Sparare ai matti con la pistola perché sono pericolosi, e ai matti senza pistola perché la tengono nascosta sotto la giacca, e ai matti senza giacca perché la pistola oggi l’hanno lasciata a casa, ma domani..

Ricordare a qualcuno quanto gli volete bene spedendogli una cartolina di un vecchio viaggio insieme, poi ricordare quanto volete bene a un altro, tanto avete comprato un mucchio di francobolli.

Piangere fino a consumarsi gli occhi, farsi prestare altri occhi dagli amici. Farsi nuovi amici assicurandosi prima che abbiano gli occhi.

Rimediare a tutti gli errori cambiando le regole, renderle retroattive per non sbagliare mai. Stupide volpi, l’uva acerba sfama come l’altra, basta dichiarare che ti è sempre piaciuta.

Uccidere centinaia di schiavi sotto il peso dei massi che li costringi a trascinare tutto il giorno, sotto il sole, senza acqua da bere o un riparo, godere delle loro fatiche, assaporare ogni goccia di sudore, ogni vescica, farsi cullare dal lamento, veneratemi, erigete un tempio che celebri la mia bellezza, nutritemi col vostro amore.
In mancanza di schiavi prendersi un cane.

Non raccontarsi bugie. Le altre volte me le sono raccontate, ma stavolta no, stavolta è tutto vero. Ripeterlo ogni volta.

Dispensare perle di saggezza a chi non ve le chiede, come atto di generosità. Dare via per prime quelle col verme.

Abbonarsi alla Settimana Enigmistica per diventare campioni di Aguzzate La Vista, esperti nel trovare differenze fondamentali fra la predica e la razzola. Nella vignetta a sinistra il muretto ha un mattone sbeccato, cambia tutto eh? Nel dubbio diventare bravi anche a Il Corvo Parlante.

Arrampicarsi su peri molto bassi, da dove sia più agevole cadere.

Tenersi timidamente lontani dalla prima fila, cercare una posizione sul fondo, chiedere a tutti di girarsi.

Stilare un elenco di tutti i difetti dell’ego che voi invece non avete. Far sapere a tutti che voi invece non li avete. Farci una maglietta con l’elenco di difetti che invece voi figurarsi se. Venderla al Club degli umili, da voi timidamente fondato since 1953.

Essere sempre gli ultimi a pagare il conto, pagare meno perché non vi hanno portato il dolce, tenersi il resto.

Rompere il cazzo a tutti di quella volta che avete subito un torto, invocare il Consiglio Di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’intervento aereo, l’invasione preventiva, poi svegliarsi un giorno coi sensi di colpa perché quel torto forse non l’avevate subito proprio proprio così. Cambiare idea il giorno dopo, ricominciare da capo.

Arrivare a pagare qualcuno che vi ascolti con la scusa di chiedere aiuto.

Soprattutto non tacere mai: i narcisi sono fiori chiassosi, devi parlare forte sennò ti coprono.

Sono felice, partiamo da lì.
E sono rintronato da tutti i baci e i morsi e le parole e le carezze, e drogato dal profumo della tua pelle e dalla sensazione che mi lascia sotto le dita, e abbronzato dal calore e dalla luce che emanano i tuoi occhi quando sorridi, e divertito da tutte le cretinate che ci siamo detti, che riempiono gli spazi e mi fanno pensare di avere trovato un altro pezzo di me perduto chissà quando.

Ho voglia di averti vicino domani, dopodomani, fra un anno, tirarti i capelli e lasciarti segni sul collo e baciarti per strada e metterti a letto e addormentarmi appoggiato alla tua spalla.
Succederà, e non sarà neanche la cosa più bella fra di noi.
Non siamo una cosa di passaggio, l’ombra su un muro di qualcosa che oh ma cos’era giurerei che fosse un volo di rondini impossibile non è stagione, siamo una formula scritta su un libro polveroso nascosto in una biblioteca celata nelle segrete di un castello sepolto dai rovi nel mezzo di una foresta cresciuta in mezzo a una valle che sta alla fine di un viaggio lunghissimo fra le montagne di una terra dove nessuno parla la tua lingua e quando provi a chiedere informazioni
si incazzano pure. Una cosa che quando la trovi diventi ricchissimo, tipo l’ingrediente segreto della cocacola che trasforma l’oro in piombo delle otturazioni nello studio del dentista.

Scusa, non ce la faccio a rimanere serio troppo a lungo, ma questa cosa la sento davvero, sei il tesoro dei pirati, la bella addormentata e tutto quello che ho sognato di trovare alla fine di un’avventura fin da quand’ero bambino. Non te ne andare.

Sei così bella da fare male, dove per male intendo quella cosa che mi invade quando mi sei così vicina e non posso toccarti.
È lo stesso disagio del ladro di opere d’arte, quello che vuole portarsi a casa la Gioconda per guardarsela tutto il giorno stravaccato sul divano. Che non sarebbe granché come piaga sociale, basterebbe permettergli di portarsi il divano al Louvre, ma la direzione non ne ha mai voluto sapere. I cavalletti per macchine fotografiche si, i divani no, e vagli a spiegare che con un cavalletto puoi martellare le statue più facilmente che con un divano.
Per esempio prima che lo visitassi io l’Atena Nike aveva anche la testa.

Se dovessi scegliere un quadro che ti rappresenti non vorrei accostarti a un Klimt, che il giallo e il rosso che vi accomuna sono un paragone facile, e tu facile non lo sei per niente.
Anche questa, a voler guardare, è una cosa che avete in comune, nessuno dei due si lascia scoprire a una prima occhiata, bisogna sedervisi davanti e studiare tutti i dettagli per mesi, e ogni volta scoprirne di nuovi; bisogna vincere la ritrosia e gli sguardi bassi, tuoi e del quadro, perché anche un quadro sa essere timido e sfuggente, e se non impari a starci davanti rischi di perdere tutta quella meraviglia che tiene nascosta fra i segni del pennello.

Io non lo so ancora che quadro mi ricordi, ho trovato il tuo viso in alcune poesie e ci sono tante canzoni che mi ricordano il tuo modo di sorridere, ma per il dipinto devi aspettare, è un processo lungo, devo frequentarti per un sacco di tempo, scoprire chi sei e come ti muovi e parli e l’effetto che mi danno le mie mani sulla tua schiena.

Certo che non sembrano cose legate fra loro e do l’impressione di cercare solo scuse futili per starti vicino, ma ti assicuro che importanti studi scientifici hanno dimostrato l’importanza del contatto fisico nella ricerca dell’ispirazione artistica.
E non cominciare a puntualizzare che non ti devo mica dipingere, ma solo associarti a un quadro, e allora casomai bisognerebbe conoscere i quadri e non solo per dargli dei titoli cretini; io non so dipingere, sei tu la pittrice fra noi, perciò casomai sarai tu che dovrai scoprire chi sono e come mi muovo e l’effetto che danno le tue mani sulla mia schiena.

Ecco, qui mi fermo un attimo e riprendo fiato, che ho appena avuto una visione pochissimo religiosa, ma mistica non hai idea quanto.

6.

