Riassunto delle puntate precedenti:
Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark

I No sono una band misteriosa. Hanno un sito che non sembra funzionare granché, e una pagina facebook piuttosto laconica, in cui troviamo i nomi dei musicisti, e scopriamo che tre su quattro portano lo stesso cognome. Se avessimo tempo da perdere potremmo anche approfondire, e separare questi No da altri No venuti prima o contemporanei, e dai No che hanno cambiato nome in Black English, però no, non ce l’abbiamo il tempo di fare ricerche più approfondite, che la quarantena è finita e bisogna tornare a produrre.

Voi, intendo, che io continuerò a stare a casa a scrivere sul blog, avendo sottoscritto un contratto miliardario con l’INPS che mi versa petroldollari sul conto corrente e in cambio non mi chiede neanche di lavorare.
Finché dura, poi immagino che smetterò di scrivere e mi presenterò sotto il cavalcavia a vendere ai camionisti la mia intimità posteriore.

Perciò, senza perdere tempo in ricerche vane su internet, tipo a quanto vanno oggi le intimità posteriori di maschi adulti europei, passiamo velocemente al prossimo aggancio.

La canzone che vi ho proposto la volta scorsa si intitola Meet Me After Dark, ed è questo titolo che ci porterà al prossimo artista, attraverso il passaggio più assurdo utilizzato finora.

Perché Meet Me After Dark è anche il nome di un cavallo da corsa, nato nel 1985 da una coppia che vanta, fra i propri antenati, anche Seabiscuit, il cavallo da cui vennero tratti diversi film che mi sono guardato bene dal guardare, che i film con animali e persone finiscono sempre male, oppure no ma ci recita Shirley Temple.

Il quadrisnonno

Non so perché i cavalli da corsa vengano battezzati con questi nomi assurdi, forse perché sennò tutti li chiamerebbero Furia Cavallo Del West e i cronisti radiofonici avrebbero grossi problemi a rendere interessante il racconto delle gare.
Nel film La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano un personaggio ha la passione per i nomi dei cavalli, e passa ore a farseli leggere dal protagonista, piangendo dal ridere.

È un bel film, La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano, mentre Seabiscuit, perlomeno la pellicola prodotta dalla Disney, viaggia più sul genere di roba che inizi a guardare per pigrizia e poi ti addormenti sul divano.

Ma che problemi ha la Disney, che una volta faceva uscire dei film indimenticabili e oggi sembrano fatti tutti con lo stampino? L’altra sera ho riguardato Robin Hood, quello con le volpi e gli orsi e i coniglietti e il fantastico corteo in cui le trombe erano suonate dagli elefanti, la cassa del tesoro era trasportata dai rinoceronti, la portantina regale dagli ippopotami, e in testa a tutti marciava fiero un coccodrillo con la mantellina. Perché non si fanno più film così?

Ochei bumer, mi direbbe un lettore giovane, se questo blog vantasse dei lettori giovani, vai avanti.

Seabiscuit fu protagonista di una classica storia di rinascite, dove il protagonista all’inizio fatica a emergere e poi diventa un campione, poi ha un incidente che rischia di compromettergli la carriera, poi si riprende e trionfa. Gli americani ci impazziscono per quelle storie lì, e non è un caso che molte siano ambientate durante la Grande Depressione, quel periodo della storia americana in cui si faceva la fame, e ogni storia di rinascite infondeva coraggio.

Il pugile James Braddock, portato sullo schermo da Russel Crowe in Cinderella Man, fu un simbolo dell’epoca, e così Seabiscuit, perché quando cominciarono a scarseggiare le storie di uomini valorosi che fronteggiavano i tempi duri e risalivano la china, ci si faceva andare bene anche le storie di cavalli.

Cinderella Man si distingue da Seabiscuit dal fatto che nel primo il protagonista indossa i guantoni.

Io sono un po’ esigente sulle storie di caduta e rinascita, quella di Seabiscuit non mi sembra più eccezionale della storia del mio gatto, che è nato per strada e poi è venuto a vivere a casa mia e adesso ha pure lo schiavo che gli pulisce il gabinetto. Una delle migliori resta quella che la rinascita se la porta già nel nome, ma se mi metto a parlare di quella non smetto più.

Restiamo a cavallo, come si dice sempre quando stai scrivendo un post che parla di Seabiscuit, ma ti verrebbe voglia di andare fuori tema e parlare di fumetti.

Dicevo che della storia di questo campione di corse di cavalli è stato tratto un film, che ha ricevuto qualche recensione entusiastica, molte di più negative, e un’infinità di meh, tipo quella della rivista specializzata in cavalli e cinema “Film, Cavalli E Film Di Cavalli”, che così definisce la pellicola:

Da un punto di vista prettamente narrativo è un’occasione mancata, non ci sono sviluppi di trama inaspettati, succede tutto bene all’interno dei consueti binari della cinematografia hollywoodiana, con la sua struttura a N che prima mostra il protagonista salire, poi crollare e poi risalire fino al trionfo finale, il tutto condito da dialoghi prevedibili, situazioni strappalacrime sempre le stesse fin dagli anni ’30, come se da Tom Mix in avanti le sceneggiature fossero scritte pescando sempre gli stessi espedienti dallo stesso barattolo. Però ci sono un sacco di cavalli, e per una rivista come la nostra è un elemento che non si può trascurare. Voto 7/8”.

