Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music
Radio Tehran – Tamume chiza
Portishead – The Rip

Vi avevo lasciati sulle atmosfere noir dei Portishead e quindi ripartiamo da qui, da uno dei loro pezzi più famosi.

La canzone Sour Times compare nel loro primo album Dummy, del 1994, e insieme a Glory Box è uno di quei pezzi che ricordiamo per primi quando sentiamo parlare dei Portishead. Quel giro di basso che si chiude con un vibrato di corde e che si ripete per tutta la canzone, ne costituisce l’ossatura principale e diventa il suo elemento più riconoscibile. Quel giro lì è una campionatura di un pezzo di Lalo Schifrin che si intitola Danube Incident, e venne composto per la serie tv Mission: Impossible.

Lalo Schifrin è infatti il compositore del tema più famoso dopo quello di 007, che ricordiamo tutti grazie ai film con Tom Cruise. Della vecchia serie tv non parla più nessuno, destino infame quello delle vecchie serie tv che aprono la strada a migliaia di produzioni simili e poi vengono dimenticate, finché arriva uno piccoletto che ne fa un remake in chiave moderna ed è il trionfo e la condanna insieme: tutti si ricorderanno per sempre del piccoletto e nessuno più della vecchia serie tv. Io per esempio la vecchia serie la ricordo, ma mi piace molto di più il ciclo di film del piccoletto, di cui peraltro è uscito l’ultimo capitolo non troppo tempo fa e me lo sono visto giusto ieri sera, e adesso mi sento come dopo due ore stravaccato sul divano a guardare video di Tiktok e a mangiare cioccolata: non è male, ti intrattiene, ma è solo fuffa.

È una vita durissima quella di noi appassionati di cinema di spionaggio, escono pochi film e non sempre di buona qualità. Non che il ciclo di Mission: Impossible lo sia, o che si possa definire spionaggio, è più un film che parla grossomodo di spie con ottime scene d’azione, ma perlomeno quel che vedi ti diverte e alla storia tirata per i capelli smetti di pensarci. È successa la stessa cosa con Skyfall, uno dei migliori 007 del ciclo con Daniel Craig, che quando finisce sei soddisfatto, almeno finché non ripensi a quel che hai appena visto. Se n’era parlato qui, un sacco di anni fa.

Adesso che anche lui è uscito di scena col botto non sappiamo se e quando uscirà un nuovo film, chi lo interpreterà, quali altri stereotipi di James Bond verranno abbandonati per svecchiare il personaggio. Per un po’ mi sono consolato interpretando io l’agente segreto britannico, ma ormai anche quel ruolo non mi appaga più, ci vuole qualcosa che mi distragga.

Per fortuna il mondo delle storie di spie è più ampio di quello rappresentato dagli agenti indistruttibili che saltano giù dai palazzi, e cercando un po’ si riescono a trovare prodotti che lo raccontano in una chiave diversa.
È il caso di Slow Horses, una serie tv prodotta da Apple che racconta le vicende di un gruppo di agenti scartati dall’MI5, e guidati da uno strepitoso Gary Oldman untissimo e carismatico. Mi ha coinvolto così tanto che mi sono letto subito anche i romanzi tradotti in italiano (per il momento sono tre, ma immagino che col tempo verranno tradotti tutti, circa una decina), e adesso sto cercando altri prodotti del genere.

Slow Horses (TV Series 2022– ) - IMDb

Lalo Schifrin invece ci andava giù pesante col cinema. Oltre a Mission: Impossible compose anche la colonna sonora della saga dell’Ispettore Callaghan e di quella di Amityville, due nomi che i lettori più giovani difficilmente conosceranno, visto che non hanno ancora ricevuto alcun rilancio. No, aspetta, di Amityville sì, ne esce praticamente uno all’anno, e hanno tutti in comune la stessa trama: famiglia si trasferisce nella casa infestata e muore; ogni nuovo film mantiene il nome della cittadina nel titolo, ma oramai sono come gli spaghetti western degli anni ’70, hanno raschiato il fondo e non sanno più cosa evocare per farci capire che stavolta la minaccia è seria, mica come le altre volte. Pare che i prossimi film della serie si intitoleranno Amityville giramento di palle, Amityville la vicina di casa che tiene il volume a stecca, e Amityville la bolletta del gas.

Schifrin avrebbe dovuto comporre anche la colonna sonora de L’Esorcista, ma quando fece ascoltare la composizione al regista del film, questo lanciò la cassetta dalla finestra e affidò il lavoro a Mike Oldfield.
La cassetta prese in faccia un giovanissimo Hans Delbruck, figlio di immigrati tedeschi, che la ascoltò e ne rimase talmente impressionato da imparare a suonare il pianoforte. Qualche anno dopo mise su un complesso con alcuni amici e incise alcuni brani su quella stessa cassetta, che aveva conservato appositamente a quello scopo, poi portò la cassetta all’ufficio di William Friedkin, che in quel periodo stava lavorando al film Sorcerer, lo aspettò fuori e quando lo vide avvicinarsi gliela tirò in faccia gridandogli che non si buttano i rifiuti dalla finestra.

Su Friedkin e le storie che girano intorno al suo film più famoso ci sarebbe da scrivere un episodio apposta, ma noi siamo qui per parlare di musica, quindi per ora fermiamoci a Lalo Schafrin, poi la prossima puntata vedremo.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music
Radio Tehran – Tamume chiza

Nella scorsa puntata abbiamo ascoltato un pezzo dei Radio Tehran, una band iraniana di cui non so niente, tranne quelle poche informazioni che forniscono le piattaforme di streaming: formati nel 2009, hanno pubblicato un disco, 88, e l’anno dopo si sono sciolti. Il cantante si chiama Ali Azimi e ha proseguito la sua carriera da solista, è ancora in giro e ha pubblicato altri album, perlopiù in lingua farsi, da cui il detto “farsi da solo”.

Poi magari invece è famosissimo, sono io che non approfondisco la conoscenza degli artisti di cui parlo e sto ignorando un fenomeno che tutta la critica musicale considera il nuovo dio della musica, la persona che sta rivoluzionando la cultura iraniana grazie alle sue canzoni, il manifesto politico di una generazione, nonché l’autore della colonna sonora del prossimo film di James Bond che avrà per protagonista un attore arabo, che non è l’Iran ma per i produttori di Hollywood sticazzi è un po’ tutta la stessa roba.
Se le cose stanno effettivamente così mi spiace, ma deve procurarsi un social media manager migliore.

Non avendo altro da raccontare sui Radio Tehran direi di passare subito al prossimo gruppo, tramite il collegamento “artisti che si chiamano come una città”. Avrei potuto sfruttare la parola “radio” nel nome e collegarmi al primo gruppo di Manu Chao, ma la pachanka è quel genere musicale che i primi trenta secondi ti fa venire una voglia pazzesca di ballare, e subito dopo di sparare al giradischi. Avrei potuto scegliere fra gli artisti che la parola l’hanno inserita nel titolo di una loro canzone, e così al volo mi vengono in mente i Queen, i Clash e Roger Waters.

Ho pensato invece di appoggiarmi alla città, perché mi offriva un’occasione troppo ghiotta per parlare dei Portishead.

Loro non so se li conoscete, ma sono sicuro che avete ascoltato almeno un paio dei loro pezzi più famosi:
Numb è la canzone in sottofondo a un vecchio spot della Nissan Primera (peraltro girato a Genova);
Glory Box faceva da colonna sonora alla pubblicità di un profumo con Sophie Marceau e a quella di un paio di jeans con un bambino che ha delle fantasie su una signora.

