un grosso testicolo vicino al Tower Bridge (a dire il vero ci stava già tutte le altre volte che sono venuto a visitare Londra, ma l’ho scoperto solo stavolta), e Sauron si è trasferito dalle parti del London Bridge, dentro un palazzo che sarà pure stato costruito da Renzo Piano, ma non venite a dirmi che è bello.

Molte altre cose sono rimaste identiche, e sono proprio quelle che ci attirano in massa, a studiare, a lavorare o a passarci un weekend con gli amici. Sono quei particolari che non puoi trovare in nessun altro posto, perché ci saranno pure metropolitane più belle al mondo, ma questa è la più antica, e mantiene ancora la stessa atmosfera di quando è stata inaugurata, nel 1863. E il resto della città segue il passo. Si rinnova, si ripulisce, ma sotto la vedi ancora la sua struttura vittoriana, nelle facciate delle case, nell’arredamento dei pub, nel cibo che ti servono, che dev’essere stato cucinato allora e poi lasciato lì ad aspettare che qualcuno lo ordinasse.

Stavo guardando un manifesto appeso nel vagone della metro in cui viaggiavo: c’era una donna con l’espressione attonita e il messaggio diceva “questa è la faccia che fai quando scopri i vantaggi di vedere casa attraverso Sticazzimansion”. Da quel poco che veniva mostrato del vestito della donna si intuiva un tono dimesso, come se le avessero scattato una foto a casa dopo il lavoro, mentre si rilassava sul divano aspettando di andare a letto. L’ambiente alle sue spalle era ancora più squallido: una parete verde scuro, un quadro triste come solo la pittura inglese sa essere, un divano della nonna e due mobiletti marroni su cui stavano due abat-jours identici, che emanavano una luce tetra. Ora, magari il messaggio che voleva trasmettere era proprio di non farsi opprimere dal vecchio appartamento e sbrigarsi a cercare qualcosa di più allegro, ma la mia esperienza di appartamenti londinesi, e bed & breakfast londinesi, e anche alberghi londinesi, mi dice che non si trattava di una scelta di marketing, quello è lo stile delle case inglesi. L’hotel in cui alloggiavamo era un bell’edificio in mattoni rossi con un parco di fronte, e la camera era confortevole, ma alle pareti erano appesi due coppie di quadri identici raffiguranti un vaso, e tutto l’arredo era marrone scuro e beige.
Sul fatto che il pavimento scricchiolasse non c’è neanche bisogno di soffermarsi, se il pavimento della tua stanza non scricchiola o non sei davvero a Londra o sei un miliardario che si può permettere una camera in muratura.

Londra è questa cosa qui, anche più degli autobus a due piani e dell’accento bellissimo dei suoi cittadini: è una città che ha trasformato il proprio invecchiamento in uno stile.

Dello spettacolo di Ian McKellen posso solo parlare bene, io quell’uomo lo amo. Ha deciso di celebrare il suo ottantesimo compleanno con una tournèe che tocca tutti i teatri in cui si è esibito più alcuni inediti che perseguono campagne di promozione per i giovani e hanno bisogno di sostegno.

Per questa ragione, dopo un monologo di due ore e mezza in cui ha ripercorso la sua carriera di attore con brani recitati e un sacco di aneddoti, si è fatto trovare nel foyer con un secchio giallo in mano per raccogliere offerte e distribuire strette di mano.
Abbiamo scambiato giusto due battute mentre gli cacciavo una banconota nel secchio, ed è stato il momento migliore della gita londinese. Voglio dire, mica tutti i giorni ti capita di stringere la mano a Gandalf il Grigio in persona!

Quando siamo tornati in Italia, a parte rischiare di schiantarci sul monte di Portofino per il forte vento che impediva all’aereo di manovrare come si deve, abbiamo ritrovato qualche traccia della polemica da cui ci eravamo allontanati, ma oramai aveva perso brio, potevamo sopportarla.
In compenso sono nate un sacco di polemiche tutte nuove a cui non eravamo per niente preparati, e che mi hanno fatto venire subito un fegato così, tanto che stavo pensando di vendermelo a peso e pagarmi un biglietto per un posto da cui non sia possibile ricevere le notizie da casa, tipo Saturno. Solo che a giugno vado a vedere Eddie Vedder, non mi posso allontanare troppo. Restate in zona, avrò altro da raccontare.

E insomma sono stato a Parigi, che è come Torino ma più grossa e molto più cara, e a differenza di Torino è strapiena di italiani. Ora qualche lettore di vecchia data si ricorderà del mio punto di vista riguardo i nostri connazionali all’estero, ma per i nuovi arrivati credo sia necessario fare un riassunto: li detesto con tutte le mie forze. Se li vedo mi allontano, se mi ci trovo in mezzo fingo di non capire la loro lingua, se li sento parlare mi parte subito il pregiudizio, e me ne vergogno un po’, perché sono sicuro che gli italiani all’estero non sono tutti uguali, ed essendo io stesso all’estero con loro significa che o sono uguale a loro o il mio pregiudizio è sbagliato, perciò dovrei tacere.

Tuttavia l’idea che l’italiano nel mondo sia una delle specie in natura più vicine alla scimmia urlatrice durante l’accoppiamento mi resta appiccicata addosso ogni volta che varco i confini nazionali.

La cosa brutta è che gli italiani all’estero non fanno che confermare questo mio pregiudizio, rendendomi difficile superarlo.

Ecco alcuni esempi di italiano all’estero durante la mia ultima visita a Parigi:

  • Signore over 40 sul treno che mostra alla sua compagna tutti i video della vacanza a un volume che se fossimo allo stadio quando la mia squadra segna probabilmente lo sentirei lo stesso;
  • Signora che sullo stesso treno decide di rendere l’aria più gradevole al suo naso e spruzza del profumo in tutta la carrozza;
  • Signora che racconta di essere entrata al Louvre solo per fotografare la Gioconda e di essere uscita subito perché c’era troppa gente;
  • Signora che la Gioconda l’ha fotografata ed è riuscita a entrare e uscire in meno di venti minuti. L’ho fatto anch’io la prima volta che sono stato a Parigi, ma facevo seconda media ed ero in vacanza con una persona che i musei non li frequenta e, spiace dirlo, appartiene a quella categoria di italiani all’estero da cui mi tengo alla larga;
  • Signore che, sempre sul tema Gioconda, ha espresso ad alta voce il desiderio di riportarla in Italia;
  • Signora al Musèe d’Orsay che spiega a un ragazzino quella sensazione di smarrimento che si prova davanti a un’opera d’arte, nota come Sindrome di Stoccolma.
  • E vorrei chiudere ricordando della signora incontrata qualche anno fa a Londra, in una cappelleria di Regent Street.

Poi io sono di quelli che i francesi non sanno fare il caffè, quindi cosa mi lamento a fare dei miei connazionali quando faccio le stesse cose, ma perlomeno cerco di non farmi notare e nei musei come nelle chiese tolgo la suoneria al telefono, non bercio e rispondo educatamente. E rispetto la fila, pezzi di merda.

E comunque questa cosa del caffè va approfondita. Per anni ho creduto che un caffè buono fuori dall’Italia fosse impossibile da ottenere, ma l’esperienza mi ha smentito più volte. Negli anni ho bevuto caffè dignitosi in tutto il Portogallo, a Barcellona, da un tizio con la motoretta per strada a Praga, a New York, a Londra e perfino a Guiyang, nel sudovest della Cina, ma qualunque locale francese, che sia Parigi o Marsiglia, ti riempie una tazzina di una bevanda che sa solo vagamente di caffè. Sono giunto alla conclusione che siano proprio loro a volerlo così, come gli americani amano il bicchierone di brodazza i francesi preferiscono questa specie di tè. E non lo fanno solo col caffè, in un locale di fronte al Palais du Luxembourg ho chiesto una cioccolata calda e mi hanno portato quella roba che la macchinetta al lavoro mi propina quando si rompe l’erogatore del latte: acqua, zucchero e una spruzzata di polvere di cacao.

A parte i miei connazionali, e il dramma del caffè, il viaggio a Parigi è andato molto bene, ho speso diverse migliaia di soldi in cose indispensabili tipo mangiare o comprarmi delle scarpe fighissime e ho scoperto nuovi angoli della città ancora sconosciuti nonostante fosse la quarta volta che ci andavo.

Non mi metterò a riportare il solito diario di bordo perché quello della Cina si è trascinato per undici episodi, e qui non credo neanche sia necessario, in fondo Parigi bene o male la conosciamo tutti, è una città europea più o meno uguale a quelle che abbiamo qui da noi e nessuno fa cose particolarmente strane o insolite, a parte incazzarsi col governo e fare casino finché non ottengono qualcosa.

Ecco quindi una lista di aneddoti e brevi recensioni che potrebbero tornare utili nel caso doveste recarvi nella capitale della Francia. Potete anche leggervi quella che ho scritto la volta scorsa, che si trova qui.

Il TGV
Puoi prenderlo da Milano Porta Garibaldi o, come noi, da Torino Porta Susa. Parte alle sette e qualcosa e in stazione la mattina del primo gennaio non c’è un cazzo di bar aperto che ti prepari un caffè. E fa un freddo cane.

Il treno in seconda classe è poco differente da una seconda classe di un qualunque interregionale, tranne che i sedili si inclinano un pochino senza disturbare chi sta dietro e hai un tavolino pieghevole come quelli degli aeroplani. E ci si dorme malissimo.

E infatti non si è dormito neanche un po’

Marais
Il Marais è quell’area cittadina che si estende fra il 3° e il 4° Arrondissement, dove Arrondissement è come l’amministrazione parigina chiama i suoi quartieri. Ce ne sono venti e vengono contati a spirale dal centro. Quindi quando trovate un airbnb che sta nel diciottesimo arrondissement lo scartate convinti che sia lontanissimo, e invece per 45 soldi a notte potevate dormire nel quartiere dei pittori a Montmartre, stolti!

