Tanti anni fa, uno di quelli che iniziavano per millenovecento, mi iscrissi all’università, perché mi aveva preso uno di quei momenti che mi prendono spesso, di voler sapere le cose. Solo che allora internet non c’era, e in edicola esisteva una rivista che si chiamava Storia, che forse si componeva anche dell’aggettivo Illustrata, ma che trovavo noiosa fin dal titolo, che infatti non leggevo per intero, e quindi non la compravo. L’unica alternativa possibile era iscriversi all’università, ma non volevo che la mia famiglia dovesse sobbarcarsi altre spese per la mia istruzione, dato che fino a quel momento era stata drammaticamente incostante, perciò intrapresi quel nuovo capitolo della mia vita solo una volta trovato un lavoro stabile e abbastanza remunerativo. Vivevo con mio padre e non avevo spese, quindi il grosso sacrificio sarebbe stato quello di smettere di comprarmi cidi e investire gli stipendi in libri.

Io poi scrivo sempre cidi e uno che mi legge può pensare che cidi sia l’abbreviazione di acidi e che nella mia gioventù sia stato uno scapestrato seguace della controcultura hippy in forte ritardo sui miei simili ma ben deciso a recuperare il terreno perduto, ma in realtà i cidi sono quei supporti rotondi che una volta si infilavano nel lettore e riproducevano musica, e che qualche personaggio appiccicava al lunotto posteriore della macchina convinto che così l’autovelox non sarebbe riuscito a fotografargli la targa. Erano gli stessi personaggi che più tardi avrebbero applaudito all’atterraggio dell’aereo e che oggi gridano alla dittatura sanitaria.

Scelsi la facoltà di lingue, perché mi piacevano le lingue, ero bravo, e pensavo che così mi sarei annoiato di meno. Inoltre c’erano materie dai nomi complicati che mi facevano sentire intelligente, come glottologia, che conoscevo per averla letta una volta in un fumetto di Martin Mystère.

Sapere dove l’ho poi cacciato, questo libro

Il primo capitolo del primo libro di testo che comprai si rivelò molto interessante, quasi romanzesco, tanto che la ragazza con cui uscivo allora, il Cancelliere, attaccò a prendermi in giro perché lei, studentessa di economia e commercio, si stava seppellendo sotto pagine di trattati che ti facevano venire voglia di abbandonare tutto e aprire una friggitoria.

“Perché io devo imparare la differenza fra l’IVA applicata su un bancale di banane proveniente dal Costarica e uno che arriva dal Messico, e tu hai da studiare un dialogo buffo fra Cavour e Vittorio Emanuele III?”, mi chiedeva, sfogliando il mio libro con Charlie Chaplin in copertina vestito da mia fidanzata che giocava con un grosso mappamondo.

In realtà intendeva il nonno, Vittorio Emanuele II. Sciaboletta nacque otto anni dopo la morte di Cavour, e i testi di storia contemporanea non si occupano di spiritismo. Ma la polemica non nasceva da questioni dinastiche, lei soffriva per questa disparità di sforzi fra le diverse materie, e per venirle incontro e ritrovare l’armonia di coppia decisi di abbandonare gli studi. Tanto le altre materie erano meno interessanti dei fumetti, non c’era gara.

A posteriori non servì a niente, mi lasciò lo stesso quando la criticai per avere occupato la Cecoslovacchia.

Tuttavia le lezioni di storia contemporanea misero radici dentro di me, tanto che oggi, con un sacco di tempo a disposizione, mi ascolto volentieri i podcast disponibili online che mi raccontano le vicissitudini del Secolo Breve, per citare il titolo di quel libro là, e quando non ci sono più episodi mi leggo pagine e pagine di riassunti sui principali episodi e le loro conseguenze. Tanto che se qualcuno dovesse chiedermi perché è scoppiata la Prima Guerra Mondiale io potrei rispondere che le ragioni sono molteplici.

La prima regola quando si studia storia è dire che le ragioni sono molteplici, e poi iniziare a raccontare da cinquant’anni prima perché bisogna capire il contesto. È una tecnica che torna utile anche quando non si conosce la risposta, perché dopo un po’ che parli il tuo interlocutore si stufa e cambia argomento.

Nel caso della Prima Guerra Mondiale è particolarmente vero, le ragioni del conflitto non si riducono solo a Gavrilo Princip che ammazza l’erede al trono austro-ungarico, ma vanno cercate più lontano, e più precisamente in Inghilterra.

In Serbia se ammazzi un erede al trono austriaco ti dedicano una statua

Quando uccide il principe ereditario, Gavrilo Princip ha 19 anni, ma neanche un anno prima stava facendo l’Erasmus a Londra, e girava i locali per soddisfare la sua passione viscerale per la musica rock. Voleva entrare in una band, trovare una ragazza, diventare famoso, fare i soldi. Una cosa soltanto gli riuscì, ma gli riuscì bene.
Purtroppo all’epoca i locali offrivano poco, la roba più vivace era una marcetta per ottoni, tutto il resto erano sinfonie e balletti. Ci voleva una spinta nella giusta direzione affinché l’industria musicale imboccasse finalmente quella svolta indie che Prinzip sognava, ma come?

Gavrilo Prinzip non ne aveva idea, tornò a Sarajevo pieno di rabbia: non aveva trovato una ragazza e neanche una band, non aveva fatto i soldi, non era diventato famoso. Si affiliò a un movimento indipendentista locale e propose al comitato esecutivo di fondare una fanzine, su cui sognava di scrivere recensioni di fuoco con cui risvegliare l’animo dei giovani serbi. I giornalisti, all’epoca, rimorchiavano quasi quanto i cantanti rock.

“Vuoi risvegliare i serbi? Toh, fai rumore”, gli disse il direttore, mettendogli in mano una pistola. Dopo i giornalisti, la terza categoria più gettonata dalle ragazze erano i rivoluzionari. Pochi giorni dopo scaricò l’arma addosso all’erede al trono dell’impero austro-ungarico, scatenando una serie di eventi che avrebbero creato, novant’anni più tardi, i Franz Ferdinand.

Tolto di scena Gavrilo Prinzip, che subito dopo l’attentato verrà preso e morirà di tubercolosi in carcere quattro anni più tardi, come si arriva alla guerra? Il solo omicidio di un principe ereditario, normalmente non basta a scatenare un conflitto mondiale: gli Stati Uniti si sono visti ammazzare due presidenti e non hanno mai dichiarato guerra alla Serbia. Ma allora perché?

Va detto che la Serbia, come Paese, non è mai stata simpatica a nessuno. Già allora veniva considerata uno stato canaglia, e anche in tempi più recenti, con la guerra dei Balcani, non è che abbia fatto molto per migliorare la propria immagine. Perfino io che cerco di avere meno pregiudizi possibile, quando il Genoa è finito in serie C e metteva in campo Iliev e quello non c’era verso che segnasse un gol e ogni volta si buttava per terra e faceva il morto, perfino io quelle volte pensavo che in fondo l’Austria-Ungheria tutti i torti non li aveva.

Una rara immagine di Ivica Iliev in piedi

L’Austria reagisce malissimo a questa cosa dell’attentato, e invia un ultimatum alla Serbia, diviso in punti, minacciandola di guerra in caso di inadempienza. La Serbia legge l’ultimatum, è pieno di richieste assurde:

– riduzione della sovranità
– diventare una provincia dell’impero austro-ungarico e neanche una di quelle fighe tipo Salisburgo
– consegna dei complici dell’omicida che lo sappiamo che si nascondono da voi
– arresto di funzionari che secondo le indagini condotte dal capo della polizia austriaca, ispettore Derrick, hanno avuto un ruolo fondamentale nella pianificazione dell’attentato
– vittoria a tavolino della nazionale austriaca di calcetto contro quella serba e ritiro immediato da tutti i campionati di tutte le discipline che vedono gareggiare entrambe le nazionali
– la prossima volta in pizzeria pagate voi

I serbi accettano tutte le richieste, ma per orgoglio patriottico cambiano lo stato di Facebook da Impegnato a In una relazione complicata con l’Impero Austro-ungarico. Gli austriaci si sentono presi in giro e dichiarano guerra.