Esiste una serie di videogiochi molto popolare che si chiama Grand Theft Auto, generalmente abbreviata in GTA, in cui controlli un piccolo criminale in un’area di gioco enorme e molto realistica, e gli fai fare tutto quello che fa di solito un criminale senza scrupoli, rubare macchine, investire i pedoni, scendere dalla macchina e derubarli, ammazzare indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro, frequentare locali di striptease e andare a zoccole. Hai anche delle missioni da compiere per far progredire la storia, ma la maggior parte del tempo la passi scappando alla polizia perché proprio non ce l’hai fatta a non stirare quel gruppetto che chiacchierava sul bordo del marciapiede.
Ho installato sul computer l’ultimo capitolo di questo gioco, e devo dire che mi piace parecchio. Sapete quando vi state domandando perché non scrivo più niente da settimane e anche la mia pagina facebook giace dimenticata? Adesso sapete perché.

Il casino di questo gioco è che quando ci passi tanto tempo sopra ti fa perdere un po’ il senso della realtà, ti viene facile immedesimarti. Dev’essere stato per quello che mentre camminavo lungo la strada che dal museo di Serralves scende al fiume ho guardato con avidità le auto parcheggiate, mi sono tenuto alla larga dai tizi che camminavano in senso opposto e mi sono aspettato che in un quartiere così degradato (sì, Marzia, di nuovo) ci fosse almeno un night club in cui entrare e fare amicizia con la spogliarellista o picchiare il buttafuori o entrambi.

Non ce n’erano, i passanti non mi hanno spinto via mugugnandomi contro minacce alle quali non puoi non reagire tirando fuori un fucile d’assalto e massacrando mezzo quartiere, e soprattutto non c’erano night clubs. C’era una scuola francese che doveva essere molto cara, ma non avevo figli da spedirci e ho tirato dritto.
In fondo alla via non c’era neanche il fiume, ma una fermata dell’autobus e un benzinaio. Se fosse stato GTA avrei avuto un’arma da scaricare contro le pompe di benzina provocando un’esplosione che avrebbe ammazzato le persone in attesa alla pensilina, mi avrebbe procurato una o due stelline di taglia (quando hai delle stelline accese la polizia inizia a cercarti, con tre arriva in elicottero, da quattro in su intervengono le forze speciali, poi l’FBI e infine Trump in persona che però prima dice di non volersi immischiare in scenari di guerra internazionali), ma a Porto in un sonnacchioso pomeriggio di gennaio posso solo avvicinare un anziano e chiedergli dov’è il Douro. Mi dice di girare dietro il benzinaio e per favore di non sparare a nessuno, e in dieci minuti arrivo su una strada che conosco. Il fiume è davanti a me, o almeno qualcosa dentro cui scorre dell’acqua, ma sembra più una palude, quindi anche dire che scorre è inesatto.
In pratica davanti a me c’è una distesa di melma e sassi su cui svolazzano decine di gabbiani. Un cartello definisce l’area Paradiso Ornitologico Del Douro, e per sottolineare l’interesse turistico che dovrebbe rappresentare una pozza melmosa accanto a una strada sotto il cartello è stata collocata una panchina.

Seguendo la stessa logica basterebbe piazzare tre o quattro panchine davanti alla discarica di Genova per rivalutare l’area e tirare su i prezzi delle case sfitte.

volavo sopra le nostre case
non c’era nulla di eccezionale

No, esagero, la discarica puzza di cose che qui non ci sono, e poi il profilo di Gaia dall’altra parte è bello da guardare, e meno male, perché tutti gli uccelli strani indicati sul cartellone devono essere in vacanza, qui ci sono solo i soliti gabbiani prepotenti che ti zampettano intorno chiedendo cibo, come se uno a Porto uscisse sempre di casa con le tasche piene di mangime per gabbiani, siete su un fiume, avete l’oceano davanti, procuratevelo da soli il cibo, razza di fannulloni!

Questa panchina mi sta risvegliando istinti reazionari, meglio andarsene prima di diventare un piccolo borghese con simpatie leghiste. E sta giusto arrivando O Elétrico, il piccolo tram dall’aspetto ottocentesco, comodo come viaggiare seduti su un sasso, dove comunque non ti siedi mai perché è sempre pieno di turisti, e per il quale devi pagare un biglietto che costa il triplo di quello di un comune autobus di linea. E infatti ci salgo e sto in piedi, scomodo, in mezzo a turisti romani che aòeggiano meravigliati in direzione di tutto quello che vedono al finestrino, come se la nuova giunta Raggi avesse cancellato auto, pedoni, battelli fluviali e una fetta consistente di panorama.
Ad un certo punto mi siedo, ma siamo quasi arrivati, e neanche me la godo, che comunque le panche di legno vibrano come sedersi su una lavatrice durante la centrifuga.

Scendo alla Ribeira, affollata di turisti sbragati al sole come otarie. Provo disagio. Gira e rigira sono sempre qui e non ne ho voglia, vorrei essere altrove, vorrei essere sulla spiaggia in fondo ad Afurada, a guardare il mare senza turisti romani che aò er mare, to o ricordi quanno ce stava pure da noi, prima che a Raggi ce levasse pure quello, st’impunita. Mi sta di nuovo montando la solita insofferenza verso il genere umano, devo allontanarmi alla svelta da lì.
Ideona! Una bici! Con una bici posso raggiungere la spiaggia dall’altra parte del fiume mettendoci molto meno di tutta la vita! Ci vuole un ciclonoleggio!
C’è un ufficio informazioni, una signorina coi baffi mi indirizza verso un negozio che sta davanti al ponte, che per 10 euri mi affitta una bici da passeggio per quattro ore. E che ci faccio in quattro ore, ci vado a Lisbona? La mia insofferenza verso il genere umano non è così forte da spingermi verso l’eremitaggio definitivo! Ma non ci sono tariffe intermedie, piglio la mia bici e pedalo oltre il ponte di ferro, ridendomela delle macchine in coda di quelli che andiamo a fare un giretto in centro in questa bella giornata ma andiamoci in macchina che a piedi poi ci sono i romani che aò anvedi delle persone te ricordi quanno ce stavano pure da noartri.

Sfreccio per il viale di Gaia come un ciclista vero, mi fermo solo davanti alle cantine Sandeman a fotografare l’ingresso e postare la foto scrivendoci sotto Enter Sandeman, che l’ha fatto una volta una mia amica e mi ha fatto un casino ridere e volevo farlo anch’io, oh, mica posso essere sempre originale, cazzo vuoi, vienici tu a Porto a fare foto con le didascalie spiritose.
Sfreccio oltre un’orchestrina che suona pezzi tradizionali napoletani (???) con grande entusiasmo dei locali e dei turisti che vabbè lo sapete già.
Sfreccio lungo le curve umide e inospitali che ieri mattina mi avevano quasi ammuffito le ossa.
Sfreccio attraverso l’odore di pesce grigliato dei vicoli di Afurada, oltre il lavatoio delle signore curve sotto gerle di panni sporchi, oltre il nuovo porticciolo turistico da cui spuntano giovani fighetti abbronzati, oltre la nuova passeggiata a sette corsie che costeggia l’ultimo tratto di fiume e che l’ultima volta che sono stato qui mica c’era, e neanche le famiglie col passeggino e i bambini col monopattino e stai un po’ attento a dove pedali cazzo!

ho pedalato tanto che sono arrivato in Normandia

Arrivo vivo. Evviva. Stanco come uno che ha appena valicato lo Stelvio, con la capacità polmonare del mio gatto dopo un pomeriggio speso a miagolarmi davanti alla porta che vuole uscire, accaldato come quella volta che seduto al tavolino di Berto ho baciato a tradimento la mia compagna di banco mentre mangiava la pizza, ma vivo.