Per fortuna i film hanno sempre una colonna sonora ad accompagnarli, e in questo caso l’ha composta uno che ne compone tantissime, continuamente: Randy Newman. Lo conoscete per i suoi brani più famosi, come questo o questo.

Non voglio usare Randy Newman come collegamento, ci potrei agganciare qualsiasi cosa, dov’è la sfida? Dov’è la difficoltà?

Per fortuna che anche in questo film, come in quasi tutti quelli che vengono prodotti, la colonna sonora contiene molti più brani di quelli che vengono poi inseriti nel disco.

Fra quelli lasciati fuori troviamo un personaggio che andava un casino negli anni passati, ma che poi è un po’ uscito dai radar: Moby.

(continua)


Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)

La scorsa puntata abbiamo parlato di una band prog fra le più celebri, chiamata Yes. Ci vuole una certa fantasia a scegliersi un nome del genere, e immagino che all’inizio della loro carriera i musicisti abbiano incontrato qualche difficoltà, quando si presentavano alle case discografiche (ho tradotto il dialogo in italiano per facilitarvi la comprensione):

“E come vi chiamate?”
“Sì”
“Cosa?”
“Non cosa, Sì”
“Mi state pigliando per il culo?”
“No, il nostro nome è Sì”
“Sì cosa, vi ho chiesto come vi chiamate!”
“Sì!”
“Ma vaffanculo, avanti un altro!”
[entra un altro musicista]
“E voi come vi chiamate?”
“Chi”
“Voi”
“Noi Chi”
“Sigh”

La storia della musica è piena di nomi buffi, specialmente da quando sono nate le band. D’altronde è normale, una volta il nome che attirava il pubblico era quello del compositore del brano, non dell’orchestra che lo eseguiva. Ma dev’esserci stato un primo momento in cui un paio di musicisti hanno pensato di mettersi insieme e si sono dati un nome, no?

Sappiamo che i primi strumenti musicali risalgono al paleolitico, un periodo storico che va da 2 milioni e mezzo di anni fa fino alla nascita dell’agricoltura, solo 10.000 anni fa, praticamente ieri. I nostri antenati erano nomadi, vivevano di caccia e raccolta, dormivano dove capitava, non sarebbe stato pratico imparare a suonare strumenti voluminosi come la batteria o il contrabbasso, ed è per questo che negli scavi archeologici vengono ritrovate delle versioni primitive del flauto, ricavate da ossa o pietre, invece di un sintetizzatore a 88 tasti.

Possiamo immaginare che ad accompagnare il virtuoso pifferaio ci fosse qualcuno che batteva le mani a tempo, o picchiava un legno per terra, dato che la percussione è la forma musicale più naturale e semplice da eseguire, e da lì alla nascita di un gruppo il passo è molto breve.

Ci sarà stato un artigiano, seduto su un sasso, con una scheggia affilata di selce, intento a fare buchi in un pezzo d’osso cavo, e ci sarà stato un suo amico che si è avvicinato e gli ha chiesto cosa stava facendo, in quella lingua di gesti, versi e poche parole appena inventate.

“Mgrr?”, chiese Grog al suo amico Gurb, indicando il manufatto su cui stava armeggiando.
“Fifo!”, rispose Gurb, con la padronanza linguistica tipica del sapiens, e tornò a scavare il suo strumento. Non valeva la pena dilungarsi in spiegazioni coi neanderthal, il loro cervello semplice non era in grado di memorizzare informazioni più complesse di “mio”, “cibo”, “ficcare” e “aiutiamoli a casa loro”, ma Grog era un tipo simpatico, e gli faceva piacere averlo intorno.

“Mgrr!”, insistè Grog, puntando il dito sull’oggetto misterioso.
“Fifo”, ripetè Gurb, e per fargli capire come funzionava ci soffiò dentro.

L’aveva trovato per terra qualche giorno prima, sporco di fango, e nel pulirlo, per vedere se ci fosse ancora della carne attaccata, aveva appoggiato la bocca a un’estremità e aveva soffiato forte. Era un osso vecchio, svuotato del midollo, e Gurb aveva scoperto che in quel modo si produceva un suono interessante. L’aveva tenuto, per indagare meglio su quello strano fenomeno, ma non avendo ancora inventato abiti provvisti di tasche era stato costretto a ficcarselo nel culo, finché non gli venne in mente di passarci dentro dei fili d’erba intrecciata e appenderselo al collo.

L’osso produsse un suono che fece saltare indietro Grog. Le dita di Gurb tapparono i buchi che ci aveva ricavato sopra, e dallo strumento uscirono tre suoni diversi, più alti.

“Fifo”, disse Gurb con soddisfazione.

Anche Grog voleva provare il magico strumento, ma Gurb non si fidava delle mani goffe dell’amico, e glielo allontanò dalle mani. Grog si incazzò tantissimo, raccolse un bastone e lo sbatté contro un sasso una volta, due, tre. Quando faceva così non c’era modo di farlo smettere. Gurb pensava che fosse un problema di scarso controllo delle proprie emozioni, e al bisogno di attenzione, probabilmente legati al fatto di essere cresciuto senza una forte figura di riferimento in famiglia, dato che il padre di Grog era stato mangiato da una tigre dai denti a sciabola quando lui era piccolo.

