Primavera 2023

E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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