Noi stavamo nel Marais, appunto, a cinquanta metri da Place des Vosges, in un monolocale grande come il mio bagno dove se uno doveva fare la cacca l’altro usciva per non sentirsi come quando porti il cane a fare i suoi bisogni, che si spreme e intanto ti guarda.

Place des Vosges ospitava gli aristocratici e i nobili prima della Rivoluzione, ancora adesso è possibile visitare la casa di Victor Hugo e diversi edifici di un certo pregio estetico. Dopo la Rivoluzione di nobili non se ne trovavano più, e in piazza si sono trasferite le gallerie d’arte. Ce n’è una ogni due metri, tutte specializzate in quello che va di più oggi, l’arte contemporanea. E la street art: quando le cerchi su internet tutte le gallerie ospitano opere dei nomi più famosi, come Banksy o Obey. Poi ci vai e trovi una statuetta di Minni fucsia. Però sono divertenti, me ne sono girate tipo mille in uno spazio di dieci metri quadri.

Place des Vosges

Il resto del quartiere è tutto negozietti, boutique hipster che dopo la quarta scopri che vendono tutte gli stessi articoli, gli stessi gioielli, lo stesso modello di cappotto. Come i negozi etnici si servono da un unico fornitore thailandese così le boutique hipster parigine riempiono i loro scaffali coi prodotti di un’azienda coreana, di proprietà di un signore che ha studiato arte moderna e ha i baffi.

Nel Marais si trovano anche il grosso della comunità LGBT e di quella ebraica, ma entrano in contatto solo quando nel privè del cruising bar si scopre che uno dei due è circonciso.

La Tour Eiffel
Ci sono stato sopra la prima volta, da bambino, e ammetto che mi piacerebbe tornarci, che ho una fissa per i palazzi alti, sarà che sono rimasto dodicenne, ma da allora ogni volta che ci capito sotto è un incubo di gente, e desisto.

Oltretutto sembra che con gli anni vada sempre peggio.
Per dire, a me piace arrivarci dal Trocadero, il palazzo che ci sta di fronte: esci dalla metro, giri l’angolo e te la trovi davanti, tutta insieme. L’ultima volta che sono stato a Parigi l’effetto è stato quello, di sorpresa.
Adesso appena sali le scale e sbuchi in strada devi scavalcare una marea di ambulanti che coprono la strada di piccole torri di plastica con le lucine o ti vendono l’ombrello, e di turisti che contrattano o cercano di passare.
E ti saluto effetto sorpresa. In più giri l’angolo e c’è un muro di gente lungo tutta la balaustra e sulle scale, tutti col telefono in mano a farsi selfie. Io così tanta gente al Trocadero non ce l’avevo mai vista, ci sono rimasto male.

A questo punto molto meglio regalarsi il primo incontro con la Torre dal finestrino della metro: se prendi la 6 da Montparnasse passi sul ponte di Bir-Hakeim, e te la trovi accanto, vicinissima e solitaria.
Sotto lo stesso ponte, se siete di quelli come me che amano visitare le locations dei film, ci hanno girato una scena di Inception.

L’altro ottimo sistema per godersi la vista senza prendersi a spallate è scendere al fiume prima di attraversare il ponte: non c’è praticamente nessuno, e quando cala il sole le luci della struttura si riflettono nell’acqua, regalandoti un’inarrivabile atmosfera da limoni.

Dopo un po’ finisce per piacerti

Montmartre
Anche qui i turisti si sprecano, e anche in questo caso per delle attrazioni vabbè.
Vai a Pigalle, che è appena sotto la collina, e non c’è nessuno fino al tramonto, anche perché ci sono soltanto sexy shop e locali di striptease, finché non aprono cosa ci vai a fare? C’è qualcuno che fa le foto al Moulin Rouge, ma a quell’ora c’è sempre il camion davanti che scarica le bottiglie.
Sali un attimo per Rue Lepic, che sta proprio accanto al mulino, e sei in mezzo al set di Amélie, c’è il cafè Deux Moulins con una decina di fotografi davanti, perlopiù cinesi, e diversi negozi di chincaglierie. Sali ancora fino a Rue des Abbesses e turisti non ce n’è più, e neanche negozi di magneti da frigo. In fondo alla via c’è la stazione della metro più bella della città, ma questo ve l’ho già detto l’altra volta.
Saliamo ancora in Rue Tholozé, una stradina ripida che non offre nessuna attrattiva e infatti cosa ci saliamo a fare. Ci saliamo perché lì davanti, sulla collina, ben visibile dalla strada, si trova l’unico mulino che vale la pena ricordare, quello che si chiama Radet, ma che tutti conoscono come Le Moulin de la Galette. Quello dei quadri di Renoir e Van Gogh.
A quel punto puoi continuare a salire o tornare indietro e prendere un’altra strada, ma tanto lo sappiamo che arriverai in cima, alla piazzetta dei pittori. È lì che vanno tutti i turisti, non ci si scappa. E loro, i fetenti, lo sanno. Tutti lì li trovi, quelli bravi e originali che vorrebbero vivere del proprio talento e gli altri, che sono la maggior parte, che ti propinano le solite caricature, i ritratti, i paesaggi coi colori sparati che fanno un casino alternativo, e le stesse crostone tutte uguali che ritrovo ogni volta che scendo giù per Via San Lorenzo, a Genova.

L’altra grossa attrazione del quartiere è la chiesa, le Sacré-Coeur, con le sue cupole bianche e la pianta a croce greca, nonostante non sia niente di speciale. Ma ha una forma particolare, da chiesetta disneyana, e sta in cima a un monte da cui si gode di una bella vista di Parigi, e poi non sottovalutiamo che ha la parola “cuore” nel nome, c’è ben più del necessario per farla diventare oggetto di interesse per i turisti di tutto il mondo. Per questo oggi ci sono anche truppe di ambulanti che ti vendono i lucchetti a forma di cuore da appiccicare alla ringhiera, come se non ce ne fossero già abbastanza di cazzate e di coglioni che le seguono, puttana la loro mamma.

Altro set, ma del tutto ignorato dai turisti nonostante i richiami al film siano ovunque

Green Tea House
Un piccolo ristorante vietnamita in una delle mille traverse di Champs Élisées, ma se vuoi sapere dov’è di preciso puoi cercarlo su google.
Gestito da una coppia dove lui cucina e lei sta al banco e serve i tavoli, che sono quattro, è il posto migliore che ho trovato in città per mangiare il pho, la zuppa con gli spaghetti e la verdura che cucinano in ogni Paese dell’estremo oriente, ognuno a modo suo. Per esempio i cinesi fanno il tanmian, che per un vietnamita è una roba completamente diversa, ma per me è un’altra zuppa con gli spaghetti e la verdura. Capire le culture diverse dalla nostra è più difficile di quanto si creda.
Non che questo vi autorizzi a sputarci sopra, teste di cazzo.
Comunque i prezzi sono contenuti, che per Parigi è raro, e la qualità notevole. Due giorni dopo abbiamo provato un altro vietnamita vicino a casa, scrauso nell’aspetto e tremendo nel sapore. Non vi dico come si chiama, ma sta vicino a una pasticceria ebraica.

Louvre
Il biglietto costa 17 euri, e ci sta, che ti permette di entrare nel museo più grande del mondo, però sarebbe meglio farlo online, perché la coda alla biglietteria è la più lunga del mondo, e già visitare tutto il museo richiede qualche ora, perché perderne altrettante fuori al freddo?
E già che ci siamo, quando dovete entrare non è necessario farlo attraverso la piramide di vetro che sta al centro, potete usare una qualunque delle entrate laterali. Quella meno affollata si dice essere la Porte des Lions, che se vi trovate con la piramide davanti e il giardino dietro si trova alla vostra destra, in fondo alla lunga ala dell’edificio. Ci sono due leoni all’ingresso, dai, non è difficile.
Quando ci siamo entrati noi erano le cinque, e non c’era nessuno. Nel vero senso della parola, nessuno, né gente che entrava né impiegati del museo a controllarti il biglietto. Solo un addetto al metal detector, che ti mette lo zaino sul nastro e ti passa la paletta addosso. Superato quello ci siamo trovati dentro il museo, coi visitatori che andavano in bagno e quelli fermi sulle scale a capire dove sta Monnalisa (sta lì vicino, peraltro). Vabbè, ce lo controlleranno più avanti. No, quello è un quadro, i quadri stanno dentro il museo, quindi noi stiamo dentro il museo coi quadri, nessuno ci ha controllato i biglietti, abbiamo speso 34 soldi per niente. Abbiamo aiutato il museo, mettila così.

Le opere all’interno non c’è bisogno che ve le descriva, uno entra al Louvre anche solo per godersi i corridoi con le tele gigantesche appese.

Bonvivant
Un café nel Quartiere Latino, incontrato per caso e scelto senza fare troppa attenzione. Ci è andata bene, l’arredo è moderno, in legno chiaro, accogliente, e il personale è giovane e sorride a tutti. Le porzioni sono proporzionate al prezzo, che è proporzionato alla città. Insomma, costa un botto, ma almeno mangi. E mangi bene, devo dire. All’uscita abbiamo scoperto che il locale è consigliato dalla guida Michelin. Ah ecco perché.

Institut du Monde Arabe
Sta vicino al locale di cui sopra, in fondo alla via, e nel mezzo ci sono un casino di fumetterie, quindi per arrivarci ti ci vuole mezza giornata. Non so molto di questo posto, ci sono entrato perché avevo appuntamento lì fuori con una coppia di amici e faceva freddissimo. Ha una terrazza panoramica all’ultimo piano da cui vedi Notre-Dame, e una libreria che non ho avuto tempo di esplorare, ma sembrava ricca. C’è anche uno spazio in cui si organizzano mostre multimediali, mentre eravamo lì ce n’era una che presentava una ricostruzione virtuale di Palmira.