La Praia do Cabedelo do Douro, come la chiamano qui, è lunga e ventosa, ed essendo a ridosso di una riserva ornitologica, una vera, non la melmaia di prima, è come trovarsi su una pista di atterraggio per aironi: se non stai attento è un attimo che ti ritrovi infiocinato dal becco appuntito di qualche trampoliere di passaggio.

È una bella giornata limpida, cosa che mi spinge a fare quello che ogni genovese in riva al mare tenta di fare in condizioni simili: aguzzare la vista e provare a vedere la Corsica. Dopo un po’ che mi faccio venire la congiuntivite mi sembra di scorgere qualcosa all’orizzonte, e non è una nave di passaggio. Un banco di pesci? Squali? Squelli! Rido da solo della mia battuta salace, che avevo tirato fuori una sera di trent’anni fa, curiosamente proprio l’ultima volta in cui ho avuto degli amici. No no, c’è proprio qualcosa laggiù, e si sta avvicinando.

È un mostro marino! Emerge dall’oceano in un abito di alghe. Ha la testa a forma di uovo sdraiato, il corpo a forma di uovo spaccato, le gambe corte, una peluria sul mento, gli occhiali spessi, i capelli crespi e l’espressione di qualcuno che vorrebbe tanto trovarsi altrove.
Se non fossimo lontanissimi da casa giurerei di conoscerlo. Provo a parlargli, ma mi ignora, attraversa la spiaggia e sprofonda nuovamente nell’acqua torbida alle mie spalle, in una delle pozze che costellano la riserva di cui sopra.
Poi magari non era un mostro marino, ma il guardiano della riserva, che ne so, chi l’ha mai visto un guardiano di riserva portoghese?

Recupero la bici e torno indietro perplesso.

qui è dove scopro di aver perso il cappello

Ho ancora più di tre ore di bici pagata, così vado a rapinare una banca del centro, progettando di far perdere le mie tracce fra le auto in coda, ma le banche in centro sono tutte nella zona alta della città, e dopo venti minuti che ansimo su per una parete che gli autoctoni si ostinano a definire strada, rinuncio e me ne vado in ostello a fare la doccia, poi con calma torno alla Ribeira in mezzo alle otarie. Ce ne sono due vestite in modo buffo, sono Marzia e Vivienne Westwood. Arrivo in volata con un gran darci di campanello, che Marzia è sorda e se non faccio così l’unico modo per attirare la sua attenzione è investirla.
Che fate? Prendiamo il sole. Andiamo a fare aperitivo? No. Dai. Ma dobbiamo tornare in albergo e l’ultimo aereo è fra mezz’ora. Ci andate a piedi, cazzo te ne frega, oppure non ci andate proprio, tanto stasera dovete tornare giù per la cena. Va bene dai, aperitivo. Circolo dei velisti? Che domande, certo!

Il circolo dei velisti lo abbiamo soprannominato così la prima volta che ci siamo stati, perché di sicuro appartiene a una qualche associazione cittadina, ma di velistico non ha proprio niente, e neanche di vagamente sofisticato. È un baretto pieno di anziani gestito dallo stereotipo del portoghese antipatico, e ai tavoli c’è un uomo preistorico che quando ti prende l’ordinazione non parla nessuna lingua che non si sia estinta da almeno un milione di anni: tu gli dici che vuoi una birra, lui grugnisce e ti mostra le zanne. Ha davvero le zanne, gialle e appuntite. Ci siamo sempre trovati bene lì, nessun turista scassacazzi e tanti tavolini liberi, o quasi liberi, basta spostare l’anziano che ci è morto sopra.

aperibeira

(continua)

Ci incontreremo un venerdì sera, io sbucherò da un vicolo e tu sarai lì a un metro, di spalle. Mi riconoscerai dalla voce e ti volterai a salutarmi, ma io avrò avuto tutto il tempo di riconoscerti dai capelli, dal modo in cui tieni le spalle, dal profumo, dal modo in cui mi si annoda lo stomaco quando ti vedo. Nel tempo che impiegherai a voltarti io mi sarò già innamorato di te tre volte.

Riderai dei miei baffi, dirai “Ho visto le foto, per me è un no”, ma i tuoi occhi la penseranno diversamente.
Non mi presenterai l’uomo che fino a un momento prima ti teneva la mano, né io ti farò conoscere la tizia che mi sta accanto. Più tardi ci giustificheremo con loro sentendoci un po’ ladri, e non sapremo perché.

Mi scriverai il giorno dopo, dirai sai quel film di cui abbiamo parlato ieri. Non avremo parlato di nessun film, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e cominceremo così, con una scusa patetica. Ti farò ridere, ti darò una scusa per scrivermi ancora, e quando non lo farai sarò io a inventarmi un pretesto. Ci scriveremo tutti i giorni all’ora di pranzo perché ti distrae dal lavoro, spesso la sera perché non c’è niente in televisione, ogni tanto il sabato sera perché non avevamo voglia di uscire.

Lasceremo passare diverse settimane senza che succeda altro, finché un giorno troverò il coraggio di chiederti se sta succedendo davvero, e tu mi risponderai che stavi per farmi la stessa domanda.
Io dirò che avevo scambiato le tue attenzioni per amicizia, che non pensavo davvero che tu di nuovo, che sapevo che tu di nuovo mai nella vita perché.
Tu dirai che avevi scambiato le mie attenzioni per amicizia, che non pensavi davvero che io di nuovo, che dopo tutto quel che era successo volessi ancora che.

Allora ti inviterò a cena. Siederemo imbarazzati vicino alla finestra, senza il coraggio di guardarci fisseremo il cartello che dice “no bancomat no carte di credito”. Parlerò per primo, è sempre toccato a me cominciare e a te chiudere, ma stavolta non saprò cosa dire. Per la prima volta mi troverò a fissare i tuoi occhi e non troverò le parole.
Tu riderai, dirai qualcosa su giorni da segnare sul calendario, io non sentirò niente, i miei neuroni si staranno facendo le mèches col tuo sorriso, quello che mi regalavi quand’eravamo soli. Ho baciato tante di quelle volte le tue labbra tirate che mi sembrerà di sentire il rumore dei nostri incisivi che si scontrano.

Parlerai tu. Dirai qualcosa sulle emozioni e l’imbarazzo e il tempo e non lo so cosa dirai, non ti starò ascoltando, capirò solo che la tua bocca si sta muovendo e che è proprio lì che vorrei essere, di tutti i posti bellissimi su questo pianeta non me ne verrà in mente nessuno migliore, e allora supererò i tovaglioli e i piatti e le posate e la macchia di sugo e il mezzo panino e le briciole e la carta dei grissini e le acciughe fritte e arriverò lì, e tu mi accoglierai ridendo, e si sentirà il rumore di incisivi che sbattono, e per la prima volta dopo tanti anni mi sentirò di nuovo a casa.