Di lì parte una sequenza di situazioni che nessuno avrebbe davvero voluto. Una volta che ti ci trovi dentro cerchi di risolverla prima che puoi, nessuno avrebbe immaginato di trascinare una guerra per quattro anni, e soprattutto di lasciarci così tanti morti. Lo zar Nicola II, intervistato dai giornalisti di Sky alla fine del primo tempo, dichiarerà: “La Prussia è molto forte a centrocampo, e questo ci rende difficile organizzare una manovra d’attacco efficace, ma sono sicuro che con un buon utilizzo delle ali sapremo superare questo ostacolo. Adesso mi scusi, ma mi sta telefonando Lenin che ha da dirmi qualcosa di importante”.

E questa è la risposta che dovreste dare se qualcuno vi domandasse perché è scoppiata la prima guerra mondiale. Volendo potreste aggiungere le cause che hanno portato le altre nazioni nel conflitto, ma se vi spiego anche quelle devo prendermi ferie al lavoro e questo post diventa lunghissimo.

Comunque se vi interessa ve le racconto un’altra volta.

Le bevande delle macchinette automatiche hanno tutte lo stesso sapore. Quella al gusto di caffè, quella al cioccolato, il tè, il cappuccino, ti lasciano sempre lo stesso gusto in bocca, di qualcosa di finto, di messo insieme alla svelta per rassicurarti che la broda calda che ti sta scendendo nell’esofago non ti ucciderà. Quel sapore è la Bevanda™.

Leggiamo sull’etichetta “Bevanda al gusto di” e associamo al termine Bevanda il significato imparato a scuola: un liquido compatibile col nostro organismo. Ma è qui che i produttori di macchinette ci fregano, perché la loro Bevanda™ è un marchio registrato, un prodotto creato apposta come base per ogni bevanda (questo sì, minuscolo) messa in commercio.

Ma di cos’è fatta questa Bevanda™?

Di zucchero, prima di tutto. Lo zucchero è la droga che il tuo organismo ti chiede con forza appena varchi la soglia del posto di lavoro, e loro lo sanno, e te ne danno in quantità. Vuoi una prova? Schiaccia il bottone “senza zucchero” quando ordini il tuo caffè, ce ne troverai comunque un cucchiaino abbondante. Poi acqua, per forza, sennò la macchinetta si fonderebbe cercando di erogare marmellata. Tu non ci faresti neanche caso, il tuo cervello la vedrebbe come una sostanza ancora più zuccherosa e ti prenderebbe a gomitate per fartela assumere più in fretta.

Acqua e zucchero insieme richiamano gli abitanti più numerosi del pianeta, che di questi elementi sono ghiotti: le formiche.

Le formiche costituiscono un buon 30% di un bicchiere di Bevanda™. Si arrampicano lungo la parete, penetrano all’interno e intasano il tubo finendo nel bicchiere. Sai quando prendi la cioccolata e senti sulla lingua i pezzettini di cacao che non si è sciolto? Ecco. La stessa cosa succede nell’azienda che produce la Bevanda™, quelle formiche finiscono nei vasconi e danno al prodotto quel retrogusto mandorlato che ci troviamo in bocca dopo un bicchiere ogni mattina, di tè o cioccolata, e che non sappiamo definire.

È così che inizia la mia giornata, e sono sicuro che anche la vostra varia pochissimo. Ma cosa succederebbe se domani decidessimo di bere un prodotto migliore, più genuino? Esistono delle alternative?

Certo che esistono, ma non in Italia.

In Germania la Getränke, azienda leader nel settore dei palliativi da lavoro, utilizza per le sue macchinette automatiche un liquido fermentato a base di luppolo e succo di ribes, a cui viene aggiunto il sapore richiesto dall’utente. Nelle loro fabbriche e negli uffici nessuno beve caffè o cappuccino, quindi i gusti disponibili sono diversi dai nostri. Quelli che riscuotono il maggior successo sono il Müller-Thurgau e il purè di patate.

Anche la Francia ha una sua ricetta per la bevanda base, con cui rifornisce i distributori automatici. È composta principalmente di bordeaux, ma va detto che nel Sud del Paese alcune aziende prediligono l’uso del pastis. È per questo che la classe lavoratrice francese è sempre così frizzantina quando scende per strada a protestare.

In Italia come siamo messi?

Nel nostro Paese il monopolio del prodotto base per i distributori automatici è detenuto da un’azienda di Torino, la Delbrucchi, che rifornisce tutto il territorio nazionale grazie a una licenza rilasciata in esclusiva nel 1954 dall’allora governo Scelba. L’anno prima il fondatore dell’azienda, Ansio Delbrucchi, era tornato da un viaggio negli Stati Uniti con un’idea che avrebbe rivoluzionato le giornate lavorative degli italiani. Allora le fabbriche erano dotate di un piccolo spazio in cui gli operai trascorrevano la pausa pranzo, dotato di cucina a gas e, naturalmente, di caffettiera. Delbrucchi fu il primo a vedere le possibilità di crescita in un mercato ancora da creare, e gli fu facile ottenere una licenza dall’allora ministro dell’industria e del commercio Bruno Villabruna.

Come gli riuscì di trasformare la licenza in un contratto di esclusiva non si sa. Qualcuno sostiene che i due, Delbrucchi e Villabruna, avessero stretto amicizia a Torino quando il secondo ne divenne podestà nel 1943.

Quel che è certo è che da allora la Delbrucchi si è enormemente avvantaggiata, moltiplicando i propri guadagni in linea con l’aumento del settore manifatturiero e dei servizi: per ogni ufficio, fabbrica, officina o sala d’aspetto che viene aperta l’azienda ottiene un nuovo punto vendita in cui piazzare la Bevanda™.

Con l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea l’apertura dei mercati ha però causato alla Delbrucchi un grosso problema: il contratto in esclusiva firmato nel ’43 non garantisce all’azienda alcuna posizione privilegiata nei confronti di società estere, che possono così penetrare il mercato con prodotti di qualità decisamente superiore.

La prima a farsi avanti è stata la Bonjour Boissons, un’azienda di Lione che produce una bevanda base di alto livello, al sapore di menta e camomilla.

Nel tentativo di salvare l’azienda, il suo attuale proprietario Stefano Delbrucchi, si è iscritto nelle fila del M5S, e sta facendo pressioni sui suoi amici al governo affinché estendano i diritti di esclusiva anche al territorio europeo.

Il problema è che questo è vietato dallo statuto dell’Unione, e il governo lo sa bene. Che fare allora?

E qui veniamo alle notizie odierne, agli attacchi frontali al governo d’oltralpe, alle dichiarazioni dei nostri ministri che danneggiano anni di buoni rapporti commerciali con la Francia senza alcun guadagni apparente. Non è un caso che Toninelli abbia dichiarato che di andare a Lione “non ce ne frega niente”, né che Di Maio abbia incontrato i rappresentanti dei Gilets Jaunes invisi all’Eliseo. Fa tutto parte di una strategia precisa, e a farne le spese saranno, ancora una volta, i lavoratori italiani. Gli stessi che questo governo, peraltro, l’hanno votato.

Mi ci sono voluti ventisei anni, ma alla fine ci sono riuscito a vedere Eddie Vedder da solo. Che poi, solo, c’erano altre cinquantamila persone, ma almeno non c’erano i Pearl Jam. Che mi piacciono, eh, tre anni fa a San Siro mi sono goduto un concerto straordinario. Che poi, straordinario, sarebbe stato straordinario se non fossi stato io sotto un treno, ma anche così è stato un grande spettacolo (e l’ho raccontato qui).

È che a me è sempre piaciuto lui, per la voce, la presenza, il carattere; non è un caso se le mie canzoni preferite dei Pearl Jam sono tutti pezzi piuttosto lenti; la colonna sonora di Into The Wild sarebbe in cima alla mia classifica se mi prendessi la briga di stilarne una, e resta una delle ragioni per cui ho un ukulele in casa.