Musèe d’Orsay
Credo di avere già detto tutto altre volte, prima la coda eterna la evitavi comprando il biglietto online, adesso ti becchi la coda eterna di chi ha comprato il biglietto online. C’è sempre il chiosco di fronte all’entrata dove puoi comprarlo sul momento allo stesso prezzo, e senza aspettare, ma poi l’ingresso è comunque soggetto ad attese che ci sta dentro comodo un paio di episodi della vostra serie TV preferita.
Una delle guardie, molto scortese, ha attaccato a gridare a un signore che chiedeva informazioni, e non si sono menati perché è arrivato il suo capo e l’ha allontanato, ma se il tuo lavoro è avere a che fare con la folla e la tua attitudine è quella di menare chi ti fa domande con insistenza forse dovresti cercarti un altro lavoro. Tipo l’ultras allo stadio.
Che altro posso dirvi di uno dei musei più visitati al mondo? Che il guardaroba è veloce e gratuito, lasciateci la giacca, ne vale la pena.

Centre Pompidou
Un altro museo enorme, una struttura di tubi colorati che giace in mezzo alle case con l’armonia di un gatto sdraiato nel presepe. Qui la coda per entrare è lunghissima, ma solo se vai a vedere la mostra dei Cubisti al primo piano, o se non hai già comprato il biglietto. Noi figli del digitale, come al solito, ce lo siamo fatto online, così entriamo subito e ci troviamo a condividere lo stesso atrio con quelli dell’altro ingresso. E alla biglietteria non c’è nessuno. Io davvero boh.

L’esposizione permanente del Centro Pompidou copre tutto il periodo dal Fauvismo all’arte contemporanea, perciò andrebbe visitato subito dopo quello degli Impressionisti di cui ho parlato prima. Sia la permanente che la mostra sui Cubisti sono esaustive, con grossi pannelli informativi a spiegarti i chi e i perché, e qualche opera apparentemente scollegata a fornire le note a piè di pagina. Tipo una grossa vetrina piena di maschere africane per introdurre una sezione dedicata a Picasso, cose così.

All’ultimo piano c’è un ristorante in cui mio padre mi ha portato durante la mia prima visita in città. Era un buffet, costava poco e ti davano un casino da mangiare, e ci andavamo tutti i giorni, a farci delle piattate di qualcosa che non ricordo ma aveva le salsine sopra e a guardare la città, che da lassù se ne vede un sacco. Oggi c’è ancora un ristorante, ma decisamente più raffinato, e sulla terrazza a guardare la città non ci siamo stati perché faceva un freddo che ti gelavano anche le bestemmie.

Fuori dal Centro Pompidou ho da segnalare due cose interessanti: una è un piccolo negozio di falafel, Falafel du Liban, sta alla fine di Rue Rambuteau, a cinquanta metri dal museo. È piccolo, con due tavoli se vuoi stare dentro, e prepara la shawarma più buona che ho mai mangiato.
L’altra nota a margine è Banksy. Il più famoso street artist al mondo ogni tanto compare con qualche opera nuova, in giro per il pianeta, e inizia la caccia: i giornali ne parlano, la gente va a vederlo, il proprietario del muro su cui è comparsa lo rimuove per rivenderselo a cifre paurose o gli altri artisti lo vandalizzano. L’anno scorso, alla fine di giugno, nove suoi disegni sono comparsi in città. Fosse stato per me li avrei scovati tutti e nove, ma non viaggiavo da solo, e la mia fidanzata aveva altre priorità, essendo la sua prima volta nella capitale francese. Mi sono accontentato di quello appena fuori dal Centro Pompidou, su un pannello nella stessa Rue Rambuteau di prima.

sì, quello che tiene in mezzo alle gambe è il suo grosso arnese

Cimitero di Père Lachaise
Ogni volta che vado a Parigi faccio un giro dei cimiteri, ma se sono stato tre volte in questo non mi è mai capitato di entrare in quello di Montparnasse. Stavolta la mia visita è breve, assecondo i desideri confusi di Shasha, convinta chissà perché che i cimiteri debbano essere tutti pianeggianti, e che in dieci minuti ti giri tombe dove chissà, magari la celebrità che la occupa ti fa pure un autografo. Quando scopre che non ci sono cartelli e grosse frecce luminose a indicare il sepolcro che ti interessa perde rapidamente interesse nel luogo e decide di avere visto abbastanza. Il vantaggio di stare con una ragazza cinese è che difficilmente vorrà farsi un selfie sulla tomba di Jim Morrison. A me va benissimo, che la meta successiva è un posto dove non sono mai stato, Belleville.

Belleville
Premetto che, da lettore di Pennac, ho un sacco di ottime ragioni per visitare questo quartiere ed emozionarmi davanti allo Zèbre, e che il tempo a disposizione è stato poco e non sono riuscito a godermi tutto quello che il quartiere offriva, e quindi ahimè dovrò tornarci.
Belleville appare come un quartiere periferico, ha poco in comune con le aree del centro, coi palazzi eleganti e i lampioni art-déco; sembra più uno di quei posti dove loschi personaggi stazionano sul marciapiede e ti fanno venire voglia di attraversare la strada. È abitato praticamente solo da cinesi e da arabi, che si dividono le strade in modo deciso, come si può capire dalle insegne dei negozi.

Ma allora uno cosa ci dovrebbe andare a fare?
Beh, intanto ci sono parecchi graffiti sui muri, un po’ ovunque, se hai tempo e voglia puoi metterti a cercare il tuo artista preferito, capace che lo trovi. Banksy non credo che ci sia, comunque. Invader sì, ma lui è dappertutto in città.
Poi potresti andarci proprio per respirare questa commistione di etnie, che in Francia è abbastanza comune, ma a Belleville è piuttosto intensa; e poi c’è sempre la questione Pennac, se hai letto la saga della famiglia Malaussène non c’è bisogno che ti convinca, probabilmente Belleville era già nella tua lista.

In ogni caso, dovesse capitarti di trovarti lì all’ora di pranzo (credo valga anche per la cena), ti consiglio caldamente di fermarti al Le Tais, un ristorante marocchino dalla sala piccola e dai piatti giganti. È sempre affollatissimo, ma a quanto pare l’attesa per un tavolo non è lunga, e in poco tempo ti siedi in braccio a qualche altro avventore e ti godi un pranzo più che dignitoso. Io a Belleville ci tornerei solo per quel ristorante lì, anche se poi dovrei tenermi la voglia di provare quel cinese sulla strada per il parco, che sembrava interessante, e allora dovrei tornarci una terza volta, e insomma, andare a mangiare con regolarità a Belleville potrebbe risultare dispendioso, meglio trovare qualcosa di analogo a Genova, anche se è più difficile.

Gilets Jaunes
Li ho incontrati sotto l’Arc de Triomphe, di cui non vi dico niente perché cosa vuoi dire di un arco gigante in mezzo a una piazza rotonda da cui si dipanano diversi viali pieni di centri commerciali e negozi costosi? Chiaro che se vi dicessi qualcosa vi parlerei dei centri commerciali, tipo le Galeries Lafayettes dove varrebbe la pena entrare più per la grande cupola colorata che per il negozio in sé, o il Printemps, che ti permette di salire alla terrazza panoramica, o il fatto che a natale entrambi espongono una serie di vetrine meccanizzate piene di buffi animali che fanno cose, non come quelle scrause del presepe sotto casa che al massimo c’è il bue che fa girare la macina del mulino, e alla fine non vi racconterei niente dell’Arco in sé, perché alla fine cosa vuoi dire di un aggeggio così ingombrante costruito solo per celebrare una vittoria militare? Che ci puoi andare sopra, e dicono che ne valga la pena, e che ad avvicinarsi ci sono dei bassorilievi che uno potrebbe mettersi lì e raccontarti, ma mi viene già sonno così, quindi vi parlo dei tizi che ci stavano sotto, all’Arco, sul marciapiede da cui sono sbucato arrivando con la metropolitana.

Erano una decina, e indossavano la casacca gialla che tieni in macchina in caso ti capiti di scendere in autostrada per cambiare una gomma e non ti vada granché a genio di farti investire da qualche camion. C’era anche un muletto, uno di quei carrelli elevatori che si usano nelle aziende, parcheggiato lì vicino. Era quello, ho scoperto dopo, con cui alcuni manifestanti avevano sfondato un portone di qualche ufficio ministeriale quello stesso giorno. Non mi è chiaro come fosse arrivato lì senza che il guidatore venisse arrestato, considerato che a fronteggiare la decina di manifestanti c’era qualcosa come cinquanta poliziotti in antisommossa.
Non sembrava una situazione pericolosa, c’erano più turisti che manifestanti, e uno dei poliziotti che teneva un cannone a tracolla si faceva le foto con delle ragazze orientali. Sono andato a chiedergli se era previsto l’arrivo della grossa manifestazione di quel giorno, e mi ha risposto di sì.
Era sabato, e tutti i sabati a Parigi c’è una grossa manifestazione di Gilets Jaunes che va a finire sotto l’Arc de Triomphe. All’inizio raccoglieva moltissimi francesi incazzati, ma col tempo (siamo già intorno alla decima manifestazione) il numero si è ridotto, anche grazie ad alcune concessioni del governo che hanno accontentato una parte delle richieste, e oramai a scendere in strada sono rimasti gli irriducibili che chiedono le dimissioni del presidente Macron.
Sono arrivati dopo poco, saranno stati due-trecento. Non ci ho capito molto, ho visto cartelli con slogan contro l’Europa, cazzate populiste che vanno tantissimo anche qui, e a girarci in mezzo mi sono sembrati gli stessi irriducibili che incontravo la domenica allo stadio, con le stesse armi di fortuna e le facce coperte, e gli stessi riti di sfida agli agenti che stanno dall’altra parte. Tre tizi vicino a dove stavo si spronavano l’un l’altro ad andare a fare casino. “On va à casser?”, si dicevano. I poliziotti, per non deludere i tanti turisti arrivati fin lì, hanno fatto due manovre avanti-indietro-avanti, fai la giravolta-falla un’altra volta e hanno lanciato due lacrimogeni sui facinorosi, che nel frattempo avevano dato fuoco a qualcosa là davanti. Teatro, niente di più. Non ci sono state cariche, incidenti, situazioni pericolose, dopo un po’ i turisti si sono dispersi e con essi anche la ragione principale di tutto quel trambusto. Ciao, grazie a tutti, ci ritroviamo qui la settimana prossima alla stessa ora.

meh

La mattina dopo, sotto casa, ci siamo imbattuti in un altro corteo, stavolta erano studenti, e si sono limitati a cantare le loro canzoni senza troppo disturbo.

