Ieri cadeva il centenario di quello che viene considerato l’evento scatenante della Prima Guerra Mondiale, l’attentato a Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, e questo mi ha portato a ripensare a una persona che non vedo più da un sacco di tempo: fu proprio a un ricevimento dell’arciduca d’Austria che conobbi Jordan Baker.

Non mi fece granché impressione, ero troppo impegnato a chiedermi cosa ci facessi lì per concederle più di un’occhiata superficiale.
Era fasciata in un abito di seta nera pieno di lustrini, e indossava un cappellino che le dava l’aspetto di una cantante blues degli anni ’20. Aveva lo sguardo altero della pupa del gangster, ma non quella frivola che ride sempre per ogni cazzata e alla fine la ritrovano sparata dentro una Morgan, quell’altra, quella con una coscienza che alla fine si redime e lo fa arrestare e si mette col poliziotto buono.
Per la verità i lunghi capelli biondi tradivano quell’immagine retrò nella mia testa, le cantanti blues e le pupe del gangster si pettinavano diversamente, ma non ci feci caso, ero distratto da altre cose, come ho detto; la etichettai come antipatica e passai oltre, lasciandola ad aggirarsi per il salone con un flute di vino fra le dita sottili. Ogni tanto la sua risata squillante echeggiava qua e là, sovrastando il moscio repertorio di valzerini che un quartetto di violinisti pescati in chissà quale festa di quale paesello balcanico si trascinava da ore.

Alcune settimane più tardi mi trovavo sulla Cinquantaquattresima, in pieno centro di Manhattan: ero andato a vedere un appartamento e stavo aspettando l’agente immobiliare davanti a un chiosco ambulante che cucinava piatti messicani, all’angolo con la First Avenue.
Non la riconobbi subito, questa volta indossava un paio di jeans e una camicetta bianca, e nel venirmi incontro sfoderava un sorriso talmente forzato che mi fece venire voglia di andarmene. Non me ne diede il tempo, mi raggiunse con ampie falcate e fece scattare la mano verso di me come la lama di un coltello a serramanico:

“Il signor Renzi? Jordan Baker, molto piacere.”
“Come il campione di pallacanestro?”, domandai, dando subito sfoggio di grande cultura.
“Come un personaggio del Grande Gatsby”, mi gelò lei. I suoi occhi azzurri mi inchiodarono un aguzzo senso di inferiorità appena sotto l’attaccatura dei capelli, e non osai aggiungere altro.

Salimmo a visitare la casa, e mentre mi decantava i vantaggi dei tripli servizi e mi mostrava il letto placido dell’East River dalla grande vetrata dell’ambiente principale, la osservavo di sottecchi.
Era carina, se non avesse avuto quei modi affettati da venditrice mi sarebbe piaciuto passarci un po’ di tempo insieme, a cercare di capire se era più forte il fastidio per i suoi modi esageratamente cordiali o l’attrazione che mi provocavano i suoi occhi, di un azzurro slavato, come il ghiaccio che si forma in certe grotte artiche.

Alla fine non comprai l’appartamento, era troppo grande per viverci da solo, e poi i vicini erano una famiglia di italiani veramente molesta, lei friggeva tutto il giorno, lui suonava la chitarra e i due bambini strillavano senza sosta. Jordan Baker invece meritava una seconda impressione, e la invitai a fermarsi per un caffè.

Accettò, aveva ancora un paio d’ore prima dell’appuntamento successivo e il cielo minacciava pioggia. Solo che non c’erano bar nei dintorni, e quelli che c’erano erano chiusi, e quelli che non erano chiusi erano frequentati da bande di mafiosi motociclisti drogati, che seduti sulle loro harley pretendevano dai clienti il pizzo, ma in spiccioli, e nel frattempo sgasavano davanti al bancone.

Ci restava solo il messicano ambulante, così facemmo conoscenza davanti ai peggiori burritos della mia vita, quelli serviti da Wang Chang Gonzales: cucina messicana cantonese.

“Che lavoro fai?”, mi chiese.
“Nessuno. Sono il protagonista bidimensionale di un racconto, vivo episodi slegati da un contesto per venire incontro alle esigenze di un autore privo di fantasia. Pensa che qualche settimana fa ero a Vienna, al ricevimento di un personaggio morto da un secolo. Fra l’altro sono quasi sicuro di avertici incontrata, è possibile?”
“Si, ero io: i grandi sconvolgimenti internazionali sono una manna per noi agenti immobiliari, si liberano di colpo un sacco di proprietà, a muoversi in tempo c’è da concludere ottimi affari.”

Non mi tornava, l’Arciduca d’Austria era ancora vivo la sera del ricevimento, come faceva questa qui a sapere che il suo assassinio avrebbe scatenato la più sanguinosa guerra di tutti i tempi?

“Beh, vedi”, mi rispose, “la concorrenza è agguerrita, e certe volte siamo costretti a prendere contatti con il venditore prima ancora che sappia di esserlo.”
“Va bene, ma come si fa a sapere chi venderà casa sua se neanche lui ha ancora deciso di venderla, scusa?”
“Certi equilibri sono così precari che se sai dove toccare basta una spintarella per far venire giù tutto. Diciamo che io mi occupo di spintarelle.”
“Ma.. mi stai dicendo che quell’anarchico serbo..”
“Mio cugino Riccardo.”
“Tu sei una donna pericolosa”, dichiarai ammirato. “E bella.”
“E anche un po’ stronza, lo ammetto.”
“Le donne belle e stronze esercitano su di me un fascino irresistibile. Mi lasci il tuo numero di telefono?”

Dopo il secondo caffè eravamo ancora lì a raccontarci cose, ma Wang Chang Gonzales ci chiese di liberare il banco, che la polizia era già passata diverse volte e lui non aveva il permesso per occupare il suolo pubblico, doveva telare.
Io però non avevo il numero di Jordan, e mi seccava di apparire troppo insistente.

“Senti, dove hai l’appuntamento? Magari ti accompagno, ho la macchina qui dietro.”
“La macchina in centro a Manhattan deve costarti una fortuna, come fai?”
“Ma no, è solo una diceria, in realtà è molto vantaggioso!”, risposi, spaccando il vetro di una Ford parcheggiata lì accanto.

Ovviamente fu un viaggio lunghissimo, girare per Manhattan non è neanche troppo difficile per chi è allenato ai sensi unici impossibili di Genova, ma io mi trovavo lì da non più di una pagina, e di certo non ci avevo mai guidato. Senza contare che il cambio automatico mi dà in culo da morire.
Dopo due ore ci trovavamo ancora all’angolo fra la Broadway e la Ventiduesima, in direzione ovest.

“Non sono sicura che questa sia la strada giusta, però”, mi disse la passeggera.
“Dove hai l’appuntamento?”
“Parigi. Davanti alla metro di Abbesses.”
“Mi sa che farai tardi”, mi rammaricai.
“Non fa niente, è stato un bellissimo viaggio. Magari prendo un taxi.”

Abbandonai la macchina in mezzo alla strada e mi avvicinai al primo taxi che si fermò a strombazzare arrabbiato. Aprii la portiera e feci accomodare Jordan Baker, poi restai lì a guardarla, con lo sportello in mano, incapace di chiudere l’incanto.

“Posso rivederti?”, le chiesi.
“Certo!”, disse, e sorrise, e i clacson furibondi intorno tacquero di colpo.

Come non dipingerei mai uno svincolo autostradale su un paesaggio di Monet, così non mi sentii capace di rovinare la poesia di quel momento con una domanda prosaica come il suo numero di telefono: restai lì a guardarla andare via su un taxi guidato da un sikh col turbante. Una ragazza dai capelli biondi, con una camicetta bianca, su un taxi giallo. Il turbante era rosso. E io non lo saprei disegnare, uno svincolo autostradale, Monet o meno.