Ci rivedremo il giorno dopo e quello dopo ancora, ci racconteremo dei giorni in cui avrei voluto chiamarti per raccontarti di averti sognata, e di quando avresti voluto chiamarmi perché avevi voglia di portarmi al cinema, e di come nessuno ha chiamato nessuno, perché tutte le storie finiscono annegate nei formalismi, e ci sentiremo due cretini per tutto questo tempo sprecato a cercarci nella faccia di altre persone, a chiederci perché non erano mai abbastanza divertenti, abbastanza affettuose, perché stare con loro senza parlare ci metteva a disagio.

Passeranno settimane e mesi e smetteremo di contarli e di stupirci, ci arrenderemo all’evidenza, cominceremo a guardare avanti, solo che avanti non ci sarà granché da vedere: me ne andrò pochi mesi più tardi, a novantasei anni.

Saremo stati insieme poco più di quell’altra volta, ma sarai stata la cosa più bella che mi sia mai capitata.
Di nuovo.

Avevo da scrivere una cosa sul mio saggio di teatro di martedì scorso, sulla naturalezza con cui salgo sul palco e mi do in pasto al pubblico, e su come dietro le quinte sia sempre difficilissimo, vuoi per il mio ego, vuoi per quello degli altri, che col mio fa a pugni:  una primadonna e una drama queen non producono dialoghi, ma monologhi incrociati.

Ma alla fine non vale la pena dire niente. Oggi è il due giugno, festa della Repubblica e data importante per la mia emotività sbarellata: è il giorno in cui si è aperta la porta e il gestore dell’autoscontro mi ha detto che dovevo scendere, così ho fatto su la mia roba, compresa una crostata a forma di tirannosauro, e mi sono incamminato giù per la strada con tutte le ossa rotte dai colpi presi sulla giostra. Colpi che comunque avrei preso fino allo sbriciolo, se necessario. Perché ne valeva la pena, perché quello era casa, dove potevo svuotarmi le tasche e tirare fuori tutto senza paura di non essere capito, e ricevere parole che nessun altro avrebbe ascoltato mai.

Oggi me le sono rilette, gran parte di quelle parole: avevo bisogno di confrontarmi col me stesso di allora per non imbrogliarmi da solo con quello che mi sta succedendo ora. Non ci è voluto molto per riconoscere la differenza: ho attraversato due conflitti molto simili, ma solo nei termini necessari a descriverli, che sono sempre gli stessi quando c’è qualcuno che si spara addosso.
Sono le motivazioni a fare la differenza fra una battaglia di Castelfidardo e una Guerra delle Falkland, non il numero dei caduti; e di combattere non ne ho più voglia, specialmente quando la posta in gioco non è casa mia, ma uno scoglio in mezzo al mare.

Domani preparerò un’altra torta, sono due anni che non ne cucino una. Sarà come chiudere una parentesi sulle scelte sbagliate, sui comportamenti irrazionali, sull’ego di Pablo, e sul bagaglio ingombrante che ognuno si porta dietro e che deve imparare a trascinarsi da solo, invece di accollarlo agli altri.

Comunque il saggio è andato bene, mi hanno fatto un occhio nero e neanche per il motivo giusto. Inoltre, a rivedermi nelle foto sembro un tossico troppo asimmetrico, e appare evidente che dovrei dormire di più, mangiare di più, pensare di meno.

Le foto sono tutte nella pagina flickr del fotografo del teatro, Donato Aquaro, divise in capitoli:
la prova generale, il debutto, i camerini. Sono bellissime.

Movimento FF

Sei di nuovo qua.
Piantala.
Lo sapevo che saresti tornata.
Zitta! Lasciami in pace!
L’hai capita finalmente? Tu non appartieni a quel mondo, il tuo posto è di qua. Vieni, dai.

[non si muove]

Beh? Ti muovi o no? Alice!

Non ci credo. Ancora non sei convinta!
Non lo so, devo pensarci.
E quanto ci devi pensare ancora? Tutte le volte la stessa manfrina, arrivi qui davanti carica di sicurezze, stavolta lo attraverso, mi lascio tutto indietro, poi ti fermi, dai un’occhiata, ci ripensi e te ne vai.
Ma credi che sia facile? Lasciarsi alle spalle tutta un’esistenza, tagliare i ponti col passato. Forse per te è una cosa semplice, ma io non sono te, ho bisogno di tempo.
Tecnicamente tu sei me, perlomeno metà di. E comunque non ho detto che sia facile, ma ciò non toglie che vada fatto.
E se non fosse così? Forse io appartengo a questo mondo più di quanto tu credi, forse una parte di me l’ha capito e..
Non la parte dietro lo specchio, questo è sicuro.
Magari sei tu che sbagli.
Magari hai soltanto paura.
E se invece avessi ragione? Altrimenti avrei già attraversato lo specchio, non ti pare? E invece me ne sono sempre andata!
Ma sei sempre tornata qui. Questo non conta?
Il mio ritorno non ha valore se ogni volta me ne vado.
La tua rinuncia non ha valore se non è definitiva.
Qui non si va da nessuna parte..
Bene, vedo che hai inquadrato il problema.
Non mi sei di nessun aiuto, io dico una cosa e tu l’esatto contrario. È uno stallo.
Beh, il fatto che io sia dentro uno specchio dovrebbe suggerirti qualcosa.. Sebbene, dal mio punto di vista, quella nello specchio sei tu.

[sbuffa]