Il concerto di ieri è stato uno dei migliori concerti della mia vita di frequentatore di concerti. Tipo uno dei primi tre. Per le ragioni qui sopra, e perché è stato un concerto straordinario. Ma partiamo dall’inizio.

Se invece non volete partire dall’inizio potete saltare subito alla recensione, che inizia qui.

quando ti porti l’ukulele in spiaggia per rimorchiare le pugliesi ma la sabbia scotta e già ti sei vestito di nero almeno un paio di ciabatte le potevi mettere

Partiamo da me, che vado a prendere John Malkovich e facciamo colazione in una pasticceria sotto casa sua, dove mi deposito nello stomaco un krapfen con tanta crema da riempirci il lavandino. Pesa anche come il lavandino, ma è buono e non mi si riproporrà per le due ore e passa del viaggio fino a Firenze, dove arriviamo giusto in orario per il pranzo. Che uno dopo un lavandino alla crema non avrebbe neanche tutta questa fame, ma devi considerare che durante il pomeriggio sarai bloccato dalla folla e ti riuscirà difficile andare a farti un panino al banchetto dei panini toscani. Che poi chissà cosa se lo fanno pagare un panino a un evento del genere.

Ma prima c’è da raccogliere Concertillo, che è salito in treno da Roma e ci aspetta davanti alla stazione, poi da andare in albergo a Fanculonia a lasciare gli zaini, poi da tornare in città e cercare posteggio dalle parti dell’ippodromo, o perlomeno a Firenze. Poi da tornare di corsa in albergo, perché dentro lo zaino ci ho lasciato i biglietti, e una volta trovato un altro posteggio veramente vicino ai cancelli possiamo dedicarci all’approvvigionamento: ci accomodiamo in un vero diner americano dove ci servono degli hamburger enormi, roba che al mio potrei far indossare il casco e legargli la cinghietta all’altezza della fetta di edamer. Ma asciutti come un sacchetto di calce. Anche inzuppandoli di salsa è come mangiare cartongesso. Anche perché la salsa ce la devi grattugiare sopra.

E poi entriamo. Pesanti come donne all’ottavo mese superiamo i controlli, ci facciamo legare al polso il braccialetto di riconoscimento e ci affacciamo sul terreno dell’ippodromo.

L’ippodromo del Visarno è come puoi immaginarti un ippodromo: un prato enorme, lunghissimo, senza un albero o qualunque cosa che proietti ombra. Ci sono stand lungo il perimetro, una piccola tenda al centro dove si sono accampate persone fino a riempire l’ultimo centimetro protetto dal sole, e i banchetti che ti cambiano i tokens.

come un cantiere ma senza l’umarell

Sono la moneta corrente all’interno dell’area. Con 15 euri ricevi cinque pezzetti di plastica quadrati che puoi spezzare a metà: una bottiglietta d’acqua costa mezzo token, un gelato uno, una birra due. C’è anche un barbiere, se uno volesse approfittare dell’attesa per sfoltirsi la pelliccia dovrebbe sborsare lo stesso numero di gettoni che ti servivano negli anni 70 per telefonare in America da una cabina.

Il pubblico è diviso in diversi settori, ci sono i Paganti che stanno nel grosso del parterre, i Più Paganti che hanno accesso a un’area davanti al palco capace di contenere qualche migliaio di persone, gli Strapaganti che godono del privilegio di occupare due piccoli recinti davanti al palco, della capacità di boh, due-trecento persone ciascuno, e i Non Oso Immaginare Quanto Paganti che si guardano tutto il concerto sul palco, insieme ai tecnici. Quest’ultima soluzione mi sembra un pacco, una volta ho assistito a un concerto di Patti Smith da una posizione analoga, e va bene, stavo bello largo e vedevo tutto quello che succedeva dietro le quinte, ma l’energia che trasmette un concerto va a finire tutta davanti, così è come in televisione.

Noi siamo fra i Più Paganti, andiamo a collocarci a ridosso del piccolo recinto di destra e aspettiamo che cali il sole sperando di non calcificarci.

Ci sono gli addetti della sicurezza che smazzano bottigliette d’acqua caldissime e ci innaffiano con l’idrante durante le ore più calde, e un tizio sul megaschermo ci ricorda a intervalli regolari che ci ruberà solo pochissimo tempo per informarci sulle misure di sicurezza, le stesse che il tg4 raccomanda all’inizio di ogni estate: bere tanta acqua e non svenire. Ci ricorda che in caso di incidenti occorre evitare di seminare panico e non bisogna muoversi in modo disordinato.

Ci si domanda come si fa a muoversi in modo disordinato, qualcuno prova a muovere in modo disordinato un braccio per vedere che succede e lo infila nell’occhio del vicino, ma non scoppia nessuna rissa grazie ai preziosi consigli del tizio nel video. E perché fa troppo caldo anche solo per pensare.

Alle cinque e mezza salgono sul palco gli Altre Di B, un gruppo di Bologna che canta in inglese. Il cantante somiglia a quello dei Thegiornalisti, solo più basso. Sono belli vivaci, contenti di esibirsi davanti a una marea di persone e del tutto a proprio agio. Mi ricordano un po’ gli Arctic Monkeys, oppure li confondo con uno di quei gruppi che ascolto ogni tanto senza guardare chi sono. Sono bravi, comunque, molto meglio di quelli che verranno dopo. E sono venuti a suonare a Genova ai Giardini Luzzati, ma l’ho scoperto solo adesso cercando un video su youtube.

gli Altre Di B spaccano

“Quelli che verranno dopo” dovevano essere i Cranberries, ma la cantante ha problemi di salute e hanno annullato la tournèe. Sale sul palco una tizia avvolta in una specie di mantello nero, indossa un top nero e dei pantaloni aderenti dello stesso colore. È magrissima, sennò avrei pensato subito a Batman. Invece è Eva Pevarello, che mi dicono essere venuta fuori da X Factor. Non il gruppo di mutanti che lavorano per il governo americano, ma la trasmissione televisiva che spinge talenti musicali precotti verso una fama di un paio di mesi prima di lasciarli liberi di esibirsi alla Sagra della Provola. Fra un anno a Coachella e fra due anni a fare il benzinaio, dicevano quelli là.

È timidissima, propone tre o quattro pezzi che non ricorderò, e se ne va a difendere Gotham dal crimine, ignorata da un pubblico che sembra avere di meglio da fare. È simpatica, dai, ma con me le ragazze magrissime che si chiamano Eva partono avvantaggiate.

e comunque ho visto Eve migliori

Poi guadagna il palco uno che sembra un incrocio fra un salumiere e un Teletubbie, guarda se non somiglia a Dj Ringo di Virgin Radio. Cazzo ma è lui! È Dj Ringo! Ringaccio!

Io lo adoro, Ringaccio, perché è uno di noi! È il tizio che incontri la mattina al bar mentre cerchi di leggere il giornale e ti blatera addosso un luogo comune a caso sul governo che ruba. È l’altro tizio che al pub vuole presentarti un suo amico che sa fare Balliamo Sul Mondo coi rutti. È quello che fa la battuta a sfondo sessuale invece di quella divertente. Che ti manda le donne nude su whatsapp. Che beve la Guinness. Che ascolta il mitico Blasco. Che prima o poi farà la mitica Route 66 su una mitica Arlei Devinso. È uno di noi, quello che di solito cerchi di evitare.

Lui e un altro dj di cui non ricordo il nome ci fanno ascoltare diverse pietre miliari del rock, ma solo una ventina di secondi ciascuna, sennò Spotify gli chiede di pagare l’abbonamento, e per ognuna di esse ci regala un commento che se stava zitto era uguale. Ogni tanto punta un cannone di plastica verso il pubblico e ci spara addosso delle magliette. Se qualcuno se lo stesse chiedendo sì, prima se lo mette in mezzo alle gambe e finge che sia il suo grosso uccello, poi mima di ficcarlo nel culo di un tecnico. Haha.