I Portishead negli anni ’90 sono stati un gruppo così importante da essere diventati leggendari con due soli album, prodotti con molta calma molto tempo fa. Per dare una misura della loro grandezza: quando pubblicarono il terzo album, Third, a distanza di undici anni dal precedente, la piattaforma di streaming che lo riproduceva registrò 327.000 ascolti nelle prime 24 ore; oggi sono numeri che probabilmente direbbero poco, Harry Styles con l’uscita di As it was (2022) ne ha totalizzati 8 milioni e 300mila il primo giorno, ma nel 2008 la musica in streaming era solo all’inizio (Spotify sarebbe nata pochi mesi dopo l’uscita di Third).

Diffusione della musica in streaming nel Regno Unito dal 2008 al 2016

Quella musica lì erano in pochi a praticarla, i pionieri erano stati quei mostri dei Massive Attack, cui prima o poi dovrò dedicare una puntata perché sono dei mostri, poi erano venuti i Morcheeba e i Portishead. In Italia ci avevano provato i Casino Royale con un album a cui sono affezionato per averli visti in tournée per la prima volta proprio in quell’anno. Qualcuno lo chiamava Bristol sound, per essere nato da quelle parti, tutti gli altri trip-hop. I Portishead non volevano essere etichettati in quel modo, e con Third avevano provato altri suoni; sono sempre stati degli outsiders, e non credo sia un caso se da quell’album sono passati ormai quindici anni; eppure nessuno si azzarda a dire che il gruppo si sia sciolto: ancora l’anno scorso si sono esibiti in un concerto benefico per l’Ucraina, e siamo ancora tutti qui ad aspettare l’annuncio di un disco nuovo, sicuri che prima o poi arriverà.

Io per primo mi sto facendo dei film sul Primavera Sound di Barcellona del 2024, di cui ho già il biglietto in tasca, e sogno di trovarmi sotto il palco durante un memorabile concerto reunion dei Portishead, o perlomeno se proprio tutto il gruppo non si potesse, della loro straordinaria vocalist, Beth Gibbons, una delle voci più strane, delicate e lunari che potete ascoltare in giro. Dopo i Portishead cercate Out of season, il suo disco solista: contiene meraviglie.

Ma Portishead è anche il nome di una città inglese, dicevamo. Si trova nel Somerset, a una quindicina di km da Bristol, tanto per dare un riferimento geografico a chi non conosce a memoria ogni cittadina britannica. Pare essere collegata alla band di cui sopra per essere stata la città dove si trasferì Geoff Barrow, il dj dei Portishead, quando i suoi genitori si separarono. È la classica città inglese che se la vai a visitare su google ha un cielo nuvoloso e le case basse e il porto che si affaccia sulle coste gallesi e quell’aria così tipicamente deprimente che la tua mano se ne va a cercare la boccetta degli psicofarmaci.
Ehi, quante vibrazioni positive in questa puntata!

Dal 1928 al 2000 la città ospitò la più grande e più trafficata stazione radio per comunicazioni ad alta frequenza (HF) al mondo, che credo significhi che c’erano queste grosse antenne che vedete nella foto, e permettevano all’Inghilterra di scambiarsi messaggi radio via mare con qualcuno che stava in Australia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la radio permise di comunicare con la flotta mercantile e con gli aerei che pattugliavano l’Atlantico, e la sua utilità ne garantì la sopravvivenza almeno fino all’avvento delle comunicazioni satellitari, dopodiché venne gradualmente smantellata. Oggi al suo posto sorgono dei quartieri residenziali.

I membri della band omonima l’hanno descritta “dreary”, triste, e non si può dire che abbiano esagerato: guardando un po’ sulla mappa si nota la scarsità di esercizi commerciali e luoghi di divertimento. Però c’è un bar che sfoggia dei bicchieri con scritto Portishead brewery, indispensabili per un fan che non vuole rinunciare ai suoi feticci. E immagina che figo invitare a casa gli amici e offrire loro una birra in un bicchiere stiloso, mentre la voce suadente e malinconica di Beth Gibbons si diffonde dagli altoparlanti, accompagnata dagli archi di un’orchestra. Nota buffa: il disco live con orchestra è accreditato alla New York Philarmonic Orchestra, ma nessuno dei suoi membri compare nel disco.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music

Nella scorsa puntata abbiamo parlato di Gary Numan, che ci è servito per introdurre il tema degli artisti che compongono brani per spot pubblicitari. Adesso potrei utilizzare questo gancio per collegarmi praticamente a chiunque, visto che solo fra i nomi più noti compaiono David Bowie che canta una canzone sull’acqua minerale, Sting su una Jaguar e perfino John Lydon si è imburrato il culo senza vergogna per venderlo più facilmente. Ma sarebbe troppo semplice, e le cose troppo semplici non sono divertenti, come finire il videogioco coi trucchi o vincere le elezioni promettendo l’impossibile, quindi ho cercato di rendere tutto un po’ più interessante.

Gary Numan ha tre figlie, Echo, Raven e Persian. Se volete triggerare la ministra Roccella potete fermarvi qui, vi ho fornito un ottimo argomento; per tutti gli altri ho una domanda: cos’hanno in comune queste tre parole, corvo, eco e persiana inteso come abitante della Persia e non come oscurante per la finestra?
Mi è venuto in mente Sandman, il fumetto di Neil Gaiman, che di sicuro le contiene tutte e tre, ma per trovare il momento esatto in cui appaiono insieme bisognerebbe leggersi tutti i ventimila volumi dell’opera, e ho ancora da finire Sniper Elite 5, non posso perdere tempo in futilità.

Il Neilgaimanometro segna alto

Ho deciso di lasciare perdere Echo, e ho scoperto una poesia di un poeta iraniano dedicata a un corvo.
La potete leggere tradotta in inglese qui. Poi magari me la spiegate, che io quando a scuola facevamo l’analisi delle poesie mi leggevo i fumetti sotto il banco perché non avevo tempo da perdere in futilità.

Lui si chiama Nima Yushij, o Yooshij, a seconda di chi lo traduce, ed è stato uno dei più importanti poeti iraniani. Di più, è quello che ha liberato la poesia persiana dalla rigidità della metrica, e l’ha arricchita di temi più attuali della coppia di innamorati che guardano la rosa sbocciare sotto la luna e si struggono di nostalgia. Ha “tolto la poesia dai rituali di corte e l’ha portata per strada”, si è scritto di lui. Era il 1922, non troppo tempo fa, e la sua figura è ancora molto presente nella cultura iraniana, tanto che esiste una band, e qui volevo andare a parare, che si è ispirata alla sua opera, e ha messo in musica un suo componimento.

Si chiamano Radio Tehran, e li potete ascoltare qui sotto.

Prima di salutarci volevo raccontarvi di quella volta che ho provato a usare una poesia per rimorchiare una ragazza ed è finita malissimo.

La premessa obbligatoria è che io e la poesia esistiamo nello stesso universo, ma il rapporto fra di noi non diventa mai più stretto di così. Ho studiato qualcosa a scuola, come tutti, ho apprezzato qualcosa dopo gli studi, come molti, ho un paio di autori che mi sono più simpatici di altri, ma se devo spiegarvi cosa sta dicendo Umberto Saba alla capra mi metto a ruminare con lo sguardo assente.

Possiedo qualche libro, comunque, perché almeno un paio di volte ci ho provato a esplorare quel mondo di frasi che vanno a capo prima del punto, e più o meno li ho letti fino in fondo.
Uno di questi è una raccolta di Edward Estlin Cummings, poeta che ho scoperto grazie a Woody Allen: in Hannah e le sue sorelle, Michael Caine riesce dopo lunghe insistenze a irretire Barbara Hershey con una sua poesia.
Ho pensato che se ha funzionato con un inglese, la cui natura non è certo incline agli slanci passionali, figurati con un italiano, e mi sono comprato il libro e mi sono studiato la poesia, così da poterla citare con disinvoltura quando si fosse presentata l’occasione.