Sì, brava, fai dell’ironia. Io non riesco più a dormire la notte, ho la testa piena di pensieri, non so davvero cosa fare. È come essere tirata da due forze opposte che mi stanno strappando in due. Non ho più forze per vivere con questa indecisione.
Alice, perché vuoi andare via, ci hai pensato?
Perché non sono felice. E non capisco, non mi manca niente, ho un uomo che mi ama, un lavoro che mi appaga, una vita serena. Ho tutto ciò che mi serve, ma non riesco a sentirmi soddisfatta, non lo sento mio. Mi sembra di indossare vestiti della taglia sbagliata.
Ho capito, stai vedendo la gabbia.
Che gabbia?
Tu sei lì che cammini nella tua vita felice, e ad un certo punto, all’orizzonte, vedi qualcosa, nella foschia. Continui a camminare e strizzi gli occhi, e ad un certo punto le riconosci, sono ancora lontane, ma non ti puoi sbagliare, sono sbarre, e tu ci stai andando dritto contro. Allora cambi direzione, e per un po’ va bene, ma un giorno ti accorgi che c’è di nuovo qualcosa all’orizzonte, e stavolta non ti chiedi cos’è. Cambiare ancora è inutile, è chiaramente una gabbia, e tu ci sei dentro, così smetti di camminare, perché prima o poi arriveresti a toccarle, e il pensiero di quel che c’è fuori, e che non raggiungerai mai, è insopportabile. Ti fermi nel mezzo, dove l’orizzonte è libero in ogni direzione, e decidi che puoi accontentarti di vivere lì, lì hai tutto quello che ti occorre, che siano gli altri a camminare sempre, tu puoi stare lì, quello sarà il tuo posto felice. Solo che in quel modo ti sei costruita un’altra gabbia più piccola, e prima o poi ne vedrai le sbarre.
Sì, tu hai una risposta per tutto, sei sempre sicura, ma se è vero che siamo una il riflesso dell’altra per ogni tua certezza c’è una mia incertezza, e io sono l’eterna indecisa. E lo sarò sempre, anche al di là di questo specchio, mi porterò dietro le mie insicurezze, e la mia gabbia, come la chiami tu. Mi faccio prendere dall’entusiasmo, mollo tutto e parto senza voltarmi, ma quanto durerà se i problemi che ho qui verranno via con me? Credo sia ora di crescere, non posso rifare sempre gli stessi errori, non posso scappare sempre. Devo restare qui e far funzionare quello che ho.
E credi di riuscirci?
Almeno potrò dire di averci provato. Se scappo mi resterà sempre il dubbio di non essermi impegnata abbastanza.
È la stessa cosa che dici sempre. Ritorni alla tua vita carica di buoni propositi, ma non durano mai più di un mese. Provi a far funzionare le cose, a farti bastare quel che hai, ma dopo un po’ ti ripresenti qui, e rifacciamo da capo lo stesso discorso.
Magari è quella la chiave di tutto. Ho bisogno di confrontarmi con le mie paure, come quelle persone che solo quando rischiano di perdere qualcosa ne capiscono il valore. Vengo qui per ricaricarmi e trovare nuovi stimoli. Ti ho sempre considerata un’alternativa, ma non puoi esserlo, sei l’altra parte di me. Ci completiamo solo stando separate, adesso l’ho capito!
Come quelle persone che solo davanti alla morte capiscono il valore della propria vita..
Esatto! Vedi che mi capisci!
Quelli sono i suicidi, Alice. Per uno che ce la fa dieci hanno buttato via la propria vita e non hanno capito neanche perché. Te la senti di rischiare? La felicità si trova e si cerca di conservarla, e non è detto che ci si riesca, spesso ti scivola via anche se la tieni stretta. Ma quando cerchi di inventarla non è felicità, è rassegnazione, ed è quello che stai mettendo insieme. Un po’ di tranquillità, un po’ di equilibrio, una manciata di sicurezze, ma se non ci metti la passione è un piatto insipido, e ti voglio vedere a mangiare tutta la vita cibi sani e nutrienti, che non sanno di niente.
Io questa vita la conosco, me la sono costruita io. Sarà insipida, ma è la mia! E devo farla funzionare io, non puoi insegnarmi tu a vivere, cosa ne sai tu di quello che mi è costato essere così? Parli come se mi fossi svegliata una mattina dentro la persona che sono, col mio lavoro, la mia casa e il mio uomo già belli e pronti. Cosa ne sai dei sacrifici, della fatica che ho fatto? Buttare via la mia vita vorrebbe dire non darle alcun valore, significa ammettere di averla sprecata, e io non credo di avere sprecato niente. Non ho rimpianti per quello che sono, credo che potrei essere migliore, ma se per arrivarci devo ricominciare da capo allora no, grazie. Preferisco tenermi stretta la mia mediocrità.
Certe volte la felicità è un lusso che non ci possiamo permettere. Arrivederci Alice, alla prossima visita.
[se ne va]

L’anno scorso, dopo mille peripezie, ho finito di scrivere un racconto di una ventina di pagine, iniziato una sera per gioco e portato avanti in quel modo balengo che ho di scrivere i racconti, senza sapere assolutamente se riuscirò a finirli e scoprendo cosa succede solo nel momento in cui li scrivo. Avevo delle cose da dire a qualcuno e ho cominciato a raccontare una storia per arrivarci col tempo necessario, poi si sono aggiunte delle cose da dire a qualcun altro, altre cose mi sono morte in bocca e questo spiegherebbe certi problemi di alitosi, e insomma, quando l’ho finito era diventata una storia del tutto diversa da quella che avevo in mente all’inizio.
C’è un personaggio che si chiama Pedro o Pablo, e infatti non sono io oppure sì, e questa esposizione con filtro a scomparsa mi pesava un po’, tanto che invece di pubblicarlo subito sul blog l’ho messo su issuu per farlo leggere solo a un paio di amici, e poi me lo sono dimenticato.

Fino a venerdì sera, quando ho incontrato uno dei personaggi del racconto. Se il tizio seduto a due metri da me si fosse girato avrebbe visto due persone ben vestite che chiacchieravano amichevolmente di cose senza importanza, ma gli sarebbe bastato mettersi al mio posto per scoprire che su quelle due piastrelle che occupavo non era più il 13 maggio 2016:
era il 20 luglio 1969, io indossavo una tuta da astronauta e sotto di me si stendeva un terreno mai calcato da piede umano. O perlomeno così mi sentivo nell’affrontare quella persona per la prima volta, dopo due anni di vogliomorirequiora e senonpossomorireioalmenofallotugrazie possibilmentemalissimo ogni volta che ci si incontrava.
È passato del tempo e sono successe delle cose a tutti e due, per cui incontrarsi e parlare ha smesso di somigliare al vertice di Camp David. E meno male, perché io interpretavo sempre Arafat.

È stato come togliersi gli scarponi dopo due anni che cammini per i monti. Ho fatto pace col Pablo di due anni fa e ho rimbrottato quello di questi ultimi mesi, che se la stava raccontando e ce lo cacava che era un martire.

E ho caricato il racconto sul pablog, lo potete scaricare dal link qui a sinistra sotto il titolo. L’ho convertito in EPUB, leggibile da qualunque supporto digitale compreso l’orologio da polso di Batman. Non so se ci sono riuscito benebene, se trovate degli errori segnalatemeli, così li correggo e lo riposto con la fascetta “seconda ristampa”, che fa sempre bello.

Mi considero una persona abbastanza equilibrata. Ho i miei punti di forza e le mie debolezze, come tutti. Diciamo che sono nella media, che non vuol dire niente, è dove sta chiunque tranne Pietro Pacciani e il Dalai Lama.

Però ho un buco. Mi manca un pezzo. Non è una debolezza, qualcosa che si può rinforzare, è proprio che non c’è. Se un medico potesse guardarmi con una macchina che legge lo spettro psicologico, emotivo, il software toh, vedrebbe in un punto non meglio determinato, un punto che chiameremo comodamente “laggiù”, una grossa macchia nera. Se fosse una tac ci sarebbe da cagarsi addosso, ma per fortuna non è una presenza aliena, è piuttosto un’assenza. È un buco. Ci guarderebbe attraverso e vedrebbe il suo assistente di laboratorio fare lo stesso dall’altra parte.

In quella casella vuota ci dovrebbe stare la sicurezza di sé. Dico ci dovrebbe, perché in realtà nel mio caso non ci ho mai messo niente. Più o meno. Da ragazzino mi è venuto il dubbio che tenersi un buco laggiù non fosse una cosa sana, così ci ho lasciato nidificare una colonia di topi. Però squittivano, non mi lasciavano dormire, e dopo un po’ l’ho liberato di nuovo. Credevo che con la maturità sarebbe arrivata anche la sicurezza. Un po’ come i peli, no? Non è successo. Però ho ricevuto doppia razione di peli, e forse avrei dovuto reclamare allora, ma non sapevo a chi rivolgermi, e poi quando sei in piena pubertà hai un sacco di altre cose da scoprire, mi sono distratto, ho lasciato perdere. Ho sperato che non succedesse niente a tenermi il buco.