2.
Per un po’ cercai di rivederla contattando tutte le agenzie immobiliari della città; credo di avere visitato ogni appartamento dal Bronx a Staten Island, se avete intenzione di comprare casa da quelle parti chiedete pure a me. Tutto inutile, Jordan Baker era scomparsa, e la cosa peggiore era che nessun agente sembrava conoscerla, era come se fosse uscita da una scatola per regalarmi quel bellissimo pomeriggio e e poi sgattaiolare via con la mia anima sottobraccio.
Alla fine rinunciai e tornai alla mia solita vita, che però non avevo, essendo un personaggio creato apposta per questo racconto. Trascorrevo le giornate ciondolando per la città, dentro e fuori dalle librerie dove compravo vecchi tascabili dalle pagine stropicciate, mi fermavo a mangiare in certe trattorie giapponesi sconsigliate dalle guide turistiche, per vedere se è vero che ti danno da mangiare il pesce palla velenoso. A pensarci adesso era un’idea del cazzo, meno male che non ne ho mai trovato nessuno. Una sera ero in una stazione della metropolitana nell’Upper West Side, ad ascoltare un nero con la tromba che sapeva fare tutto Kind Of Blue di Miles Davis, uguale preciso a lui.

Eravamo una decina ad assistere a quella meraviglia, ogni tanto si fermava, qualcuno gli buttava un paio di dollari e lui riattaccava, come un juke box con un disco solo. C’era una ragazza bassina, un vestito piuttosto corto che le lasciava le gambe scoperte, e un paio di scarpe col tacco. Portava un panama sui capelli neri e teneva le spalle in avanti, come se Miles Davis le avesse riportato in mente qualcosa di doloroso. Ogni tanto un tic nervoso le chiudeva un occhio, non dava l’impressione di una persona serena che si stava godendo il concerto.

Mi avvicinai, sono sempre stato attratto dal subbuglio interiore, e poi era carina, e io non avevo niente da fare. Si, indossava degli occhiali dalla montatura pesante, come voleva la stupida moda di quel periodo, ma più la guardavo più la trovavo piacevole, semmai ci fossimo sposati le avrei chiesto di mettere delle lenti a contatto. Ad un certo punto si mosse per buttare una manciata di spiccioli nell’astuccio del musicista, e inciampò franando addosso a un tizio pelato in camicia celeste, probabilmente un impiegato di ritorno dall’ufficio.
La ragazza con gli occhiali da hipster si scusò con impeto, ma il tizio non sembrava essersela presa, tutt’altro: le restituiva occhiate generose alla scollatura del vestito e l’aiutava a ricomporsi con manate troppo amichevoli. Lei cercò di divincolarsi, ma quello aveva mani dappertutto e non voleva proprio saperne di smettere. Ad un certo punto perfino il nero con la tromba gli aveva detto di piantarla, ma il tizio gli aveva risposto secco di farsi i cazzi suoi Duke Ellington, dimostrando grosse carenze di cultura musicale. Il nero con la tromba era diventato un nero incazzato senza tromba e gli si era buttato addosso. Per il pubblico non faceva alcuna differenza se assistere a un concerto jazz o a un incontro di lotta libera, ma la ragazza si era messa a urlare come un’indemoniata: “pervertito di merda!” al tizio che la palpava, “negro di merda!” al musicista e “americani di merda!” al pubblico indifferente.

La situazione era critica, presi la ragazza per un braccio e la tirai via, prima che qualcuno potesse offendersi e allargare la rissa oltre i due che ancora si dimenavano sul marciapiede.

“Si può sapere che problemi hai?”, le chiesi mentre la tiravo. Lei assumeva pose da contorsionista e cercava di colpirmi con una borsa di tela che recava il marchio di una libreria del centro. Conoscevo quel negozio, ci si comprava bene.

“Lasciami!”, strillava, e avrebbe attirato l’attenzione di qualche altro musicista di animo nobile, perciò la lasciai. Ne approfittò per colpirmi con la borsa: vendevano anche libri belli pesanti, in quel negozio.

“Ma che cazzo fai?”, ci chiedemmo all’unisono.
“Io? Tu, piuttosto!”, rispondemmo. Poi l’assurdità del dialogo ci apparve chiara, e finimmo a ridere in un bar.

Si chiamava Luna, che in quanto a nomi di merda è secondo solo a Zuleika, era messicana e si, era nervosa e triste e quel disco lo aveva regalato al suo ex fidanzato per il loro anniversario, e da tre settimane si erano lasciati, e lei navigava a vista in quelle acque insidiose che separano il momento in cui esci da una relazione e quello in cui smetti di credere che possa ricominciare, quando cerchi di dimenticare quel che è stato e ti ripeti ogni due minuti che è finita, ma senza provarci davvero, come se anche la sofferenza fosse un modo di prolungare la vostra storia.

“Lo sapevo che me ne dovevo andare, che mi stavo facendo male, ma volevo stare lì e prendermele tutte in faccia quelle note, volevo darmi una scusa per tornare a casa e piangere ancora.”, mi raccontò, e la sua risata di prima chissà dov’era sparita, ed era un peccato, che aveva una bella risata, anche se i denti erano tutti accavallati uno sull’altro, quando ci batteva il sole sopra sembrava una foto di Santorini. E gli occhiali da hipster, non dimentichiamolo. Pensai che non ne avrei fatto la donna della mia vita, soprattutto dopo avere conosciuto uno splendore come Jordan Baker, ma farla ridere si, potevo riuscirci, e le raccontai una serie di cazzate una peggio dell’altra che avevano costellato la mia vita sentimentale.

Le parlai di quando un tizio geloso mi aveva telefonato per minacciarmi, ma la linea era disturbata, e non c’è che ammazzi la tensione come uno che ti chiede continuamente di ripetere e si scusa perché non riesce a capire cosa vorresti spaccargli.
Le dissi che una volta avevo scritto una lettera bellissima a una ragazza e gliel’avevo infilata di notte nella cassetta della posta, ma avevo sbagliato cassetta, e il giorno dopo mi telefona uno che vuole conoscermi, che lui parole così dolci non non le aveva mai ricevute, e neanche quella volta lì, gli dico io, e la cosa non era proseguita, ma mi ero fatto delle domande.
Raccontai di una ragazza che mi aveva invitato a dormire a casa sua una sera, e mentre dormiva mi ero alzato e le avevo riempito la libreria di bigliettini carini, e altri ne avevo nascosti in bagno, e nell’armadietto delle pentole, e fra i tovaglioli, e sotto la cassetta dei gatti, dietro i quadri in corridoio, sotto i cuscini del divano, pensando che sarebbe stato bello che nel corso dei suoi giorni futuri ci fosse inciampata dentro: me l’ero immaginata felice di quel regalo inaspettato, e pensavo che sarebbe stata una bella scusa per telefonarmi ancora e piano piano innamorarsi di me. Solo che una settimana dopo si era rimessa col suo fidanzato, e alla fine mi aveva si, telefonato, ma per insultarmi, che i bigliettini carini li stava trovando tutti lui e ogni volta scoppiava la guerra.

Luna rideva e a vederci da fuori sembravamo proprio due persone felici, solo che quello che vedi da fuori non corrisponde mai alla verità, e quante coppie conosci che si portano sotto il sorriso una distesa di fango e ci affondano sempre di più, ma non smettono di sorridere neanche per un minuto, che poi la gente chissà che pensa. Lei il fango sotto le scarpe ce l’aveva davvero, te ne accorgevi subito, si accendeva una sigaretta dietro l’altra, le spuntava questo tic all’occhio, e quando le sembrava che fossi distratto abbassava lo sguardo e incassava le spalle e sospirava.

