Oggi, per vincere il tedio da coronavirus, ci eravamo ripromessi di andare alla casa nuova a pulire la cantina, per fare posto alla montagna di roba che non stiamo usando e dovremo trasferire di là. Purtroppo le nuove disposizioni da una parte, e il controllo serrato della vicina del terzo piano dall’altra, ci hanno obbligato a chiuderci in casa.

Il casino è che avevo già un appuntamento con quella signora di cui vi ho parlato la volta scorsa, per organizzare una rivolta, o un torneo di calcetto, vediamo cosa viene meglio, e se non posso uscire per lavorare non posso neanche per diventare un rivoluzionario. Peccato perché avevo già ordinato un bel basco rosso su Amazon.

Io però di sottomettermi alle nevrastenìe della vicina non ci sto. Specie di una che quando ti incontrava per strada, nei bei tempi andati di quando si poteva ancora uscire, si fermava a fissarti dall’altra parte della strada e borbottava cose. Sempre. Con chiunque. Si fermava e ti fissava e borbottava. Sembrava una 126 ingolfata.
E adesso una così deve decidere come passo il mio tempo libero? Nossignora!

Sono sceso sul pianerottolo delle scale, e da lì mi sono calato sul terrazzo della vicina di sotto, che si affaccia sulla parete opposta a quella dove guarda la spiona borbottona, poi ho scavalcato in quello del palazzo accanto. È un appartamento molto grande, in cui vive un’anziana vedova, bloccata sulla sedia a rotelle. Ogni giorno sua sorella le porta la spesa, le fa da mangiare e si prende cura di lei, ma in questi giorni la sua presenza è annunciata dagli strepiti di quella del terzo piano, che la scambia per una che fa le passeggiate e la minaccia di denuncia. Se non sento nessuno gridare significa che sono al sicuro. Così ho spaccato un vetro e sono entrato.

Si è messa a urlare la padrona di casa, e ha cercato di investirmi con la sedia a rotelle. siamo andati avanti a urli e colpi contro i mobili per qualche minuto, poi dalla parete si è sentita la voce stridula della mia vicina di sotto, la cui camera da letto confina con l’appartamento della vedova.

“Allora la piantiamo o no? Voglio dormire, io ho fatto la notte, non sono mica come voi che state a casa!”

“Ma vaffanculo, cretina!”, le ho urlato dall’altro lato del muro. Mi sta veramente sul cazzo la mia vicina di sotto.
“Ma che cazzo vuoi, idiota!”, ha aggiunto la vedova. Poi ci siamo guardati stupiti e la tensione fra noi si è sciolta in una bella risata. Prima di lasciarmi andare via mi ha anche offerto il caffè.

Dall’appartamento della vedova sono sceso al giardino dietro il palazzo, e da lì ho scavalcato su un sentiero che porta al fiume. A quel punto potevo andare dove volevo!

Per prima cosa sono corso sotto la finestra di quella del terzo piano e le ho gridato fortissimo “Suucaaa!!”.

Sono andato a fare i miei lavori nella casa nuova, e alle undici di sera mi sono recato in tutta libertà all’appuntamento con la banda dei ribelli, nella cantina della signora che per ragioni di privacy chiameremo signora Longari. Non si tratta ovviamente della signora Longari che abita sopra la farmacia, questa signora Longari sta due portoni dopo il fruttivendolo, secondo piano scala B, interno 5 e suo marito lavora in un supermercato della zona.

La cantina era asciutta e pulita, dalle pareti non si staccava l’intonaco e dal soffitto non pendevano ragnatele. C’erano scaffali colmi di bottiglie di vino e salsa di pomodoro, e altri che custodivano scatole ben chiuse ed etichettate. Ho pensato alla mia cantina e mi sono vergognato. Poi ho pensato alla mia cucina, e non ho saputo trovare nessuna differenza con la mia cantina.

Non ero il primo ad arrivare, c’era ovviamente suo marito, che per ragioni di privacy dovrei chiamare con un altro nome, ma che continuerò a chiamare Piero perché mi sta sul cazzo, tutte le volte che vado al suo supermercato scopro che ha cambiato posto ai preservativi: si diverte a vedere le facce imbarazzate dei clienti costretti a chiedere.

Oltre alla coppia dei padroni di casa spiccava la presenza della vigilessa Ippopotama. Non aveva senso, era la più agguerrita agente della Municipale, il braccio armato del Comune, era assurdo che proprio lei volesse destituire il sindaco!
La sorpresa mi si leggeva in faccia, e la signora Longari si è affrettata a darmi una spiegazione:

“Ippopotama è qui perché non ne può più dell’atteggiamento dispotico della giunta comunale. Il sindaco ha emanato dei provvedimenti assurdi con la scusa dell’emergenza sanitaria, lo abbiamo visto tutti. Ma quello che non sapevamo ancora, o perlomeno non ne eravamo certi fino a oggi, era che questi provvedimenti facevano parte di un piano per staccare Lento dal territorio italiano e farne uno stato indipendente.”