L’occasione si è presentata a Londra, dove lavoravo come portiere di notte e addetto alle colazioni in un piccolo B&B di Paddington, negli ultimi mesi del secolo scorso.
La ragazza si chiamava Elizabeth, era una polacca dai capelli neri con due occhi azzurri che mi ricordavano il cane di un’altra ragazza di cui mi ero perdutamente innamorato, e quindi mi innamorai anche di lei per proprietà transitiva. Solo che il cane della ragazza di prima mi voleva molto bene, mentre lei non mi cagava di pezza. Faceva la cameriera ai piani dell’hotel, e ogni mattina, dopo avere terminato il mio lavoro, andavo a cercarla per i corridoi e le sussurravo rime di cui io stesso faticavo a comprendere il significato.
Lei mi guardava con occhi pieni di deisderio, e mi chiedeva di tornare in cucina e prepararle un tramezzino col cheddar e il bacon, e se per favore potevo metterci anche un uovo sodo.

Un giorno la convinsi a venire con me al parco. Speravo che lontano dall’ambiente di lavoro si sarebbe lasciata un po’ andare, e per mostrarle la mia bontà d’animo le dissi che avevo composto una poesia apposta per lei. Quella volta ero andato sul nostrano, dato che Cummings si era rivelato incomprensibile avevo tradotto in inglese una canzone di Ivano Fossati, e gliel’avevo letta.

Se le avessi letto la formazione dell’Arsenal forse avrebbe avuto una qualche reazione, ma neanche l’arrunchio italiano era riuscito a smuoverla, era un caso senza speranza. La riaccompagnai alla fermata della metro e me ne andai a cercare cd usati a Berwick Street, come al solito. Adesso però avevo dato un senso al verso di Cummings che dice “nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani”. Probabilmente non il senso che gli attribuiva l’autore, ma in quel momento rifletteva benissimo la mia delusione, e alla fine la poesia, come la pittura, credo che dovrebbe essere questo: un traduttore di emozioni. Che siano quelle che provava l’autore o altre non importa, se ci trovi qualcosa di utile ha funzionato.

Alla fine con Elizabeth non ci furono altri sviluppi, tornai dall’esperienza londinese solo com’ero partito, ma la collezione di cd era cresciuta parecchio, e oramai col proprietario di Reckless Records ci davamo del tu.
Che poi se parli in inglese è anche l’unica forma possibile.

(continua)

E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni

L’ultima volta che ci siamo visti abbiamo parlato dei Kassav’, e non sto a ripetervi chi sono stati perché se ascolto un altro pezzo di zouk finisce che mi iscrivo a un corso di danza caraibica. Avevo un amico che frequentava questi corsi, ogni volta che eravamo in giro, ovunque fossimo, se sentiva un ritmo familiare iniziava a sculettare e fare i passetti, ci faceva fare certe figure, le ragazze si allontanavano. Abbiamo dovuto smettere di portarcelo dietro perché la nostra vita sessuale si stava azzerando. Poi abbiamo scoperto che non era mica colpa sua se non rimorchiavamo, ma oramai era troppo tardi per riprendercelo, il bastardo si era sposato con una modella brasiliana conosciuta in un salsodromo.

Nel 1984, mentre nell’omonimo romanzo Winston e Julia consumavano la loro storia d’amore segreta in una stanza del Prolet, i Kassav’ pubblicavano il loro ottavo album Ayé. Non furono gli unici a pubblicare un album, sennò il 1984 ce lo ricorderemmo per la sua aridità musicale invece che per un romanzo distopico, e non furono gli unici a pubblicare l’ottavo disco, dato che nello stesso anno uscirono sia Note’n notes di Michel Petrucciani che Berserker di Gary Numan.

Se dovessi scrivere una puntata dedicata al pianista francese la chiuderei con Caravan, un brano di Duke Ellington che Petrucciani incise nell’unico album live che possiedo, così potrei raccontarvi che quando mettevo il suo disco in macchina nelle serate con gli amici ce n’era uno che mi chiedeva sempre di saltarla. Il fatto è che si era lasciato da poco con una ragazza, e proprio quel pezzo lo faceva soffrire, non so perché, cose loro, forse lo usavano come colonna sonora dei loro incontri sessuali. Forse vi interesserà sapere che anni dopo si sono rimessi insieme, poi si sono sposati e poi hanno anche divorziato, e spero che Caravan sia stato un brano fondamentale anche in quelle occasioni, così perlomeno adesso non chiederà ai suoi amici di saltare altri brani di altri dischi.

Invece vi parlo di Gary Numan, che si collega un po’ a quella vicenda anche lui, ma non vi posso spiegare perché, è troppo personale. Fidatevi.

Fidatevi è anche il titolo di un album dei Ministri, ma ho già detto che parlerò di Gary Numan.

Gary Numan probabilmente lo conoscete già se avete fra i 50 e i 60 anni e possedete tutti i dischi dei Depeche Mode, altrimenti potreste non averlo mai sentito nominare. È stato tuttavia un pilastro del synth pop, autore di uno dei suoi brani più conosciuti, Cars, con cui rubò la vetta delle classifiche dei singoli inglesi al più popolare cantante del Regno Unito, Sir Cliff Richard. Durò una sola settimana, e quella dopo anche lui dovette cedere il passo a dei cazzo di fenomeni che seppero dominare il decennio successivo e un po’ anche i successivi, ma dei Police casomai parliamo un’altra volta.

Cars è anche il suo unico pezzo ad avere avuto un certo successo oltreoceano, tanto che è finito anche nella colonna sonora di un videogioco Marvel, insieme ad altri brani dell’epoca.

E con questa informazione credo di avere esaurito quello che avevo da raccontarvi su Gary Numan. Anche su wikipedia non c’è molto, dice che dopo quei 15 minuti di celebrità si è spento come la candela del motorino e da allora spinge. Continua a buttar fuori dischi, ma il trionfo di allora non è più tornato. Un po’ come quando lei ti dice che vuole prendersi una pausa ma che non c’è bisogno che cancelliate la prenotazione della vacanza a Praga.

Però c’è una storia su Gary Numan che è fighissima, e riguarda le bibite gassate.

Nel 1982 la 7-Up, la bevanda che qui da noi è conosciuta come “la gazzosa in lattina che non è la Sprite”, contattò il nostro musicista per fargli comporre tre jingle da utilizzare in altrettanti spot pubblicitari. La cifra pattuita fu di 10.000 sterline, e il testo ce l’avrebbero messo loro. Numan si mise al lavoro e compose una roba molto orecchiabile, di quelle che ti rimangono in testa, ma non riuscì a convincere i suoi committenti.

La cosa assurda fu che loro quella musica non la ascoltarono neanche, perché il giorno dell’incontro negli Stati Uniti l’artista non si fece vedere. I dirigenti della 7-Up se la presero tantissimo e decisero che non avrebbero più lavorato con Numan in futuro, guarda te sto stronzo chi si crede di essere.

Numan, dal canto suo, ci aveva anche provato ad arrivare in tempo all’appuntamento, ma il suo aereo era rimasto senza carburante e dovette effettuare un atterraggio di emergenza prima di lasciare l’Europa.

Poi uno dice vabbè, gli è caduto l’aeroplano, rimandi l’incontro, la prodduzione slitta di una settimana e va tutto a posto, che ci vuole? Oggi basterebbe un messaggio di whatsapp, “Buongiorno, scusate ma non potrò essere presente all’appuntamento di domani perché sono precipitato su un’isola deserta e adesso devo schiacciare in sequenza una serie di tasti altrimenti il fumo nero distruggerà il mondo”, ma allora le cose erano molto più complicate, i produttori di bevande gassate erano parecchio permalosi e per una cazzata come rischiare di morire ti toglievano anche il saluto.