Per calmarlo si mise a soffiare nel piffero, e si accorse che le note si accompagnavano al ritmo delle bastonate dell’amico.

“Getrotàl!”, esclamò. Anche Grog si era reso conto che quella roba che stavano facendo aveva un effetto benefico sul suo umore, e i colpi menati con rabbia si erano trasformati in botte precise, ritmate, che davano ai suoni dell’amico una specie di energia.

Intorno ai due cominciarono a radunarsi gli altri membri della tribù, a cui per qualche strano motivo venne voglia di battere le mani a tempo con le bastonate di Grog. Era nato il primo concerto prog rock.

Purtroppo per i due, il successo ebbe breve durata: divergenze sulla direzione che doveva prendere la band portarono presto a una rottura. Gurb voleva formare un gruppo pop che affondasse le proprie radici nella tradizione popolare italiana e chiamarlo Homo Sapiens, mentre Grog aspirava a suonare hardcore punk in un gruppo chiamato Neanderthal.

Da questo duo improvvisato, la musica di gruppo ha fatto enormi passi avanti, attraverso l’Egitto, la Mesopotamia, i Greci, i Romani, fino ad arrivare ai gruppi di oggi e al momento in cui devono scegliersi un nome e decidono di chiamarsi Yes.

C’erano molti nomi disponibili, non si erano ancora formati i gruppi che poi si sono presi i nomi più fighi, tipo Rage Against The Machine, o Tony Flow and the Miraculously Majestic Masters of Mayhem, ma per qualche strana ragione questi cinque scellerati scelsero il nome più scemo di tutti.

Vabbè, alla fine la scelta è stata premiata, nel 1985 hanno ottenuto un Grammy Award, e in seguito sono stati candidati per riceverne altri cinque; nel 2017 gli Yes sono entrati nella Rock ‘n’ Roll Hall Of Fame insieme a praticamente chiunque, compresi gli Aerosmith, non so se ve li ricordate, andavano parecchio negli anni ’90.

Ma soprattutto, gli Yes ce li ricordiamo per le copertine dei loro album, delle meraviglie fantasy che hanno gettato un ponte fra due categorie che fino ad allora non si erano parlate granché: gli appassionati di prog e quelli di videogiochi. Il nome di Roger Dean fa luccicare gli occhi di chi ha in casa Fragile degli Yes e la versione originale di Chrono Quest per Commodore Amiga, visto che quest’artista ha disegnato entrambe.

E parlando di Chrono Quest, sapete chi ne ha composto la colonna sonora? Jean Marc Grignon, di cui non so altro, e vi va bene, che potevo chiudere questa puntata con un trip di chip music che avrebbe reso felice solo un mio ex collega collezionista di questa roba, se imparasse a leggere e scoprisse il mio blog.

Invece ho pensato di farvi scoprire quelli che secondo me devono essere il gruppo che sta all’opposto degli Yes, i No.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

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Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
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Neil Young – Cortez The Killer
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Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
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Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada

Nella puntata scorsa ho accennato al mago Merlino, e al fatto che mi avrebbe garantito un collegamento con un’infinità di brani di musica prog-rock, ma siccome il prog non lo ascolta nessuno ho preferito servirmi di altri agganci più orecchiabili.

Dopo dieci minuti dalla pubblicazione ho cominciato a ricevere messaggi sul telefono, email, commenti, da ogni angolo del pianeta, e tutti avevano in comune la parola ‘stronzo’.

È lusinghiero scoprire di avere tanti lettori, ma inutile, perché praticamente tutti quelli che mi hanno scritto dichiarandosi lettori del Pablog hanno anche specificato che dopo quello che ho scritto la volta scorsa non mi leggeranno mai più.

Erano tutti appassionati di musica prog, gente che non si alza dal letto prima che la sveglia sul telefono non abbia finito l’assolo di tastiera di Firth Of Fifth, quindi non si alza mai. Erano tutti indignati dalla mia mancanza di rispetto, e mi hanno promesso quasi tutti di farmela pagare, regalandomi cidi delle Midas Fall o abbonamenti alla rivista principe del settore, Prog.

Rivista che, peraltro, premia ogni anno i migliori esponenti del genere, ma non li invita a suonare “sennò la premiazione dura tre settimane”.

Il capobanda, il più accanito fra i miei detrattori, è stato ovviamente Marillillo, un mio amico talmente ossessionato dal prog da avere costretto la sua famiglia ad accompagnarlo ogni anno a Toronto alla convention internazionale dei fans dei Marillion, dove un sacco di uomini tormentati dalla calvizie indossano magliette a tema fantasy e si scambiano opinioni di quarantacinque minuti ciascuna su un dettaglio della copertina di Script For A Jester’s Tear.

Marillillo si è offeso tantissimo, e mi ha rinfacciato di quella volta che siamo andati insieme a vedere i Marillion a Verona e invece di lodare le pazzesche doti della band mi sono messo a perculare il bibitaro che ripeteva, sempre con la medesima intonazione, “birra ragazzi birra?”.