“Fico!”, ho esclamato. “Potremo anche stamparci la nostra moneta?”

“Cerca di capire”, mi ha detto il professor Hans Delbruck, un pensionato che incontravo sempre la domenica mattina dal panettiere, vestito molto elegante come se fosse appena tornato dalla messa; adesso stava seduto su una sedia pieghevole da giardino, con la schiena appoggiata a uno scaffale di conserve, e indossava una tuta da ginnastica azzurrina. “Un comune piccolo come il nostro non avrebbe nessuna possibilità di mantenere l’indipendenza, non ha un esercito, non ha una propria sussistenza economica. Il piano del sindaco è un altro, vuole affamarci tutti, portarci via ogni ricchezza e poi scappare col malloppo.”

Maledizione, perché non ci avevo pensato io? Avrei dovuto candidarmi alle elezioni comunali quand’era il momento.

Il proprietario di un’impresa edile, Mario Frattazzo, è intervenuto coi suoi modi spicci, e ha chiesto cosa volevamo fare. Gli ho dato un’occhiata, se ci fosse stato da sparare non potevamo contare su di lui: la sua pancia ne avrebbe fatto un pessimo soldato, e un ottimo bersaglio.

Ippopotama ha tirato fuori dal borsello di ordinanza un pacco di fogli, protetti da una sovracopertina trasparente, e li ha distribuiti ai presenti.
Erano delle email, una corrispondenza fra Pepito Sbazzeguti, il sindaco di Lento, e Vladimir Putin. Sbazzeguti aveva ottenuto l’appoggio della Russia per rovesciare la giunta comunale e prendere il potere!

In realtà non era chiarissimo chi stesse chiedendo aiuto a chi, le email erano scritte in un inglese fetente, ma sembrava improbabile che fosse Putin il soggetto in difficoltà.

“Ho scoperto per caso questa corrispondenza: stavo lavorando al computer dell’ufficio dei vigili e sono finita per caso nella rete locale, poi per caso nel computer del sindaco e poi, sempre per caso, nella sua posta elettronica personale protetta da una password che per caso era il nome di sua figlia. A quel punto ho capito cosa stava succedendo e ho chiamato la mia amica signora Longari per chiederle consiglio.”

“Ma quindi adesso cosa facciamo?”, ha chiesto di nuovo Mario Frattazzo, che da costruttore di case si trovava in difficoltà con gli spiegoni, e se fosse stato per lui questa storia avrebbe avuto un capitolo solo, sarebbe iniziata già in piena battaglia per le strade e verso il terzo paragrafo il sindaco sarebbe stato sconfitto, e come ringraziamento la nuova giunta comunale gli avrebbe concesso di costruire una palazzina su un terreno del demanio.

Un personaggio che fino a quel momento stava nascosto nell’ombra è venuto fuori, e tutti abbiamo capito che quello era il personaggio preposto alle scene di azione, l’eroe.
“Adesso passiamo all’attacco”, ha detto la piccola Giorgia, una bambina bionda di dodici anni con l’apparecchio ai denti e la maglietta di Pippo. “Però non proprio adesso, perché è tardi e mia mamma mi ha detto di tornare a casa prima di mezzanotte, sennò la prossima volta non mi fa più uscire”.

Io lo sapevo che era una cazzata, e poi manco ci so giocare a calcetto.

L’ultima volta che mi sono trovato a scrivere questa rubrica era novembre 2016. Poi ho iniziato a fare altro, roba che al momento mi sembrava più importante e che magari oggi mi fa pensare bah; poi ho iniziato a viaggiare in Cina e ho scritto parecchio di quello, poi è scoppiata una pandemia e mi è toccato chiudermi in casa a fare niente, e allora ho pensato che magari alle persone che sono chiuse in casa come me farebbe piacere avere qualcosa da leggere, o da ascoltare, e mi sono rimesso al lavoro.

Stacco su un utente qualunque di internet che apre il mio blog, vede quest’articolo e con calma si alza, si mette la giacca, esce in strada e si fa tossire in faccia dal primo influenzato che trova.

Prima di tutto credo sia necessario un riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.

Quattro anni fa ci eravamo lasciati con una canzone dei Wu-Tang Clan, eravamo negli Stati Uniti, e fino a quel momento avevamo saltato un po’ di qua e un po’ di là dell’Oceano Atlantico, senza curarci troppo degli altri tre continenti. Ma oggi, grazie a quel genio di RZA, e al film di cui parlammo allora, possiamo introdurci alla scoperta di un’area geografica ancora inesplorata.
Potrei dirvi che in questi quattro anni mi sono documentato apposta per scrivere questo episodio di Centotre-e-tre, e voi potete fare la faccia del ragazzino davanti al suo computer nuovo.