Si congeda ricordandoci che siamo più forti di quegli stronzi che cercano di farci paura, e mostra il dito medio al suo nemico immaginario. Mi domando se avrebbe accettato di salire sul palco in un paese dove il terrorismo è una minaccia reale e non qualcosa che vedi in televisione, ma sono argomenti di cui non mi sento in grado di parlare, preferisco raccontare le mie cazzate.

Mentre va via gli urlo “Ringo, tua mamma ascolta 105!”, ed è una soddisfazione che volevo togliermi da anni.

Samuel ce l’ha ‘sta fissa delle mani

Il primo artista che non devo cercare su google è Samuel, il cantante dei Subsonica recentemente lanciatosi in un’avventura solista. Si presenta disinvolto come un vero animale da palco, canta una canzone e poi ci saluta: “Mi dispiace tantissimo per i Cranberries”, dice ridacchiando, “Avevo anche comprato il biglietto, ho dovuto rivendermelo. Vorrà dire che vi farò sentire il mio nuovo disco, anche a quelli che avrebbero preferito non ascoltarlo”. Ed è di parola, ce lo fa sentire tutto. Tutto. Non finisce più, dopo quattro o cinque canzoni la gente comincia a sedersi, tira fuori le carte, dei libri, parte un esodo verso il bar. Lui prova a coinvolgere il pubblico, urla “tutte le mani!”, ci mostra come batterle, ma lo seguono in tre. Finisce e se ne va raccogliendo gli stessi applausi di Eva Pevarello. Finora la gara dell’applausometro l’hanno vinta i tizi sconosciuti di Bologna, di lì in poi è stato un calo. Non è il caldo, è la pochezza.

Ci vuole Glen Hansard a cambiare la situazione.

Per chi non lo conoscesse, e io ero fra questi fino a sabato mattina, si tratta di un cantautore irlandese, ha fatto diverse cose interessanti, tipo vincere un oscar per la miglior canzone di un film e recitare in The Commitments, quel film straordinario di tanti anni fa che se non l’avete visto vergognatevi.

Si presenta sul palco con un paio di polacchine invernali e una chitarra tutta scavata dalle pennate del plettro. Suona canzoni di tre accordi, un ritornello semplice, e ottiene centomila mani alzate. Samuel è nel recinto supervip a mangiarsi il cappello come Rockerduck.

secondo me le buca apposta per scena

Quando gli cambiano la chitarra gliene danno una che devono averci fatto il nido i topi, ha due grossi buchi appena sotto il foro centrale, e ci vuole poco a capire come sia successo: l’uomo dalla folta barba comincia a picchiarci sopra a una velocità e una potenza che io così rapido so solo fare le pulizie di casa e infatti non viene mai nessuno a trovarmi. Il pubblico è suo, può fare di noi quello che vuole. Quando ci saluta qualcuno gli urla “bis!”, sebbene dopo di lui sia finalmente il momento di Eddie Vedder.

E finalmente..

Il palco sembra il negozio di un rigattiere, ci sono strumenti dappertutto, valigie aperte, un vecchio organo in legno, un registratore a bobina e una scatola piena di adesivi sul pavimento che non si capisce a cosa serva.

Alle spalle della bottega una fila di steli reggono delle lampadine che trasmettono un calore da soffitta, e sullo sfondo un cielo stellato. È già bello così.

foto a fuoco non ne ho trovate

Il nostro eroe arriva, fa un inchino goffo e ci saluta in italiano, leggendo da un foglio. Dice che è la prima volta che viene nel nostro paese da solo, e anche la prima che suona a un evento così grande. “Queste cose succedono solo in Italia”, dice. Ha un legame particolare con l’Italia da quando, durante la sua prima tournèe, ha conosciuto sua moglie a Milano, e non manca di ricordarcelo anche stavolta.

Ho inserito il link ai video che ho trovato su youtube per ogni canzone, almeno dov’erano disponibili. Non ringraziatemi tutti insieme.

Attacca Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town e John Malkovich inizia a darsi sberle in faccia dall’entusiasmo. Poi fa Wishlist e Immortality, sempre del suo gruppo, e il mio compagno di concerto non riesce a trattenere la gioia. Ascoltillo è più tranquillo, lui i Pearl Jam li conosce poco, ma si vede che sta attento.

La prima cover è di Cat Stevens, Trouble, a cui attacca una melodia che non so gli altri, ma io ho iniziato a ululare: Brain Damage, dei Pink Floyd!

Prima di posare la chitarra elettrica fa Sometimes, poi si alza e tira fuori una bottiglia di rosso. Ci ricorda che quella sera è San Giovanni Battista e brinda a lui e a tutti quelli presenti, uno per uno. Poi dice vaffanculo in italiano, prende l’acustica e inizia I Am Mine, dove ceffa subito un accordo e dà la colpa al bere.

Posa la chitarra e passa all’ukulele. Brividi, che Ukulele Songs è un disco pesantuccio.

Tranne Can’t Keep e Sleeping by Myself, e per fortuna canta quelle.

Le canzoni vengono via veloci, ne ha già presentate una decina e ancora non ha toccato i miei mostri sacri. Sono già esaltato così, mi chiedo cosa succederà quando arriveranno.

Non devo aspettare molto, mi spara quattro canzoni da Into The Wild, Far Behind, Setting Forth, Guaranteed e Rise. Su Guaranteed mi sono bagnato le mutande.

“Ehi, questa la so fare anch’io!”, mi dice Chitarrillo, che riconosce prima di me The Needle and the Damage Done di Neil Young. Nessuno dei due capisce che quell’abbozzo di melodia che segue è Millworker, un pezzo di James Taylor che di solito suona per intero.

Di Unthought Known non racconto niente.

Poi fa un collegamento fra San Giovanni e i Soundgarden, e s’incupisce, e ci dice delle cose tristi, e parla di Chris Cornell e poi io una versione così triste di Black, madonna, quell’altra volta a Milano ho pianto come un bambino perché mi ero appena lasciato con una, ma non è che posso piangere tutte le volte, dai. Facci qualcosa di forte. Ochei, mi risponde dal palco, e spara Lukin, e Porch.

Poi va all’organo. Non era coreografico l’organo, ci si siede davanti dandoci le spalle e spera di non fare casino. Legge il testo su due tablet appoggiati uno sopra l’altro in un equilibrio che vabbè, e ogni tanto si gira verso il pubblico con la faccia di quello che non credeva che ci sarebbe riuscito.

La canzone è Comfortably Numb, e no, non c’è riuscito, se n’è dimenticato un pezzo, si è perso a metà, ha improvvisato ed è arrivato in fondo con qualche difficoltà. E comunque Comfortably Numb all’organo non si può sentire.

Presenta Imagine, che non ha bisogno di presentazioni, e succede una cosa che se avevi la sensazione di trovarti a una funzione religiosa questo è il momento in cui ti inginocchi e rinneghi il tuo dio di prima: da sopra il palco cade una stella cadente. Alla fine della canzone più abusata del mondo per parlare di amore universale cade una grossa stella cadente. A voler essere cinici era una cosa che si poteva organizzare senza grossi problemi, spari qualcosa da dietro il palco, nel casino chi vuoi che la noti la differenza, ma onestamente non so se sarebbe così facile, e poi me ne frego, era una stella cadente, era la prova che Eddie Vedder è Dio e l’anno prossimo l’otto per mille ce lo dobbiamo spendere in cofanetti dei Pearl Jam.

Better Man è sempre mioddio Better Man, Last Kiss è una canzone divertente di Wayne Cochran, di Untitled e MFC non ho trovato nessun video.

Fine.

No, scherzo, a questo punto torna sul palco Glen Hansard e cantano insieme il pezzo che ha vinto l’oscar di cui parlavo prima, Falling Slowly. Sullo schermo inquadrano una ragazza che piange fra il pubblico. Lei se ne accorge e la cosa la fa piangere anche di più, che oltre a sentirsi una merda per quella canzone si sta sentendo una merda in mondovisione.