Marillillo mi ha ricordato che se non era per lui non avrei mai scoperto Fish, l’ex cantante dei Marillion, uno scozzese di due metri e mezzo con delle mani che non gli permettevano di suonare nessuno strumento senza sfondarlo, ma che gli hanno garantito un posto da cantante quando ha iniziato a prendere il resto della band a scopaccioni, e non avrei mai partecipato al suo concerto di Vigevano, dove siamo stati mangiati vivi dalle zanzare, o a quello di Genova, dove il cantante non ha neanche suonato perché gli è andata via la voce, o a quell’altro sempre a Genova dove sono rimasto seduto a impedire a sua moglie di buttarsi in mare per la noia. La moglie, ovviamente, era quella di Marillillo, dato che quella di Fish si è rotta le balle molto prima e l’ha mollato.

Anche la moglie di Marillillo voleva andarsene, ma poi chi avrebbe riportato a casa suo marito, visto che la macchina la guidava lei perché lui sta alla guida di un’auto come i Dyonisos a quella di un aquilone? Io no di certo, che da un’ora me ne stavo seduto un po’ sul coglione sinistro e un po’ sul destro e rimpiangevo di non avere approfondito l’amicizia con quella ragazza bruttina che aveva recuperato due biglietti per il Freddie Mercury Tribute e mi aveva implorato di accompagnarcela. Magari col tempo avrei imparato ad apprezzare il suo aspetto da artropode e quel suono acuto che emetteva quando faceva vibrare le lamine all’interno del suo organo stridulatore, e chissà, un giorno mi sarei trovato a tenerle le mani e guardarla teneramente negli occhi mentre sul palco davanti a noi Adam Lambert faceva scempio delle canzoni dei Queen e gli altri tre stronzi si sfregavano le mani pensando alle royalties.

Ma l’odio non è arrivato solo dalle email acide di Marillillo: il presidente dell’Associazione Italiana Giochi Di Ruolo E Più In Generale Giochi In Scatola Tranne Monopoli Risiko E Cluedo Che Li Schifiamo Ma Comunque Principalmente Giochi Di Ruolo, mi ha telefonato per minacciarmi. Ha detto che il mio articolo ha riacceso antichi pregiudizi sulla musica prog, tipo che è noiosa e piace solo a uomini single dalla scarsa propensione all’igiene personale, e che ciò ha minato uno dei pilastri su cui si regge l’intera comunità dei giocatori di ruolo e più in generale da tavolo tranne monopoli risiko e cluedo ma comunque principalmente di ruolo, i quali adesso possono solo contare sulle recensioni positive dei fans di Tolkien e del fantasy in generale che comunque è per tre quarti composto da imitatori di Tolkien, perché La Spada di Shannara è roba che piace solo ai frolli, tipo quelli che ti dicono che leggono un sacco di libri e poi hanno tutta la produzione di Wilbur Smith e Ken Follett.

Ha detto che i pregiudizi verso la sua associazione sono aumentati e adesso per colpa mia non riesce più a rimorchiare su Tinder, al punto di essersi ridotto a togliere dalle foto profilo quella che lo ritrae a Lucca Comics vestito da He-Man.

Tutta quest’aggressività nei miei confronti mi ha convinto a correre ai ripari, ed è per questo che la puntata odierna di Centrotre-e-tre parlerà di musica prog.

Non è una forzatura, ma un passaggio naturale: avrei voluto raccontare che il regista di Cidade de Deus ha diretto anche The Two Popes, il film su Ratzinger e Bergoglio prodotto da Netflix, e grazie al contributo papale avrei pubblicato un video di musica sacra, sbrodolando anche un po’ sui vantaggi di scegliere la religione cattolica invece dell’induismo, che di questi tempi è meglio arruffianarsi i poteri forti, e francamente non so che aiuto potrebbe darmi un dio con la testa di elefante, mentre uno con la testa triangolare puoi sempre tenerlo in macchina, dovessi bucare una gomma.

Volevo mostrarmi amico della comunità cristiana e magari tendere la mano a quel mio amico focolarino che da anni ha smesso di parlarmi, ma mi rendo conto che ci sono delle questioni più urgenti che richiedono la mia attenzione, quindi invece di agganciarmi al regista di Cidade de Deus, sfrutterò il 18 maggio 2002, data della presentazione del film al festival di Cannes.

E lo sapete cos’altro è successo il 18 maggio? Sono partito per il servizio militare, nel 1993, ma a parte quello, che francamente che canzoni potrebbe suggerire? Prima Guardia dei Litfiba? Ma per favore.

No, il 18 maggio è anche il compleanno di Rick Wakeman, lo storico tastierista degli Yes, e quella che segue è una masturbazione di 22 minuti che non ci penso neanche ad ascoltare perché in 22 minuti posso guardarmi un episodio intero del Monty Python’s Flying Circus.

Alla prossima!

(continua)

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ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac

Nella scorsa puntata abbiamo parlato degli Incubus, un gruppo statunitense che fa quella musica che per gli amanti del pop è heavy metal e per gli amanti dell’heavy metal è pop, col risultato di avere più detrattori che fans.