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Tutto comincia nel 2003, quando RZA va a Pechino a lavorare con Quentin Tarantino per la colonna sonora di Kill Bill Vol.1, di cui è il produttore. Nei Beijing Film Studios si gireranno le scene all’interno del sushi bar di Hattori Hanzo, ma soprattutto la carneficina alla Casa delle Foglie Blu.

Sono famosi, i Beijing Film Studios, qui è stata girata gran parte della produzione cinematografica cinese negli anni della propaganda, dal 1949, anno della fondazione, fino al 2012, quando sono stati chiusi e tutta la produzione è stata trasferita nei più recenti studios della China Film Group Corporation, a Yangsong, non lontano da quella parte di Grande Muraglia di cui ho parlato in un altro post.

Al cospetto di Tarantino, RZA prende un sacco di appunti, e quando torna a casa si mette a lavorare a un suo film di arti marziali: The Man With The Iron Fists, appunto.

Mi sarebbe piaciuto trovare qualche dettaglio interessante da raccontarvi, del mese che RZA trascorse in Cina, tipo quella volta in cui, al Silk Street Market, si mise a contrattare con una negoziante sul prezzo di una collana di giada che lei sosteneva essere autentica e lui le disse “come on, man, stop da bullshit”, e tirò fuori l’accendino e sciolse la collana sotto lo sguardo imbarazzato e indignato della signora, e se ne andò fendendo la puzza di plastica bruciata; o di quell’altra volta in cui si prese una ciucca abissale in un piccolo bar dell’hutong accanto al Tempio dei Lama, e poi prese un taxi e si trovò a litigare col tassista che aveva cercato di fregarlo sul prezzo, e alla fine tirò fuori l’accendino e l’ultima immagine lo vede allontanarsi nella notte, mentre fende la puzza di pneumatici in fiamme; o di quell’altra volta in cui, in visita alla Grande Sala del Popolo, dove si riunisce il governo cinese, si trovò a discutere con una guardia che voleva perquisirlo per aver fatto suonare il metal detector, e allora tirò fuori l’accendino e lo depositò nel cestino lì accanto, perché RZA è una persona educata e rispettosa delle regole.

Mi sarebbe piaciuto raccontarvi questi e altri aneddoti interessanti, ma non ne ho trovato nessuno, e neanche delle foto. Giusto un diario di una sua visita precedente a un tempio Shaolin nello Hubei, regione che sono sicuro conoscete benissimo per altri più recenti motivi.

Ma andiamo avanti alla parte che ci interessa: è il 2012, quando il film finalmente esce, e nella sua colonna sonora troviamo, come prevedibile, un botto di canzoni hip-hop, e un paio di pezzi più vicini all’ambientazione asiatica.

Uno dei brani, Green Is The Mountain, è interpretato da Frances Yip, una cantante di Hong Kong che negli anni ’80 e ’90 sentivi ovunque in televisione, nelle sigle degli sceneggiati trasmessi dalla rete nazionale (nazionale di Hong Kong, non della Cina). Era così popolare che il 30 giugno 1997, fu chiamata a presentare la British Farewell Ceremony, evento con cui il Regno Unito riconsegnava il territorio di Hong Kong alla Cina.

Il giorno prima la regina Elisabetta II si era seduta al suo piccolo scrittoio, nella sua piccola stanza al castello di Windsor, e non si era alzata che molte ore più tardi, quando il sole era già tramontato e la piccola candela che le aveva fornito una fioca luce si era già consumata. La regina aveva chiamato un messo, il più affidabile di tutti, il giovane Hans ‘Cavallo Pazzo’ Delbruck, e a lui aveva affidato una piccola busta, raccomandandosi di non consegnarla ad altri che a suo figlio, il principe Carlo, quello con le grosse orecchie, e di sbrigarsi, “for the sake of the Queen and the Country”. Cavallo Pazzo si era inchinato ed era corso via, sicuro che si sarebbe trattato di un lavoretto facile: bastava prendere un taxi e farsi portare in città, a Buckingham Palace.

Avrebbe anche potuto guidare la sua moto da corsa, ma per tirarla fuori dal garage doveva aprire il portone, fermarlo con una pesante poltrona vittoriana perché in quel lato dell’edificio il vento soffiava sempre e gliela faceva sbattere, quindi tirare fuori la moto e portarla fin oltre l’angolo, sul lato dell’edificio in cui il vento era più clemente e non rischiava di buttargliela per terra; quindi doveva tornare al garage, rimettere a posto la poltrona, chiudere il garage e tornare a prendere la moto. Oltre l’evidente sbattone, c’era il fatto che di recente i suoi traffici erano stati presi di mira da qualche buontempone (sospettava un giardiniere), che durante la sua permanenza sull’altro lato dell’edificio, gli entrava nel garage e gli fregava i barattoli di marmellata di arance amare che sua mamma gli regalava ogni natale, e che lui custodiva come reliquie.
E poi la corsa in taxi gliela rimborsavano.

