“Uno dei molteplici inferni della tradizione cinese consiste sicuramente nel fare il barista all’autogrill durante il turno della mattina”, dico a Gabriele mentre la coda alla cassa si sfila lentissimamente davanti a noi. “Ci sono pregiudicati che patteggiano trent’anni in un carcere di massima sicurezza piuttosto che trascorrere sei mesi di lavoro socialmente utile a preparare caffè sulla Gravellona Toce”.

È sabato mattina, siamo in viaggio su tre macchine per raggiungere la Val Sesia, dove dovremmo provare l’esperienza adrenalinica del rafting, sempre che non chiuda nel tempo che ci metteremo a raggiungere la signorina alla cassa. Si tratta di un elaborato addio al celibato, organizzato dalla sempre efficiente Bolza Travel Agency, “creatori di prestigio”. Stavolta si sposano Gabriele e Davide, sebbene non fra di loro, e il tour operator di Bolzaneto ha organizzato un weekend all’insegna dell’avventura.

Non conosco tutti, dall’ultima volta che li ho frequentati, per l’addio al celibato del Cote, si sono aggiunte diverse facce nuove. Lo zoccolo duro però è rimasto, c’è Cesco con l’espressione avvilita dell’asceta, da quando ha abbracciato il buddismo e si è rasato i capelli ha cambiato completamente atteggiamento, c’è Enrico, con gli occhiali da sole perennemente appesi al naso e la faccia di pietra del bolzanetese duro e puro, c’è Alle, l’uomo che un giorno, durante una discesa fra le rapide, mi ha insegnato il manovròn, salvandomi la vita. Spero di averlo accanto quando saremo nel fiume, è una sicurezza. Per tutto il resto del tempo è un narcolettico, e starci insieme è come trascinare un sasso, ma a contatto con l’acqua si trasforma in una specie di sirena senza tette.

Poi ritrovo Emilio che fa lo zarro no limits per mascherare che è zarro per davvero, Daniele, il Cote che si è fatto crescere i baffi da chansonnier, e mi dicono che dovrebbe esserci anche Robbi, ma è in ritardo.

Quando ci siamo tutti ci mettiamo in marcia su tre o quattro macchine, a me capita una grossa ford kuga superaccessoriata guidata da Automan, un collega di Gabri che ha coniugato la passione per le auto a quella per l’elettronica, e ha collegato ogni strumento possibile al cruscotto della macchina con mille comandi vocali, così che per cambiare stazione parla con l’autoradio e questa gli risponde, e quando passiamo davanti a un velox lui basta che dica “vigilidimerda” che alla pattuglia arriva un sms con scritto “suca”. Una figata. Almeno finché non chiede alla macchina di ascoltare centocinque, e io calcolo al volo quante ore di zoo dovrò sopportare prima dell’arrivo, e mi chiedo se non sia meno doloroso aprire la portiera e gettarmi fuori in corsa.
Per fortuna la macchina è talmente intelligente che certe trasmissioni non se le caga nemmeno.

Fino a Borgosesia si viaggia senza intoppi, ma una volta lì ci fermiamo senza la minima idea di dove sia l’appuntamento con Stefano e Dema, che ci hanno preceduto per vedere se c’era l’acqua nel fiume o dovevamo portarcela noi.

Parcheggiamo davanti a un cancello e scendiamo, ma questo si apre e ne viene fuori un camioncino con sopra una capra legata. È come nell’Esorcista, quando il prete rischia di essere investito da una carrozza con dentro una vecchia che ghigna. Lo interpretiamo come un segno demoniaco e ripartiamo. Il luogo dell’appuntamento era proprio dietro la curva, se è stato davvero il diavolo a farci spostare possiamo credere che stia dalla nostra parte. Il più sarà spiegarlo a Davide, che intende arrivare alla cerimonia in chiesa con la coscienza pulita come il fantasmino del lavasbianca.

Il posto che ci affitta gommoni e istruttori si chiama Monrosa, ci si arriva scendendo una strada e ti trovi in un prato ben curato con un paio di capanni e gente in costume. Ci sono due tardone che prendono il sole e danno un’immagine del posto che potrebbe trarre in inganno, perché appena più in là vediamo passare uno splendido esemplare di cane lupo legato a un’altrettanto splendida ragazza, il cui costume lascia immaginare forme che ci aumentano a tutti la salivazione. Davide spezza un rametto da un albero e comincia a fustigarsi per espiare, noialtri ci sentiamo più solidali col cane della ragazza, e attacchiamo a ululare in coro.

Viene il momento di formare gli equipaggi. Siamo in sedici, dovremo formare due gruppi da cinque e uno da sei, perciò tentare di dividerci in genoani e doriani non funziona, così come scapoli e ammogliati, o afflitti da forfora e da altre piaghe estetiche, neanche raggruppando i brufolosi e quelli con l’alito pesante sotto la stessa bandiera.
Finiamo per affidarci a un proporzionale secco con sbarramento al 5%, senza preferenze.