Non ho ben chiaro cosa sia questo movimento, ma credo di aver capito che in Italia non abbiamo capito niente e cerchiamo tutti quanti di appiccicargli un’etichetta e tirarli dalla nostra parte, qualunque essa sia. In realtà sono semplicemente francesi, gente abituata a scendere in strada e fare casino quando vogliono qualcosa, e quest’abitudine non sta a destra o a sinistra, è trasversale. La cosa più vicina che abbiamo qui è il tifo per la Nazionale di calcio, per forza non li capiamo.

Poi non voglio andare oltre perché sono abbastanza sicuro di avere detto delle idiozie e non mi sembra il caso di peggiorare la mia già scarsa immagine pubblica. Non parlo di quello che non conosco, se posso evitarlo. Se volete aggiungere qualcosa voi i commenti sono qui sotto, sarò felice di leggerli.

Lunedì 20

Mi alzo quando lo decido io, e mezza giornata è già andata. Vado a piedi fino all’hotel di Shasha, così da arrivarci intorno all’ora di pranzo, che trascorriamo in uno dei ristoranti giapponesi del mall, seduti a una grossa tavolata di impiegati. Mangiamo anche piuttosto bene, per essere un locale da pausa pranzo.

Per digerire la mappazza mi faccio prestare la bici e cerco di raggiungere il quartiere di Chaoyang, dove si trova la sede della televisione, il famoso Palazzo Mutandoni. Proprio di fronte si sta costruendo una torre nuova, che dovrebbe diventare la più alta della città, e secondo il francese che viveva nell’altra stanza dovrebbe già essere visitabile, lui c’è stato e racconta di viste memorabili dalla terrazza panoramica.

Faccio un bel giro, passo davanti a un edificio senza finestre che ospita un ministero, supero la via delle residenze diplomatiche, dove ogni villetta è protetta dalla polizia e da cancelli antisfondamento, e se sei il fattorino che consegna la pizza ogni volta è un dramma.

Mi fermo per una bibita ristoratrice al Galaxy Soho, che fra tutti i mall di Pechino è il più figo, anche se i suoi addetti alla sicurezza non sanno scrivere “security” e sfoggiano grossi errori di ortografia sul giubbotto.

Cetamente

Il palazzo che voglio visitare è circondato da un cantiere, l’ampio ingresso è sbarrato da una palizzata. Non solo è chiuso, non ne è prevista l’apertura prima del 2019. Mi pento di non avergli mangiato tutta la marmellata, a quel fanfarone coi baffi.

Neanche Mutandoni è visitabile, a quanto capisco dai gesti della guardia che ci sta davanti. Ma non parliamo la stessa lingua, chissà cosa ci siamo detti.

Vabbè, torno indietro, tanto la bici è divertente da usare, e mi faccio tutto il viale, lo stesso che poi arriva a Tiānānmén, con uno scatto da rapinatore in fuga.

A sorpresa e mettendo a repentaglio la mia stessa incolumità scarto a sinistra, giù per Chongwenmen, fino al Glory Mall: il demone dello sport mi ha ormai posseduto, e la bici non mi basta più. Compro un paio di scarpe da corsa di una marca cinese che va per la maggiore.

Nei miei sogni perversi mi alzo un’ora prima tutte le mattine per correre, e in breve ritrovo la tonicità dei miei vent’anni.

Le proverei appena arrivato a casa, ma ho da preparare la cena, e mandare via Gordon Ramsey, che si aggira ancora per la cucina in attesa degli avanzi.

Mutandoni ha un fascino che voi che non avete mai giocato a Tetris non potete capire

Martedì 21

Prima ancora di fare colazione indosso le scarpe nuove e scendo in strada, carico come l’orsetto delle duracell. Per essere la prima volta che corro in dieci anni non me la cavo male, percorro l’intero isolato (un chilometro, più o meno) in meno di due ore, e quando rientro in casa sono ancora vivo e cosciente. Alive and kickin’, direbbero i Simple Minds, ma riferendosi alla mia milza.

Mi butto sul letto aspettando di morire, e mi rialzo solo per raggiungere a pranzo l’altra metà della coppia. Nonostante ogni muscolo del mio corpo sembri yogurt sono soddisfatto dell’impresa eroica appena compiuta, e per premiarmi faccio una cosa che non avevo ancora fatto prima, ma che desideravo da un po’: mi fermo a comprare da un negozietto che si affaccia sulla strada, dietro la stazione della metro. È un buco composto da una cucina in cui lavora un tizio e una finestrella da cui una signora vende i suoi prodotti. Fanno ravioli, baozi, e delle focaccette ripiene di carne che sembrano invitanti, i xiàn bǐng (馅饼)

Ne chiedo una, mi dice quattro. Faccio per darle quaranta, e lei ripete “no no, quattro”. Questa vende focaccette di carne per cinquanta centesimi l’una. Non sono enormi, sono più o meno della dimensione di una pizzetta, ma cinquanta centesimi? Voglio venire a vivere qui.

Naturalmente il negozietto della signora diventerà una meta obbligata ogni mattina dopo la corsa e la colazione.

Superato il pranzo in uno dei ristoranti del mall andiamo a Chaoyang, perché Shasha ne ha per le balle di stare in ufficio e decide di inventarsi una missione in città. Che la mia ragazza marini il lavoro per stare con me mi fa una tenerezza che mi lascia disarmato, ma proprio Chaoyang che non c’è un cazzo? Non potevamo andare a Sanlitun? Vabbè.

Finiamo a girare per l’ennesimo mall, figo quanto vuoi, ma praticamente deserto. Mi chiedo, ma in tutti questi enormi centri commerciali la gente ci va? Ci compra? Quelli che si affacciano su Wangfujing sono sempre affollati, ma quella è un’area molto turistica, ci sta. Qui non c’è anima viva. Poi penso che è martedì, durante l’orario di lavoro, e che i negozi sono di fascia piuttosto alta: si vede che in un quartiere di uffici come questo quando i dipendenti staccano preferiscono andarsi a spendere i lauti stipendi piuttosto che tornare a casa. Oppure non ho capito come funziona l’economia cinese, e mi sembra più probabile.

Prima di andare via ci prendiamo un gelato grattugiato da IceMonster, pubblicizzato come uno dei migliori dieci gelati al mondo. Avessero detto della Cina avrei potuto crederci, ma così si guadagnano un enorme SEH!

Ice Monster’s monster

Si tratta di una montagna (letteralmente) di ghiaccio tritato e cosparso di succo, adornato con pezzi di frutta sciroppata e accompagnato da una bevanda, magari non avessi ingurgitato abbastanza liquidi così. Non è male, specie se lo mangi in una città dove il pavimento si scioglie per il caldo e l’umidità non ti lascia respirare, ma il gelato du caruggiu non ha rivali.

Mercoledì 22 agosto

La bici di Shasha ha un pedale rotto. Ne compriamo un paio online pagandoli cifre ridicole e quando arrivano mi attrezzo per sostituirlo.

Per prima cosa vado dal ferramenta sotto casa e provo a spiegargli che mi serve una chiave inglese del 10. Non avendo idea di come spiegarglielo senza imparare a memoria una frase lunga e complicata (che poi credo che “chiave inglese del 10” si dica Shí hào bānshǒu , 十号扳手, ma non sono sicuro) mi esibisco nel gesto internazionale della chiave inglese, facendo una c con pollice e indice e muovendola come se stringessi un dado. Si vede che in cinese questo gesto significa “sono alla ricerca di qualcuno che mi dilati l’orifizio posteriore”, perché il ferramenta mi guarda schifato, mi tira la chiave e si allontana.

Aggiusto la bici e torno ad avventurarmi per le vie della città.

Ora vorrei aprire una parentesi e dedicarmi a un problema che ritengo angosciante per me e per tutti quelli che si trovano in vacanza lontano da casa: i regali.

Perché dobbiamo fare i regali a tutti quando torniamo da un viaggio? Cos’è, Natale? Da un po’ di tempo se non porto indietro qualcosa dalle vacanze mi sento in colpa, come se dovessi dimostrare a delle persone che anche se mi trovavo lontano stavo pensando a loro. E invece no, non è vero che ci ho pensato, uno va in vacanza proprio per pensare ad altro, sennò venivo a stare tre settimane a casa vostra, no?

Se fosse per me mi comporterei come a natale, che non regalo un cazzo a nessuno, ma quegli stronzi dei miei amici mi portano sempre qualcosa dai loro viaggi, e mi fanno sentire una merda.

Non si tratta di una questione economica, figurati se sto a micragnare per un amico con tutto quello che butto via in cazzate, il mio problema grosso è che il più delle volte non so proprio cosa cazzo comprare.

Quest’anno sono stato via tre settimane, durante le quali il mio gatto è stato accudito da mia madre e mia sorella. Tutti i giorni gli davano da mangiare, gli pulivano la cassetta e giocavano con lui. Sdebitarmi mi pareva il minimo, e se con mia sorella è abbastanza facile, dato che ha due bambini e trovare qualcosa che piaccia a loro è indubbiamente più semplice, fare il regalo giusto a mia madre è stato un casino. Anche perché applicare la stessa proprietà transitiva che adotto con mia sorella e comprare qualcosa a suo figlio sarebbe da stronzi egoisti.

E aggiungi anche i miei amici, che oltretutto non hanno figli e spesso neanche una moglie. E mio padre che, bontà sua, mi ha chiesto una cosa specifica, ma mi ha chiesto un colbacco, e io dove cazzo lo trovo un colbacco ad agosto?