Una volta giunto a Buckingham Palace, però, il povero Cavallo Pazzo riceveva la più terribile delle notizie: il destinatario del suo messaggio non si trovava a Londra, ma a Hong Kong, e di lì a poche ore avrebbe dovuto salire su un palco e leggere il discorso che sua madre gli aveva preparato, davanti alle telecamere di tutto il mondo.

L’immagine del Regno Unito era nelle sue mani, non poteva fallire!

Cavallo Pazzo Delbruck chiese di farsi mandare un altro taxi, ma il centralino del palazzo si premurò di fargli sapere che i rimborsi per le spese di viaggio avrebbero coperto solo la tratta Londra-Volgograd, poi avrebbe dovuto arrangiarsi da solo.
Cavallo Pazzo Delbruck chiese di farsi portare una bici.

Nelle ore che seguirono, l’eroico messo nuotò attraverso la Manica con una bici sulla schiena, pedalò come un pazzo attraverso la Francia, la Germania, l’Austria, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria, la Turchia, l’Iran, ma al confine con l’Afghanistan gli dissero che i talebani avevano preso il potere e girare in bici era stato dichiarato illegale: se l’avessero beccato gli avrebbero mozzato mani e piedi. Cavallo Pazzo pedalò a ritroso fino al confine col Pakistan, poi attraversò l’India, il Bangladesh, la Birmania, le regioni a sud della Cina, e finalmente arrivò a Hong Kong, dove il principe Carlo lo stava aspettando già da dieci minuti ai piedi del palco, e aveva una faccia scocciata che non vi dico.

Nel frattempo, sotto i riflettori, Frances Yip stava intrattenendo il pubblico. Aveva già cantato tutti i suoi successi, augurato al governo cinese tanta fortuna e prosperità, e strizzato l’occhio al Primo Ministro britannico Tony Blair. Oramai le restavano le barzellette, ma le uniche che conosceva erano quelle che si raccontavano per le strade della città, e la più gentile era “Quanti cinesi ci vogliono per governare un protettorato inglese? E senza contare quello che mi sta succhiando il cazzo?”.
Per fortuna in quel momento salì sul palco il principe Carlo, e tutti smisero di prestare attenzione alla cantante, che poté ritirarsi dietro le quinte, raccogliere i suoi bagagli e abbandonare la città.

Oggi Frances Yip vive altrove, fa la spola fra l’Australia, dove vive suo figlio, e l’Inghilterra, dove ha una relazione clandestina con Tony Blair, e a Hong Kong ci torna di rado, e sempre meno volentieri.
Questo la legherebbe a un’altra artista esule, Celia Cruz, ma di lei ho già scritto in un’altra puntata.

È anche vero che “artisti sotto una dittatura” è un aggancio che si presta a molte interpretazioni, e potrei davvero usarlo per la prossima puntata senza risultare ripetitivo, ma Hong Kong diventerà totalmente cinese solo nel 2047, e fino ad allora questo spunto non sarà valido, perciò o vi mettete comodi per i prossimi 27 anni o devo inventarmi qualcos’altro.

(continua)

Il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di psicanalisi, sebbene non fosse iscritto all’albo. Diamine, il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di qualunque cosa, era la mia wikipedia personale, se avevo bisogno di scoprire quale specie di scarafaggio infestasse la città di New York e quale quartiere ne fosse maggiormente colpito non avevo che da chiedere a lui: mi avrebbe fornito tabelle, filmati e interviste ai cittadini e agli scarafaggi.
Solo che di uno psicanalista non iscritto all’albo non sapevo che fare, a me ne serviva uno in grado di prescrivermi il farmaco con cui andare in overdose e farla finita con questa vita di merda.

Però il professor Delbruck aveva una copia delle mie chiavi di casa, che al momento stavano in cima alla lista delle priorità.

L’ho trovato seduto sulla finestra con la chitarra in mano che cercava di suonare Io Sono Fatto Di Neve. Non si è accorto di me, e me ne sono stato un po’ lì ad ascoltare questa canzone triste che mi stringeva lo stomaco e irradiava alcaloidi saturi di rancore.

Una volta una ragazza mi aveva dedicato una canzone di questo gruppo, un po’ di tempo dopo che ci eravamo lasciati. Si intitolava Una Palude, e parlava di come dopo la fine di una storia il cantante si sentisse di merda. L’avevo interpretato come un tentativo di ricostruire il rapporto fra di noi, ma mi sbagliavo. C’ero anche rimasto male, che scherzo del cazzo, ma vabbè, magari per lei il testo significava tutt’altro, non era molto brava ad interpretare le canzoni dei Ministri.
Mi ricordo che considerava Lei Non Deve Stare Male Mai come l’emblema della devozione cieca che un uomo deve avere verso la donna che ama, e io obiettavo che dietro quella venerazione veniva mostrato l’annullamento dell’individuo, e insomma, mi sembrava un rapporto parecchio egoista, ma la ragazza voleva quel tipo di relazione lì, non ci eravamo lasciati benissimo.