Se dopo il Verdon io e Alle formiamo una coppia obbligata, gli altri sono frutto della sorte, Stefano, Davide e Robbi, che arriva al gommone dopo dieci minuti perché stava facendo qualcos’altro altrove. La nostra guida, colui che sta al timone e di fatto decide del nostro destino giù per le rapide, è un argentino di nome Fernando. Ho già avuto un’esperienza con gli argentini, sono bravissimi, anche se tendono a seguire più il portafoglio che il cuore. Alle, Stefano e Davide lo guardano in cagnesco, forse temono che gli faccia quattro pere e vada a esultare sotto la sud.

Cominciamo la discesa dopo qualche indicazione di massima su come si pagaia. Non dev’essere una cosa complicata, quando apri un’agenzia di rafting potresti trovarti come cliente anche il ciccione impedito o la bionda idiota, devi vendere un prodotto facile e divertente per chiunque.
Questo non impedisce a Stefano di prendersi una gomitata nelle balle da Davide dopo neanche due minuti di discesa. Seguiranno diversi colpi lungo tutto il percorso, tanto che alla fine ci chiediamo se non sia meglio far sparire il cadavere gettandolo in acqua nelle rapide.

Due o tre volte rischio di venire sbalzato fuori dal gommone, e solo una piccola cinghia sul pavimento dove ho ancorato il piede mi evita l’umiliazione di un bagno. Sul gommone davanti al nostro si cacciano tutti giù, affrontano le rapide a nuoto, poi risalgono, ma si perdono Gabri, che annaspa in balìa dei flutti. Tentiamo una manovra azzardata e andiamo a salvarlo, nonostante la nostra generosità ci costi uno spiaggiamento fuori programma sul fondale basso. Una volta liberato il gommone Fernando si accerta delle condizioni del naufrago, quindi lo ributta in acqua senza troppi complimenti. L’equipaggio è come le mutande, ognuno ha le sue.

Dalla terza barca giungono grida continue, è Emilio che si è immedesimato nel comandante e cerca di spingerli a pagaiare più veloce. Vuole arrivare per primo all’arrivo e per farlo è disposto a tutto. La guida non può fare niente, è in catene e detta il ritmo delle vogate battendo su un tamburo.
Emilio, con la bandana sotto il caschetto, urla “Siamo di Bolzanetooo!!”, e sfreccia via.

L’ultima rapida la affronto a nuoto, su consiglio di Fernando, per provare emozioni ancora più incredibili. Vabbè, bevo un casino d’acqua e rischio di grattare il culo sul fondo, checchè ne dica lui considero sempre più emozionante quella volta che ho rotto i freni della bici giù dalla discesa dei Villini.

Passiamo il resto del pomeriggio a riposare davanti al bar del campo, un po’ perché è dalla mattina che non tocchiamo cibo, un po’ perché la barista sfoggia una quarta malcelata. Compriamo anche il cidi con le foto, sebbene costi quanto un gommone. Non l’affitto, proprio comprarlo e portarselo a casa con tutte le pagaie.

Espletata anche l’ultima formalità ripartiamo per Stresa, dove abbiamo prenotato l’albergo. In città notiamo alcune macchine da rally ferme dal benzinaio, o in movimento lungo la via con la loro marmitta scoppiettante. L’indomani si correrà il 45° Rally Delle Valli Ossolane, e i migliori piloti nazionali si sono dati appuntamento lì. Qualcuno ironizza che potremo essere svegliati dalla partenza proprio sotto le finestre della camera.

La camera non è una, sono tre o quattro nella pensione sita in una stradina fuori mano e un miniappartamento sulla via principale. Dobbiamo dividerci, finisco in camera con Gabriele e suo fratello, che aveva un’aria familiare alla partenza, e finalmente riconosco: è Kurgan. Occupo il letto più lontano, non si sa mai.

Non è mica finita la giornata! Il tempo di cambiarsi e via ancora una volta, verso un agriturismo sopra il lago. Non sulla riva, proprio sopra, ottocento metri e quaranta tornanti più su, sul cucuzzolo di un monte dove già da metà salita scompare ogni traccia di insediamento umano, poi scompaiono gli alberi, lasciando spazio solo a licheni, poi scompaiono anche quelli, e resta un duro manto bianco a coprire il terreno. Ci lasciamo alle spalle anche un gruppo di sherpa tibetani, fermi al bordo della strada a massaggiarsi i piedi. L’unico che smadonna è Automan, che non riesce ad affrontare i tornanti in un’unica sterzata, e ogni volta è costretto alla retromarcia.
“Eppure ha lo stesso sterzo di quell’alfa lì davanti, e guardate lei come va su bene!”, mugugna.
Gli facciamo notare che l’alfa è una macchina delle dimensioni di una macchina, mentre lui si è comprato una corriera Lazzi, e la cosa sembra rincuorarlo. Scopriremo più tardi che mentre noi eravamo a tavola lui è sceso con un piccone e ha allargato tutte le curve al buio, per agevolarsi la discesa.