Io con le scarpe sporche ci sono nato, mi sento sempre fuori posto e mi dibatto fra la voglia di osare e la sicurezza del mio orticello. Per essere un personaggio bidimensionale sono fin troppo complicato.

“Ti piace il mare?”, le domandai.

“Mmm”, rispose, e mi lanciò un’occhiata sospettosa. Credo si aspettasse un invito, e mi stava già pesando come quello che dopo dieci minuti è già lì che ci prova.
“A me il mare piace, ma sono di quelli che al mare stanno sempre dove si tocca.”, le dissi.
“So nuotare, non è quello, ma tutto quell’ignoto che mi si apre sotto i piedi è troppo spaventoso da affrontare, mi mette ansia pensare a quante cose possono nascondersi dove non si vede più il fondo. Sarebbe bello essere un palombaro e camminarci in mezzo a quell’ignoto, non sarebbe più ignoto, e avrei un bello scafandro pesante a proteggermi, ma non sono un esploratore degli abissi e me ne sto nell’acqua bassa, nuoto avanti e indietro sognando di trovarmi in mezzo all’oceano, nessuna traccia della riva in nessuna direzione, solo io e il mare.”

Adesso Luna mi guardava con la faccia di quella che non ha capito dove stai andando a parare.

“Quando il sogno si fa troppo reale”, continuai, “e mi prende l’angoscia non devo fare altro che allungare le gambe, e la sabbia sotto le dita mi restituisce subito la tranquillità. Però questa cosa non va bene.”
“È tutta una metafora elaborata per dirmi che bisognerebbe osare di più? Mi sembri uno da metafore complicate tu.”
“Sto dicendo che non puoi chiuderti in un guscio di noce e sentirti il re di uno spazio infinito, perché alla fine sei solo il re del tuo cazzo di guscio di noce. Che non ci sarebbe niente di male ad accontentarsi, ma non ce la faccio, continuo a sognare di andarmene, sono felice solo ogni tanto, e come fai ad essere felice a singhiozzo, nessuno la merita una miseria così.”

“Non te la passi bene nemmeno tu, eh?”

“Finisci per chiuderti in una gabbia per tenere fuori le cose brutte, te ne scegli una grande, gironzoli un po’ e piano piano ti crei l’illusione di essere libero, ma non ci si può vivere bene in una gabbia, anche se è bella grande: prima o poi arrivi a toccare le sbarre, e l’illusione crolla, e cosa fai?

Puoi voltarti e rimetterti a camminare nella direzione opposta, o sederti dove non si vedono le sbarre e decidere di rimanere lì, ma in quel modo ti crei solo un’altra gabbia più piccola.”

Non so da dove mi fosse uscito tutto quel malessere, un attimo prima stavo ridendo delle mie sfighe, quello dopo ero in pieno trip psicanalitico e facevo a cazzotti con la mia infelicità cronica.
Ci guardammo per un po’ in silenzio, era chiaro a tutti e due che in quel bar non si stavano mettendo le basi per una storia interessante, quello era il funerale della serenità. Ci salutammo fuori dalla porta e quando mi guardai intorno vidi solo una distesa di palazzi senza significato, e macchine che non andavano in nessun posto, e capii che era venuto il momento di tornare a casa.

Stasera gioca l’Italia, solo che io stasera ho un altro impegno col mio fegato, gli ho promesso di portarlo fuori a bere, che se me lo devo mangiare almeno che sia bello marinato.

Stasera gioca l’Italia, ma io ho un appuntamento con la sarta, che mi deve ricucire quel grosso buco che ho nella pancia, ma prima lo riempirà di sassi, che se devi andare a fondo è bene andarci zavorrato.

Stasera gioca l’Italia, e se perde ha poco da lamentarsi, che c’è gente che in quella condizione ci si trova da un sacco di tempo, e almeno lei ha la scusa di aver giocato di merda.

Stasera gioca l’Italia, e non è la cosa più azzurra a cui sto pensando.

Stasera gioca l’Italia, ma la notte scorsa hanno bruciato San Giovanni in piazza e me lo sono perso, perciò stasera recupero e brucio tutte le lettere che mi hai spedito, solo che me le hai spedite in digitale, mi toccherà bruciare il pici. Dovrò tenere le finestre aperte perché la puzza di plastica fusa è tossica e si impregna alle tende, solo che non ho neanche le tende, dovrò farla impregnare al gatto.

Stasera gioca l’Italia, saranno tutti a casa a guardare la tele, chissà se troverò posteggio.

Stasera gioca l’Italia e non ho una televisione per guardare la partita, ma non l’avrei guardata comunque, non ho visto neanche le precedenti, mi annoiano questi mondiali, o forse sono solo distratto da altre cose, vivere, smettere di.

Stasera gioca l’Italia, il cielo è sereno, la temperatura sopportabile, sarebbe bello essere al mare invece che al lavoro, ma adesso che ci penso col fatto che stasera gioca l’Italia non c’entra granché.

Stasera gioca l’Italia, ed è un peccato non seguirla, mi fornirebbe un’ottima copertura per le madonne che tirerò.

Stasera gioca l’Italia e tornerò a casa godendomi la strada deserta, e canterò una canzone allegra che però poi finisce.

Va detto che subito non lo voleva mica condividere il cancarone, eh!

Va detto che all’inizio non era proprio tanto disponibile alla condivisione.

Venerdì sono andato a vedere i Pearl Jam a Milano insieme a un’amica che vive lì.
Già arrivare a San Siro in bici mi ha messo di ottimo umore: niente coda, posteggi davanti ai cancelli e in un minuto sei dentro. Sono le settemmezza e riusciamo a metterci in una bella posizione centrale. La mia amica cagacazzi è bassa e non vede una minchia, ma non posso aiutarla, così le pianto una gomitata nei denti che la tramortisce per un paio d’ore: è un gesto di pietà, non ha senso farla soffrire, e oltretutto così sta zitta.

Comincia che è ancora chiaro, il pubblico attacca a gridare e sul palco entrano i musicisti. Non credevo che mi sarei emozionato, ma Eddie Vedder sono vent’anni che vorrei vederlo cantare, certe cose non te le dimentichi. Quando prende il microfono e attacca Release ho la pelle d’oca.

Le tre canzoni che seguono sono i pezzoni lenti che conoscono tutti, che parlano di amori finiti e boh forse ha litigato con la moglie; c’è da chiedersi l’effetto che potrebbero fare su una persona che magari si è appena lasciata ed è in mezzo al pubblico, sono sicuro che almeno uno alla fine di Black sta piangendo.

Poi, in un italiano stentato da traduttore di google, ci dice “Ci siaete tuti? Siaete puoncii? Alloua cominci-iamou”, ed è un treno di un’ora e mezza dei Pearl Jam rocchenrolli, senza soste e con qualche bella svisa. Non le riconosco tutte, Go e Corduroy fanno parte della categoria “Ah quella là che mi piace!”, ma altre faccio la faccia meh, e c’è qualche pezzo in cui me la meno proprio e gioco col cellulare, attirandomi le critiche della mia amica cagacazzi, che nel frattempo ha ripreso conoscenza e ha subito cominciato a lamentarsi. La stendo di nuovo con una mazzata alla nuca e continuo a giocherellare col suo telefono.

La scaletta cambia a ogni data, cosa che me li fa amare a prescindere, e spesso ci piantano dentro qualche cover a loro gusto. Durante questa sfilza di energia l’unica passabile per tale è Setting Forth, che è sempre di Vedder, ma fa parte della colonna sonora di Into The Wild, che è un film bellissimo anche senza la colonna sonora, ma la colonna sonora è pure meglio. E vabbè, mi piaceva di più Guaranteed, checcevoifà.
Il bottiglione da cui tracanna spesso il cantante dev’essere roba buona, lo fa sudare come una bestia e verso la fine gli permette un discorsone volemmosebbene che francamente poteva evitare.