Ci avviamo verso la fine del concerto, iniziano a suonare un altro pezzo di Hansard, Song of Good Hope, e il ciucchettone di Seattle viene a sedersi a bordo palco. Canta da lì per un po’, poi non gli basta e allora scende. Percorre tutto il corridoio fra palco e transenne accompagnato da due giganti della security, stringe mani alle prime file, e tutti và che culo quelli lì! Poi entra nel recinto supervip, quello che sta davanti a me, e tutti oh! Cazzo! Poi si arrampica su una transenna e me lo ritrovo a boh, tre metri, quattro, e in mezzo a tutte le mani tese a implorare una benedizione c’è anche la mia, e l’immagine di qualche libro di catechismo coi lebbrosi che si sporgono verso un europeo biondo e un po’ hippy mi attraversa la mente come la stella di prima. Me ne sbatto le balle, toccami la mano Eddie! Rendimi degno!

Lì! Era lì! (grazie ad Andrea per la foto)

Siamo così scossi fra tutti che neanche ci rendiamo conto che nel frattempo è risalito sul palco e ha iniziato a cantare l’altra canzone che aspettavo da tipo sempre, Society.

Finale con Smile, dei Pearl Jam, e l’immancabile Rockin’ in the Free World.

Escono, rientrano, fanno Hard Sun tutti insieme, compreso il gruppetto che prima accompagnava Glen Hansard.

Amen, scambiamoci un segno di pace. E io davvero, un concerto così intenso e intimo, nonostante fossimo un ippodromo di gente, non lo credevo possibile.
Poi vabbè, la suggestione e l’emozione e la stanchezza, lo so anch’io che i paragoni con la religione sono esagerati, grazie tante.
E fa tanto anche la fame, sulla via del ritorno non riusciamo a trovare un porchettaro aperto, un kebabbaro, un self 24h, niente di niente, il deserto.
Ci mangiamo i pani e i pesci che ci hanno moltiplicato al concerto e andiamo a dormire.

Estate 1955, il sole picchia forte su Canelli, e sotto un pergolato il signor Gregorio Carosso, militante del Pci, rimbrotta il figlio dodicenne:
“Muzio, tu devi fare qualcosa di comunista!”
“Tipo mangiare i miei compagni di scuola?”
“No! Qualcosa che onori la Grande Madre Russia! Imparerai a giocare a scacchi!”
“Ma a me piace la briscola in cinque!”
“E chi se ne frega! Tu diventerai un grande scacchista! Guarda, ti ho comprato questo libro per insegnarti le regole del gioco che tutti in Russia praticano con successo!”

scacchi celtiE così, seguendo le lezioni di “Scacchisti in 24 ore”, Muzio Carosso intraprese i suoi primi passi in un mondo più vasto, diciamo 64 caselle.

Soltanto quattro anni più tardi è un Muzio Carosso molto diverso quello che si iscrive al torneo provinciale di scacchi. Ha la barba di pelomatto che lo fa somigliare a un mugik spelacchiato, sa recitare perfettamente l’internazionale comunista, e soprattutto ha battuto ogni avversario della sua scuola durante l’ora di ricreazione, guadagnandosi il nomignolo di “Gran maestro della scuola superiore di agraria Rino Gaetano”.

Data la giovane età gli iscritti al torneo non lo considerano un avversario temibile, loro provengono tutti da circoli prestigiosi dei dintorni, qualcuno arriva addirittura da Cuneo, sono abituati a scontrarsi con giocatori ben più sgamati.

Il primo incontro ufficiale Muzio lo gioca contro un certo Anselmo Giribauda, un professore col pizzetto e degli occhialini tondi che al giovane e indottrinato Carosso ricordano quelli di Trotzkij. Perscacchi incelti tutta la partita lo osserva affascinato, e quando mezz’ora più tardi il professor Giribauda gli impone il matto Muzio salta in piedi, gli stringe la mano ed esclama: “Grazie! La prego, venga a collettivizzarci l’orto!”

Per fortuna il torneo non prevede l’eliminazione diretta, e Muzio può ancora affrontare l’avversario che verrà in seguito ricordato come “Colui che subì la prima sconfitta da Muzio Carosso”, Enzo Scariello.
Dopo avergli mangiato l’alfiere a costo del cavallo, la torre perdendo la regina e la regina sacrificando una scarpa del padre, che indispettito dall’andamento della partita gliela scagliò addosso dalla tribuna, Muzio passò al contrattacco e ficcò il rimanente alfiere nell’occhio di Scariello, obbligandolo a ritirarsi.

scacchi delle apiEra una buona tecnica, e Muzio cercò di affinarla. Nella partita successiva si trovò presto in difficoltà e decise di arroccare, ma invece di depositare la torre accanto al re la serrò forte nel pugno e colpì l’avversario al setto nasale, mandandolo al tappeto.

Nessun regolamento prevedeva ancora il reato di violenza ai danni di un giocatore, quindi Muzio restò impunito e solo al tavolo di gioco, passando il turno.

Aveva creato l’arrocco violento, mossa per cui divenne celebre. In poco tempo nessuno voleva più battersi con lui, e quando lo facevano fuggivano urlando appena gli vedevano posare la mano sul re.
La fama dell’Arrocchino divenne internazionale, e nella graduatoria mondiale la sua posizione saliva sempre più.
Muzio Carosso cominciò ad arricchirsi coi tornei, e sentendosi finalmente importante scrisse libri e fondò scuole di scacchi in cui insegnava la tecnica che l’aveva reso famoso e altre, come quella del “Cavallo incaprettato”: prima dell’incontro mandava due sgherri a sequestrare un parente dell’avversario, quindi lo invitava a lasciarsi battere se non voleva subire conseguenze.scacchiccazzosiete

Fu una gloria che durò una decina d’anni, finché la Federazione istituì una regola che vietava l’uso della violenza e dell’intimidazione durante le partite, e la rese retroattiva.
Di punto in bianco Muzio Carosso si trovò privato dei titoli accumulati e della possibilità di partecipare a qualsivoglia manifestazione in cui comparisse una scacchiera, compresa la dama, il carnevale di Venezia e le rievocazioni medievali.

Impossibilitato a dedicarsi ancora alla sua attività preferita non gli restò che convertire le sue numerose scuole di scacchi in palestre di pugilato, e di lì in avanti non si sentì più parlare di Muzio Carosso lo scacchista, ma dell’ottimo trainer “Arrocchino pugno d’acciaio”.

Qualche giorno fa sono stato invitato a una convention di fantascienza per ritirare il prestigioso Roddenderry d’Oro, riservato ai migliori racconti ispirati alla serie Star Trek. In finale sono arrivati il mio vecchio racconto Skaz Trek e il pacchetto sull’immigrazione di Maroni, che proponeva di teletrasportare tutti i clandestini a casa loro; ho vinto io con la motivazione che l’umorismo era voluto.

Dopo la premiazione mi sono fatto un giro, non ero mai stato a una convention di fantascienza, c’erano tizi vestiti da ET, da Alien, da Battlestar Galactica, c’erano riproduzioni di astronavi, proiezioni di famosi film, c’erano ragazze belle intelligenti spiritose e che te la danno come niente, e c’era, seduto a un tavolino a sorseggiare una bibita, Darth Vader.

Mi sono avvicinato, gli ho chiesto se era veramente lui, e per dimostrarmi di non essere una comparsa ha fatto una lettera c con pollice e indice, li ha mossi a simulare una chela, e dietro il banco il barista ha cominciato a soffocare, ed è stramazzato fra i bicchieri.

Cazzo! Era proprio Darth Vader quello vero! Mi sono subito seduto e gli ho fatto un’intervista al volo.
Non ho ordinato da bere, perché ci sarebbe stato troppo da aspettare.

Signor Vader, la prima domanda che vorrei farle è: com’è possibile che da giovane fosse un bel ragazzo attraente e da vecchio una specie di lumacone pieno di rughe e col doppio mento? Quell’armatura che indossa continuamente dovrebbe essere talmente pesante da garantirle un allenamento quotidiano pari a quello di un culturista!
No! Non si ricorda il finale del Ritorno Dello Jedi? Quando compare il mio fantasma è sempre giovane e aitante come alla fine dell’Episodio 3, quello che non mi ricordo come si chiama!