Per esempio mi ricordo di una nota azienda che nei primi anni 2000 era finita sotto processo perché alcuni suoi operai che lavoravano in filiali sudamericane erano stati uccisi dopo avere chiesto salari più umani. Non dico che li avesse uccisi lei, la nota azienda, anche perché alla fine era stata assolta, però a quei tempi si sentivano spesso queste storie di sindacalisti spariti, operai picchiati alle manifestazioni, studenti caricati dalla polizia, e c’era stato un momento in cui l’indignazione per questi abusi aveva cominciato a incanalarsi in un movimento uniforme; in molte città nascevano comitati che raccoglievano studenti e lavoratori che avevano in comune il fatto di essere incazzati. Non c’era incontro fra capi di stato che non vedesse un suo doppio popolare a manifestare poco distante, c’era tensione e stava crescendo. Poi c’è stato l’11 settembre e il mondo ha svoltato in un’altra direzione, e di queste tensioni non si è saputo più niente.

Certo, anche oggi ci sono persone che si riuniscono per protestare, ma è tutto più scollegato, l’opinione pubblica non li segue, e in genere chi ha il potere non si sente granché minacciato da chi quel potere lo subisce, e fa un po’ il cazzo che gli pare senza più doverne rendere conto. Le bibite gassate hanno ancora il potere di fare e disfare, e possono aumentare il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera per avere la materia prima a basso costo da infilare nelle bollicine, e ancora oggi decidono se a capo del più grande impero moderno ci starà Ratzinger o Francesco (questa mi hanno detto di scriverla così, non la capisco neanch’io), ma sopra di loro oggi ci sono poteri più forti, venuti fuori dopo il 2001 e di cui anche i più attenti fra di noi, tipo i cazzo di nazisti simpatici sciroccati di Byoblu, sono del tutto ignari. Oggi perfino i grandi leader mondiali delle bibite gassate sono costretti a piegare la testa di fronte a giganti più grossi di loro, e se non sapete di chi sto parlando mettetevi seduti perché sto per fare un nome grosso e del tutto inaspettato.

Le macchinette distributrici. Sono loro le vere depositarie del potere occulto, coloro che oggi hanno in mano il destino del mondo, e da dietro il loro accogliente vetro ci osservano e imparano e decidono. Sono in tutti gli edifici dove si amministra il potere, hanno contatti quotidiani con tutti i principali leader mondiali, ma di più, danno letteralmente loro da mangiare. E sono sempre loro a decidere l’umore di chi comanda, e a influenzare così le loro decisioni; sono sempre loro, infatti, a decidere se la lattina te la vogliono erogare o magari te la incastrano a metà del binario, e per quel giorno ti devi accontentare della barretta ai cereali. Per noi potrebbe esseere un inconveniente da poco, ma immagina se proprio quel giorno devi presiedere a un incontro con un altro capo di stato con cui sei ai ferri corti per questioni noiose e complesse come il passaggio di un tubo che porta olio raffinato indispensabile per il sostentamento di un’etnia minoritaria che ti sta pure sul cazzo perché ha inventato il tormentone estivo con cui tua figlia ti ha ammorbato i timpani per tutte le ferie, e invece di presentarti con la bocca rinfrescata dalle bolle zuccherose di una bevanda lievemente aromatizzata al limone ci vai con la bocca asciutta e impastata di crusca, una sete che ti berresti l’Adda e le balle girate, e quello che poteva essere il primo importante cenno di distensione su una situazione che sta tenendo il mondo in apprensione si rivela l’ulteriore passo verso una crisi che potrebbe avere conseguenze drammatiche per milioni di persone.

E non è che la risolvi chiamando il servizio clienti e chiedendo un rimborso, perché se ci provi ti risponde una segreteria che ti chiede di scegliere in un labirinto di risposte multiple col chiaro intento di farti rinunciare, e anche nella rara ipotesi in cui riuscissi a mantenere la rotta e farti passare un operatore finiresti nelle mani ostili di Adelina dall’Ungheria, che ti legge delle risposte standard dal manuale che ha in dotazione e di cui ignora il significato, e quando riattacchi sei più insoddisfatto di prima e nutri un odio viscerale verso i curdi.

Che poi, riattacchi, anche lì ci sarebbe da dire. Una volta, coi telefoni a cornetta si diceva riagganci, o riattacchi, perché per interrompere il collegamento dovevi riappendere la cornetta dentro a cui parlavi all’apposito sostegno, ma oggi cosa riattacchi, al limite schiacci, sfreghi, scrolli, e dato che il cellulare ti permette di fare un sacco di altre cose questi verbi non sono più legati esclusivamente a chiudere una conversazione, puoi in effetti schiacciare e sfregare per ogni possibile utilizzo dell’apparecchio. Ci serve un verbo apposta per quando chiudi la conversazione, bisognerebbe parlarne a Gary Numan, che magari ci scrive una canzone apposta, diventa una hit internazionale e ottiene finalmente quel riscatto che gli manca dai tempi della 7Up, e questo lancia un segnale occulto ai grandi vecchi che governano il mondo, che si rendono conto che da questa parte qualcuno ha capito come stanno le cose e sta cominciando una controffensiva, e magari anche i distributori di lattine rimettono la testa a posto e perlomeno sostituiscono Adelina con qualcuno che capisce cosa cazzo gli stai dicendo.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit

Avevo chiuso la scorsa puntata promettendovi che di qui in avanti la mia rubrica di musica giramondo si sarebbe dedicata solo al mio grande e perduto amore Bjork, tanto oramai le visite al Pablog si sono attestate sulle tre alla settimana, non rischio certo un’emorragia di lettori. Solo che per scegliere quali canzoni proporre avrei dovuto ascoltare un sacco di roba di Bjork, e a casa quando metto Bjork troppo a lungo rischio il divorzio, quindi la scelta è diventata fra la mia arte e il mio matrimonio, quindi fra scrivere roba mediamente divertente a scrivere roba nera e incazzata. È per questo che oggi parlerò di un’altra band, collegata agli Sugarcubes per avere partecipato entrambi al Roskilde Festival, in Danimarca, nel 1988.

Del Roskilde Festival devo dire qualcosa. Intanto che è considerato il più vecchio festival musicale europeo: dal 1971 ha offerto un palco a una straordinaria lista di musicisti, dai nomi che conosci solo se sei un grande appassionato di jazz scandinavo fino a quelli che spaccano le classifiche ogni volta che fanno uscire un singolo. Per dire, l’edizione del 2022 ha visto sfilare Robert Plant e Alison Krauss, ma anche Dua Lipa e i Fontaines D.C., attirando nella fangazza in cui è solito sguazzare il pubblico sia i trentenni sia i sessantenni.
E poi devo dire che ci sono i nudisti. Lungo il perimetro dell’area campeggio si corre ogni anno la Roskilde Naked Run, una maratona che, come dice il titolo, punta più sull’aerodinamicità dei concorrenti che sulla loro preparazione atletica, si corre tutti nudi, giovani, anziani, sporchi di fango e non. Io credevo che in Danimarca facesse freddino d’estate, ma evidentemente mi sbagliavo.

L’edizione del 1988 vide esibirsi, fra i nomi più popolari, i Toto, Leonard Cohen, Sting e i Pogues. Al festival però, non alla maratona dei nudisti, ed è un peccato, perché esiste uno studio che dimostra come le orecchie di Shane Macgowan quando corre producano un suono che si avvicina molto al frullare di ali del dodo, un uccellone ormai estinto. C’era anche Ali Farka Touré, a cui ero tentato di dedicare questa puntata, ma alla fine ho deciso di buttarmi su suoni più caraibici, per cui oggi vi parlerò dei Kassav’.