Il palco è minimale, c’è una struttura che lo sovrasta, una specie di nuvola metallica da cui scendono delle lanterne a palla, ma non nel senso che vengono giù fortissimo, che cazzo hai capito. Ai due lati i classici megaschermi su cui viene proiettato il fighissimo film del concerto, in un bianco e nero parecchio stiloso, e con una signora regia, che se ad un certo punto ti stufi di allungare il collo oltre lo spilungone con la maglietta rossa te lo puoi guardare e spassartela lo stesso.

Poi ci sono i bis, che Eddie nostro ha già la sua cinquantina e una bottiglia di cancarone non riesce a smaltirsela saltellando qua e là e roccheggiando duro, deve andare a lavarsi via i litri di sudore e magari mangiarci dietro qualcosa che poi deve guidare per tornare in albergo, e si sa come sono i ghisa.
Attaccano acustici, e il film adesso è a colori. Prima di Just Breathe racconta questa cosa di quando ha conosciuto sua moglie in un brutto periodo e poi si sono sposati e cuoricini, e alza il bottiglione come i migliori Guccini e le fa gli auguri di buon anniversario, e mentre le telecamere ci mostrano in migliaia di pollici questa tizia che sorride un po’ contenuta lui le dice “I am Diabolik and you’re my Eva Kant”, che immagino sarà una frase preparata, magari in Francia le dice “I am a shitty quiche lorraine and you’re my awful vinaigrette”. Da qualche parte c’è Jacques Brel che ride, lo stronzo.

Meno male che è il momento di Daughter, che mi riporta di corsa agli anni ’90 e agli amici con cui facevamo la radio, e io ce l’ho sempre con me quella canzone lì, e non ci rimango neanche male quando a metà ci infila una canzone di Frozen, il cartone della Disney che piace tanto al mio amico Lorenzo Ciuffolo. Anche perché non me ne accorgo, l’ho letto poco fa sulla scaletta. Poi c’è Jeremy che piaceva a un mio amico che adesso fa il sofisticato che a lui i Pearl Jam fanno cagare. E poi ascolta Dente.
E Better Man, che magari non si era capito che Vitalogy è un gran disco.

I secondi bis a luci accese, tutti a guardarci le facce emozionate, ma poco, che parte subito Alive, che è un po’ il riscatto dei magoni, no? E poi Rockin’ In The Free World, che è la ragione principale per cui vorrei andare a Barolo a vedere Neil Young il prossimo 21 luglio, ma che essendo lunedì mi sa che mi attacco a stoca.

Solo oggi sono andato a leggere le scalette delle date precedenti, che li odio gli spoiler, sono uno che quando compra un cidi live non guarda che canzoni ci sono per non rovinarsi la sorpresa, e credo di avere assistito al concerto migliore, per com’è stato costruito e per l’effetto che ha avuto su di me e anche un po’ sul tizio di cui parlavo prima. Per andare meglio avrebbero potuto fare come a Seattle e suonare Interstellar Overdrive, o perlomeno farmi salire sul palco e aiutare il cantante a finire la bottiglia.
Sono tornato a casa felice, e in bici. E adesso aspettiamo che esca il bootleg sul sito.

Ieri stavo seduto in un teatro caldissimo, saranno stati ottanta gradi, mi sudava la maglietta, e quando me la sono tolta ha continuato a sudare per un’altra ora, ma nel frattempo l’aria condizionata mi ha fatto venire la pleurite. Ho assistito a uno spettacolo in lingua spagnola, e io lo spagnolo non lo capisco, avrebbe potuto essere giapponese per quel che ne so, ma  in sala c’era una ragazza che tutte le volte che la guardo non capisco più neanche l’italiano, non faceva nessuna differenza.

Per sbirciare il suo profilo di nascosto mi sorbirei l’autore più noioso del mondo seduto su un formicaio, ma non è facile, che lei non lo porta molto in giro il suo profilo, sta sempre di tre quarti e se la fisso se ne accorge e mi chiede cosa voglio, e cosa vuoi che ti risponda, voglio poterti fissare in pace senza sentirmi fuori posto, e smettere di fissarti senza dovermi chiedere se ci sarai quando mi volterò di nuovo. Insomma, avevo bisogno di una scusa per vederla, così ho chiesto all’autore più noioso del mondo di sedersi su un formicaio, ma stava preparando Dress Comedy e non aveva tempo da dedicarmi.

E chi ha bisogno di autori noiosi quando si ha un talento come il mio, che una volta sono andato al cinema a vedere un film di Cronenberg e a metà del primo tempo gli attori hanno piantato lì perché gli era venuto sonno a guardarmi? Ho messo su Ne Me Quitte Pas per prendere ispirazione e le ho scritto una lettera che la convincesse a dedicarmi un po’ del suo tempo.

Le ho raccontato che ieri sera, quando il tizio grande e grosso ha attaccato a sbraitare dal palco e lei ha sgranato gli occhi per la sorpresa, io ho messo cinquecentolire nella cassetta delle offerte, perché i suoi occhi spalancati sono come una candela accesa nella penombra dell’altare; e quando la coppia di attori ha attaccato quel lunghissimo dialogo lento e monotono dove si capiva una parola ogni venti ho apprezzato il lento dondolìo del suo capo, che mi ricordava il vecchio bastimento che condusse i miei avi alla loro nuova casa, tanti e tanti anni fa, e ancora risuonano in me le parole che il mio trisavolo pronunciò appena mise il piede su quella terra straniera, che ancora custodisce le sue povere ossa: “Belin ma fino a Ronco in barca? Non ce n’era corriere? Mi è tornato su il polpettone!”.

E quando si è addormentata e la testa è scivolata indietro, la bocca aperta, e ha incominciato a emettere i medesimi suoni gorgoglianti del trattore di mio nonno quando s’ingolfava, e ancora, quando finalmente il motore è partito e il suo rombo possente ha echeggiato in quella piccola sala, e anche gli attori si sono fermati e hanno esclamato “que pasa!”, non ho potuto trattenere un gemito di tenerezza, e avrei voluto sollevarle la testa e guidare il suo sonno verso acque meno turbolente, oppure addormentarmi anch’io accanto a lei, fanculo agli attori incomprensibili.

Ma i gesti di tenerezza non sono ammessi nel nostro rapporto così freddo e cerebrale, e per quanti sforzi faccia non riesco mai a saltare al di là della sua affettuosa amicizia.
Ride quando le dico che mi sto allenando ogni giorno per riuscirci, ride meno quando mi presento in pantaloncini da atletica stile Montréal ’76 e al piccolo trotto le prendo la rincorsa sulle caviglie.

La prima volta che l’ho vista sorridere me lo sono segnato sul calendario alla voce Miracoli, quel giorno ho battezzato il mio cuore Lazzaro, e poi gli ho detto “adesso sono cazzi tuoi”, e così è stato: ho addestrato tirannosauri a battere le mani, e ho attraversato il mare fino a un’isola sconosciuta e l’ho disseminata di bigliettini che componevano una mappa con una X, e sotto la X ho scavato un buco e ci ho nascosto uno scrigno, e dentro lo scrigno ho messo una scatolina che custodiva la cosa più preziosa che avevo, e quando ha raggiunto l’isola e unito i bigliettini e trovato la X e dissepolto lo scrigno e aperta la scatolina ha trovato uno specchio, e credo abbia capito, perché mi ha regalato un altro giorno da segnare sul calendario.