Oggi parliamo degli incubi, riferito proprio a quel tipo di sogno in cui vieni riassunto dalla tua vecchia azienda, o arrivi in ritardo al tuo esame di maturità, oppure il mondo è stato invaso dai vampiri e qualcuno sta grattando con insistenza alla tua finestra.

Già nel V secolo a.C., Sant’Agostino, nel suo De Civitate Dei Contra Paganos, descriveva gli incubi come fauni e creature silvane, che attaccano le donne. A quanto pare gli uomini erano soliti dormire benissimo, oppure si trattava di un’ardita metafora per denunciare le violenze domestiche di bruti taglialegna.

Otto secoli più tardi, Tommaso D’Aquino andava più nello specifico, spiegando come l’incubo fosse in grado di accoppiarsi con una donna e generare una prole non del tutto umana. Per ottenere il seme, di cui il demone pareva essere sprovvisto, non ci si poteva certo rivolgere a una banca del suddetto, che non avrebbe aperto prima di martedì mattina verso le otto, otto e mezza; l’incubo aveva così imparato ad assumere sembianze umane. Prima si presentava al cospetto di uomini addormentati, e li seduceva nei panni di una bella donna, poi senza tanti complimenti si buttava addosso alla vittima femminile e la ingravidava.

Questa teoria venne perfezionata da altri studiosi del genere, cui non pareva vero di poter scrivere una caterva di zozzerie senza incorrere nella censura ecclesiastica, e col tempo furono coniate le figure ben distinte di incubo e succubo, per definire i demoni di aspetto maschile e femminile. Perché avere rapporti sessuali coi mostri va bene, purché conformi alla morale.

Venne stabilito che la prole generata da un padre demone e una madre umana prendesse il nome di cambion, di cui non ho trovato una traduzione in italiano che non facesse venire in mente leve e pulegge. L’esempio più famoso di questa unione bizzarra è il mago Merlino, i cui poteri soprannaturali gli derivano da papà, mentre dalla mamma ha preso le orecchie a sventola.

Al giorno d’oggi si è capito che gli incubi non vengono indotti da mostri che ti ingroppano, ma ancora si evita di parlare dell’imbarazzante fenomeno delle polluzioni notturne, che evocano il timore ancestrale di avere contribuito a generare una creatura umana soltanto a metà.

Perché nessuno ha mai affrontato il problema in tutti i suoi aspetti, e quando ci viene il dubbio di avere donato il nostro seme a un succubo, non sappiamo bene cosa questo potrebbe comportare, e nascondiamo i nostri panni appiccicosi in fondo al cestello della lavatrice, timorosi delle conseguenze. E se domani mi suonano alla porta e vado ad aprire e c’è una vampira con un neonato in braccio e dice che è mio, cosa racconto a mia moglie? E se un giorno mi telefona la scuola perché mio figlio ha trasformato la maestra in un tritone? E se un domani mi arriva a casa con un fidanzato lupo mannaro?

Bisogna che qualcuno lo spieghi bene quest’argomento, cosa comporta in termini legali, quali sono i rischi nel donare il proprio seme a una creatura immonda, e se la stessa cosa si può applicare al sesso occasionale da ubriachi. Ci vogliono delle tutele, sono venticinque secoli che andiamo avanti alla cieca.

Tornando alla nostra rubrica musicarella, ho avuto qualche incertezza al momento di scegliere il prossimo passaggio. L’incubo mi si agganciava alla perfezione con un disco degli 883, ma poi gli incubi li avrei avuti io (mioddio, sono di nuovo negli anni ’90!! Non scoperò per un decennio!! AAHHH!!); il mago Merlino spalanca una porta su tonnellate di dischi prog rock, ma questo blog ha già pochi lettori così, se vi propongo un pezzo di dieci minuti con assoli di tastiere in cinque quarti il prossimo episodio me lo leggo da solo.

Mi sono così agganciato al libro di Sant’Agostino, e al film del 2002 che ne riprende il nome.
Cidade de Deus, o City of Gods, come venne distribuito nel mondo, è una pellicola brasiliana ambientata nell’omonima favela di Rio de Janeiro. Una storia di piccoli criminali e grande corruzione che ti lascia un mattone sul cuore per un bel po’. E che ha una colonna sonora notevole.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti

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Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
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Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
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Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá

Come spiegato dal riassunto qui sopra, nella puntata precedente ci siamo occupati di ZAZ, una bella signora francese che nel tempo libero cerca di costruire a Gotham City il proprio impero criminale. Oppure non abbiamo trovato altre informazioni interessanti, e ce ne siamo dovuti inventare una.

Una cosa però non vi ho detto, di quest’artista: ha fondato un’associazione benefica che si chiama Zazimut, che si prefigge di.. cos’è che fa di preciso?
Oh, io mica l’ho capito. Sul suo sito spiega di voler “promuovere una società rispettosa della vita in ogni sua forma”: un obiettivo rivendicato anche dai vegani, se è per questo. Più nello specifico?

L’obiettivo di Zazimut è quello di creare un legame costruttivo e collegare tutti coloro che vogliono essere coinvolti condividendo risorse, tempo o competenze con una delle ONG della rete Zazimut.