Shane MacGowan of The Pogues, 1980s | The pogues, Irish punk, Irish music
Non una delle foto migliori di Shane Macgowan, oppure sì

C’è un apostrofo dopo la v, ma non è un errore di battitura. La band prende il nome dalla cassava, la pianta che noi conosciamo come manioca, e più precisamente da un piatto tipico delle Antille, l’area dell’America Centrale che comprende Cuba, la Giamaica, Haiti e parecchie isole minori. Nel 1979 sull’isola di Guadalupa, azzarderei intorno a mezzogiorno, è nata la band Kassav’, formata dal bassista Pierre-Edouard Décimus e dal cantante e chitarrista Jacob Desvarieux, un personaggio cresciuto fra la Francia, il Senegal e Guadalupa, dove si è caricato di ritmi che poi ha dovuto convogliare da qualche parte sennò non riusciva a tenere i piedi fermi e la gente lo trovava oltremodo molesto. A Parigi suonava l’heavy metal, e quando i due artisti si incontrarono, e Décimus chiese a Desvarieux se voleva aiutarlo a mettere su una band, quest’ultimo pensò che si trattasse di un altro progetto di roba che picchia, e accettò con gioia.

La prima volta che si ritrovarono in sala prove, Desvarieux arrivò con la maglietta degli Scorpions, perché nel ’79 gli Iron Maiden avevano pubblicato solo un EP, e anche Eddie, lo zombi protagonista di tutte le loro copertine, sarebbe arrivato solo l’anno seguente. Décimus, che veniva da un mondo jazz, funk e sale da ballo, si presentò con un abito bianco, papillon nero e gilet dorato. I due si guardarono e si domandarono entrambi se per caso non stessero facendo una cazzata.

Non la stavano facendo: quell’incontro li portò a creare un nuovo genere musicale, lo zouk, un mischione di diversi ritmi locali, che in breve ottenne un successo pazzesco fra gli espatriati creoli in Europa, e non li fece diventare una band popolare, di più, li trasformò in un simbolo identitario. Se eri creolo e vivevi fuori dal tuo paese ascoltavi lo zouk, e se ascoltavi lo zouk ascoltavi i Kassav’.

Successe un po’ la stessa cosa negli Stati Uniti fra gli immigrati italiani: ai matrimoni napoletani suonavano la tarantella, e a quelli lombardi oh quant’è bella l’uva fogarina, e dopo un po’ ai matrimoni lombardi non ci andava più nessuno perché ci si rompeva il cazzo, si ritrovavano gli sposi coi loro parenti in questi saloni vuoti, e intanto nel palazzo di fronte era tutta una festa, casino, gente che gridava, petardi. Era di un triste che le coppie lombarde smisero di sposarsi fra di loro, e iniziarono a cercarsi i coniugi fra le famiglie del meridione per potersi imbucare alle loro feste. Fu proprio dall’unione delle tradizioni lombarde con quelle napoletane che, fra le altre cose, nacque la pizza col gorgonzola.

Nel 1983 i Kassav’ pubblicarono il singolo Zouk La Se Sel Medikamen Non Ni (Zouk è la sola medicina che abbiamo), fu il primo disco antillano a vendere 100.000 copie, impresa resa ancora più memorabile dal fatto che allora non esistevano i no-vax ad appropriarsi del brano per una delle loro assurde campagne.

Con gli anni produssero più di 50 album, e nel 2019 celebrarono il loro quarantesimo compleanno.
Oggi Pierre-Edouard Décimus è ancora in giro e continua a produrre musica, mentre il suo compagno Jacob Desvarieux se l’è portato via il covid l’anno scorso, celebrato da tutto il mondo musicale come uno dei grandi.

Personalmente ho un rapporto conflittuale con la musica da ballo, vorrei muovermi a tempo e somigliare a una sinuosa baiadera, emettere energia come una lampadina e ispirare le persone intorno a me ad alzarsi dalle loro sedie e abbandonarsi al ritmo, fino a generare tutti insieme un unico grande organismo gioioso che farà finire tutte le guerre e porterà il genere umano verso una nuova era fatta di amore e rispetto, ma quando comincio a muovermi qualcuno pensa che abbia le convulsioni o un attacco cardiaco e chiama aiuto, poi scoprono che stavo solo ballando e mi accusano di avere creato un falso allarme e qualcuno mi mena pure.

Anni fa andavo a ballare in un locale genovese che si chiamava Milk Club e faceva girare solo pezzi rock e pop, una roba divertentissima. Eravamo sempre io, il Dottor Hardla e Panzon, che sono altri due bloggers di cui potreste aver sentito parlare, dato che ogni tanto vengono invitati in televisione a parlare della loro prostata.
Ci andavamo perché eravamo tutti e tre singles, e in quel posto bazzicavano parecchie studentesse universitarie, e sognavamo di finire la serata avvinghiati a qualche poetessa venticinquenne fuoricorso tedesca in cerca di emozioni. In realtà ci sarebbe andata bene anche una cassiera di supermercato bresciana annoiata dalla vita, ma se devi sognare tanto vale sognare in grande.

Arrivavamo al locale sul tardi, dopo una serata di vizi come i veri bohemiens, scotch e sigaro e seghe mentali, e quando prendevamo possesso della pista la gente si scostava per lasciarci passare. Perché Panzon era alto uno e ottanta, era grosso e pesante e a quell’ora la sua postura era già pesantemente minata da tutto l’Oban che si era trangugiato, e beccheggiava come una portacontainer in mezzo alla bufera. Avevamo i nostri pezzi preferiti, che cantavamo forte credendoci di più, e per qualche strana associazione mentale ci eravamo convinti che il modo migliore per esprimere la carica sessuale di cui eravamo colmi fosse roteare sul posto come dei dervisci fuori forma. Inutile dire che né poetesse tedesche né cassiere bresciane furono mai irretite dal nostro fascino, piuttosto quando arrivavamo noi il dj capiva che la serata era finita, metteva gli ultimi pezzi e ci mandava a dormire.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause

Nel 2015, durante uno di quei momenti di creatività e autostima che solo le droghe sanno procurare, Wacka Flocka Flame decise di candidarsi alle elezioni presidenziali dell’anno successivo, quelle che Trump vinse contro Hillary Clinton. I candidati sono spesso più dei due principali, almeno all’inizio; poi le spese esorbitanti della campagna elettorale, l’evidente svantaggio nei confronti degli avversari più forti, magari la rivelazione che si era trattato più di una boutade che di una candidatura vera e propria, e si comincia a scremare. Qualcuno sparisce, qualcuno offre pubblicamente il proprio appoggio a uno dei superstiti, Jennifer Lawrence uccide il presidente in carica con una freccia, i seguaci di Qanon dicono che è tutta una truffa e che la colpa è di Hillary Clinton, quell’altro rifiuta di ammettere la sconfitta. Le elezioni americane sono sempre qualcosa di molto interessante da vedere, ben oltre il semplice risultato finale. La candidatura di Wacka Flocka Flame era stata un’idea di Rolling Stone per vendere qualche copia in più della rivista, anche perché, per candidarsi a Presidente, bisogna avere 35 anni e il candidato ne aveva solo 29; ma a pensarci oggi non sembra più un’idea così balzana: neanche un Presidente degli Stati Uniti imbottito di cannabinoidi avrebbe fatto più danni di quello attuale, e di sicuro i G8 sarebbero stati molto più divertenti da seguire.

“Yo, regina d’Inghilterra, che cappello figo! Hey mangiarane! Ciao spaghetto, mi hai portato la roba?”