E adesso siamo qui, io e Jacques Brel, a chiederci come fare a convincerla a uscire con me.

“Dai Jacques, scrivile una canzone!”
“Non scrivo più dal 1978”
“Ma che palle voi artisti! Una volta che morite non fate più un cazzo! Almeno suggeriscimi qualcosa da dirle che la convinca!”
“Ma che ne so, parla del suo aspetto! È carina?”
“È bellissima, Jacques.. È la ragione per cui hai scritto La Valse À Mille Temps!”
“Ah si? Dovevo essermelo dimenticato.. Ma dimmi, le hai fatto sentire la canzone?”
“Si, ma non le è piaciuta, dice che preferisce Juliette Greco.”
“Lasciala! Non è la donna per te!”
“Ma come faccio a lasciarla se non stiamo neanche insieme!”
Allora Jacques Brel si è offerto di aiutarmi a conquistarla, così la potrò lasciare.

Per prima cosa ingaggerò un quartetto mariachi che le canti una serenata caciarona sotto la finestra. I messicani col sombrero sono perfetti per convogliare le lamentele dei vicini verso la tizia sudamericana che sta al quinto piano: nel frattempo la mia amata potrà godersi la dedica e uscire la mattina senza morire di vergogna.

Corromperò il fattorino cinese che le porta la cena, affinché mi permetta di sostituire tutti i bigliettini dei biscotti della felicità con altri che dicano “L’uomo della tua vita ha gli occhiali e la barba e sta a Ronco” e “La felicità te la potrà dare solo uno che si chiama come un presidente del consiglio”.

Le dipingerò il ritratto più brutto del mondo e me lo appenderò davanti al letto, così prima di spegnere la luce potrò guardarlo e farmi due risate per quanto è venuto male, e sarà un po’ come quando ridiamo insieme di una cretinata, e mi addormenterò un po’ più felice.

Vincerò la sua ritrosia e mi scoprirò ogni giorno più vicino, e quando finalmente saremo felici insieme la lascerò, così Jacques Brel sarà contento, e poi rifarò tutto da capo, che innamorarmi di lei è stato così bello che farlo una volta sola sarebbe un peccato.

Sabato mattina, le undici e trentasette. La versione ufficiale mi vorrebbe impegnato a rivoltare casa per restituirle un po’ dell’antico splendore, quando fra queste mura abitava il signor Bruno con la moglie, e i vetri splendevano e sul pavimento ci potevi pranzare e non c’era un oggetto fuori posto.
La verità è un po’ più imbarazzante, in tutta la mattina ho fatto un paio di lavatrici e pulicchiato qua e là, e adesso mi sto mangiando una forma di formaggio davanti al pici, intanto che aspetto che si prepari lo stufato. Non c’è niente da fare, io e l’antico splendore di questa casa siamo incompatibili, ma va anche detto che le piastrelle della cucina erano orrende e difatti le ho tolte negli eterni lavori in casa.

“A proposito, a che punto sei con la casa?”, mi chiedono spesso gli amici. Non è l’unica domanda che mi sento rivolgere, perciò potrebbe essere una bella idea quella di tirare giù una lista di risposte alle domande più frequenti di questo periodo. Non sarebbero molte, non ho così tanti amici, e quelli che ho li vedo di rado, di solito preferisco stare a casa a farmi crescere la barba, e la muffa sotto le ascelle.
Lo stufato dice che ci metterà un po’ a cuocere, facciamoci questa lista di Friquentli Asched Ques-cions, come dicono gli italiani che millantano una conoscenza dell’inglese.

1. A che punto sei con la casa?
La casa è più o meno sempre allo stesso punto, sto cercando di mettere via i soldi necessari a comprarmi il materasso più comodo dell’universo, che ai più potrebbe sembrare una spesa superflua, ma quando passi gran parte del tuo tempo libero sdraiato a letto a leggere ecco che starci comodo assume una certa importanza.
Poi comprerò una libreria, che quella che c’è non basta a contenere tutta la cultura che in questa casa, signora mia, abbonda.
In realtà basta e avanza, ma mi sono rimasti in solaio i fumetti, i cidi e i divuddì,  e ho ancora tutta la collezione di Comix da riportare a casa, che il mio cuore sanguina a saperla nel solaio di mio papà.
Di seguito dovrei comprarmi un divano, che quello che mi ha regalato la vicina è scomodo e vecchio e il gatto me lo sta facendo a pezzi, ma anche quello nuovo me lo farebbe a pezzi, perciò non so se mi conviene. Inoltre per trovare i soldi dovrei vendere il cane a un circolo di punkabbestia, che è uno di quei posti dove questi individui si incontrano per allenarsi a suonare i bonghi, tirare per aria le cose che prendono al volo e soprattutto pianificare intelligenti strategie di marketing che facciano presa sui passanti e li convincano a sganciare i due spicci per la birretta. L’ultima volta che li ho visti erano orientati verso una tecnica di approccio informale con uno slogan di facile presa sul cliente, che trasmetta familiarità e calore, e nel contempo arrivi in fretta all’obiettivo, così da ottimizzare i tempi: “ciao, me lo dai un euro?”.

2. E il corso di improvvisazione teatrale?
Contrariamente alla casa quello va avanti molto bene, e si sta avviando allegro alla sua conclusione: domenica 8 giugno alle 20 ci sarà il saggio di fine corso, aperto al pubblico, e sono combattuto fra il non dirlo a nessuno per l’angoscia di fare una figura di merda e il dirlo a tutti perché resto un gran vanitoso, e siccome alla fine sticazzi venite a vedermi che i miei compagni di corso sono molto bravi.
Sono anche belle persone, e mi fa piacere che con alcune di queste sia nata una bella amicizia, e se con altre invece si stanno raffreddando i rapporti la colpa è solo la loro e della loro invadenza malata. A questo proposito credo di dover rispondere a una domanda duebis.

2bis. “Ma voi due avete una relazione?”
Si. Ce l’abbiamo tutti  e due. La sua la conosci, la mia no, e non sono cazzi tuoi. Perciò sarebbe il caso che la piantassi di fare domande in giro a me, a lei, agli amici e ai compagni di corso, neanche avessi dodici anni. Sei una frustrata. E non hai dignità.

3. Sei stato al cinema di recente?
Alcune volte, ho visto perlopiù delle vaccate immonde, tipo Lei, che è la storia di un tizio che si innamora di Windows Vista e poi questo lo pianta piantandosi, come fa sempre Windows Vista. La voce di Micaela Ramazzotti rende tutto molto più sgradevole.
Poi ho visto Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, che mi ha fatto venire voglia di guardarmi tutto quello che ho perso di Wes Anderson dopo I Tenenbaum, e anche di riguardarmi I Tenenbaum. Però il film in stop motion con gli scoiattoli non credo di farcela.
Poi ho visto Capitan America: Il Soldato D’Inverno, dove il Soldato D’Inverno è un personaggio che se non ce l’avessero messo andava bene lo stesso, che salta fuori negli ultimi cinque minuti e prende solo una risma di cazzotti. Però radere al suolo Washington e dichiarare la missione un successo mi fa capire che lo SHIELD è guidato da repubblicani.
Credo di avere visto anche qualcos’altro, ma in questo momento mi sfugge.

4. L’hai finito Skyrim?
Macché, sono sempre lì che giro per le montagne menando orchi e vampiri, ma mi sono un po’ stufato, che alla fine è sempre la stessa roba, entra in una grotta, ammazza i cattivi, raccatta cianfrusaglie, torna in paese e rivendile, accumula punti esperienza. Quando sei già così forte che riesci a battere ogni avversario perde tutto un po’ di senso, forse dovrei ritirarmi in una casa isolata nei boschi e scrivere un libro: La mia vita da argoniano.
Però nel frattempo ho finito Far Cry 3, che mi sono anche divertito ad andare in giro a sparare ai pirati, ma a me piace più sparare che spadare, va detto.