Devo dire che sono stato un po’ in ansia, certe notti mi svegliavo e mi chiedevo se mi stavo ammalando, mi toccavo la fronte, mi ascoltavo il cuore, muovevo le dita dei piedi. Mi sembrava tutto in ordine, trovavo solo qualche pelo nuovo.
Passa un anno, ne passano venti, e sono sempre vivo. Nessuna malattia psicosomatica, nessun organo marcito. Vabbè, tranne il fegato, ma quello dice il dottore che basterebbe uscire meno il sabato sera.
Mi sono rilassato, ho pensato che un buco laggiù non è una cosa così grave, e dopo un po’ ho anche smesso di pensarci.

Quando si sono manifestati i primi effetti non li ho collegati al buco, a tutti capita di non avere il coraggio di buttarsi da uno scoglio, e non provarci con una che ti piace è un po’ la stessa cosa: è vero che nessuno sbatte sugli scogli, ma se ogni tanto qualcuno muore vuol dire che è solo una questione di probabilità.
Poi è stato il momento di continuare gli studi, e mi sa che non me la sento. Io mica ne ho voglia, magari mi trovo un lavoro, che è più facile. Poi il lavoro che avevo trovato mi sembrava troppo complicato per me, e ne ho cercato uno più alla mia portata, solo che neanche quello mi andava bene, e scendi che ti riscendi sono finito a farne uno dove ci lavorava anche il mio compagno di scuola ritardato. Va detto che lui lo fa meglio di me, comunque.

La mia vita sentimentale non è andata meglio, per evitare di sbattere sugli scogli mi sono sempre accontentato di stare fermo in spiaggia ad aspettare che qualche ragazza meno sveglia delle altre mi inciampasse addosso. Non che mi lamenti, eh? Ho avuto una sfilza di fidanzate straordinarie dalle quali ho imparato un sacco di cose utili. Per esempio so cucinare il gallo pinto, che sarebbe un piatto a base di fagioli neri e riso, e adoro Calvin & Hobbes. Però, ecco. Per esempio quella di terza A che mi piaceva tantissimo non sono mai riuscito a parlarle, neanche quando ho scoperto che mi stava dietro. Bloccato, proprio. E allora ho capito che quel buco lì non ci doveva stare, che la sicurezza di sé è importante per spronarti a cercare il meglio per te stesso e non accontentarti di quel che arriva, perché se ti accontenti di quel che arriva non otterrai mai niente di buono. E mi sono detto che avrei cambiato le cose e sarei diventato finalmente padrone della mia vita!

È stato allora che ho scoperto il demone della procrastinazione. Perché io la volevo cambiare la mia vita, cazzo! Solo che prima dovevo scrivere delle cose, perché nel frattempo avevo scoperto di essere bravo a scrivere, o perlomeno che senza alcuno sforzo potevo tirare fuori delle cose decenti. Se ci fosse stato da sforzarmi non l’avrei mai fatto, perché tutti gli sforzi che faccio per portare a termine qualcosa finiscono rigorosamente nel buco, e pianto lì.

Sono arrivato a tre anni fa che mi era rimasto ancora qualcosa da scrivere, ma avevo quasi finito eh, poi mi sarei dedicato a cambiare la mia vita, e la mia fidanzata ha deciso che la vita me la cambiava lei, e mi ha spedito di casa. L’ho presa malissimo, ho fatto scenate, rotto le balle a tutti i miei amici e ai suoi, l’ho insultata, le ho detto che non la volevo vedere mai più, ma la verità è che avevo solo paura del mio buco. Cosa potevo fare se non sapevo fare niente? Chi lo avrebbe voluto uno con un buco laggiù? No, stavolta avrei fatto qualcosa di buono. E qualcosa di buono l’ho fatto, mi sono scelto un passatempo, e piano piano il buco è sembrato rimpicciolire, e col passatempo ho trovato anche una ragazza che il mio buco non l’aveva notato, oppure sì ma non sembrava dargli importanza, perché ne aveva uno grosso anche lei.

Fico! Magari riusciamo a riempirceli insieme! Poi mi sono reso conto che la frase si prestava a un casino di malintesi e sono arrossito. Lei ha riso e io mi sono innamorato del suo sorriso, perché era il sorriso più bello del mondo. Siamo stati innamorati come due adolescenti per esattamente 54 giorni, 17 ore, 51 minuti e 10 secondi, e sono stati il periodo più felice della mia vita, perché per una volta non ero stato fermo a farmi scegliere come nell’ora di ginnastica quando il prof decideva due capisquadra e loro chiamavano a turno quelli bravi, poi quelli decenti, poi gli stazzi, poi quelli che proprio non si potevano guardare, poi la bidella, poi il quadro svedese, e poi finalmente io. No, finalmente avevo voluto una cosa e mi ero sbattuto per ottenerla! Poi vabbè, sbattuto, le avevo detto che mi piaceva e lei aveva risposto anche tu, capirai, è stato più che altro culo, ma non toglie che sia stato un periodo in cui vedevo la mia vita a una svolta e mi sentivo pronto a raddrizzare ogni cosa, avrei cambiato lavoro, avrei cambiato città, animale domestico, marca di automobili, titolo di film, sarebbe stato fighissimo!!
Lei si è limitata a cambiare fidanzato. Ma neanche, si è ripresa quello che aveva prima.

È stato il momento in cui il mio buco che si era ridotto fino a sparire è diventato così grosso che ci sono caduto dentro, e per tirarmene fuori ho dovuto buttare via tutto quello che avevo nelle tasche, e poi tutto quello che avevo nella pancia, e poi tutto quello che avevo in testa, ed era veramente tantissimo. Ci ho buttato cose di me che neanche pensavo di avere, ci ho buttato altre persone, ci ho buttato mio padre, ci ho buttato famiglie di rospi e la colonia di topi che credevo se ne fosse andata e invece era ancora acquattata dietro la bile, ci ho buttato anche la bile, e il fegato, che tanto era da cambiare. C’è voluto un sacco di tempo, ogni volta che mi sembrava di riuscire a tirar fuori la testa scivolavo di nuovo e dovevo ricominciare, ma alla fine mi sono liberato, e mi sono sentito più forte di prima. Sarà che il buco era talmente pieno di roba che ci avevo buttato dentro che credevo si sarebbe limitato a sparire.

Mi sono messo a fare altre cose da capo, pensando che se era servito la prima volta sarebbe servito di nuovo, e infatti ho trovato altri stimoli, conosciuto altre persone, e quando è stato il momento di rimettermi in gioco ho sentito muovere delle cose laggiù, e ci ho trovato il mio amico buco. Si era mangiato tutto quello che ci avevo buttato dentro, e mi sorrideva. “Che c’è per cena?”, chiedeva.