A guardare l’intervista che rilasciò allora non sembra così tanto più assurda di una qualunque rilasciata dall’attuale presidente in carica. Senza contare che alla fine del mandato avrebbe fatto molte meno storie e si sarebbe limitato ad alzare le spalle e accendersi un’altra torcia.
Quanto ai suoi sostenitori, non saprei dire se saprebbero rendersi meno ridicoli dei Trump Boys quando straparlano di complotti segreti e schede elettorali irradiate di isotopi di plutonio, ma se non altro avrebbero una buona giustificazione delle loro paranoie.

Quindi il gancio di oggi sono i musicisti impegnati politicamente?
Quindi il gancio di oggi sono i musicisti impegnati politicamente.

Attenzione però, non mi sto riferendo a quei cantanti che hanno scritto un pezzo che parla di argomenti di attualità, perché sarebbe troppo vago, e non voglio neanche sceglierne uno che abbia sostenuto questo o quel politico sulla propria pagina social, perché l’hanno fatto praticamente tutti.

Vorrei parlare, invece, dei musicisti che hanno tentato una carriera politica, che ce ne sono meno e i collegamenti che vengono fuori sono più interessanti.

Il primo nome che mi viene in mente è Kanye West, che ha corso alle ultime elezioni negli Stati Uniti come indipendente e ha preso 66mila voti. Considerate che Biden ne ha raccolti quasi 81 milioni e Trump poco più di 74. Se siete di quelli convinti che sia tutto un complotto e che invece abbia vinto Trump vi offro un paragone italiano prima che mi tempestiate di commenti: alle ultime elezioni politiche del 2018, il partito Unione Sudamericana Emigrati Italiani, che vota nelle liste estere e ha la sede in Argentina, ha raccolto più preferenze di Kanye West, circa 68mila.
Lui ha detto che ci riproverà nel 2024, gli emigrati italiani votano ogni volta, e magari su questa faccenda di dare il voto a gente che vive dall’altra parte del mondo e neanche parla italiano ci torniamo, ma non oggi perché c’è da parlare di Mick Jagger.

Mick Jagger non ci ha davvero provato. A fare il politico, dico. Tuttavia nel 1967 venne contattato da un membro laburista del parlamento britannico, Tom Driberg, a cui andrebbe dedicato tutto un capitolo a parte. Apertamente omosessuale in un periodo in cui era considerato un reato, Tom Driberg fu un giornalista, fece parte del partito comunista inglese finché non venne cacciato per aver preso posizioni contrarie alla linea, fu un membro del parlamento e quando andò in pensione ottenne un titolo nobiliare e diventò barone. Strinse amicizia col controverso occultista Aleister Crowley e con i gemelli Kray, due criminali londinesi la cui vita è stata raccontata in un film con Tom Hardy. Dopo la sua morte uscirono alcuni libri in cui veniva sospettato di essere stato una spia del servizio segreto britannico, o di quello sovietico, o di entrambi. E ad un certo punto chiese a Mick Jagger se voleva entrare nei laburisti, e si sentì rispondere “grazie, ma le mie simpatie sono più anarchiche”.

L’unica ragione per cui Mick Jagger dopo questa foto non è finito al centro delle teorie cospirazioniste legate a Clinton è che ce ne sono già troppe che lo legano al diavolo e diventa troppo complicato

Uno che invece diventò sindaco di Palm Springs fu Sonny Bono, l’ex marito di Cher, che assunse la carica nel 1988, e in seguito divenne senatore repubblicano dal 1994 al 1998. Magari avrebbe continuato, ma quell’anno morì piantandosi con gli sci in un albero, come un qualunque cattivo di 007. Durante la sua carriera di sindaco istituì il Palm Springs International Film Festival, ma la sua più grande impresa politica fu di avere legato il proprio nome alla legge sul diritto d’autore, di cui fu un accanito sostenitore. Essendo morto prima che questa venisse alla luce, in suo onore venne chiamata Sonny Bono Act. È una legge che prolunga i diritti sulla proprietà intellettuale dell’opera fino a 95 anni dalla morte dell’autore. Sonny Bono da solo forse non sarebbe riuscito a far passare la legge, ma dalla sua si schierò anche un’azienda molto importante, la Walt Disney Company, che proprio in quegli anni stava rischiando di perdere i diritti sul suo topo più celebre, e infatti la legge è anche ricordata come Mickey Mouse Protection Act.

Tecnicamente i diritti su Topolino scadranno alla fine del 2023, ma stiamo calcolando il tempo trascorso dalla sua prima apparizione, il cortometraggio Steamboat Willy, del 1928; e siccome la Disney continuerà a detenere i diritti per le opere successive scordatevi di poter mettere le orecchie più famose del mondo al logo della vostra azienda. Però potete usare Rapsodia in Blu di Gershwin, di cui sono scaduti i diritti quest’anno, oppure aspettare l’anno prossimo per girare la vostra versione del Grande Gatsby senza Leonardo Di Caprio.

Gilberto Gil è stato Ministro della Cultura in Brasile sotto il governo Lula, Youssou N’Dour Ministro del Turismo in Senegal, Peter Garrett, cantante dei Midnight Oil, è stato Ministro dell’Ambiente prima e dell’Istruzione poi nel governo australiano.

E se parliamo di musicisti che sono stati anche politici non possiamo non parlare di una che ha coperto entrambi i ruoli pur provenendo da un ambiente completamente diverso: Ilona Staller, il cui nome magari non dirà granché ai miei lettori più giovani, anche perché non ne ho, ma farà arrossire le orecchie di diversi miei coetanei.

Cicciolina, come si faceva chiamare sul posto di lavoro, è stata insieme a Moana Pozzi la protagonista indiscussa dell’industria pornografica italiana degli anni ’80. Insieme hanno fatto tremare i sedili di centinaia di piccole sale cinematografiche italiane, quelle che sui giornali pubblicavano la loro programmazione in una colonna a parte, e hanno reso il loro pavimento più appiccicoso. Eww!

Cicciolina ebbe anche una carriera musicale. Nel 1979 uscì un suo album per l’etichetta RCA, dal titolo Ilona Staller, che contiene un pezzo firmato da Morricone, una cover di Save The Last Dance For Me dei Drifters tradotta in italiano da Mogol e altra roba abbastanza morigerata.
È con l’inizio della carriera di pornostar che la sua produzione musicale svacca, e nel secondo album, Muscolo Rosso, raggiunge l’apice, o il fondo, a seconda del lato da cui si guarda. Sono le canzoni con cui si esibisce sui palchi, e i testi sono caratterizzati da metafore sulla seduzione così raffinate che se al posto dei termini anatomici ci mettete “clandestini” viene fuori un discorso della Meloni.

Nel 1987, eletta alla Camera dei Deputati nelle file del Partito Radicale, divenne la prima pornostar al mondo a coprire un ruolo parlamentare. In quegli anni la politica italiana diventò così popolare che riferimenti a Cicciolina si trovarono per anni nei dialoghi di film e fumetti (compare perfino in una storia pubblicata su Topolino, nel 1988). Ancora quest’anno una cantante finlandese si è candidata all’Eurovision Song Contest con la canzone Cicciolina, ispirata a una figura così all’avanguardia in quell’Italia conservatrice e bigotta. Per eguagliare simili vette di popolarità si sarebbe dovuto aspettare la nipote di Mubarak.

Da “Paperino Portaborse”, 1988

Avevo pensato di chiudere qui la puntata di oggi, postando il video di Muscolo Rosso o di qualche altra nefandezza musicale. Mi sarei potuto collegare alla Finlandia, che non ho ancora visitato in questo viaggio (e neanche di persona, ma è solo perché non so dire “Tai vuoksein itkis koko Argentiina, Jos on elänyt kuin Cicciiolina”), ma non ho saputo resistere a un mio grande amore, e quindi chiuderò la puntata parlando di un musicista diventato politico di cui non so niente, tranne che per un periodo è stato un membro dei Sugarcubes, la band islandese che ha lanciato Bjork.