Non cerchi di fregarmi, lei si riferisce all’edizione rifatta, io parlo dell’originale dell’83!
Dannazione! Maledette vecchie leve! Perché non siete morti tutti insieme a Kurt Cobain? Non fate che saltar fuori alle convention e nei forum con queste cazzo di domande imbarazzanti, perché C1P8 è stato chiamato col suo vero nome solo nella nuova trilogia, come faceva il droide dorato a essere statto costruito da me su Tatooine se all’inizio dell’episodio IV non riconosce il posto, perché Lucas non è stato assassinato dopo l’uscita della Minaccia Fantasma! E non vi basta scassare le balle a noi, cercate di corrompere anche le nuove generazioni, tirate fuori vecchie edizioni in videocassetta che smentiscono la verità così come noi la divulghiamo, ci gettate discredito.. Dovrebbero infilzarvi tutti con una spada laser, altroché!

A proposito di spade laser, com’è che nei primi tre episodi c’è un massiccio uso di quelle fighissime a due lame e poi di colpo nessuno se le caga più?
Si è scoperto che provenivano tutte da una partita di spade laser taroccate fatte in Cina, hanno dato un mucchio di problemi, ti si spegnevano di colpo durante un duello, e certe volte ti facevano anche saltare il contatore in casa. Qualcuno dice che a un Cavaliere Jedi è esplosa in mano.

E le astronavi modernissime? Perché poi siete passati a quei catorci con gli scudi ai lati?
Perché con la nascita dell’Impero sono state promulgate delle leggi durissime sulla sicurezza spaziale, e i modelli fuoriserie come quelli cui si riferisce sono stati tassati come modelli di lusso, poco sicuri e quindi soggetti a controlli severi; piano piano la gente se n’è liberata ed è tornata ai vecchi modelli: consumano un po’ di più, ma almeno la polizia ti lascia vivere.

Lei è conosciuto come Lord Darth Vader. A cosa si riferisce la definizione di Lord? Possiede delle terre?
Si, l’Imperatore mi ha lasciato dei terreni, un bell’appezzamento dalle parti di Preputsia. Li governo, me lo lasci dire, col pugno di ferro.

Non ne dubito. E’ sposato?
No, dopo che la regina Amidala mi ha lasciato ho preferito restare solo, non è facile coniugare il lavoro di tiranno spaziale con una felice vita matrimoniale; non sai mai a che ora tornerai a casa, sei spesso in trasferta dall’altra parte dell’universo, e poi anche con le amiche..

Le sue?
Ma no, quelle di mia moglie! Cosa vuole, quando mi capita di strangolare un ufficiale non posso mica stare a guardare se è sposato a un’amica di mia moglie, io quando strozzo strozzo! Poi torno a casa e quella mi pianta certe scenate.. E anche al supermercato la gente la guarda, la indica, si dà di gomito; è imbarazzante.

Però il prestigio non la ripagava? Voglio dire, essere la signora Vader, sempre presente ai ricevimenti di corte, e il lusso..
Si, certo, quando le ho comprato la Morte Nera nuova le luccicavano gli occhi, ma appena l’ha presa per farci un giro me l’ha riportata tutta rigata, ha detto che è impossibile da posteggiare, non ci è voluta più salire. E alla lunga anche i ricevimenti.. sa, l’imperatore non è proprio una sagoma.. quando l’hai visto sparare i raggi dalle mani due tre volte non ha più molto da dire.

Mi tolga una curiosità, è da quando ho visto l’Episodio I che voglio chiederglielo: com’è a letto Natalie Portman?
Una francese, ha presente? Tutta uiuiuì cicicì, ma alla fine l’iniziativa non la prende mai. Io non è che tutte le sere potevo inventarmi qualcosa, il lavoro di signore dei Sith è stressante, certe volte mi sarebbe piaciuto stare sotto e lasciare a lei tutta la faccenda, ma non era proprio il tipo. Mi creda, appaga di più un wookie.

E’ stato a letto con un wookie?
Ero a uno di quei meeting di lavoro, sa, sulle nuove strategie di schiavitù, e con dei colleghi siamo andati a mangiare al ristorante; c’era un vinello di Marrazz 4 che andava giù che sembrava acqua minerale. Alla fine eravamo tutti storti, quando mi sono buttato a letto ci ho trovato questa coperta pelosa e me la sono avvolta addosso, solo che non era una coperta, avevo sbagliato stanza.

Adesso come trascorre le sue serate da single?
Il lavoro non mi concede molto spazio, e quando torno a casa, prima che abbia finito di lucidarmi l’armatura, cambiare i filtri alla maschera e stirare il mantello è già ora di coricarmi. Al massimo guardo un po’ di televisione.

Il suo programma preferito?
La De Filippi. Quando parla mi ricorda Boba Fett. E poi è sposata a Jabba The Hutt, e quei piccoli Javas che si agitano in studio.. tutta la sua trasmissione mi riporta indietro di trent’anni, che nostalgia!

L’ultima domanda e poi la lascio in pace. Ma perché Lucas non è stato assassinato dopo l’uscita della Minaccia Fantasma?
Perché gira con le guardie del corpo quel figlio di puttana! Dopo che ha avuto il coraggio di creare Jar Jar Binks c’era un codazzo di vecchi fans che lo aspettava fuori casa con le spranghe. Certi giorni si mettevano in coda per picchiarlo a turno, e la fila arrivava in fondo alla strada!

Questo mese è stata magra, ve lo dico subito. I navigatori si sono fatti più sgamati, arrivano sul pablog con richieste precise e ben circostanziate, non fanno più quelle ricerche a muzzo che tanto ci facevano sbellicare, e ne è una prova tangibile l’aumento massiccio di coloro che hanno scritto sulla finestrella del motore di ricerca proprio “pablog”, o addirittura l’indirizzo spassky.splinder.com.
E come si fa ad andare avanti così?

Per fortuna che posso sempre contare sui navigatori fantasiosi, che seppure in calo, mi regalano e ci regalano attimi di puro genio.

Vorrei segnalare, nelle zone basse della classifica, il padre della ragazza di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi, quello che era stato deluso, e per il quale ho aperto un forum apposta, dove dargli preziosi suggerimenti. Evidentemente la volta scorsa è stato troppo sfacciato nelle sue ricerche, e qualcuno deve averlo identificato. Per evitare figuracce è tornato assumento una falsa identità, quella del segretario nazionale dell’Udc, in cerca di notizie sulla propria prole: Casini figlia.

Ma c’è di più, la mia iniziativa di solidarietà ai genitori delusi ha avuto talmente successo che occorrerà allargarla. E’ infatti capitato fra noi qualcuno che cercava una lettera da scrivere alla tua migliore amica che ti ha deluso! Appena trovo fra i referrers “lettera a una fidanzata che mi ha deluso” cambio nome al blog e lo chiamo “La posta del cuore”. Oh, ma per chi mi avete preso, per Natalia Aspesi? In più, scorrendo la lista, trovo anche un Non ho la testa per avere una storia. Ormai sono diventato una rubrica per cuori solitari, smetterò di scrivere cazzate sui miei compagni di rivoluzione e appenderò tendine di pizzo al monitor.

Allo spiritosone che ha cercato Pablo spogliarellista non rispondo, certi vizi me li tengo per me.

Ma veniamo alla classifica, dove troviamo, al quarto posto, film di donne nude porno. Ha fatto bene a specificare, altrimenti poteva capitargli il video di Bicycle Race, dei Queen.
Al terzo posto “Fatto la pipì addosso”. Guarda, succedeva anche a me fino a qualche tempo fa, causandomi grande imbarazzo, ma alla fine ho risolto con un metodo molto semplice: tutte le notti vado a dormire con un gabinetto nelle mutande.
Al secondo posto un tizio si chiede come faccio pagare i debiti in banca si sono disoccupato. Eh, caro amico, son problemi, e purtroppo non so come aiutarti. Ma consolati pensando che c’è chi sta peggio, io per esempio non so come pagare i debiti in banca pur avendo un lavoro!