A me fare i regali mette ansia, sempre. E quando sono in vacanza mi obbliga a pensarci per giorni, e soprattutto ad avventurarmi in posti da cui normalmente mi terrei alla larga.

È con questo spirito che quel mercoledì ho varcato l’ingresso di Inculopoli, il mercato dei falsoni di Silk Street, dove l’unico modo per concludere un buon affare è andarsene senza comprare niente.

Luoghi da cui tenersi lontanissimi

Quando si affrontano certi rischi è fondamentale avere un piano a cui attenersi con precisione maniacale, ogni gesto improvvisato può portare a risultati catastrofici. E io ce l’avevo un piano: andare diretto al reparto giocattoli e comprare un orrendo pupazzetto che mi era stato commissionato da mia nipote. Cosa mai poteva andare storto?

Quindi entro, attraverso abbigliamento con la cera nelle orecchie per non farmi irretire dal canto suadente delle commesse e dei loro “hey sir!”; camicie da uomo mi tenta tre volte, mostrandomi un sasso che dovrebbe diventare uno splendido modello a righe, poi mostrandomi feste eleganti in cui farei un figurone con la mia nuova camicia senza colletto, e infine pregandomi di comprare qualcosa sennò non sa come dar da mangiare ai suoi figli; e quando calzature mi offre le mie sneakers preferite a un prezzo da elemosina sento come una perturbazione nella Forza, come se milioni di voci gridassero terrorizzate e a un tratto si fossero zittite, ma è solo un attimo, e riesco a superare incolume anche questa prova.

Giungo ancora integro nell’animo e nel portafogli al cospetto di Giocattoli, e affronto il suo guardiano, la Commessa di Lerna dalle nove teste, ognuna fa un prezzo diverso, e quando ne zittisci una ne nasce subito un’altra che prende il suo posto e ti applica un ulteriore 10%.

Vuole duecentocinquanta soldi, ma la mia fermezza è inattaccabile, e per il corrispettivo di dodici euri mi porto a casa un orrore di plasticaccia che mio padre al mercato lo pigliava in omaggio insieme a un topolino da due soldi.

Nonostante la palese fregatura mi sento vittorioso, e nella mia testa parte un film bellissimo in cui torno a casa con due borse piene di ogni genere di preziosità, Shasha mi chiede dove le ho comprate, io dico Silk Street e lei fa la faccia della bionda nella doccia in Psycho, e io per rassicurarla poso le borse e le vado vicino col dito sotto il suo mento, e dico “un tizio apre la porta e gli sparano e tu pensi che quello sia io? No cara, io sono quello che bussa!”, ma neanche nel mio bellissimo film mentale Shasha coglie la citazione, c’è poco da fare, se ti metti con una cinese che ha la metà dei tuoi anni certe affinità culturali te le puoi scordare.

Mi sento così sicuro di me stesso che devio dal piano originale e vado a comprarmi un portafogli nuovo.

“Monblòn?”, mi chiede la signora.

“Wallet”, ripeto, pensando che non parli inglese.

Con aria cospiratrice, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno ci stia spiando, apre un cassetto chiuso a chiave. È pieno di portafogli allineati uno contro l’altro, senza una scatola, pelle contro pelle come in un porno. Ne tira fuori due, me li mostra. Dentro c’è scritto Mont Blanc. Per dimostrarmi che sono fatti di pelle vera passa sotto il primo la fiamma dell’accendino. “Originale, pelle vera! Alta qualità!”.

Non m’interessa un prodotto costoso, voglio solo un portafogli intero, e per farle capire come sono abituato ad andare in giro le mostro quello che ho in tasca. È così malridotto che se avesse le gambe reciterebbe in The Walking Dead.

“Investire nella qualità!”, insiste lei, citando le parole del filosofo cinese ChāoShì (超市).

“Vabbè, quanto vuoi?”, chiedo, più per parlare che per reale interesse, ma ormai il demone dell’acquisto ha arrotolato le sue spire intorno alle mie caviglie, e si sta arrampicando su per le cosce restituendomi fremiti di gelida aspettativa. Non posso più sfuggire, me la devo giocare meglio che posso.

“880 soldi”, spara. Che sono 110 euri.

“Ma tu sei fuori! È lo stesso prezzo che mi hanno chiesto ieri al negozio della Camper all’Oriental Plaza! Ciao!”

Mi acchiappa veloce per un braccio, e sottovoce, perché non ci sentano le spie del governo che chiaramente stanno acquattate dietro gli scaffali, mi chiede quanto sono disposto a spendere.

Vi risparmio tutta la contrattazione, perché è stata lunga ed estenuante, ad un certo punto io ho offerto “Dodici euro e ti insegno un trucco per finire GTA5”, e lei ha rilanciato con “Quaranta euro e il contatto WeChat di mia figlia”. In conclusione mi sono portato a casa un Mont Blanc “originale ma senza custodia né garanzia” per venticinque euri, più i complimenti della signora per avere condotto la trattativa in modo esemplare.

Quindi mi hanno fregato due volte, e la cosa peggiore è che mi sento anche un mago della finanza. Un po’ come se il tuo governo ti trascinasse in bancarotta facendoti credere che ti sta liberando da tutti i lacci in cui eri stato incastrato dalle legislature precedenti, sono così convinto delle mie abilità che immagino di tornare in Italia e aprire una società per vendere in borsa titoli spazzatura, poi distruggo una lamborghini strafatto di quaalude.

Se me ne andassi ora chiuderei con un danno contenuto e qualche soddisfazione, ma il destino ha in serbo un’ultima amara sorpresa.

Accanto all’uscita c’è un negozio che vende tè. Conosco il marchio, è Wu Yu Tai, ci abbiamo comprato a natale, è affidabile, e in questo punto vendita di sicuro parlano inglese.

Non guardo neanche i prezzi, mi faccio consigliare, non calcolo i cambi. Prendo cinque bustine da 50 grammi, e la commessa mi regala una zolletta di un’altra qualità.

Il dubbio mi viene solo dopo, mentre sono in bici sulla via di casa. Mi fermo, prendo il telefono e calcolo la spesa nella mia valuta.

57 euro. Ho speso 57 euro per due etti e mezzo di tè. Non sono un coglione, quando i coglioni mi incontrano si inchinano e mi chiamano sua maestà.

Mi prende la carogna, vorrei tornare indietro e farmi ridare i soldi, ma non credo che otterrei granché, non so se esiste il diritto di recesso in un paese dove i diritti sono barzellette raccontate a cena dai funzionari di partito. Ancora oggi, quando lo racconto, lo sento bruciare come se mi avessero marchiato a fuoco sulla spalla la A di Astronzo.

Torno a casa, posteggio la bici e vado a comprare qualcosa al supermercato, almeno lì non devo contrattare e non mi fregano, poi salgo e chiamo Shasha.

“Sei stato a Silk Street? Quanto ti sei fatto fregare stavolta?”

“Aspetta, ti mostro. Dov’è il sacchetto? Oh cazzo, l’ho lasciato appeso alla bici! Ti richiamo!”

Con tutto quello che ho speso ci manca solo che me lo faccia pure fregare. Corro giù per le scale come una slavina e tracimo nel piazzale. Il sacchetto è ancora lì.

C’è anche un uomo con la maglietta nera e la scritta police che mi chiede chi sono.

Non so come capisco subito che non si tratta di un fan della band di Sting, e che non parla inglese.

Col sacchetto della spesa in mano gli spiego a gesti che non ho il portafogli con me, cioè, ce l’ho, e l’ho pure strapagato per essere un falso, cosa per la quale dovrebbe essere a Silk Street ad arrestare commercianti truffaldini invece che qui a verificare le mie generalità, ma anche se ho il portafogli non ho i documenti, quelli sono in casa, per cui se mi lascia salire un momento poso la spesa che dentro ci sono anche due gelati e vorrei riuscire a mangiarli senza doverli leccare dal fondo della borsa, e recupero sia il passaporto che il telefono, col quale posso chiamare la mia fidanzata , che lei sì, parla cinese, e gli spiegherà chi sono e cosa ci faccio qui.

Non capisce, e ferma una signora con un bambino di sei anni che stanno tornando a casa. Si vede che li conosce, perché chiede al bambino di tradurre quello che sto dicendo. Il bambino va in crisi quasi immediatamente.

Nel frattempo io salgo e recupero passaporto e telefono, con cui chiamo la mia interprete. Il poliziotto esamina il mio passaporto e non capisce cosa voglia dire APR. Gli dico aprile, glielo dico in cinese, quello so dirlo, ma ancora non sembra capire. Passa il documento al bambino, che chiaramente non sa che farsene, essendo scritto in italiano, e lo dà alla madre.

In questo momento il mio futuro è nelle mani di una casalinga di Pechino, che sfoglia il mio passaporto con la determinazione di chi sogna di ricevere un encomio dal Presidente Xi per avere smascherato una spia occidentale.

Che una sconosciuta vicina di casa spulci nel mio passaporto mi fa girare parecchio i coglioni, e vorrei strapparglielo di mano, ma cerco di essere accomodante finché non capisco cosa succede. È il problema di dover dipendere da un visto per entrare nel Paese, ti rende prono ad abusi a cui non puoi permetterti di reagire. Pensateci la prossima volta che vi viene voglia di maltrattare l’ambulante in spiaggia, o fuori dal supermercato: non siete dei machos che fanno rispettare l’ordine, siete piuttosto dei codardi che se la prendono con qualcuno che, in una situazione di pari opportunità, vi piglierebbe legittimamente a calci in culo.

Vengo scortato in caserma, che per fortuna è proprio di fronte e, grazie alle spiegazioni di Shasha, arriviamo a chiarire la situazione: al mio arrivo avrei dovuto presentarmi in quest’ufficio per dichiarare la mia presenza e farmi rilasciare un modulo. Quello che ho compilato sull’aereo e consegnato alla dogana, e il visto che mi ha aperto la porta alla frontiera cinese non contano, serve anche questo foglietto bianco e azzurro.