Da allora “cercare con estrema cura possibili compagni di avventura” era diventata una regola ferrea, per evitare sorprese.
Però mi spiaceva non averle dedicato anch’io una canzone, è un gesto che unisce la passione per la musica alla necessità di mandare un messaggio, ed è la cosa più pratica se non possiedi talento artistico, né una casa discografica, uno studio di registrazione e un album in uscita entro breve.
Scrivere un racconto non è altrettanto efficace, magari lei non legge racconti. Magari l’ultimo libro che ha letto è il libretto del dvd di Beyoncè che regalava TV Sorrisi E Canzoni. Magari è una capra. Ci sta di innamorarsi di una capra, le capre hanno belle tette e uno sguardo intelligente nel loro viso semita.
Chiedilo a Saba, quante cose trovi nel suo belato.

Ecco, con una canzone queste cose non succedono. Arriva dappertutto, la passa la radio.
Pensa a quando Tom Waits ha scritto Who Are You, pensa alla donna cui era dedicata. Pensa a come dev’essersi sentita ogni volta che la ascoltava alla radio e sapeva di essere lei quella che continua a scappare dalle finestre in abiti costosi.
Dio, come avrei voluto una ex stronza a cui dedicare Who Are You di Tom Waits.

Un rapido conteggio sulla punta delle dita mi ha fatto realizzare che ex stronze non ne avevo neanche una. Al limite squallide, ma non valevano la pena di essere ricordate.
Il pensiero mi ha gettato addosso nuovo sconforto, che mi ha riacceso l’ipofisi, che mi ha aiutato a sopportare il dolore, che mi ha reso di umore migliore, che mi ha quasi fatto desistere dal piano autodistruttivo.
Ma è stato solo un momento, ormai la decisione era presa. Mi sono mostrato al professor Delbruck e gli ho chiesto le chiavi di casa e un cocktail di barbiturici.
Mi ha dato solo le prime. Per l’altro ha detto di non volersi assumere la responsabilità. Però conosceva un buon analista in grado di aiutarmi.

Tempo una settimana e stavo seduto in uno studiolo a fissare una signora in pile coi capelli brizzolati, divisi nel mezzo in un taglio piuttosto mascolino. Più che una psicoterapeuta sembrava una guida alpina. Mi è venuto da chiederle se le piacevano le capre.

“Mi parli del suo rapporto con suo padre”

Ma che gliene frega a questa del mio rapporto con mio padre?

“Lei non si è sentito amato da bambino e sta inseguendo l’approvazione di suo padre”

Ma non mi può prescrivere del temazepam e lasciarmi abbracciare il mio destino senza tante menate?

“Mi descriva il rapporto con sua madre utilizzando solo aggettivi di tre sillabe”

Maledetti altruisti devoti alla salvezza dell’umanità, ma perché non vi salvate fra voi e ci lasciate in pace?

“Sua madre è stata iperprotettiva e le ha fatto perdere il valore della gratificazione. Perciò adesso lei si sente inadeguato qualunque cosa faccia.”

Il giuramento di Ippocrate comprenderebbe anche il rifiuto a operare i calcoli renali, se vogliamo essere coerenti fino in fondo.

Poi mi ha messo in mano dei fogli e una matita.

“Disegni il suo posto nel mondo, come si vede e come la vedono gli altri. Disegni le cose importanti per lei, disegni sé stesso mentre compie la sua azione preferita.”

L’ho guardata, ho guardato il foglio. Non so disegnare neanche l’omino stecco, mi viene tutto sproporzionato. L’ho guardata di nuovo.

“Se glielo mimassi?”

Mi ha fissato in silenzio.

Il figurativo era oltre le mie capacità, ho improvvisato un’opera astratta.
Mondrian, per esempio, coi suoi spazi regolari avrebbe rappresentato al meglio il mio bisogno di equilibrio, e di dare una forma a tutto ciò che vedo.
Non è facile andare dritti senza un righello, mi tremavano le mani per l’ansia da prestazione, e il prodotto finale sembrava più un Mirò. Ho cercato di aggiustarlo, ma ogni tratto di matita non faceva che peggiorare il lavoro. Alla fine ho consegnato un Pollock.

“Interessante. Lei dovrebbe imparare a valorizzarsi di più, vincere le sue paure ed essere più indulgente verso sé stesso. Si ricordi che i fallimenti fanno parte del gioco, e sono indispensabili per potersi migliorare, pertanto vanno accolti, e non demonizzati.”

“Va bene. Adesso potrei avere le mie pastiglie, per cortesia?”

“Mi spiace, io sono freudiana, credo nella guarigione attraverso una lenta e dolorosa presa di coscienza. Se vuole la strada facile deve rivolgersi a quei cazzari degli junghiani. Oltretutto non ci vuole molto a capire che lei e le dipendenze avete un bellissimo rapporto. Se le prescrivessi un oppiaceo non farei che spostarla da una prigione a un’altra, mentre quello che le serve davvero è di liberarsi.”