“Eh, ci sarebbe questa ragazza..”
“Un’altra? Devo ricordarti com’è finita l’ultima volta?”
“Ma questa è diversa, dai. Mi sta dando prove certe che.. insomma.. sembra che ci tenga davvero”
“Certo, come quell’altra. Te lo sei fatto lasciare un curriculum?”
“Bah, non mi sembrava il caso..”
“Bravo scemo! E il libretto sanitario? E la fedina penale? E le referenze dei fidanzati precedenti? Che ne sappiamo che non è una scammurriata che scappa col malloppo appena ti giri?”
“Per quel che c’è da rubare, oramai. Ti sei mangiato tutto tu.”
“Metti che è una ladra di buchi!”
“Mi pare che ne abbia uno bello grande anche lei, se devo dirti.”
“Ah! Pure! E allora lo fai apposta! Hai visto cosa succede con quelle lì! Perché non te ne trovi una diversa, per cambiare?”
“Eh, non tutte le ragazze escono col buco.”

A dire il vero non lo sapevo se qualche ragazza si sarebbe detta disposta a uscire con un portatore non troppo sano di buco, mi ero di nuovo messo lì da una parte ad aspettare di vederne inciampare qualcuna, avevo notato questa e mentre ero lì che decidevo se ero pronto a buttarmi mi era crollata addosso, decretando così l’inizio della nostra relazione e anche un’ottima ragione per terminarla.
E sì perché la sicurezza di sé è una roba che quando costruiscono le persone non ce n’è mica abbastanza per tutti. Sarà che qualcuno fa il giro due volte e se la frega, ma secondo me il conto non torna comunque, perché quelli che non ce l’hanno sono troppi, e sembra che li incontro tutti io. Nella gara delle insicurezze certe volte arrivo secondo, ma non vinco un cazzo ugualmente.

C’è questo buco, laggiù, che si mangia qualunque cosa. Si mangia i tentativi che fai di vivere una vita normale, di avere una relazione stabile, un lavoro appagante. Si mangia la dignità di dire basta quando ti rubano dalle tasche, quando ti trattano come un cretino, quando ti usano. Si mangia il futuro perché non ti permette di immaginarne uno, si mangia il passato e te ne lascia una copia falsificata male, dove tutto era migliore di ciò che hai, anche quello che volevi buttare via.
L’unica cosa che non si mangia sono i topi, quelli non se ne vanno mai, e squittiscono e ti mordono le dita, e di notte non ti lasciano dormire più.

Qualche sera fa ero al Porto Antico con una mano in bocca, a cercare di togliermi dell’angus dai denti, e questa presenza nella mia cavità orale mi faceva riflettere su quanto celiamo di noi agli altri in nome di amicizia, pudore o semplicemente paura di un giudizio, ma prima che arrivassi a una maggiore consapevolezza di me e chiamassi la mia insegnante di teatro per dirle che io Jago non lo voglio fare, che mi fa paura, una bambina vestita da angelo mi ha regalato delle caramelle e un bigliettino.

La guardo confuso, è vestita con una tunica bianca, ha le ali sulla schiena e l’aspetto florido di chi si è appena mangiato un cherubino.
L’anomalia di una bambina che regala caramelle a un vecchio pervertito mi provoca un certo disagio, e le chiedo perché questo gesto.
“Contro Halloween”, mi risponde, così apro il bigliettino e ci trovo un passo della Bibbia, qualcosa su Dio che è gentile con quelli che gli garbano a lui.

Vicino a me Lorenzo ha una reazione schifata, come se nel suo biglietto fosse avvolto uno scorpione, e lo rende alla bambina coi suoi modi garbati:
“Grazie piccina, le caramelle le tengo volentieri, ma col passo della bibbia ti ci puoi fare una supposta”. Lei non capisce, il suo animo innocente ignora l’eterna diatriba fra i baciapile e la progenie dell’inferno, e a me questa cosa che mandino in giro delle bambine a fare il lavoro sporco sembra veramente una vigliaccata, un adulto consapevole di quel che sta facendo se la merita tutta la camionata di perculi che senti arrampicartisi in gola, ma su una bambina non puoi infierire neanche un po’, e quando mi vengono delle battute bellissime e non le posso dire mi viene il nervoso, ed è la ragione per cui sono andato al cinema con lo scazzo. C’era anche il fatto di dovermi mettere una maschera, ma non quella di Pippo, che poi te la levi e ciao, una di quelle invisibili che ti resta appiccicata alla faccia tutto il tempo e ti riesce difficile toglierla e non ti lascia respirare bene. Io non le so indossare le maschere, fingere di essere qualcosa di diverso da me è odioso, e quando mi trovo a dover camuffare il mio atteggiamento in nome della ragion di stato mi girano le balle. C’è gente, e quella sera ce n’era da riempire un taxi, che cambia faccia a piacimento come Big Jim 004. Beati loro che non si fanno problemi, io però di quell’odore di liquame che gli senti addosso quando ti parlano da vicino ne faccio a meno, e se posso mi ci tengo alla larga.

Il film che sono andato a vedere è Guardiani Della Galassia, una pellicola a cui non avrei dato una possibilità che fosse una, dai, ma ti pare che vado a vedere un film con un uomo albero e un procione parlante? Che già il nuovo Spiderman mi sembrava una vaccata, che poi i fumetti dei Guardiani non li ho mai letti, che tutte quelle serie spaziali mi sono sempre state in culo, con buona pace di Jack Kirby, che già i Fantastici Quattro mi pesavano, a parte quando c’era il Dottor Destino, che lui è un figo, e insomma n0, i Guardianidellagalassia ve lo andate a vedere voi, io casomai mi guardo quello con Viggo Mortensen, che c’è una mia amica che mi ha detto che vorrebbe vederlo, e siccome siamo in un momento in cui fra noi si è  accumulata un po’ di tensione ci vorrebbe un bel film distensivo per ritrovare quell’armonia che.

Solo che poi la tensione non si stempera per niente, che a tracciare dei confini a tavolino nascono gli stati quadrati, e non funzionano mai e sono sempre lì a farsi la guerra uno con l’altro; esistono delle frontiere naturali che vanno riconosciute e rispettate, e se è il caso cancellate, ma non devi imporre niente, altrimenti non è amicizia, è il Pakistan.

E insomma, piano B, si va a vedere i Guardiani insieme a un pulmino di individui fra il facepalm e il WTF, e se ci aggiungi il discorso di cui sopra capirai che le premesse non erano le migliori.

E invece.
Invece l’ultimo film Marvel si rivela una commedia spaziale, non nel senso di divertente a livello interplanetario, ma proprio come ambientazione, insomma, quel Della Galassia avrebbe dovuto mettervi sulla buona strada.. E comunque una commedia dai tempi perfetti, senza sbavature o pretese di serietà. Il procione e l’uomo albero sarebbero la spalla comica, se non fosse che nessuno lì in mezzo si prende davvero sul serio, sono Stanlio e Ollio che finiscono in un film con Vianello e Tognazzi, se mi passate l’accostamento. Una commedia molto divertente dove non te l’aspetti. E noi riempiamo le sale con Paolo Ruffini, che a confronto Christian De Sica è un attore. Ma diocristo.

E comunque per me il migliore è Drax Il Distruttore.

Uno dei migliori coglioni visti sullo schermo, se volete il mio parere.