Un po’ perché l’indomani partirò comunque, un po’ perché sono tre settimane che mi vedono gironzolare senza che abbia fatto niente per nascondermi, un po’ perché capiscono la situazione, decidono che non sono una spia, ma solo uno sprovveduto turista. Vedermi indossare ridicole magliette dei Monty Python facilita loro la decisione.

Mi lasciano andare promettendomi che se decidessi di tornare a Pechino non avrò problemi a farmi accettare il visto, a patto che vada subito a registrarmi a un ufficio di polizia.

Superato anche questo piccolo intoppo resta da affrontare il dramma vero, la mia ultima cena a Pechino.

Fosse per me inviterei Shasha e altri undici persone, sceglieremmo un ristorante con veranda dotato di un tavolo abbastanza lungo da poterci sedere tutti sullo stesso lato, e poi accuserei un commensale a caso di essere un traditore, ma non ce l’ho neanche in Italia undici amici.

Andiamo al barbecue coreano, un posto dove ti danno tanta carne che per ogni persona che si siede a tavola muore un vegano. È così porco che a confronto l’hotpot è la minestrina dell’ospedale.

Tutti i tavoli hanno un braciere nel mezzo, con una cappa appesa sopra, e la tua dotazione comprende, oltre alle abituali bacchette, un forchettone per muovere la carne, una paletta e un paio di grosse forbici.

tipo il cenone di capodanno ma con meno lenticchie

Il cibo viene consegnato a fette in grandi piatti, da cui lo metti a grigliare secondo il tuo gusto. Ogni tanto il cameriere torna e ti cambia la griglia, per evitare che annerisca. Se lo fa per una questione di igiene o perché il nero della brace cambierebbe il sapore alla pietanza non lo so, ma alla lunga mi rompe le balle che questo arriva, mi prende la fettina che sto arrostendo con tanto amore e me la sbatte su un mucchio di altra carne senza la minima cura.

Quando Shasha ordina al ristorante non ha affatto il senso della misura, e in quest’occasione non si smentisce: il cameriere prova per quattro volte a trovare un posto sul nostro tavolo, poi ci rinuncia e va a prendere un carrello.

Al momento di pagare il conto siamo finiti entrambi in cima alla lista dei ricercati della polizia vegana

Giovedì 23 agosto

Cosa c’è da dire dell’ultimo giorno? È il giorno della separazione, dell’attesa infinita, di tornare a parlarsi attraverso uno schermo, di non potersi toccare, di uscire vedere fare cose andare a cena sempre con qualcun altro, di fare progetti e non sapere se si realizzeranno, non sapere neanche se e quando ci rivedremo. Non si parla granché l’ultimo giorno, si guarda l’orologio e si aspetta l’ora di chiamare una macchina che mi porti all’aeroporto, sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo, perché se ti negano il visto per venire qui abbiamo esaurito le opzioni, e non lo so se potremmo reggere un altro anno così.

Non c’è molto altro da raccontare, ci metto un’ora e mezza a consegnare il bagaglio perché tutti quelli davanti a me hanno la valigia troppo pesante, e la aprono e ne dividono il contenuto in altre borse più piccole lì davanti all’impiegata, fermando tutta la fila. E questo succede praticamente per ogni gruppo di cinesi che mi precede, probabilmente gente di ritorno al paesello in cui le regole per l’imbarco non le hanno mai lette.

Quando arriva il mio turno metto la valigia sul nastro, l’impiegata mi rilascia un foglio insieme al passaporto e me ne vado a cercare un wifi da cui iniziare il nuovo ciclo di conversazione a distanza con la ragazza che amo.

Ed è tutto.

Avrei delle considerazioni da fare in coda, su quel che ho capito dei cinesi, sul libro che sto leggendo a proposito della Rivoluzione Culturale, sui racconti di famiglia della mia fidanzata che si sposano con quelli dell’autore del libro, e su come tutto questo abbia una grossa influenza sulla Cina di oggi, tanto che senza tenerne conto si rischia di prendere grossi abbagli; avrei anche da raccontare a che punto siamo io e Shasha, come procede la nostra relazione a distanza (spoiler: mentre scrivo queste righe lei sta dormendo nella stanza accanto), ma credo che per il momento vada bene così. Mi riservo di concludere questo lungo racconto prima o poi, e lascio aperto il conto dei capitoli per alimentare i miei sensi di colpa, ma per il momento è tutto.

Fine.

Venerdì 17 agosto

Non ho mai capito perché il venerdì 17 debba essere considerato un giorno sfortunato per qualcuno, mentre per altri è il 13. È pur sempre un venerdì, cosa ci può essere di brutto in un venerdì?
A meno che tu non sia il comandante della Costa Concordia, ovvio.

Il mio venerdì lo passo da solo, Shasha è tornata a lavorare, e sono senza idee su come spenderlo. Pechino offre ancora parecchie attrazioni, per esempio non ho ancora visitato il parco Beihai, o le due torri in mezzo all’hutong, ma devo ammettere che neanche me ne frega. Ho voglia di girare la città e guardare come vive, i miei interessi da turista li ho già soddisfatti tutti. E poi dopo ferragosto c’è pieno di comitive di italiani, e preferisco rimandare il più possibile il momento in cui dovrò vergognarmi di nuovo dei miei connazionali.

Sulla guida ho letto di un negozio di aquiloni in Shichahai, vicino al laghetto su cui si affacciano diversi ristoranti e locali parecchio turistici. È la stessa area del parco Beihai, fra l’altro, magari ci faccio un passo.

Per arrivare in zona la prendo larga e mi fermo a una libreria enorme non lontano daTiānānmén. Quella di Wangfujing è ben fornita, soprattutto di roba che non devi sfogliare, tipo giocattoli, miniature e strumenti musicali, ma in questo periodo ci stanno facendo dei lavori dentro, e alcuni piani sono chiusi; questa è ancora più grande, e vende veramente qualunque cosa, comprese le racchette da ping pong e le scarpe. Alla fine i libri sono la parte minore, e se sei interessato proprio in quell’articolo mi sa che è meglio se vai da PageOne.

Dopo avere ciondolato per un po’ nell’edificio raggiungo l’area del parco, e decido che fa un caldo fotonico, che il negozio non c’è (c’è, ma non lo trovo anche se ci passo davanti) e soprattutto che è già passato mezzogiorno e ho fame.

Passo davanti a un ristorante thailandese e butto un occhio al menu, piuttosto accattivante. C’è una pagina in particolare che mi attira, e non capisco come mai, visto che mostra un piatto di larve del bambù saltate in padella col peperoncino. Faccio un giro dalle parti del lago lì dietro per vedere se trovo qualcosa di meglio, ma devo essere passato dal lato dove non c’è niente, e dopo alcuni minuti sono di nuovo davanti alla pagina delle larve, e ho ancora più fame di prima.

Entro.

Ordino una padellata di larve, un’insalata di ananas e uno degli innumerevoli piatti con spaghetti e verdura che mi rendono la cucina asiatica tutta uguale.

L’ambiente è raffinato, ci sono due ragazze a un tavolo impegnate in una conversazione molto intensa, e un bambino al tavolo accanto che strilla mentre i genitori cercano di dargli da mangiare. Una delle due ragazze si gira spesso a fissare i vicini con quello che dovrebbe essere un eloquente sguardo d’odio, ma loro non lo considerano abbastanza eloquente e non si scusano né cambiano tavolo. Ci sono altre famiglie sedute qua e là, e ci sono due cameriere con la faccia antipatica, ma che in realtà si rivelano piuttosto cortesi e veloci nel servizio.

Le larve mi arrivano in un grazioso cestino di vimini, e per fortuna non si muovono, sennò non le avrei mica mangiate. Così invece non ne lascio neanche una. Sono poco saporite, sanno un po’ di nocciola, e hanno la consistenza del peperoncino quando lo togli dal forno e sembra fatto solo di buccia.

Me ne vado soddisfatto, anche se il conto è un po’ più elevato di quello a cui sono abituato.

È ancora presto per interpretare il perfetto uomo di casa che passa al supermercato e poi va a preparare la cena, e troppo tardi per andare a cercare altri negozi strani che poi tanto non troverei lo stesso.

Allungo la strada del ritorno fino a Chongwenmen e mi infilo nel Glory Mall, il grosso centro commerciale dove sono entrato una volta per cenare da un Genki, la scorsa vacanza.

Magari ci trovo qualcosa di interessante. L’idea è quella di cazzeggiare e magari trovare qualcosa di economico e abbastanza scemo da regalare agli amici. In realtà il posto perfetto per quel genere di acquisti sarebbe un mercato tipo Silk Street o Pearl Market, ma sono anche posti dove dei trattare sul prezzo, abilità del tutto assente dal mio curriculum. Di solito ci prendo delle fregature colossali, perciò mi ci tengo lontano.

Il Glory Mall è il classico centro commerciale con diversi livelli che si affacciano al centro, nel quale è stato allestito un palco. Il giorno in cui ci capito io si sta tenendo una specie di celebrazione del Giappone promossa da uno dei negozi del complesso, e sul palco due bamboccioni bianchi con la testa tonda cantano in playback quella che sembra la sigla di un cartone animato per adolescenti problematici. Il pubblico partecipa, scatta foto, sono quasi tutti adulti. A un piccolo stand accanto al palco due donne distribuiscono depliants per promuovere vacanze in Giappone.

Cercando informazioni per scrivere questo post ho scoperto che il 17 agosto 2018 in Giappone ricorreva il Tanabata, una festa tradizionale derivata da un’analoga celebrazione cinese, detta Qīxī. In pratica ci sono queste due stelle, Orihime e Hikoboshi (per noi Vega e Altair, due vertici del cosiddetto Triangolo Estivo), che si possono ritrovare solo il settimo giorno del settimo mese lunare, che non è quello solare che usiamo noi, e se sto a spiegarvi come funziona finiamo fra sei episodi invece che due, perciò vi rimando a questa pagina dove la signora Wiki sa essere molto più eloquente di me, e vado avanti.
Insomma, il Tanabata in Giappone va fortissimo, ed essendo considerata la Festa del Doppio Sette, anche in Cina ha un sacco di fans. Le date coi numeri uguali hanno un effetto particolare sui cinesi, mentre noi importiamo il Black Friday loro si spendono il patrimonio l’11 novembre per festeggiare i single, dato che Alibaba, il principale negozio online del Paese (il loro Amazon, per capirci), istituisce in quel giorno una massiccia campagna di promozione su moltissimi articoli.