“Il mio piano era quello”, confessai. “Vorrei uccidermi.”

“Glielo leggo in faccia. E non cercherò di dissuaderla, i consigli non servono a niente, se non a farci sentire ancora più incapaci di seguirli. Ma ci sono diversi modi di arrendersi, e non tutti contemplano la morte. Non quella fisica, perlomeno.”

“Mi sta suggerendo di diventare un sommelier?”

“No, di trasformare i suoi fallimenti in un obiettivo.”

“Meno male, preferisco la ciucca anarchica a quella regolamentata”

“Lei sta spingendo un masso in cima a un monte, e ogni volta si frustra vedendolo rotolare di nuovo giù. Il fallimento le toglie la voglia di riprovare, e adesso ha deciso di arrendersi. Perché a cosa serve impegnarsi se il risultato è sempre zero?”

“Va bene non dissuadermi, ma non credo che l’istigazione al suicidio sia etico, dottoressa.”

“No, ma che suicidio. L’unico suicidio utile è quello della ragione. Lasci perdere il buon senso e si affidi alla pancia. Cerca sempre una ragione a tutto, ma non è detto che debba esserci per forza. Certe cose succedono e basta. Lo scopo non dev’essere per forza arrivare in cima, potrebbe essere anche solo spingere la pietra.”

“Uscirebbe con me domani sera?”

“Mi è proibito dal codice deontologico uscire con un paziente.”

“E se non fossi un paziente uscirebbe con me?”

“No”

“Questo danneggia la mia autostima”

“Ma preserva la mia. E comunque imparare ad accettare i rifiuti è un passo verso la guarigione.”

“Lo farò, grazie mille!”

Sono uscito più sollevato. Adesso sapevo cosa fare: avrei accettato i rifiuti. Anzi, di più, me li sarei presi in casa!

(continua)

“La sofferenza stimola l’organismo a rilasciare endorfine. Le endorfine sono sostanze analgesiche in grado di procurare stati d’animo piacevoli. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì: ci si può drogare di emozioni forti.”

Guardo il professor Hans Delbruck con rispetto e timore. Ogni volta che vengo a trovarlo è come aprirmi un chakra, ma col trapano, che comunque è un modo come un altro per migliorarsi, guarda il dentista, ogni volta che ti buca la faccia il suo conto corrente migliora tantissimo.

“Ma perché il dolore e non il piacere? O un bello spavento, tipo?”
“Perché il dolore è un’emozione economica, facile da procurarsi, e non ha bisogno di collaboratori, basti tu. Anzi, se sei da solo riesce pure meglio.”
“Allora è per questo che penso sempre a cose dolorose, o mi perdo nei ricordi malinconici, o trovo così appagante piangermi addosso!”
“No vabbè, che c’entra, quello è perché sei un narcisista, ma il pianto in generale è un’attività troppo piacevole per non destare sospetti.  È perverso quanto ti pare, ma se ci sono persone che amano farsi picchiare perché a uno non dovrebbe bastare farsi un pianto ogni tot? Oltretutto tu sei un insicuro, e il dolore è un alibi straordinario per commettere qualunque bassezza: se soffri hai sempre ragione, e se oltre a soffrire riesci ad accusare qualcun altro del tuo dolore sei a posto!”

Insomma, il professor Hans Delbruck mi ha aperto gli occhi sulla mia condizione di drogato. Mi ha suggerito di procurarmi la stessa sostanza tramite emozioni positive, che costano un po’ di più, ma non mi riducono come un consumatore di metanfetamine, che è grossomodo il mio aspetto attuale.

“Proverei la gioia. Non trascurerei neanche il divertimento, finché ce n’è. Ma al tuo posto mi farei prima di tutto un giro nell’altruismo, la generosità, quelle robe lì. Magari potresti fare volontariato.”

Intanto che decidevo mi sono messo da bravo in coda al SerT, che loro di tossici se ne intendono, e in attesa della dose di serotonina mi sono lamentato un po’ per lo squallore del posto in cui mi trovavo, che insomma, io merito di meglio, e guarda un po’ che gente.
È arrivata un’infermiera col culone e un grosso porro in mezzo alla faccia, mi ha dato una tavoletta di cioccolata per placarmi l’astinenza e mi ha detto di avere pazienza. Aveva una bella voce, e il suo gesto è stato così gentile e inaspettato che mi sono innamorato di lei seduta stante e le ho chiesto di uscire.
Ho sentito subito un lavorìo all’ipofisi, mi si è contratto lo stomaco, e un carico di neurotrasmettitori si è sparato in vena urlando di gioia. Perché noi drogati di emozioni siamo soggetti all’innamoramento facile, basta tenerci su l’autostima e ci facciamo piacere anche i morti.
Lei purtroppo o per fortuna aveva una consapevolezza di sé molto superiore alla mia, e mi ha liquidato con un sorriso:
“Vedrà che dopo l’iniezione si sentirà subito meglio”
“Per te invece ci vorrebbe una rinoplastica”, ho sibilato, livido di insoddisfazione. Il mio stomaco si è contratto di nuovo, altra dose di alcaloidi in circolo a rimescolar le carte.
Ma aveva ragione, una volta riportato a galla l’umore ho cominciato a vedere il mondo con più raziocinio, a capire cosa voglio davvero e cosa cerco solo per noia.
Sono andato su Amazon e mi sono comprato un altro ukulele, una camicia, un caricabatterie, un tablet, dei fumetti a caso e poi ci ho provato con la mia vicina di casa. Perché un conto è sapere cosa vuoi e un altro è cercare di ottenerlo.