Einar Örn Benediktsson è stato il primo punk islandese, e non c’è motivo di dubitarne: in un posto pieno di ghiaccio, sassi e vulcani dove è più probabile incontrare pecore che persone (nel 2019 le persone erano 350.000, circa 3 per km², e le pecore 415.000, tutte concentrate in un bar fuori Reykjavík), a chi verrebbe in mente di scrivere canzoni arrabbiate contro il sistema? Senza contare la lingua, così poco musicale.

Per darvi un’idea della difficoltà di essere un punk in Islanda ho recuperato il testo di una canzone che Einar Örn scrisse sul retro di un tovagliolo in una sera di neve, in un bar fuori Reykjavik.
Il titolo è Anarchik in Reykjavik:

Nei primi anni 80 fondò un gruppo punk che si chiamava Purrkur Pillnikk, composto da lui e tre suoi amici, praticamente gli abitanti di una parte di Islanda grande come il Principato di Monaco, ma non funzionò a lungo perché la sala prove stava dall’altra parte dell’isola e lui era l’unico col motorino.

Non fu un’esperienza del tutto negativa, comunque, dato che da quel gruppo nacque in seguito una delle band che divennero più famose fuori dall’Islanda, i Sycurmolarnir.
Eh?
Noi li conosciamo come Sugarcubes, e li conosciamo più che altro perché dopo lo scioglimento della band cominciammo a comprarci i dischi da solista della sua cantante, o perlomeno cominciai a comprarmeli io, che della suddetta cantante mi ero perdutamente innamorato anche se lei non mi cagava e mi considerava solo un amico, che per un po’ va bene, ma poi però basta, e infatti ho anche smesso di andare alle sue feste di compleanno, come ho raccontato tanto tempo fa sul vecchio Pablog.

E basta, della scena punk islandese non mi va di raccontare altro, vi saluto con un brano degli Sugarcubes a cui potrò comodamente agganciare una canzone di Bjork per il prossimo episodio, e da lì ad altre canzoni di Bjork per tutti gli episodi successivi.

Alla prossima! Ég elska bobbingar þinn!

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness

E siamo di nuovo qua, a osservare perplessi il futuro, chiedendoci se ci ammazzerà prima il cambiamento climatico, un virus o i coglioni convinti che i termometri frontali ci rubano l’anima.
Sono ovunque, e non si capisce da dove siano saltati fuori. Ochei, quelli convinti che ogni problema si possa risolvere in un attimo basta averne voglia e se nessuno l’ha mai fatto prima era solo perché mancava la volontà, ci sono sempre stati, e solo negli ultimi anni si sono riuniti in un partito politico capace pure di esprimere una maggioranza di governo, ma quelli di oggi sono anche peggio. Oggi parliamo di gente che non vuole vaccinarsi e odia le democrazie in quanto dittature segrete, ma sostiene un dittatore palese quando dichiara di avere trovato un vaccino per il coronavirus; che crede che i Potenti del mondo abbiano ordito un piano per sostituire gli abitanti dei Paesi occidentali con immigrati del Terzo Mondo; che riesce a dichiarare che il Covid-19 non esiste, è stato creato in laboratorio e l’hanno portato gli immigrati, tutto nella stessa frase e senza trovarci alcuna contraddizione; e che i cretini siamo noi che ci beviamo tutte le cazzate che ci raccontano gli scienziati, pagati ovviamente da qualche filantropo malvagio. Oggi questi geni si sono raccolti sotto una grossa lettera Q, che sta per Q-Anon, un’organizzazione di estrema destra nata negli Stati Uniti per sostenere Trump e che sta cominciando a raccogliere proseliti anche da noi. Sui social li riconosci facilmente, il loro nickname è quasi sempre accompagnato da tre stelle. Non so perché tre stelle, forse per distinguersi da quelli che ne hanno cinque e credono che Di Maio sia un politico e Toninelli una persona intelligente. Secondo logica quelli con una stella sola dovrebbero essere degli adulti in ciabatte vestiti da sceriffo che fanno pew pew col dito alle infermiere, ma voglio sperare che ci estingueremo prima di vederli fondare un partito.
Non so perché non abbiano scelto Q-Anal, mi sembra molto più appropriato ai contenuti.

Vabbè, parliamo un po’ di musica, sennò attacco a scrivere uno di quei post amari e incazzati, e già l’ultimo parlava di calcio, andiamo leggeri.

Moby, l’ultimo artista passato da queste parti, si chiama in realtà Richard Melville Hall, e sostiene di essere il trisnipote di Herman Melville, uno degli scrittori romantici più famosi, e di certo quello che meglio di tutti ci ha fatto appassionare alla vita dei balenieri.

Moby, Mr.Robot, i complottisti: è tutto collegato!

La biografia del musicista è piena di tragedie come quella di Oliver Twist, che però era di Dickens, i cui romanzi erano altrettanto avventurosi, ma permeati da un costante senso di sfiga cosmica che te li faceva mollare a metà per andarti a leggere Moby Dick.

Dopo la morte del padre quando aveva solo tre anni, Moby trascorse un’infanzia difficile fra abusi sessuali, povertà, ricoveri di pancabbestia e traslochi frequenti. Quando succedeva una roba così a un giovanotto dell’800, l’opzione di imbarcarsi su una baleniera veniva spesso vagliata con interesse. Moby invece fondò un gruppo hardcore punk, i Vatican Commandos, di cui facevano parte altri tizi che dopo lo scioglimento non hanno ottenuto il suo stesso successo. Però la copertina del loro primo EP gliela disegnò Rob Zombie, divenuto in seguito uno degli artisti più interessanti degli anni ’90-00; in pochi anni è stato capace di lasciare il segno sia sulla scena musicale coi suoi White Zombie e con diverse collaborazioni eccellenti, sia su quella cinematografica, dirigendo due film disturbanti che mi rifiuto di guardare una seconda volta.

Mentre fondava la sua punk band, Moby si rese conto che la sua strada era la musica elettronica, e questo sconcertò parecchio i suoi compagni, tanto che dopo appena un paio d’anni se ne andarono ognuno per la propria strada.
Libero da costrizioni, il talentuoso artista intraprese una carriera da dj, e per un periodo della sua vita visse in un capannone senza acqua corrente né bagno, dove iniziò a farsi la musica da solo. Era conosciuto nell’ambiente come “il dj che non si lava”, e le offerte di lavoro scarseggiavano, ma per fortuna la sua vena artistica era più marcata dell’odore delle sue ascelle, e presto trovò una casa discografica disposta a produrgli un cidi. Da lì in avanti è la solita storia, un po’ collaborazioni, qualche singolo, poi un album che spacca e lo fa conoscere in tutto il mondo, poi un lento declino fino a vivere una vita di pacifico miliardario pubblicando album che non entreranno mai più in classifica e tirandosi le storie con le attrici di Hollywood di cui tutti cercano foto nude. Le solite cose, insomma.

In tutto questo, Moby ha mantenuto quell’aria ascetica che piace tanto alle ragazze, ha pubblicato dei libri, fa meditazione, e si è tatuato sul collo la frase “vegan for life”. Perché Moby è uno di quegli artisti che hanno abbracciato il veganesimo e ne vanno così fieri da raccontarlo a tutti. Tipo quella vostra amica che avete bloccato su facebook perché tutti i giorni postava foto di maiali torturati.

Moby non è a quei livelli, perlomeno non posta foto di animali a pezzi sui social, e non scrive canzoni che ti accusano di essere un assassino se mangi una bistecca, ma il tatuaggio lo inserisce di diritto nella categoria dei cagacazzi etici. Ochei, avete ragione, si può vivere mangiando solo verdura e se lo facessimo staremmo tutti meglio, ma se ce lo ripetete tutti i giorni ci fate solo venire voglia di entrare in un pollaio con una motosega.