Qīxī in Cina è come il nostro San Valentino, e chiaramente i negozi ci vanno giù pesante. Non ho capito chi siano i due faccioni, né perché sul cartellone accanto al palco ci sia scritto una cosa che potremmo tradurre con “Riguardo Huixi Tanabata”. Suppongo che in quel centro commerciale, all’interno delle celebrazioni per Qīxī, l’agenzia di viaggi giapponese abbia organizzato un evento per festeggiare l’analoga festa e invitare i pechinesi a comprarsi un pacchetto volo+hotel, ma vorrei saperne di più sui due pupazzoni bianchi. Se avete delle informazioni a riguardo fatemelo sapere, io intanto ignoro la festa e proseguo nella mia esplorazione.

Mi infilo in un’area dedicata allo sport e ai videogiochi. Ci sono postazioni dedicate alla realtà virtuale, sulle quali investirei volentieri un po’ di soldi, ma se la scazzatissima addetta mi spiega come indossare gli occhiali e i guanti, e soprattutto mi fa delle domande, io non so cosa rispondere.

Proseguo un po’ deluso, e finisco nel paradiso dello sportivo di città. Un ring su cui picchiare i tuoi amici secondo lo stile che più ti aggrada, una piattaforma dove tirare di scherma e una selezione di armi che sembra tirata fuori da Assassin’s Creed Black Flag, una saletta per il tiro con l’arco, e poi la figata: un tapis roulant inclinato per imparare a sciare.

A ogni postazione un insegnante è disponibile a impartire lezioni. Un sacco di bambini si stanno dedicando a diverse attività, o sono in coda in attesa del proprio turno di lezione.

E dai videogiochi nessuno, neanche qualche bulletto brufoloso. Che decadenza, madonna! Questa società è allo sfascio!

Sabato 18 agosto

La mattina di sabato accompagno Shasha dal dentista. Dovrebbe farsi togliere il dente del giudizio e ne è terrorizzata, e devo accompagnarla per evitare che salti l’appuntamento e si nasconda per un’ora nello studio del tizio lì vicino che insegna pianoforte: c’è un tizio che ha una vetrina e quando ci passi davanti lo trovi seduto a leggere il giornale da solo, o a leggerlo mentre un bambino si esercita al pianoforte contro la parete. Il cartello mostra anche altri strumenti, quindi immagino che sia in grado di leggere il giornale anche con un sottofondo di chitarra o di batteria.

A sentire la mia fidanzata non è certo che il medico la opererà, conta di impietosirlo con una scena madre che sta provando da giorni, e che prevede un lungo monologo molto intenso accompagnato da un violoncellista. Se non dovesse bastare giocherà la carta estrema: far togliere il dente del giudizio al violoncellista.

È interessante come lo studio presenti un’anticamera e un’area di lavoro separate solo da un vetro. Tranne per una banda opaca posta più o meno all’altezza di dove si trova la faccia del paziente sulla poltroncina, tutto il resto è visibile, perciò uno può starsene seduto in poltrona a godere degli spasmi di dolore del malcapitato di turno. O a farsi prendere dall’ansia se la visita successiva è la sua.

Per lenire la tensione e la noia il tavolino in sala d’attesa offre una discreta varietà di caramelle e barrette di cioccolata, che hanno il duplice scopo di mettere il paziente a proprio agio e procacciarsi nuovi clienti. Un po’ come se il parcheggio del gommista fosse disseminato di chiodi.

Appena arriviamo una delle assistenti accompagna Shasha nella stanza di vetro, mentre l’altra mi offre un tè caldo. Guardo la mia fidanzata giocarsi tutte le carte, dal buttarsi in ginocchio allo scagliare il violoncello contro la parete, con grande disappunto del musicista. È tutto inutile, bisogna estrarre il dente. Shasha viene accompagnata fuori dalla stanza e sparisce in una sala sul retro di cui ignoravo l’esistenza. Si vede che è lì dove si praticano le operazioni più serie. Lo capisco, in caso di incidenti è più facile occultare il cadavere se non ci sono testimoni.

Dopo un quarto d’ora riappaiono tutti, dentista, fidanzata e assistenti. Tranne la fidanzata sono tutti allegri e si sbracciano in saluti. Shasha no, lei sfoggia il muso delle grandi occasioni e si tiene una mano sulla bocca. Bene, se non altro non dovrò sentirla lamentarsi.

Torniamo a casa e niente, passiamo così il resto della giornata, con lei a letto a lanciare lunghi sordi muggiti di dolore e io a dispensarle tè freddo e parole di conforto.

Domenica 19

Shasha sta meglio, nel senso che non è morta durante la notte e il dente ha smesso di farle un male fottuto, passando a semplice dolore che ti tiene sveglia per ore. Per festeggiare propongo di andare a comprare del torrone, ma in Cina non si trova così facilmente, e in alternativa decidiamo di festeggiare andando a fare i matti al Museo Nazionale. C’è sempre quella mostra là, sull’arte degli aborigeni, che le interessa. Io appena sento aborigeni attacco a ripetere “Ma aboriggeno, ma io ettè, checcazzo se dovemo dì!” e giù a ridere. Shasha si domanda per l’ennesima volta cosa l’abbia fatta innamorare di me.

Quando esci dalla metropolitana di Tiānānmén hai sempre da affrontare una coda spaventosa per accedere alla piazza, non importa quale uscita prendi; anche quella davanti al palazzo del governo, la più lontana dal museo e dalla Città Proibita, è inavvicinabile senza sorbirsi ore di attesa per i documenti.

L’idea di andare al museo diventa subito pochissimo allettante, e mettiamo in pratica il piano B, andare da Page One.

Ci sono capitato spesso in questa libreria, molto più che nelle altre ben più grandi e vicine, perché ha un aspetto moderno e una selezione di titoli piuttosto recenti, oltre a un’ottima sezione dedicata all’arte e all’architettura, dovesse interessarvi quel genere di articoli. E ci si trovano anche dei fumetti, sebbene relegati in “letteratura per bambini”. Molte delle persone che la visitano lo fanno proprio perché attratti dall’aspetto, e passano il tempo a farsi i selfie davanti agli scaffali, o a tirarsela da grandi pensatori con un libro in mano, contro una delle vetrate ai piani superiori.

Chiaramente è stato un attimo abbandonare la ricerca dei libri che tanto non c’erano e dedicarci al photobombing. Credo di essere finito in almeno una decina di scatti di giovani cinesi sofisticate, e in questo aspetto devo dire che la sintonia con la mia fidanzata è stata totale: trovarci a fare facce annoiate dietro ragazze con la bocca a culo di cane ci ha svoltato la giornata.

Non è durata molto, dopo la libreria abbiamo tentato di pranzare in un posto che si chiamava Snack qualcosa, un postaccio dove abbiamo aspettato un’ora e ricevuto un piatto sbagliato prima di ricevere quello giusto e scoprire che faceva schifo.

Per raddrizzare la giornata siamo dovuti tornare a casa e ho preparato un risotto che hanno suonato alla porta e c’era Gordon Ramsey che mi pregava di fargli almeno lavare i piatti.

Sul Netflix coreano troviamo la trilogia del Signore degli Anelli, che incredibilmente Shasha non ha mai visto. La cosa figa di uscire con una ragazzina è che puoi sfoderare tutti i pilastri della tua gioventù e fare dei figuroni ogni volta.

Se nella frase qui sopra vedete dei riferimenti sessuali avete dei problemi.

Il problema è che la mia fidanzata si innamora perdutamente di questi film e tutte le sere mi obbliga a guardarne uno, con effetti disastrosi sulla nostra vita sessuale.

Se vedete dei riferimenti sessuali anche nella frase qui sopra siete delle brutte persone e dovreste stare lontani dagli asili. Vergogna!

Giovedì 16 agosto

C’è sempre un giorno, durante una lunga vacanza, in cui non fai assolutamente niente. Giovedì non stavo mica tanto bene, dovevo aver mangiato qualcosa di cattivo, forse per strada a Guiyang, forse sono state tutte le bibite gelate a disturbarmi, ed è stato quel giorno lì per me, in cui ti svegli tardi e ciondoli per l’appartamento fino al ritorno della tua fidanzata, mangiucchiando roba pescata dal frigo e facendo frequenti visite al gabinetto spingendoti tuttalpiù al supermercato in fondo alle scale.

Non avendo nulla da raccontare su questo giorno, tranne una dettagliata descrizione delle mie deiezioni, allitterata in d perché mi fa sentire più un figo, ne approfitto per pubblicare le mie impressioni su una delle mete della mia vacanza invernale: quindi oggi non siamo a Pechino il 16 agosto 2018, ma a Shanghai, nei giorni di fine 2017.

Sull’aereo il comandante ci comunica che farà il possibile per portarci a destinazione. Come inizio è rassicurante, niente da dire. Poi ci elenca la lista dei divieti a bordo, e ci ricorda che non rispettarli può portare a multe o all’arresto. E io stamattina ho letto un articolo che parlava delle epurazioni messe in atto da questo governo verso gli oppositori o chi si mette in generale contro i suoi interessi. Nel dubbio spengo il telefono e raddrizzo il sedile.

Shasha, accanto a me, dorme senza ritegno con la testa appoggiata alla mia spalla. A lei delle violazioni dei diritti umani praticate dal suo governo interessa poco, stiamo andando a Shanghai a trascorrere l’ultimo dell’anno in una delle poche città del Paese in cui questa tradizione occidentale viene festeggiata, ed è molto eccitata. Cioè, lo sarebbe se fosse sveglia.