Ci voleva un altro due di picche per farmi finalmente ascoltare il consiglio del professor Delbruck: ho cercato un’attività di volontariato che mi permettesse di sostituire le emozioni negative con altre positive in grado di stimolarmi l’ipofisi, e magari di trombare, che mettila come ti pare mi sembra ancora il modo più spiccio di riportare l’autostima a livello.
Mi andava bene chiunque, il lusso di scegliere lo avrei lasciato a quelli che hanno tempo da perdere con fesserie come l’amore, a me bastava ficcare.
Quindi no ospizi, no barboni e no bambini. Tutto il resto era grasso che cola.

Le malate terminali vanno bene, non sono molto più magre delle ragazze con cui sono solito uscire, e rispetto a certi personaggi che ho frequentato sono di gran lunga più spiritose.

Mi sono presentato al reparto dell’ospedale dicendo che sono un attore, ho proposto delle letture che aiutassero le pazienti a sopportare la loro condizione, e soprattutto mi sono detto disposto a farlo gratis. Lo staff era entusiasta, mi ha lasciato subito libertà d’azione, entra dove vuoi, scegli chi ti pare, ce ne fossero come te!

La totale libertà di entrare nelle camere e studiare le cartelle cliniche mi ha permesso di effettuare una cernita accurata, e dopo poco ho puntato la mia preda: Jessica. Single, accudita dalla madre anziana, quindi in pratica sempre sola. Capello biondo cenere sfumatura topo, occhio di colore non pervenuto in quanto rivoltato. Zero inclinazione al dialogo, quindi zero menate e zero interruzioni mentre parlo. Poteva essere la mia donna ideale.

Ho chiuso la porta e iniziato a leggere delle cose simpatiche, per rompere il ghiaccio, ma la mia voglia di buttarglielo era così pressante che ho posato il libro e le ho chiesto secco come si veste una malata smaliziella. Non mi ha risposto, ma non mi ha neanche detto di no, al che ho dedotto che ci stava e sono andato a verificare di persona.

Non è stato soddisfacente. Sarà che sono un romantico e il sesso tanto per farlo non mi piace, ma se non ci avessi messo tanta convinzione io sarebbe stato come scopare da solo. Comodo, ma come dire, poca soddisfazione.
No, ci voleva un minimo di coinvolgimento, avrei dovuto avvicinare una donna ancora cosciente che mi facesse sentire desiderato e stuzzicasse la mia autostima.

Ho conosciuto Sabrina, una mora affetta da un male che non aveva ancora cominciato a divorarla da dentro, o perlomeno non ne portava troppi segni. Sotto il pigiama si indovinava un fisico interessante. Mi sono fatto avanti.

“Ciao, mi chiamo Pablo. Vorrei alleviare la tua sofferenza leggendoti qualcosa. Ti va?”
“Preferisco la sofferenza.”
“Ma perché? Non vorresti stare meglio?”
“Perché la vita fa schifo, è un pozzo di dolore e ogni sforzo che faccio per migliorarla finisce in un bagno di sangue, e sono stufa di accollarmi tutte queste croci da sola e non essere capita e voglio morire sola in un angolo.”
“Posso provare a convincerti? Magari scopri che esiste un sottile filo di speranza a cui aggrapparti, e basta tirarsi fuori un paio di centimetri per ritrovare la voglia di andare avanti”
“L’unica speranza è la benzodiazepina”
“Eh mi spiace, non ne ho. Però ho un racconto di Stefano Benni. Te lo posso leggere?”
“Ce l’hai John O’Brien?”
“Se devo scegliere un suicida preferisco Hemingway”
“Hemingway non ha capito un cazzo, la vita non è un safari in Tanzania o un panfilo a Cuba, la vita è su un marciapiede di Las Vegas a fare marchette. Il dolore vero che ti svuota è quello che ti spinge a lasciarti morire di alcool, non una cazzo di paranoia insensata che ti fa vedere mostri dappertutto.”
“Non mi sembra un giudizio accurato. Come se si potesse fare una classifica del dolore, poi.”
“Certo che si può! Io in questo letto soffro più di te che stai seduto su quella sedia a leggere il cazzo di Stefano Benni del cazzo!”
“A parte che non vedo come potresti soffrire, dato che non ho ancora cominciato a leggere, ma sei una presuntuosa. Vabbè, sei malata, ma non mi sembri così sofferente. Nella stanza di là c’è una messa molto peggio, è catatonica, sbava e soffre pure di secchezza vaginale.”
“Ma come ti permetti? Ma cosa ne sai di quel che ho passato io? Io ho tutto il diritto di dispensare giudizi, e voi dovete starvene tutti zitti e accettarli, perché nessuno di voi ha sofferto quanto me! Io sono la Disperazione e la Morte! Io sono l’angoscia del futuro, il peso del passato e l’aridità del presente! Io mi sono reincarnata mille volte nelle peggiori forme di dolore per poter ascendere al sublime e guardarvi tutti dall’alto della mia saggezza distillata da ettolitri di lacrime!”