Il ristorante Torrequalcosa è un edificio basso, sovrastato da una modesta torretta, che però dopo tutta la strada fatta per arrivarci, mi sembra Mordor, e guardo in su alla ricerca dell’Occhio di Sauron. Non c’è, ma non significa niente, potrebbe essere dal’oculista.
Menù fisso abbondante e di qualità, anche se i ravioli di burro al burro unto sono un po’ pesanti, e l’arrosto alle castagne a giugno uno non se lo aspetterebbe.

A metà cena il cameriere viene ad avvisarci che un gruppo di cinghiali sta pascolando nel posteggio, e qualcuno si alza per andare a vedere. Automan li segue, vuoi mai che gli piscino su un copricerchio. Stiamo a guardarli in silenzio per un po’, sono una decina, razzolano placidi sotto una grossa quercia, indifferenti ai rumori dentro il ristorante, finché arriva Stefano, che grida “Và i maiali!”, e quelli telano alla svelta.

Prima di risalire in macchina si pianifica il resto della serata, chi torna a Genova, chi va al night, quale zoccolificio scegliere, se sia opportuno approfittare della vicinanza del confine e andare a cercare fortuna e gloria in Svizzera.
Io approfitto del passaggio di Daniele e Cesco e torno in albergo che non è neanche l’una.
Gli altri rientrano alle quattro, Gabriele non ha la faccia soddisfatta, ma a quell’ora non si dilunga in spiegazioni.

Alle sette il parcheggio della pensione su cui si affacciano tutte le finestre si trasforma nell’hangar di un aeroporto. Cosa succede? Il terremoto? No, è una macchina da rally che mette in moto e sgasa un po’ per scaldare il motore. Oramai sono sveglio, ho dormito abbastanza, e me ne vado a spasso a far due foto.
Nel parcheggio ci sono altre due macchine, presto se ne andranno anche loro. Sarà veramente una mattina di merda per chi ha tirato mattina tastando culi.

Stresa non è Milano, in un’ora l’ho girata tutta, ho fatto le foto e non mi resta altro da fare che sedermi a un chiosco sulla spiaggia a fare colazione.
Verso le dieci torno in albergo e recupero Gabri e Luca, o Carlo, boh, vabbè, e il Cote. Torniamo in centro a fare la seconda colazione, in pasticceria.
Il cappuccio è un po’ più buono di quello del chiosco, ma non ci sono più brioches con la marmellata. Ordino un fagottino con le mele, e la signora me lo porta decantandone le qualità, si vede che è la specialità della casa. Lo assaggio, sa di camino.
Ordino anche un bicchiere d’acqua, mi porta una bottiglietta calda. Evidentemente sono abituati ai turisti indifesi, Stresa vive esclusivamente di anziani tedeschi e francesi, stando alle persone che vedi girare, ai quali possono propinare qualunque robaccia.

Stresa, l’ho detto, non è Milano, dopo un’ora l’hai girata in lungo e in largo, dopo tutta la mattina a girare conosco tutti, ho un buon lavoro in centro e sono fidanzato con una di Verbania.

È tempo di tornare, ci attardiamo ancora un po’ sul marciapiede, guardiamo passare uno che dicono essere emanuele filiberto su una Ferrari, un altro che sembra il fratello di Briatore con un gilè improponibile, aspettiamo una gnocca, almeno una, ma passa solo una coppia coi baffi alla umbertina. Ripartiamo.

2009-06-13 stresa

E’ quello, c’è poco da aggiungere, domani mattina mi alzo bello presto, che oramai dormire di sabato sta diventando un lusso, e scendo a Bolzaneto, dove mi ricongiungerò con la compagnia dei canoisti per una straordinaria avventura che dovrebbe addirittura superare quella del Verdon.

Cioè? Un addio al celibato in canoa? E le zoccole dove le mettete? Che un addio al celibato senza zoccole non si è mai visto, tranne a quello di Chicchino, dove però siamo stati in una trattoria che quando ci ha presentato il conto abbiamo capito che in realtà c’era anche lì.
Conoscendo i personaggi credo che a un certo punto del weekend salteranno fuori, ma spero di riuscire a schivarle, non tanto per ipocrita perbenismo quanto per una convinta e ben collaudata noia che gli zoccolifici mi provocano.

Riassumendo i compiti ho infilato nello zainetto da concerti un po’ di magliette, il costume e l’asciugamano, qualche pantaloncino da battaglia e le mutande di ordinanza. La macchina fotografica la volta passata me l’hanno inculata, ma alla fine la porterò lo stesso, che Stresa sembra una bella cittadina, sebbene pulluli di milanesi. Quindi ci vorrà anche il ddt.