Il vincitore di questa settimana, secondo me, è controindicazioni uovo sbattuto. Ho fatto una ricerca su internet, e ho scoperto che farsi un uovo sbattuto è pericolosissimo in due situazioni:
la prima è che si ponga l’uovo sulla fronte e lo si sbatta violentemente contro una parete; la seconda è questa:

banner renzportDomenica viene il Papa a Genova. Non so in cosa consisterà la sua esibizione, perché quando c’era da scegliere se andare a vedere il Papa o i Pink Floyd ho preferito questi ultimi, forte del fatto che il Papa non fa volare maiali, mentre se non fossi andato a vedere i Pink Floyd sarebbero volate delle madonne.
Immagino comunque che il Pontefice si esibirà nel solito repertorio, difesa della famiglia, condanna della legge sull’aborto, preghiera ai fedeli e lancio di colombe come il miglior Silvan. Niente di eccezionale, ma la città è in subbuglio. Sono stati asportati alberi che potrebbero oscurare la vista del Pastore Tedesco, blindati portici e montate transenne, ricreando quell’atmosfera che tanto abbiamo apprezzato sette anni fa per il G8.
Non veniamo a facili conclusioni, questa volta le barriere non serviranno a proteggere Ratzy dalla folla, ma la folla stessa da quei gruppi eversivi e potenzialmente pericolosi che da tempo accompagnano il Papa nei suoi viaggi: i Papa Boys.

Chi sono costoro? Si tratta di facinorosi appassionati di due cose soltanto, la religione e la violenza smodata. Eccitati dalla figura del Pontefice, che hanno eletto loro guida spirituale, si raccolgono in squadracce di ultras che adottano la scusa del pellegrinaggio per seminare il terrore in giro per il mondo.
La polizia li tiene sotto controllo durante i loro spostamenti, monitorando i treni speciali di cui si servono e scortando i pullman in giro per le autostrade. Tutti ricordano quel tragico episodio di qualche anno fa, quando un gruppo di Papa Boys si incontrò all’autogrill con una comitiva di Hare Krishna: settanta feriti, di cui una decina costretti al ricovero ospedaliero per ferite da rosario e tamburello, danni alle strutture, centinaia gli automobilisti coinvolti nella rissa più spaventosa che la storia moderna ricordi.
Il fatto è che gli Hare Krishna sono considerati dai Papa Boys i loro nemici peggiori, a causa della testa rasata, che li etichetta automaticamente come skinheads.

Come detto, questi holygans sono presenti ovunque alle esibizioni papali, si occupano del servizio d’ordine schierandosi sotto il palco, e sostengono il loro idolo dalle curve, intonando cori e sventolando bandiere e striscioni.
Sovente eccedono, ed è frequente trovare i capi storici delle varie fazioni sottoposti a divieto di frequentazione, costretti a presentarsi in caserma negli orari di messa. Succede allora che i loro compagni espongano striscioni che recitano “Beniamino e Pio liberi”, “Libertà per i focolarini”, “Diffidati” e altri slogan del genere.

Questa domenica Genova sarà sottoposta a un’altra dura prova. Sinceramente non credo che delle transenne, o qualche poliziotto in più, possano scoraggiare chi ha fatto della preghiera d’azione una ragione di vita, e temo che ancora una volta sentiremo intonare le loro macabre canzoni per le strade della città:

Siam venuti fin qua
Per vedere pregar
Benedetto che va
Verso la santità
Siam venuti fin qua..

Le novità di marzo vedono un preoccupante aumento delle persone depresse a scapito dei pornofili, sempre di più arrivano da me cercando “tristezza“. Sarà il periodo preelettorale, chissà.

Per l’angolo del trash segnalo quello che ha cercato “Antonio Palmieri e incredibile voglia di vivere“. Si tratta, per chi non lo sapesse, di quel politico che mi aveva iscritto alla sua newsletter e che ho dovuto offendere affinché mi cancellasse. Non so se fuori della sua professione abbia per hobby quello di motivare le persone, ma l’ho trovato un curioso contrasto con la voce di cui sopra. E comunque il suo nome e l’incredibile voglia di vivere non li metterei mai nella stessa frase.

Un altro che mi ha dato grosse soddisfazioni è quello che ha cercato “Dylan innamorato Keith Richards“, dandomi ragione, la storia che ho raccontato è vera, brutti miscredenti che non siete altro!

Ma torniamo alla classifica. Mi sono preso qualche giorno per pensarci, più per pigrizia che per reale necessità, visto che in cuor mio avevo già deciso da parecchio chi avrebbe meritato la palma della ricerca più stupida.

Come sempre partiamo dal basso, per creare un po’ di sàspenz.

Al quarto posto un problema che ha radici antiche, e ha tolto il sonno a migliaia di giovani amanti della musica dal vivo. Fino a un po’ di tempo fa, prima dell’avvento dei telefoni cellulari con fotocamera, che di fatto hanno reso inutili i controlli ai cancelli, era tassativamente vietato introdurre all’interno delle strutture in cui si teneva un concerto qualunque tipo di apparecchiatura fotografica, o video, o anche semplici registratori audio. Appena varcato il cancello eri perquisito dal carabiniere di turno, e se volevi portarti a casa un ricordo di quell’evento per te importantissimo, dovevi ingegnarti.

Quanti di noi hanno una macchina fotografica ancora unta per averla mascherata da panino alla mortadella al concerto dei Pink Floyd a Modena? O hanno dovuto simulare un incidente di moto e camminare zoppicando fino all’interno del palasport, prima di poter estrarre il registratore dalla scarpa? O si sono travestiti da mucca per introdurre una cinepresa con tanto di carrello su binari e gru?

Ora che tutti abbiamo un telefono cellulare con noi, che può scattare foto, girare video, registrare audio, spedire e ricevere in tempo reale, la Siae si è arresa, e i controlli all’entrata non li fanno più. Anche se entri con una macchina fotografica che sembra un cannone non ti dicono niente, tuttalpiù ti ricordano che è pericoloso scagliarla addosso ai musicisti. E dov’è finito il senso del proibito, l’inventarsi trucchi per eludere la sorveglianza, la soddisfazione quando riesci a passare? Ecco che qualche nostalgico si è inventato una maniera per tenere viva questa tensione, continuando a introdurre all’interno dei palasport ogni genere di oggetti, palesi o nascosti, per vedere se i poliziotti glieli contesteranno. Curiosamente questo fenomeno si è manifestato per la prima volta a un concerto dei Red Hot Chili Peppers, e dallora è nata una rete parallela di ricerche su internet di persone che si informano su quali sono stati gli oggetti più bizzarri introdotti a un concerto, sempre dello stesso gruppo peraltro. Ogni giorno qualcuno digita su un motore di ricerca una frase come questa, e qualcun altro ne prende spunto, tentando di superare la prova con qualcosa di più inverosimile.

Quello che segnalo oggi è “Concerto red hot chili peppers col calzino“, ma esistono anche ricerche più ardite, come “Concerto red hot chili peppers con la bicicletta“, “Concerto red hot chili peppers con la moka napoletana“, “Concerto red hot chili peppers col cric del Renault 5” e “Concerto red hot chili peppers con l’intera collezione di dischi dei Van Halen“.

Al terzo posto un pedante, che è venuto a trovarmi solo due volte, ma il cui tono perentorio mi ha già dato sui nervi. La prima ricerca che ha fatto è stata “Voglio sfogliare immagini di molluschi“. E l’ho ignorato, pensando a un errore: uno che cerca foto di ostriche non finisce sul mio blog. Ma il misterioso ricercatore è tornato, con una richiesta più precisa: “Foto di donne nude le voglio vedere senza vestiti“, e di colpo ho capito di quali molluschi parlasse:

molluschi

Al secondo posto “Titoli pazzeschi di film“. Si riferisce ovviamente a quelle pellicole che hanno avuto poco successo e sono state ritirate quasi subito dal mercato a causa del loro titolo assolutamente non commerciale.
Alcuni esempi sono “Socrate sfida i Teletubbies a freccette“, “Vita di Alberto Parodi, elettricista“, “La grande avventura di mia mamma al supermercato il giorno che facevano il tre per due“, “Frangifluttifrasci“, “Raggio per raggio per treequattordici“.