Mette in contatto persone che vogliono rendersi utili.

La piattaforma promuove anche le “connessioni remote” perché la condivisione e la conoscenza sono i pilastri principali che ci permetteranno di immaginare le soluzioni necessarie.

Se poi non hai tempo di andare di persona basta che fai una telefonata a Zazimut e questi inoltrano il tuo messaggio di solidarietà.

Questa piattaforma collaborativa è stata creata per consentire a chiunque desideri condividere iniziative, successi, idee, esperienze e condividere progetti da condividere.

Oh, io non ho mica capito cosa fanno questi. Mi pare una di quelle offerte di lavoro che trovi ogni tanto, dove un’azienda leader nel settore cerca personale dinamico per condividere una crescita esponenziale basata sulla resilienza, poi vai a vedere e c’è un ufficio vuoto affittato apposta per la selezione, con dentro una segretaria che gioca col cellulare e un tizio impinguinato in un abito economico che ti offre di andare a vendere contratti del gas.

Zazimut sembra aver fatto anche qualcosa di concreto, comunque: sul suo sito poco aggiornato compare la partecipazione a un festival di musica e arti varie in Francia, e la progettazione di un gioco da tavolo.

Vabbè, dai, meglio che niente.

La lista degli artisti impegnati nel sociale al punto di creare una propria associazione è lunga, e copre, con la solidarietà, diverse categorie di disagiati: ci sono quelli che aiutano i ragazzini dei quartieri poveri delle grandi città americane e quelli che sostengono la comunità LGBTQXℼ6, fino a quelli che fanno beneficenza alle bambine messicane di famiglie povere trasferitesi in un sobborgo di Los Angeles con fratello tossicodipendente arrestato per possesso di stupefacenti la cui mamma si chiama Maria e fa la sarta.

Miley Cyrus ha fondato la Happy Hippie Foundation, che offre supporto economico, educazione e opportunità lavorative ai giovani senzatetto, con un occhio particolare alla comunità LGBTQ44MARIO<3;
Lady Gaga è la fondatrice della Born This Way, che sostiene “il benessere mentale ed emotivo dei giovani”. Collabora con delle associazioni di psicologi attive a livello nazionale negli Stati Uniti;
la Dave Matthews Band sostiene con iniziative benefiche l’area di Charlottesville, in Virginia, che è un po’ come nei fumetti Marvel che ci sono i Fantastici Quattro e i Vendicat.. vabbè, gli Avengers, che proteggono il mondo dagli alieni, e poi c’è Daredevil che si occupa espressamente di un quartiere di New York che si chiama Hell’s Kitchen, un’area grande la metà di Central Park. Oh, per carità, ognuno fa quel che può!

Di chi parliamo oggi? Come avete visto le possibilità sono molteplici, e ci permettono di coprire ogni genere musicale, dall’hip hop alla musica classica.

Quindi parliamo della Make Yourself Foundation, nata grazie a un’iniziativa degli Incubus.

La lista delle iniziative cui ha preso parte quest’associazione è lunga e noiosa, così come quella delle onlus che da quest’associazione hanno ricevuto denaro. E poi a noi serve solo per agganciarci al video di oggi.

Non li conosco, gli Incubus. L’heavy metal non è un genere che frequento granché, la roba che picchia di più nella mia collezione di dischi è The Claudio Villa Hardcore Session, quindi scusate se non riuscirò a essere esaustivo mentre vi parlo della vostra band preferita.

The Claudio Villa Hardcore Session è un gran disco, comunque

Poi, se invece di criticare, volete scrivermi voi un passaggio, sentitevi liberi di spedirmelo. Non mi sembra vero di poter pubblicare un altro episodio senza dovermi sbattere.

Gli Incubus, dunque. Si sono formati nel 1991 a Calabasas, in California, una delle cittadine che negli anni sono state fagocitate dall’espansione di Los Angeles, come Santa Monica o San Bernardino. Vista dal satellite non è neanche una vera città, solo una distesa di villette a schiera in un piano urbanistico a lisca di pesce: un quartiere residenziale creato su misura sulle colline a nord ovest del centro. Quei posti dove le strade hanno nomi di fiori e per trovare un tabacchino devi prendere l’autobus e scendere in città. Uno di quei posti dove si fa amicizia coi vicini e ci si annoia insieme.

Me li immagino, questi quattro compagni di scuola, che si riuniscono nel garage di uno e dell’altro a bere birra e suonare cover dei Faith No More, e me li sento subito simpatici, perché se decidi di fare heavy metal e ti ispiri ai Faith No More sei un po’ come sarei io se sapessi suonare uno strumento e volessi formare un gruppo rock e ai miei compagni proponessi un pezzo tiratissimo di Ivano Fossati.

Comunque gli Incubus seguono la trafila che hanno seguito un po’ tutti per arrivare al successo: garage del bassista, demo sulle cassette da 60 con la copertina disegnata a biro dalla sorella del cantante che va all’artistico e ha una cotta per il chitarrista, qualcuno gli fa incidere un disco, vanno in tour con un gruppo di media fama a cui fanno da apripista, pubblicano un singolo che vende di brutto e finalmente la mamma del bassista ha di nuovo un posto dove parcheggiare la macchina.