Neanche il tempo di dire “Io sono Groot” che sono di nuovo seduto su una poltrona, ma stavolta gli attori sono veri, sono lì e se ti levi una scarpa e gliela tiri puoi colpirli in testa. Poi ti cacciano dal teatro, e non è detto che la scarpa la ritrovi, ma era per farvi capire che sono andato a vedere uno spettacolo al Teatro Della Tosse, che se non sei di Genova magari pensi a un posto dove organizzano recite per gente con l’enfisema, e invece è roba di qualità, e in sala stavano tutti bene. Tranne giusto l’attore protagonista, ma lui pare sia disturbato di suo.

Era in scena Caligola, di Albert Camus. Ecco, adesso mi piacerebbe scrivere una recensione del testo, più ancora che della sua versione teatrale, perché non mi ritengo competente abbastanza delle robe di palcoscenico da poter dire cosa sì e cosa meh, mentre il testo me lo sono letto prima di vedere lo spettacolo ed è stata una di quelle letture che ti portano via. Il problema è che quel testo mi ha lasciato della roba dentro con cui devo ancora fare i conti, e raccontarlo mi sembra un po’ come mostrarvi le mie mutande. Come quando ho letto La Moglie Dell’Uomo Che Viaggiava Nel Tempo, un romanzo che mi ha fatto a pezzi e di cui non ho scritto neanche una riga. Non ve lo racconterò neanche stavolta, accontentatevi del procione parlante. Magari se vado a vedere Viggomortense vi racconto quello, dai.

Metti su la pentola taglia il sedano la carota la cipolla aggiungi il sale buttaci la carne e aspetta. Dice che per fare il bollito ci vogliono due ore, e ne è passata mezza, e mi sono già mangiato un panino col prosciutto uno col formaggio un pacchetto di fonzi e una fettona di granapadano, ho bevuto una Ichnusa e un dito di vino, e adesso scrivo, che sennò continuo a mangiare bere uomo donna e faccio venire l’ora di andare a dormire senza infamia e senza loden, per forza ricevo critiche nell’abbigliamento, il loden di luglio, ma come stai, e comunque secondo me non è vero che la camicia con le maniche corte è esecrabile, in fondo è una polo con molti più bottoni, siete voi che vi fate le fisime perché non sapete inventarvi le regole da soli e cercate di sottostare a quelle degli altri senza peraltro riuscirci, cosa che vi rende fragili e tabagisti, e qui giuro che non sto parlando di nessuno in particolare, che ultimamente il mio blog è diventato il metro dei miei malumori e se scrivo merda c’è subito qualcuno pronto a ribattere che a lui merda non glielo devo dire, e ha ragione,che di solito quando scrivo lo faccio per qualcuno e su qualcuno, ma stasera scrivo per me, lepablog pour lepablò, à la guerre comme à la guerre, j’ai pensè qu’il valait mieux nous quitter sans un adieu, o perlomeno ci provo, che non è facile camminare nel campo minato che ho nella testa, altro che rumore, sai quando parlavo del rumore che ho nella testa? Probabile che fossero le mine quando ci camminavo sopra, poi ti chiedi cosa sono tutte quelle cicatrici, provaci te a farti scoppiare in mano un sogno dopo l’altro, poi mi dici se hai ancora voglia di.

È venerdì, si esce e si va alle feste alle cene si vedono gli amici e si celebra come si conviene la fine della settimana, e io avrei fatto lo stesso, sarei sceso in centro, avrei incontrato qualche amico e saremmo andati in giro a divertirci, parlare e guardare facce a cui non hai mai niente da dire per tempo timidezza o palle che ti racconti lì per lì, solo che piove e ho messo su il bollito, perciò il mio venerdì sera lo voto al culto del bollito che deve cuocere due ore, e sono passai solo quarantasei minuti, te lo dico io arrivare alle nove, avrò mangiato tanta rumenta da trascinarmi a letto in stato di semicoscienza, che rispetto a come mi ci sono trascinato fino a un paio di sere fa sarebbe comunque un successone. E qui sto camminando sul filo del messaggio con destinatario, che è una cosa che voglio evitare, perché nessuna ragione per restare è un’ottima ragione per andarsene, e non scrivere, e non pensare, ad esserne capaci, ma col tempo s’impara anche quello, il tempo ha questa cosa fighissima di far passare tutto, c’è una mia amica che si è appena separata e mi scrive che vorrebbe addormentarsi e risvegliarsi fra tre anni, ma non ha capito che per lei sarebbe passata solo una notte, e allora il tempo cosa ci sta a fare, se non lo lasci scorrere non risolverai mai niente. È una cosa che non ho mai imparato benissimo neanch’io, che di solito voglio tutto subito e al primo successo mi sento già arrivato, e al primo insuccesso me ne vado pensando che non c’è più niente da fare, epperò certe volte se me ne andassi subito forse sarebbe meglio, che andarsene se è ora di finire è un consiglio valido per ogni stagione, ma come fai a convincerti che basta, quando il basta è solo l’ultimo dei mille basta che l’hanno preceduto, che erano basta solo in superficie, e sotto c’era un sacco di roba che aspettava solo di essere tirata fuori, come lo distingui, per forza stai lì a vedere se è un altro di quelli e fai la faccia da si vabbè ci siamo capiti, e quando lo capisci c’è un grosso buco nero ed è troppo tardi per evitare di cascarci dentro.

Ogni volta che capisco di essere scivolato nel personale metto un punto e vado a capo, come un monito a comportarmi meglio e scrivere solo cose inoffensive, tipo la recensione di un film che ho visto di recente, ma non ho visto nessun film di recente, d’estate escono solo porcherie e cosa ti recensisco, Gozzilla? Ochei, Gozzilla parla di uno che una volta è stato il protagonista di una delle più belle serie tv degli ultimi vent’anni, che fa lo scienziato in una centrale nucleare in Giappone, anche se lui è americano, e c’è un terremoto e gli muore la moglie, che è Juliette Binoche, che per me è una delle donne più belle del mondo, perché ha questa bellezza raccontata sottovoce, che la bellezza è una cosa intima fra chi la porta e chi la sa vedere, ed è facile avere dei fantastici occhi azzurri, ma la bocca non la vede mai nessuno.

Un altro film che ho visto di recente è X Men Quello Di Wolverine Che Torna Indietro Nel Tempo, il titolo mi pare fosse quello, dove c’è gli X Men nuovi e quelli vecchi, ma più che altro quelli nuovi, gli altri son passati dieci anni, Halle Berry ne ha per le palle di farsi i capelli bianchi e supereroi basta, e difatti recita con uno scazzo che i robottoni in CGI ci mettono più impegno. Sono le otto, fra un’ora spengo il bollito e me ne vado a dormire, vorrai mica mangiartelo dopo che ti sei ingozzato come uno struzzo? Poi voglio vederti a svegliarti domani mattina, o ad addormentarti, ma quello ci sono abituato.

Niente, qui stiamo finendo gli argomenti, andiamo di recensioni, tipo quella di un film che ho visto un paio di mesi fa e che.

A parte le frivolezze il corso di teatro sta and.

 

 

 

 

 

No, niente, tutto a posto, davvero. Buona serata.