Me ne sono andato sennò gliela mostravo a schiaffi, la sofferenza. Madonna che presuntuosa di merda! Dalla porta aperta la sentivo ancora gridare “Io sono sposata al degrado! Io ascolto i rapper di Scampìa!”.
Sulla porta ho incontrato Briatore che le portava i fiori. Mi ha detto che era la sua fidanzata, si era fatta ricoverare per un gonfiore alle caviglie, ma aveva voluto farsi mettere fra i terminali per sentirsi più vicina alla loro condizione e provare empatia verso le persone sfortunate. Era così altruista, la sua fidanzata!

Ochei karma, il volontariato è una cazzata, me l’hai fatto capire benissimo, grazie. Alla fine siamo solo un branco di egoisti in cerca di gratificazione. Ma se neanche questa è la strada cosa mi resta da fare?
Camminando verso casa ho iniziato a sentire le fitte dell’astinenza, le vetrine mi restituivano l’immagine di un omino sciatto, mi sono chiesto che razza di futuro può avere uno sfigato come me e quando mi renderò conto che le porte aperte sono finite e non mi resta che arrendermi alla solitudine e alla miseria.

Ero preda di un violento calo di endorfine, mi serviva subito qualcosa di forte o mi sarei ritrovato sul divano a singhiozzare davanti alla foto di qualche ex.

(continua)

C’è fermento nell’ambiente scientifico. Un’équipe internazionale capitanata dal professor Hans Delbruck pare avere finalmente risposto alla domanda che da molti anni anima i salotti accademici: quant’è bello lu primm’ammore?

La rivista scientifica Coliform Bacterium pubblica questo mese un’intervista all’eminente scienziato, già candidato al premio nobel nel 1989 grazie a uno studio sull’uso del congiuntivo.

Professor Delbruck, è vero quel che si dice, che avete scoperto quant’è bello lu primm’ammore?
Si, e il merito è tutto del gruppo che mi ha aiutato, lavorando giorno e notte, anche durante le feste di natale.

E ci dica, è possibile spiegare ai nostri lettori quant’è bello questo primm’ammore? Magari semplificando un po’, affinché sia comprensibile a tutti.
Beh, lei capisce che è difficile ridurre un concetto così ampio a una mera formula, ma se dovessi fare un discorso il più semplice possibile.. azzarderei trentasette.

Straordinario!
E tenga presente che ho arrotondato per difetto.

Quale saranno i possibili sviluppi della vostra scoperta?
La vita dello scienziato è sempre una gara a superarsi, raggiunto un traguardo se ne intravede un altro, e non ci si arresta mai. In questo caso sapere quant’è bello lu primm’ammore ci permetterà di rispondere a un’altra domanda di uguale importanza: lu secondo è chhiu bello ancor?

C’è fermento nell’ambiente scientifico. Un’équipe internazionale capitanata dal professor Hans Delbruck pare avere finalmente risposto alla domanda che da molti anni anima i salotti accademici: quant’è bello lu primm’ammore?

La rivista scientifica Coliform Bacterium pubblica questo mese un’intervista all’eminente scienziato, già candidato al premio nobel nel 1989 grazie a uno studio sull’uso del congiuntivo.

Professor Delbruck, è vero quel che si dice, che avete scoperto quant’è bello lu primm’ammore?
Si, e il merito è tutto del gruppo che mi ha aiutato, lavorando giorno e notte, anche durante le feste di natale.

E ci dica, è possibile spiegare ai nostri lettori quant’è bello questo primm’ammore? Magari semplificando un po’, affinché sia comprensibile a tutti.
Beh, lei capisce che è difficile ridurre un concetto così ampio a una mera formula, ma se dovessi fare un discorso il più semplice possibile.. azzarderei trentasette.

Straordinario!
E tenga presente che ho arrotondato per difetto.

Quale saranno i possibili sviluppi della vostra scoperta?
La vita dello scienziato è sempre una gara a superarsi, raggiunto un traguardo se ne intravede un altro, e non ci si arresta mai. In questo caso sapere quant’è bello lu primm’ammore ci permetterà di rispondere a un’altra domanda di uguale importanza: lu secondo è chhiu bello ancor?