Una volta ho fatto parte anch’io di un gruppo così. È cominciato tutto quando i miei genitori mi regalarono un sax tenore e io, posseduto dal demone della musica, lo infilai sotto il letto e me lo dimenticai, perché il demone del fancazzismo è sempre stato il mio nume tutelare, e quando un altro demone si avvicinava lo cacciava a calci nel culo. Finché un giorno conobbi una ragazza, conosciuta come Reinhard Heydrich per i suoi modi gentili, e la invitai in camera mia per farle vedere il saxofono. Lei mi chiese se sapevo suonarlo, io le risposi che avevo intenzione di iscrivermi a un corso, lei mi regalò delle lezioni presso il Circolo Musicale Abigeato, una banda composta da ex ladri di bestiame, che si esibiva spesso alle feste del paese.

Qui conobbi una giovane promessa del country jazz, un suonatore di sax baritono di nome Fabrizio, che mi invitò a unirmi alla sua band. Facevano ska, e avevano bisogno di un tenore. Io ne avevo uno, si trattava solo di imparare i pezzi e presentarsi puntuali alle prove in saletta.

Ci andai, feci qualche prova, ma imparare i pezzi a memoria risultò troppo difficile quando capii che avrei dovuto prima imparare a suonare lo strumento e non solo assemblarlo e appendermelo a tracolla. Abbandonai il gruppo appena prima che un importante manager discografico li contattasse per offrire loro il primo di una lunga serie di contratti milionari.

Ma non fu un’esperienza negativa. Ochei, non imparai mai a suonare il saxofono, che giace ancora nel suo astuccio sotto il letto, ma almeno ruppi con Reinhard Heydrich prima che mi tatuasse sul braccio il mio numero di matricola.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru


Nella puntata precedente ci siamo rivolti a una cantante folk jazz che vive a Praga, e il prossimo passaggio ce lo faremo suggerire da lei direttamente:

sulla sua pagina facebook nomina tre artisti amati dal suo gruppo, ZAZ, Zuzana Navarová e Alanis Morissette. E adesso starete tutti a pregare che questa puntata vi riporti sui binari più battuti dal pop, che di sentire roba sconosciuta per un po’ va bene, ma poi basta.

Il vero nome di ZAZ è Isabelle Geffroy, francese, classe 1980, e se speravate che questo episodio fosse dedicato ad Alanis Morissette è perché vivete dalla parte delle Alpi dove sanno preparare il caffè; fidatevi, quest’artista in Francia ha il successo che da noi potrebbe avere.. boh.. la Pausini?

Anche se ad ascoltare le sue canzoni, il genere che propone si avvicina più ai artisti folk, mi viene in mente la Bandabardò, ma ho un po’ perso le tracce del panorama musicale nostrano, sono sicuro che esistono esempi più calzanti.

Il video che posterò questa settimana è particolare: interamente girato a Cuba, vede un’artista di lingua francese parlare in spagnolo senza quell’accento sgesge che li sgama ovunque appena aprono bocca.

Che poi è la ragione per cui l’agente segreto più famoso della storia del cinema è inglese. Se fosse stato francese lo avrebbero catturato dopo cinque minuti dalla sua prima apparizione.

Vabbè, in effetti è quello che succede appena arriva all’aeroporto di Kingston nel primo film, ma non sono mai stato in Giamaica, che ne so che i tassisti fuori dall’aeroporto non cercano di uccidere i loro passeggeri? In fondo quelli di Istanbul lo fanno, guidando come degli scellerati e senza tenere il volante. Meno male che quella volta ero seduto davanti, sennò adesso questa rubrica ve la scriverebbe mia madre, alla quale avrei lasciato il computer in eredità e che si sentirebbe in dovere di portare avanti il mio messaggio di amore e fratellanza, e tutte le settimane dovreste sciropparvi la playlist di Radio Freccia, che mia madre ascolta solo quello, e non dovrei lamentarmi, se ascoltasse Celentano sarebbe peggio.

Per esempio, i vostri genitori che musica ascoltano? Death metal? Jazz? Beniamino Gigli?

Mi piacerebbe fare un sondaggio, potete rispondermi sul blog o telefonarmi alle due del mattino, tanto sono ancora sveglio a giocare ai videogiochi.

Questa quarantena ci sta trasformando tutti in cosplayers di Drugo del Grande Lebowski.

Ma dicevamo di ZAZ. Cosa spinge una donna a farsi chiamare come un cattivo di Batman?

Ho indagato un po’ nella sua biografia, e l’unica cosa che sono riuscito a scoprire è perché parla bene lo spagnolo, ma di traumi infantili che possono averla portata a intraprendere una carriera segreta come supercriminale di Gotham City e tagliuzzarsi la faccia neanche un accenno.