Endeuinnerìs..

Al primo posto, questo mese, lo straordinario chesicommentadasolo “Lettera a mia figlia che mi ha deluso“!

Ebbene si, gente, esiste un sito dove trovare le lettere già compilate che altri hanno scritto a sua figlia, quando l’ha deluso. Chi sia sua figlia nessuno lo sa, come d’altronde nessuno conosce costui o costei che ha effettuato questa ricerca ed è finito sul mio blog, ma ciò non ha impedito di estendere all’infinito mondo della rete quest’ennesimo tema di discussione, e adesso chiunque può dare il proprio contributo, scrivendo la “lettera a sua figlia che l’ha deluso/a” e pubblicandola su quest’indirizzo.

Alla prossima.

renzportEra inevitabile, uno non può leggere a lungo due blog intelligenti come quello di Seaweeds o di Mudcrutch e non restarne influenzato, e difatti anch’io, che sono una scarpa, ho deciso di cimentarmi in un post divulgativo, un tentativo di raccontare qualcosa che non fossero le solite due cazzate su quel che mi hanno combinato i gatti, ma si impegnasse a trattare un argomento poco conosciuto, e far venire voglia a chi mi legge di approfondire per conto proprio. E’ un bel modo per smazzare cultura, senza passare per presuntuoso e annoiare quei pochi che ancora resistono a leggermi.

Ho deciso di occuparmi di un argomento leggero, ma nello stesso tempo ricco di spunti interessanti e poco noti, la musica, e in particolare della produzione di un autore che io stesso conosco poco, obbligandomi a documentarmi e a scoprire inevitabilmente qualche perla di cui ignoravo l’esistenza. Alla fine di questo post, sono certo, avrò qualche canzone in più nella lista delle preferite, e il mio blog sarà stato aggiunto alla medesima lista di qualcun altro.

Ho scelto Bob Dylan. Poeta, musicista impegnato, anima e pilastro della tradizione musicale dylanamericana, uno che quando lo nomini non serve spiegare cos’ha scritto, le sue canzoni le sanno anche i sassi. Uno che non piace a tutti, ma che tutti per forza conoscono.

Quello che magari non tutti sanno è che questa figura chiave nella storia del XX secolo, considerato un’icona del rock impegnato, senza padroni, al di fuori di ogni possibile etichetta, ha avuto dei seri problemi con la censura, e proprio lui, che ha sempre cercato di spiazzare i propri fans saltando da un genere all’altro, ha rischiato una volta di vedere la propria carriera conclusa per un episodio che fece un gran scalpore, e che si riuscì a insabbiare solo mettendo un guinzaglio a questo profeta della libertà.

Era il 1964, alle spalle i successi di The Freeweelin’ e The Times They Are a-Changin’, l’impegno politico, la collaborazione con Joan Baez, un periodo cupo e polemico dal quale sembrava essere uscito cambiato anche nel look: gli abiti sdruciti di un tempo erano stati sostituiti da articoli di boutique londinese, città in cui il Menestrello si faceva vedere sempre più spesso. Intervistato a una radio americana, il cantante si era divertito a dare risposte evasive, che avevano portato i suoi fans a chiedersi dove fosse finito il Dylan che conoscevano.

In maggio di quell’anno, durante un’apparizione allo Show di Johnny Carson, Dylan decise di scoprire le proprie carte, e rivelò al mondo la ragione del suo cambiamento.

Si era innamorato, disse, ma i suoi collaboratori della casa discografica gli impedivano di rendere pubblico il proprio sentimento, per paura della reazione del pubblico.

Il problema era che Bob Dylan si era innamorato, si, ma di un uomo. E non di un uomo qualunque, ma di qualcuno che tutti conoscevano, una celebrità sua pari, un musicista che rappresentava tutto ciò che era all’opposto di Dylan. Se lui era impegnato politicamente quell’altro sembrava infischiarsene di ciò che succedeva al di fuori della sua stanza d’hotel, se Dylan appariva come un bravo ragazzo semplice l’altro incarnava l’essenza stessa del vizio, coi suoi eccessi in fatto di droga e alcool.

la coppiaSi, Bob Dylan si era innamorato di Keith Richards, chitarrista dei Rolling Stones.

Apriti cielo! Gli studi dell’ABC TV furono tempestati di telefonate di spettatori indignati. Ma come! Il paladino dello spirito americano un pederasta? E lo veniva a dire in prima serata? Roba da non credere! Migliaia di fans minacciarono di bruciare i suoi dischi, boicottare le sue esibizioni, la sua carriera sarebbe terminata immediatamente.

I discografici erano disperati, lo implorarono di smentire quella dichiarazione, dire che era sotto l’effetto di stupefacenti, che era stressato per il troppo lavoro, che avevano capito male, ma Bob era irremovibile, voleva che il suo amore per Keith Richards fosse reso pubblico, oltretutto era convinto che nonostante la reazione di quest’ultimo fosse stata prima di sbigottimento e poi di deciso disgusto, sarebbe bastato corteggiarlo un po’ perché anche lui capisse che al cuore non si comanda, e cadesse fra le sue grinfie amorevoli.

Era deciso ad andare fino in fondo, e dichiarò che aveva intenzione di incidere un 45 giri, in cui diceva chiaro, senza tanti giri di parole, che gli piaceva quel musicista, e che senza di lui si sentiva perso.

Si sarebbe intitolato I Like A Rolling Stone, e sarebbe stato esplicito fin dalla copertina, che avrebbe mostrato una foto di Keith Richards.

45 giri“Come ti senti, ti senti per conto tuo, privo di direzioni, ti senti uno sconosciuto, quando ti piace uno dei Rolling Stones”

Era roba troppo forte anche per l’uomo che aveva rappresentato il movimento per i diritti civili americano.

La canzone non ottenne il permesso di pubblicazione, e a Dylan fu imposto di modificarne il testo e il titolo prima di poterla incidere. Lo fece, e gli andò bene, perché ancora oggi Like A Rolling Stone è considerata una delle più belle canzoni mai scritte, ma quella faccenda non gli andò affatto giù. Nessuno poteva permettersi di dire a Bob Dylan cosa fare.

Nel marzo del 1965 fece uscire il suo nuovo album, Bringin It All Back Home, dove abbandonò la chitarra acustica in favore di un suono più arrabbiato, fatto di strumenti elettrici. Nel video di Subterranean Homesick Blues, primo singolo, Dylan rifiuta di suonare e addirittura di muovere la bocca, affidando l’interpretazione del brano a dei cartelli, che lascia cadere al suolo uno dopo l’altro. Anche il testo lascia pochi spazi ai dubbi, “Attento ragazzo, è qualcosa che hai fatto, Dio sa quando, ma lo farai ancora“.

Bob Dylan è incazzato, e non ci sta a farsi imbavagliare.

Si sa com’è il pubblico, te lo devi conquistare, e quando ci sei riuscito gli devi rispetto come a un vecchio padrino. Non puoi permetterti di uscire dai binari che tu stesso hai tracciato, le conseguenze sono terribili.

Il 25 luglio 1965, al Festival di Newport, dopo avere ricevuto una reazione tiepida per le prime canzoni suonate, la band di Dylan intona Like A Rolling Stone. E’ la goccia che fa traboccare il vaso: la folla, sentendosi irrisa da quella canzone divenuta il simbolo di tutti gli errori dell’artista, lo fischia pesantemente, tanto da spingerlo, una volta terminato il brano, ad abbandonare la scena. Vi ritornerà, implorato dagli organizzatori e da altri artisti presenti, per suonare un altro paio di canzoni accompagnato solo dalla propria chitarra, ma il Newport Festival farà a meno della sua presenza per tutte le edizioni a venire, fino al 2002.