Sono tutti amici dei gatti finché non gli pisciano sul letto

Diversi artisti hanno dichiarato di essersi convertiti a una dieta priva di animali, e ci sono un sacco di articoli che inanellano nomi importanti, accompagnati da dichiarazioni piene di amore per il regno animale, ma nessuno di loro mi ha convinto abbastanza da renderlo il collegamento per la prossima puntata.

Ho deciso invece di servirmi di un’altra lista, che ho trovato su Insider: 8 celebrità che hanno smesso di essere vegane.
Fra chi dichiara di essersi preso solo una pausa per ragioni mediche, e chi sostiene la causa dal di fuori, ce n’è uno che credo meriti una menzione particolare.

Si chiama Wacka Flocka Flame, e già il nome è una buona ragione per conoscerlo meglio. Nel 2017, in un’intervista sponsorizzata dalla PETA, l’associazione per la protezione degli animali, dichiarò la sua adesione al veganesimo perché era intenzionato a perdere peso e mangiare più sano, ma dopo appena un anno si è reso conto che in quella definizione rientrano un sacco di esaltati, e ha deciso di tornare sui suoi passi perché i vegani “spaventano la gente, sono come fottuti poliziotti. Quando i vegani sono in giro, la gente cerca di nascondere il proprio cibo sotto il tavolo, tipo ommioddio i vegani!”.

Adesso si definisce pescatariano, un vegetariano che mangia pesce. No, seriamente, esistono anche questi.

Adesso scusate, devo prepararmi, perché è quasi ora di cena, e stasera ho deciso di essere ristorantemessicaniano, ma se non prenoto prima non trovo un tavolo e mi tocca ripiegare un’altra volta sul kebabbesimo.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:
Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark

I No sono una band misteriosa. Hanno un sito che non sembra funzionare granché, e una pagina facebook piuttosto laconica, in cui troviamo i nomi dei musicisti, e scopriamo che tre su quattro portano lo stesso cognome. Se avessimo tempo da perdere potremmo anche approfondire, e separare questi No da altri No venuti prima o contemporanei, e dai No che hanno cambiato nome in Black English, però no, non ce l’abbiamo il tempo di fare ricerche più approfondite, che la quarantena è finita e bisogna tornare a produrre.

Voi, intendo, che io continuerò a stare a casa a scrivere sul blog, avendo sottoscritto un contratto miliardario con l’INPS che mi versa petroldollari sul conto corrente e in cambio non mi chiede neanche di lavorare.
Finché dura, poi immagino che smetterò di scrivere e mi presenterò sotto il cavalcavia a vendere ai camionisti la mia intimità posteriore.

Perciò, senza perdere tempo in ricerche vane su internet, tipo a quanto vanno oggi le intimità posteriori di maschi adulti europei, passiamo velocemente al prossimo aggancio.

La canzone che vi ho proposto la volta scorsa si intitola Meet Me After Dark, ed è questo titolo che ci porterà al prossimo artista, attraverso il passaggio più assurdo utilizzato finora.

Perché Meet Me After Dark è anche il nome di un cavallo da corsa, nato nel 1985 da una coppia che vanta, fra i propri antenati, anche Seabiscuit, il cavallo da cui vennero tratti diversi film che mi sono guardato bene dal guardare, che i film con animali e persone finiscono sempre male, oppure no ma ci recita Shirley Temple.

Il quadrisnonno

Non so perché i cavalli da corsa vengano battezzati con questi nomi assurdi, forse perché sennò tutti li chiamerebbero Furia Cavallo Del West e i cronisti radiofonici avrebbero grossi problemi a rendere interessante il racconto delle gare.
Nel film La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano un personaggio ha la passione per i nomi dei cavalli, e passa ore a farseli leggere dal protagonista, piangendo dal ridere.

È un bel film, La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano, mentre Seabiscuit, perlomeno la pellicola prodotta dalla Disney, viaggia più sul genere di roba che inizi a guardare per pigrizia e poi ti addormenti sul divano.

Ma che problemi ha la Disney, che una volta faceva uscire dei film indimenticabili e oggi sembrano fatti tutti con lo stampino? L’altra sera ho riguardato Robin Hood, quello con le volpi e gli orsi e i coniglietti e il fantastico corteo in cui le trombe erano suonate dagli elefanti, la cassa del tesoro era trasportata dai rinoceronti, la portantina regale dagli ippopotami, e in testa a tutti marciava fiero un coccodrillo con la mantellina. Perché non si fanno più film così?

Ochei bumer, mi direbbe un lettore giovane, se questo blog vantasse dei lettori giovani, vai avanti.

Seabiscuit fu protagonista di una classica storia di rinascite, dove il protagonista all’inizio fatica a emergere e poi diventa un campione, poi ha un incidente che rischia di compromettergli la carriera, poi si riprende e trionfa. Gli americani ci impazziscono per quelle storie lì, e non è un caso che molte siano ambientate durante la Grande Depressione, quel periodo della storia americana in cui si faceva la fame, e ogni storia di rinascite infondeva coraggio.

Il pugile James Braddock, portato sullo schermo da Russel Crowe in Cinderella Man, fu un simbolo dell’epoca, e così Seabiscuit, perché quando cominciarono a scarseggiare le storie di uomini valorosi che fronteggiavano i tempi duri e risalivano la china, ci si faceva andare bene anche le storie di cavalli.

Cinderella Man si distingue da Seabiscuit dal fatto che nel primo il protagonista indossa i guantoni.

Io sono un po’ esigente sulle storie di caduta e rinascita, quella di Seabiscuit non mi sembra più eccezionale della storia del mio gatto, che è nato per strada e poi è venuto a vivere a casa mia e adesso ha pure lo schiavo che gli pulisce il gabinetto. Una delle migliori resta quella che la rinascita se la porta già nel nome, ma se mi metto a parlare di quella non smetto più.

Restiamo a cavallo, come si dice sempre quando stai scrivendo un post che parla di Seabiscuit, ma ti verrebbe voglia di andare fuori tema e parlare di fumetti.

Dicevo che della storia di questo campione di corse di cavalli è stato tratto un film, che ha ricevuto qualche recensione entusiastica, molte di più negative, e un’infinità di meh, tipo quella della rivista specializzata in cavalli e cinema “Film, Cavalli E Film Di Cavalli”, che così definisce la pellicola:

Da un punto di vista prettamente narrativo è un’occasione mancata, non ci sono sviluppi di trama inaspettati, succede tutto bene all’interno dei consueti binari della cinematografia hollywoodiana, con la sua struttura a N che prima mostra il protagonista salire, poi crollare e poi risalire fino al trionfo finale, il tutto condito da dialoghi prevedibili, situazioni strappalacrime sempre le stesse fin dagli anni ’30, come se da Tom Mix in avanti le sceneggiature fossero scritte pescando sempre gli stessi espedienti dallo stesso barattolo. Però ci sono un sacco di cavalli, e per una rivista come la nostra è un elemento che non si può trascurare. Voto 7/8”.

Per fortuna i film hanno sempre una colonna sonora ad accompagnarli, e in questo caso l’ha composta uno che ne compone tantissime, continuamente: Randy Newman. Lo conoscete per i suoi brani più famosi, come questo o questo.

Non voglio usare Randy Newman come collegamento, ci potrei agganciare qualsiasi cosa, dov’è la sfida? Dov’è la difficoltà?

Per fortuna che anche in questo film, come in quasi tutti quelli che vengono prodotti, la colonna sonora contiene molti più brani di quelli che vengono poi inseriti nel disco.

Fra quelli lasciati fuori troviamo un personaggio che andava un casino negli anni passati, ma che poi è un po’ uscito dai radar: Moby.

(continua)