5. Sei in giro stasera?
No, vado a teatro. E neanche domani, che rivado a teatro ma sto sul palco, e no, non potete venirmi a vedere, che sono lezioni private, c’è una tizia seduta su una sedia e io e altri dieci quindici individui ci avviciniamo tutti nudi e poi succede delle robe che non vi dico, ma se avete dello yogurt in casa è arrivato il momento di mangiarlo.

 

Sai quando ti prepari un programma accurato e qualcosa te lo manda in vacca?
Tipo che ti sei organizzato per andare sui prati insieme ai tuoi amici colleghi Pesantezza e Morte Cerebrale e all’ultimo momento ti va a fuoco la macchina, però spiacevole. Ecco, io stasera volevo fare le pulizie in casa, e lo so che il giovedì sera è un po’ strano, ma sono arrivato a uno strato di batteri sul pavimento così spesso che le sedie camminano da sole per la stanza.

Metti che stasera si presenti un ospite.
(poi dicono che non ho il dono della sintesi: potrei scrivere un racconto di fantascienza solo aggiungendo un apostrofo)
Ecco, l’ospite non si piglierebbe l’ebola solo perché casa mia è così sporca che anche l’ebola si rifiuta di entrarci.

Qui è dove una persona che conosco mi criticherà per avere usato la battuta dell’ebola schifiltoso, che l’avevo già usata oggi pomeriggio nella nostra conversazione e allora telolì che sei uno che ricicla le battute, mi sembra di sentirla con la sua voce chioccia.

Io stasera, dicevo, volevo fare le pulizie di casa, ma dovrei dire cominciarle, che ho da lavorarci tanto che ci vorranno almeno tre giorni per renderla di nuovo abitabile a esseri umani non mutanti. Io appartengo all’altra categoria, quella degli X-Men: sono nato col potere mutante di ammalarmi soltanto nei giorni in cui non devo andare a lavorare, perciò posso stare sepolto nella spazzatura tutta la settimana e le prime infezioni si manifesteranno solo il sabato mattina, per andarsene da sole la domenica verso le ventidue e trenta, ventitrè.
“E allora perché ti sbatti?”, mi chiederà la mia conoscente impicciona il cui nome d’arte è Vajont, perché tracima, “Tanto hai la stessa vita sociale di San Simeone lo Stilita, fatti le pulizie sabato mattina e sbattitene”.
Perché mi conosco, e se mi riduco a sabato mattina so già che sabato mattina mi alzo minimo alle undici, cazzeggio fino alle tre e alle cinque do la solita passata veloce di straccio perché poi c’è da andare a vedere Musical Cube, che è una figata andateci (questa era una marchetta vergognosa, ma una delle attrici è la mia maestra nonché carissima amica, e poi oh il blog è mio, cazzo vuoi), quindi è meglio correre ai ripari e scriversi addirittura un programma con la suddivisione dei lavori in tre giorni, così da finire sabato pomeriggio senza perderci più di un paio d’ore al giorno, come se fossi una persona seria e credibile, e poi mandare tutto in vacca e mettersi a scrivere sul pablog la sera in cui dovrei pulire i vetri e poi stirare (credici).

Insomma, si direbbe che i miei buoni propositi siano andati a finire giù per quel posto là, e già lo sento partire il coro di fischi e facceride, ma giuro che stavolta la colpa non è mia, ma piuttosto di un regime di alimentazione sano che però gli effetti collaterali signora mia..

E si perché stasera sono arrivato a casa tardi, che dovevo andare a ritirare lo scùter. Ho portato lo scùter dal meccanico perché a fine mese ho il collaudo, e senza clacson e freni e gomme mi hanno detto che potrebbe non passarlo, e stasera sono andato a ritirarlo, e il meccanico mi ha chiesto una cifra in denaro perché dice che le caramelle zigulì piacciono tanto anche a lui, ma non gliele accettano in banca, perciò fuori i schèi sennò la moto me la tengo. E allora l’ho pagato, portando il mio conto in banca da Pochicentesimi a Unsaccodisoldiperòcolmenodavanti, e siccome la mia banca quando vado in passivo mi manda a casa un tizio pelato senza un occhio con una cicatrice sulla faccia e un tatuaggio sul braccio che dice LA MIA BETTY, ho preferito trovare subito dei soldi con cui rimpinguare il mio conto corrente disastrato, e la cosa più veloce è sempre prostituirmi.

Non vi sto a raccontare i dettagli della mia vita sul marciapiede, sono squallidi come immaginate, ma alla fine della giornata mi sono ritrovato con un conto in attivo e lo scùter riparato e tutto come doveva andare, tranne che l’ora era fuggita e le pulizie morivano disperate.
Io però non mi sono dato pervinca, e ho deciso che le pulizie le avrei fatte lo stesso, che longo è lo cammino ma grande la meta, e quando sono arrivato a casa e ho portato Jack a fare le cose che fa sempre Jack quando lo porto fuori (e anche qui vi risparmierei i dettagli, che sono peggio di quelli di me sul marciapiede), mi sono preparato una cena veloce e poi dai che faccio le pulizie lo stesso.

Solo che la cena veloce non si preparava da sola, e il risotto con cui avevo pensato di sollazzarmi ci ha messo un fracco di tempo a prepararsi, non so perché, un esperto di cucina mi direbbe che avrei dovuto accendere il fuoco sotto la pentola, ma si sa che gli esperti di cucina se la tirano e spesso parlano a vanvera per farsi belli con le casalinghe frustrate teledipendenti che sognano tutta la vita un cuoco inglese che venga a prenderle e insulti il loro marito e poi se le porti via e cucini per loro piatti deliziosi fra un amplesso e l’altro, come se un inglese avesse una vaga idea di cosa sia la buona cucina (o il buon sesso, mi dicono amiche che hanno avuto fidanzati inglesi, ma ammetto di non saperne granché per esperienza diretta).

Per ingannare l’attesa mi sono aperto una bottiglia di rosso e un pacchetto di crackers, che poi sono diventati sedici pacchetti di crackers, e alla fine ti voglio vedere in bilico su una scaletta traballante a pulire i vetri della finestra aperta su un baratro di due piani più insegna della parrucchiera più piastrelle durissime in gres porcellanato, che il mio comune non bada a spese per rifare il marciapiede, tanto poi ti fa pagare la spazzatura come se la stoccasse su Saturno e chiude sempre in attivo, beato lui.

Insomma, adesso ho terminato la cena e dovrei lavare i piatti e poi mettermi a lavorare, ma sono già le nove, sono in una condizione che piacerebbe molto a Bukowski, ma molto meno al mio epatologo, se avessi un epatologo, non so neanche se esiste una professione come epatologo, e a dirla tutta non so neanche se esiste la parola epatologo, ma cazzo vuoi, la mia carta d’identità dice che faccio l’avunculogratulatore, credo di potermi permettere qualche licenza, e comunque il blog è mio, l’ho già detto più su, se non ti va bene quella è la porta e quella la finestra di guggol.

Però è anche vero che stasera internet non vuol saperne di funzionare, e questo porta le mie infinite alternative per la serata a due soltanto: fare le pulizie e andarmene a dormire. Dormire l’ho già fatto ieri ed è molto divertente, ma stasera vorrei fare altro, perciò a questo punto mi metto a fare le pulizie, sperando di non precipitare di sotto.

Buona serata a tutti.