Sul volo China Eastern, che è parecchio più bello di quello ucraino che mi ha portato qui, passano a darti da bere quattro hostess secche secche. Shasha le trova carine, a me sembrano dei portaombrelli.

Atterriamo vivi e interi, nonostante lo scetticismo del pilota, ma nessuno gli fa l’applauso; siamo solo noi italiani a mantenere vivi questi riti idioti. E già che ci siamo vi pregherei di smetterla, ovunque stiate volando, o perlomeno di limitarne la pratica a quella volta in cui l’aereo starà precipitando ma riuscirete a salvarvi all’ultimo momento grazie al sangue freddo dell’equipaggio e a una prodezza miracolosa di chi sta in cabina di comando. 

Ritiriamo lo scarno bagaglio, prendiamo la metro e cerchiamo di non perderci fino all’hotel.

In giro per la città si vedono un sacco di macchinoni, e la gente è vestita meglio che a Pechino. In generale si respira un’aria più rilassata, perfino nella metro i controlli sono meno accurati, le persone neanche si tolgono lo zaino nel passare il controllo. È una città più ricca, molto più vicina all’occidente della sua collega a nord, e non deve sostenere l’immagine seriosa di una capitale.

E poi il clima più caldo aiuta, è chiaro.

Il 30 dicembre la città è immersa nella nebbia, piove, fa freddo. Esattamente il tempo che abbiamo lasciato a Pechino. Ce ne andiamo a Pudong, il quartiere degli affari, a visitare uno dei grattacieli. Shasha ha comprato due biglietti per quello più alto, a forma di apribottiglie, lo Shanghai World Financial Center, solo che quando arriviamo lì realizziamo di essere in ritardo di almeno dieci anni, e nel frattempo il grattacielo più alto del mondo è diventato il settimo. Il suo vicino, la Shanghai Tower, lo sovrasta di 140 metri, posizionandosi al secondo posto fra gli edifici più alti del mondo dietro il Burj Khalifa. Mi viene una gran voglia di tornarmene a casa. Insomma, una cosa dovevi fare, una, e non ne sei stata in grado. E adesso me lo spieghi cosa ci salgo a fare sul settimo palazzo più alto del mondo? Che vista ci potrà essere da lassù sapendo che non sei neanche nel punto più elevato della città? Ma che poveracciata, dai!

Gli ultimi due piani del palazzo, che fanno da cornice al grosso buco rettangolare cui l’edificio deve il proprio nome, costituiscono un percorso panoramico che inizia e finisce in un atrio molto ampio appena sotto. Cosa ci sia di panoramico in una giornata del genere non lo so, le ampie vetrate mostrano tutte la stessa cappa lattiginosa impenetrabile perfino dalle luci elettriche.

Sono sicuro che l’attico della Shanghai Tower è così alto da superare la coltre di nuvole, e sta regalando ai visitatori più avveduti di noialtri una vista incantevole.

Saliamo all’ultimo piano e lo troviamo invaso di turisti che provano a guardare fuori, o camminano sul pavimento di vetro sperando di sbirciare un pezzetto di mondo esterno. Non c’è niente da fare, non si riesce neanche a vedere il soffitto del corridoio sottostante. Allora scendiamo, più con l’idea di andarcene che di aspettare una schiarita, ma passando davanti a una vetrata ci accorgiamo che laggiù in fondo si intravedono delle luci fioche. La finestra ce l’abbiamo tutta per noi, in cinque minuti le nuvole si alzano e il tetto della Jin Mao Tower circondato dall’illuminazione cittadina mi fa sentire in una scena di Blade Runner.

Abbiamo una guida in città, un ex compagno di università di Shasha di cui non ho mai capito il nome, J-qualcosa.

Lo raggiungiamo in un ristorante all’ultimo piano di un mall. Come scoprirò in seguito ha una vera passione per i centri commerciali, in un fine settimana ce li fa vedere tutti. Non che per me faccia qualche differenza, i centri commerciali cinesi sono tutti uguali, tranne l’Oriental Plaza di Pechino, che conosco solo grazie alla mia fidanzata, e quello giapponese visitato a Shanghai, più che altro perché prima di allora non ero mai stato su scale mobili a chiocciola.

J-Qualcosa è coetaneo di Shasha, ma sembra molto più giovane. Considerato che io ho 20 anni più di loro mi sento vecchissimo per la maggior parte del tempo. Per fortuna non capisco i loro discorsi, gossip universitario o così mi dicono, sennò mi sentirei ancora di più fuori dal loro mondo.

Così invece posso dare la colpa alle barriere linguistiche e guardarmi intorno con la faccia di chi si è perso.

È un ragazzo molto gentile, non parla una parola di inglese, ma anche così fa il possibile per mettermi a mio agio.

È anche un appassionato di buona cucina, e ci porta in tutti i ristoranti migliori. Per non trasformare questo post nell’ennesima lista di piatti cinesi mi limiterò a segnalare il ristorante fusion, che non so cosa voglia dire, ma ci ho mangiato la carne con lo zucchero filato e le caramelle, mentre su uno scaffale faceva bella mostra di sé una biografia di Bob Marley.

Ricordo anche un altro posto, ma per la ragione opposta: ci ho mangiato il pesce col ketchup, povera bestia!

Ma non è ketchup, lo facciamo con l’aceto di riso!”

È rosso, sa di ketchup, è ketchup. Vergognatevi!”

Il tempo trascorso a Shanghai non si rivela solo un tour di ristoranti e negozi e centri commerciali, J-Qualcosa ci porta a visitare anche edifici di interesse storico,come un ex mattatoio risalente al 1933: un edificio molto bizzarro, pieno di scale e passerelle che lo fanno somigliare a un quadro di Escher. Adesso è stato trasformato in una specie di centro commerciale stiloso, ospita negozi, bar e gallerie d’arte, ma l’aspetto surreale dell’edificio è ancora evidente, e i richiami art-deco sono una gioia.

Il pomeriggio del 31, al calare dell’oscurità, facciamo in modo di trovarci in prima fila sul lungofiume, a scattare le stesse foto che fanno tutti in questa città, e a cercare di non morire di freddo.

Vicino a noi una sposa mezza nuda indossa un bellissimo abito rosso, col quale immagino che verrà inumata fra qualche ora, se non si sbriga a mettersi qualcosa di più pesante.

Ma morire sul Bund è un po’ una tradizione qui in città, nel 2014 una ressa di 300.000 persone causò 36 vittime. Per questo da allora la città ha bandito i fuochi artificiali, e per la stessa ragione noi, un po’ prima delle otto, schiodiamo verso la metro, che poi la chiudono.

La polizia ha già cominciato a chiudere le strade e intruppare la folla; proviamo a tagliare attraverso un mall e finiamo in un viale, imbottigliati in una folla tipo film apocalittico quando un meteorite sta per distruggere Philadelphia e ti fanno vedere che evacuano la città, con queste lunghe colonne di persone che sciamano sulla pianura coi palazzi alle spalle.

I meteoriti cadono anche su NewYork, ma i suoi cittadini non vengono mai mostrati mentre se ne vanno, perché Manhattan è un’isola, e per abbandonarla devi attraversare i ponti e i tunnel, soluzione molto meno spettacolare quanto a impatto visivo.

Per questo di solito i newyorkesi muoiono tutti, mentre nelle altre città della costa est risultano pochissime vittime.

Se doveste trovarvi a comprare casa da quelle parti ricordatevi di questo post, in caso di apocalisse potrebbe salvarvi la vita.

Riusciamo a saltare al volo sull’ultimo treno e torniamo in albergo, dove ci scoliamo una bottiglia di spumante come tre rockstar maledette. Non scassiamo tutto perché sennò ce lo fanno pagare, ma diciamo un casino di parolacce.

C’è una festa in terrazza, e ci presentiamo in perfetto orario per la ciucca di fine anno.

Avete presente un veglione di capodanno in Cina? No? Beh, neanche loro.

L’atmosfera è quella di una cena aziendale dove tutti i colleghi si stanno sul cazzo, e in più il capo fa il simpatico al microfono.

Mucchi di cinesi buttati sui divanetti a giocare col cellulare, camerieri impassibili che servono ciotole di manzo piccante con le arachidi, imbonitori da fiera che provano a coinvolgere un pubblico che palesemente ne ha per i coglioni, e in mezzo io e Shasha che ci scassiamo di negroni e pomiciamo come due ragazzini. J-Qualcosa non festeggia il capodanno, si siede su un divano e guarda fuori, chiedendosi fra quanto potrà andarsene senza risultare scortese.

Alla festa c’è una collega della mia fidanzata, che per fortuna parla inglese e beve in abbondanza, fornendoci un’alternativa ai limoni: ehi, posso anche parlare con qualcuno! Che festa fantastica!

Torniamo in camera a un’ora decente, in condizioni indecenti. Buon anno a tutti!

Il giorno dopo J-Qualcosa viene a salutarci in stazione e ci regala un sacco di provviste per il lungo viaggio in treno che dovremo affrontare: sono quasi tutte merendine.

Ci si abbraccia, ci si promette di rivedersi e ci si saluta dal finestrino, e poi sono cinque ore di pianura monotona inframezzata da assurdi complessi residenziali di palazzoni da venti piani, tirati su in mezzo al niente, dieci alla volta. Ho letto in un articolo che costruire palazzi in Cina è una delle rendite più sicure, e siccome lo spazio è enorme e le regole non sembrano rappresentare un problema parecchi imprenditori si sono buttati nel mercato. Poi in giro per Pechino capita di imbattersi in quartieri del genere, di cinque sei edifici identici; vista l’espansione rapida delle città potrebbe essere conveniente costruire in questo modo, a grossi complessi residenziali senza niente intorno, e poi lasciare che l’urbanizzazione li inglobi. Dal treno sembra uno sfondo di qualche vecchio videogioco da bar degli anni ’80.
Poi cala il buio e non si vede più niente.