È il primo maggio e io il primo maggio mi rompo il cazzo. Ma sempre, anche quand’ero bambino ed era giorno di festa da scuola e potevo uscire con gli amici. Io non mi diverto mai il primo maggio, neanche quand’ero ragazzino e c’era il concertone del primo maggio e piazza San Giovanni brulicava di artisti che mi piacevano. Prima che li sostituissero con le mummie, voglio dire. Niente neanche allora, se c’era il gruppo che avrei venduto mia mamma per vederlo cantare succedeva che un membro del gruppo veniva trovato morto in piscina e un altro si sparava in faccia col fucile e il cantante veniva sostituito all’ultimo momento con Mario Tessuto, oppure c’erano tutti e si esibivano, ma non potevo vederli lo stesso perché il tizio che si era comprato mia mamma ci aveva trovato un difetto e mi aveva chiesto di incontrarlo proprio a quell’ora per restituirgli i soldi.

Un anno mi ricordo che ero a casa della mia ragazza e avevamo deciso di guardare non so più quale artista che ci piaceva tantissimo a tutti e due, ma sua mamma si era spiaggiata davanti alla tele per guardarsi la replica di Colombo. Neanche un episodio nuovo trasmesso in quel momento, no, la replica. Come a dire che il destino prima ti si mette di traverso e poi pernacchia.

Ma non è che prima dei concertoni, o dopo quando gli artisti che mi piacevano hanno smesso di andarci e San Giovanni si è riempita di nomi che se entro in un locale e c’è la loro canzone esco di corsa e vado a cercare una tanica di benzina e poi torno con un accendino, non è che il mio primomaggio è ridotto a grossi eventi che qualcuno si ostina a definire musicali, no, non è quello. Il mio primo maggio fa cagare anche se vado sui prati, perché se vado sui prati piove. E se non piove mi ritrovo seduto su un plaid ad ascoltare la depressona della compagnia che ha scelto proprio quel giorno e quel plaid per raccontarmi dei suoi problemi col marito/fidanzato/amante/trombamico/tuttiequattroinsieme che non la capisce e non gliene vuole più dare e lei non si dà pace se almeno capisse perché. E io non è che posso dirle amica mia guardati, somigli alla controfigura di Jabba, e anche cercare di infilarti nelle mutande qualunque belino nel raggio di trenta chilometri non agevola i tuoi rapporti familiari, e per favore smettila di leccarmi il collo.

Quest’anno ho deciso di giocare d’anticipo, non avendo fidanzate con cui abbruttirmi davanti alla tele, e non avendo neanche una tele: mi sono messo su l’ultimo di Fish così anche in fatto di ciccioni insoddisfatti sono a posto, mi sono scaricato un vagone di fumetti da leggere e se mi gira recensire con vertiginose metafore tipo “bello di brutto” o “fa cagare la minchia”, mi sono scaricato un paio di videogiochi da installare far partire vedere piantarsi in tredueuno bestemmiare le scarse capacità del mio pici andare a vedere quanto costa un pici nuovo più potente deprimermi e andare a dormire.

Dopo pochissimo mi sono reso conto che il mio primomaggio non sarebbe stato appagante neanche così, e mi sono chiesto perché, e facendomi domande dirette e rispondendo con parole oneste sono arrivato al nocciolo del problema: è colpa di Umberto Tozzi.

Quando ha detto primo maggio su coraggio ha risvegliato la mia coscienza, mi ha fatto capire una qualche verità che si annidava dentro di me come un gemello fagocitato nell’utero, che io nell’utero avevo già fame, e da allora la festa dei lavoratori è un giorno difficile per me.
Primo maggio su coraggio, ma che rima è? Perché non hai detto primo maggio c’è il formaggio, o primo maggio vado a Reggio? Te lo dico io perché, perché conoscevi il terribile segreto che non fa divertire i primimaggi, e volevi lanciare un messaggio nell’etere prima che gli uomini in nero che da sempre custodiscono gli orribili segreti dell’umanità ti costringessero al silenzio.

Ma io ti ho capito, Umberto Tozzi. Ho messo insieme i pezzi di questo puzzle e adesso so la verità, e la divulgherò all’umanità intera, così la Confraternita dei Malvagi Reazionari che cerca di mantenere lo status quo per tenerci buoni e avvelenarci con le scie chimiche sarà finalmente sconfitta e potremo camminare liberi e felici tenendoci per mano verso un futuro di libertà.

Aspetta un attimo, mi suona il telefono.
Sono gli uomini in nero.
Dicono che se non divulgo il segreto del primomaggio mi regalano un pici nuovo.
E c’è una che mi vuole conoscere che ha letto il mio blog e le piace tanto come scrivo e ama i gatti rossi e loro fra i segreti che custodiscono c’è anche il suo numero di telefono e ci possiamo mettere d’accordo.
E poi quale confratermita malvagia, loro sono solo i gioviali innocui membri di una banda di quartiere che va a suonare le marcette alla festa del patrono e poi tutti all’osteria e il vestito nero è solo la divisa di ordinanza come dimostrato dalla cravatta arancione che sdrammatizza.
Per esempio in quell’astuccio per violino c’è un violino, mica un mitra.
E in quello per contrabbasso non c’è nessun bazooka.
E in quello per pulmini di orchestra non ci hanno nascosto un carroarmato.
Ho colto la sottile allusione.
Tanto io Umberto Tozzi per mano non ce lo volevo tenere, ecco.

Niente, vado a fare la lavatrice.

Lo avrete senz’altro sentito al telegiornale, la Pablonia sta attraversando un momento di grave difficoltà. Il suo presidente è stato spodestato e le fumetterie hanno aumentato i prezzi, provocando un pericoloso tracollo economico. Il nuovo presidente, sostenuto dalla bellicosa minoranza etnica dei Catzari, ha minacciato di invadere i paesi vicini, ricchi di materie prime, e adesso tutto il paese è tappezzato di volantini che inneggiano ad imbracciare le armi e riprendersi ciò che appartiene ai pablacchi di diritto.

(i pablacchi, mi pare chiaro, sono gli abitanti della Pablonia)

Ora, siccome i paesi vicini sono io, ho pensato di spedire in veste di ambasciatore il mio fido senso dell’umorismo, che ho letto su Internazionale che secondo studi autorevoli basta farci una risata e passa tutto, tipo che muori, ma haha che ridere e stai subito meglio.
I pablacchi non l’hanno letto quell’articolo, e il mio ambasciatore è stato ricevuto con un calcione nello stomaco e buttato dentro il leggendario Pozzo Di Considerevole Profondità, al grido di This! Is! Pablonia!

Adesso sono un po’ scoraggiato, che il mio senso dell’umorismo lo conoscevo da tanti anni, e uscivamo sempre insieme e mi ci trovavo bene, e sono sicuro che si riprenderà, tipo che è morto ma haha che ridere e prima o poi me lo ritrovo in casa a ripulirmi il frigo, ma finché non torna me la vivo malino.

Comunque ieri sera sono andato a letto presto con una sedia davanti alla porta per paura degli invasori pablacchi. È un trucchetto che mi insegnò mia nonna tanto tempo fa: si mette una sedia davanti alla porta, così se i pablacchi ti sgusciano in casa per farti le brutte cose la trovano e ci si siedono, che i pablacchi sono gente pigrissima che non sa resistere a una sedia vuota. E la cosa bella è che se sono più di uno cominceranno a menarsi fra di loro per accaparrarsi il prezioso sostegno, dimenticandosi completamente di te. Col fatto che aveva l’alzheimer, mia nonna ne sapeva il doppio delle nonne comuni.

Adesso devo andare a lavorare, ma appena torno scrivo alle Nazioni Unite affinché impongano un embargo alla Pablonia e mi restituiscano il mio senso dell’umorismo, che mi sento solo.

Ultimamente quando scrivo lo faccio perché mi è successo qualcosa che mi ha scrollato abbastanza da farmi scivolare di dosso la coperta, oppure per una ragione qualsiasi, tipo che mi annoio, che ho voglia di scrivere o che mi è venuta in mente una cosa che vale la pena raccontare. In questo caso è uno di quei casi lì. Già. Ed è anche, ve lo dico subito così vi preparate, uno di quei pezzi con pochissimi punti e tante frasi annodate insieme e che vanno ad incastrarsi l’una nell’altra come le bamboline russe col foulard in testa che una volta ci sembravano una figata incredibile e ce le avevamo tutti in casa, poi è arrivato il cartone animato di Gordian e abbiamo capito che le bamboline russe non è che fossero poi così pazzesche, insomma, non sparavano neanche i razzi dalle ginocchia, e ti voglio vedere il giorno che i mostri spaziali cercano di invadere la Terra se provi a respingerli con un robottone di sessanta metri o con una cazzo di bambolina russa a forma di Barbapapà. Ecco, per capirci, è uno di quei post lì, perciò se siete di quelli che la lingua italiana va rispettata e la punteggiatura e l’ortografia e le coordinate e le subordinate e poi non sei mica Joyce ma manco Paolonori potete anche saltare al post successivo, che però finora non l’ho neanche scritto, che ultimamente quando scrivo lo faccio perché mi è successo qualcosa che mi ha scrollato abbastanza da farmi scivolare di dosso la coperta, oppure per una ragione qualsiasi, tipo che mi annoio, che ho voglia di scrivere o che mi è venuta in mente una cosa che vale la pena raccontare, ma questo l’ho già scritto all’inizio e non posso permettermi un post circolare, sennò diventa come l’ultimo film dei fratelli Coen e dovrei suonarvi un pezzo folk e io la chitarra non la studio da un pacco di tempo, che per me la chitarra è una cosa che prendo in mano quando devo tirarmi fuori da una delusione sentimentale, di solito funziona così, e la studio e mi applico finché sono triste, poi smetto di essere triste e smetto anche di studiare la chitarra, che io per le cose in cui bisogna applicarsi tutti i giorni sono proprio negato. Quindi adesso non lo so se è il caso di tirare fuori la chitarra o no, non l’ho ancora capito, e per il momento scrivo e basta, poi magari mi metterò su un film, ma non uno di quelli tristi, che va bene non provare delusioni sentimentali, ma andare a rimestare la merda col bacchetto non mi sembra il caso. Andare a rimestare la merda col bacchetto è una frase che diceva sempre Marzia, e mi piaceva un sacco, che a me le cose un po’ triviali certe volte fanno ridere. C’erano diverse cose di lei che mi piacevano e che mi mancano anche un po’, a distanza di un anno e passa, e dopo sette anni credo sia anche normale, e credo che sia un vero peccato che una relazione così lunga non sia diventata una buona amicizia, si sia semplicemente affievolita fino a sparire, perché alla fine mi sento come se avessi buttato via un sacco di tempo senza mettere via niente, anche se il tempo trascorso insieme mi ha cambiato e arricchito e adesso per esempio so fare il gallo pinto e adoro Chavela Vargas e chissà quante piccole cose mi porto dietro del tempo che abbiamo trascorso insieme, e non parlo della raccolta dei Litfiba che mi è rimasta nei cidi, che quella non so come ci sia finita e mi fa pure cagare, e oltretutto io non trovo più Achtung Baby degli U2, e mi pare che semmai nel cambio ci ho perso. Comunque alla fine non siamo rimasti amici, siamo tornati i due estranei che eravamo prima di incontrarci, e non mi sto lamentando, che se volessi investire altro tempo su quella persona magari proverei a chiamarla, e invece sticazzi, si vede che mi sta bene così. Non c’è rancore in questo ragionamento eh? Che poi uno lo legge e pensa che, è solo che stavo riflettendo su come i rapporti prendono delle curve inaspettate ed escono di strada e non sai se il loro destino sarà sfrantarsi contro un pioppo o scoprire una strada nuova e più interessante, e stavo pensando alle amicizie che certe volte nascono fra due estranei e crescono e altre che sono il risultato di un sentimento più forte che si è esaurito, come due ascensori che si incontrano a metà di un edificio e uno sale e l’altro scende, ma a parte quello sono due ascensori, che razza di associazione di idee mi fai fare, meglio se continuavo a parlare della chitarra. È che poi uno lo legge e pensa che forse volevo dire qualcosa e non trovo le parole, che è anche vero, che l’altra sera ho fatto degli esercizi sull’empatia che mi hanno fatto tornare a casa che non avevo neanche più un pensiero al suo posto, e da allora sto rimuginando sul senso di un bel po’ di cose e sui rapporti umani e sulle persone, su alcune più che su altre, e credo di essere una persona molto fortunata e molto sfortunata e sono contento e non lo sono e adesso prendo la chitarra ma non mi metto a studiarla, resto lì e la guardo e poi la metto via e continuo a guardarla, che magari imparo a suonarla per osmosi, come fai a sapere che non funziona, ci hai mai provato, ci ha mai provato qualcuno, hai letto delle pubblicazioni, tipo? No? E allora? Magari basta mettersi lì e farlo per tanto tempo e alla fine la chitarra si stressa di averti sempre lì davanti che la fissi e si arrende e si fa imparare senza esercizi, basta che ti levi dalle balle. Con le persone a volte funziona, ci diventi amico perché non ne puoi più, e passa il tempo e non ti senti amico di quella persona più di quanto ti ci sentivi all’inizio, ma hai capito che è una brava persona e ti fidi e quando questa persona ti dice che è bello averti come amico e ti confida tutti i suoi cazzi e ti chiede aiuto dentro di te pensi si vabbè ma sticazzi, però alla fine ti comporti come faresti col tuo migliore amico, perché sono cose che hai e darle agli altri non ti fa mica male. Però i miei amici quelli veri non li vedo da un po’ e la cosa mi pesa, soprattutto stasera che mi sono messo a scrivere perché mi è successo qualcosa che mi ha scrollato abbastanza da farmi scivolare di dosso la coperta, oppure per una ragione qualsiasi, tipo che mi annoiavo, che avevo voglia di scrivere o che mi è venuta in mente una cosa che valeva la pena raccontare.
Poi penso ai miei lettori recenti, quelli che hanno cominciato a gironzolare qui sopra da poco e hanno capito più o meno come funziona e da qualche giorno girano e annusano e sentono che sta arrivando il post introspettivo serio mascherato da post minchione, e guardano l’ora e dicono vedrai che adesso arriva, e finalmente se lo trovano davanti e lo leggono e ghignano perché lo sapevano che finiva così, e io lo sapevo che loro lo sapevano, e qua posso darvi l’idea di stare parlando a qualcuno in particolare, ma giuro che (non) è così, è che quando ho delle cose dentro che non trovano posto devo mettermi lì e scriverle come sono, senza una forma, che poi le rileggo e forse riesco a trovargliene una, oppure no, le tengo così, confuse e spettinate, ma non importa, ci sono cose che non ci crederesti che sono importanti, che a vederle da fuori non gli avresti dato due lire, ma alla fine sono quelle che ti segnano e ti cambiano perché nella loro banalità e confusione e spettinatezza sono quelle cose che magari cercavi da tutta la vita, perché in mezzo a tanti aggeggi che ti sono passati per le mani e hai adattato per farli funzionare può capitarti di trovarlo per terra quel robo che ti fa funzionare tutto il casino là dentro, quello che non ci devi toccare niente, va bene così, e scusate, vado un attimo a prendere la chitarra.