Che poi se fossi un supercattivo americano avresti una lunga lista di ottimi maestri da cui attingere: Hannibal Lecter, Donald Trump, Justin Bieber, McDonalds, la pizza all’ananas, per citare solo i primi che mi vengono in mente; ma la Francia non ha questa tradizione così radicata di personaggi malvagi, il peggio che è stata capace di produrre è stata il maresciallo Pétain. I francesi al massimo riescono a risultare antipatici, cosa che da questa parte delle Alpi non dimentichiamo mai di sottolineare, ma malvagi proprio no. E senza un vero cattivo ti manca il substrato adatto per creare un eroe credibile. Chi potrebbe essere Batman in una Gotham City francese, dove bande di teppisti coi baffetti trattano con superiorità i cittadini terrorizzati fuori dalle boucheries? Vincent Cassel?

Senza contare che, nazionalisti come sono, non accetterebbero mai che il protettore dei patrii confini porti un nome anglofono, come tutti i supereroi più famosi vengono chiamati nel mondo. E come potrebbe chiamarsi un Batman francese? L’homme chauve-souris? Dai, ti ammazza tutta la tensione!

I fumetti prodotti in Francia non aiutano granché, da questo punto di vista: se penso a un supereroe locale, la figura che ci si avvicina di più è Obelix, caduto da piccolo nella pentola della pozione magica, e da allora dotato di una forza sovrumana. Praticamente Hulk coi pantaloni ascellari.

Il casino dei francesi è che la gran parte degli eroi che meglio potrebbero ergersi a protettori della città, parlano francese, ma sono belgi. Tintin, Blake & Mortimer, Lucky Luke, perfino i Puffi, in caso di pericolo, non andrebbero in giro a pattugliare le strade di Parigi, ma casomai quelle di Bruxelles, o di Liegi, se sono supereroi che tifano Vallonia. E secondo me fra i Puffi questa divisione esiste eccome, il Puffo Quattrocchi è senza dubbio uno che al referendum per dividere il Paese avrebbe votato a favore.

E se parliamo dei Puffi non posso non citare le varie teorie cospirazioniste che li accompagnano da quando è nato l’internet. Nel corso degli anni sono stati considerati un mezzo di propaganda camuffato da prodotto per ragazzini, attraverso cui far passare ogni genere di messaggio: da chi li accusava di essere comunisti a chi sosteneva che rappresentassero il Ku Klux Klan. In realtà i Puffi sono alieni, insediatisi segretamente nelle aree agricole del mondo; il loro piano è diabolico ed efficace: occupare i campi e le fattorie dà meno nell’occhio che bombardare New York, e metterebbe in ginocchio i terrestri in un paio di settimane al massimo, giusto il tempo di fargli esaurire le scorte alimentari.

E basta, ci vediamo la prossima puntata, quando vi farò ascoltare una canzone che devo ancora decidere quale sarà. Buon 25 aprile a tutti.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee


E siamo arrivati a 20. Quanta nostalgia per quelle prime puntate, quando facevo i link a una playlist di Grooveshark dove si poteva sentire musica tutto il giorno senza la vocina fastidiosa che ti chiede di sottoscrivere un abbonamento a premium a soli 9,99 soldi per tre mesi.

Era il 31 ottobre 2012, il Papa era ancora Ratzinger Z, e quel giorno nei cinema usciva Skyfall, di cui potete leggere un’appassionata recensione qui. Se fosse stato ancora vivo, Cristoforo Colombo avrebbe compiuto 561 anni, e per celebrare il suo compleanno avrei fatto partire la mia playlist da lui, invece che da Bruno Lauzi. Non sarebbe stato facile, avrei iniziato con una canzone a lui dedicata di una boyband anglo-norvegese chiamata A1, poi avrei usato il titolo di una loro canzone chiamata Ready Or Not per proporre l’omonimo brano di Bridgit Mendler, un prodotto Disney Channel che somiglia un po’ alla sua ex collega Britney Spears, ma magari stavolta la chiave del bar la nascondono meglio. Questa giovane cantante ha dato la voce a un personaggio dei Muppets in un film intitolato Muppets Most Wanted, e i personaggi di Jim Henson si sono esibiti in televisione praticamente con chiunque, di lì in poi sarebbe stata una passeggiata. Chissà che non sarei finito qui in ogni caso, a parlarvi della Repubblica Ceca. La conoscete la Repubblica Ceca?

Il 28 ottobre 1918, a Praga, successe qualcosa di insolito per l’Europa: due nazioni vicine, invece di cercare di occuparsi militarmente l’un l’altra, decisero di fondersi insieme, ispirate da comuni ideali e dalla voglia di liberarsi degli invasori asburgici, del cui impero facevano entrambi parte.

In uno dei diversi accordi fra le nazioni che ridisegnarono l’Europa dopo la Prima Guerra Mondiale, venne riconosciuto il nuovo stato, a dispetto delle proteste di Polonia e Germania, che si sentivano defraudate di parte del loro territorio.

Fu un periodo di grande festa, i Cecoslovacchi si buttarono in massa per le strade a pigliarsi a boccalate di birra, e per prima cosa si misero a cacciare dal Paese gli appartenenti alla minoranza magiara. Perché nell’Europa immediatamente successiva alla Prima Guerra Mondiale un po’ di sano nazionalismo non poteva mancare. E gli ungheresi stavano sulle palle a tutti, sempre con quei cazzo di violini.
Restavano i tedeschi, ma come fai a cacciare una minoranza che conta più del 23% della tua popolazione? Nelle regioni in cui abitavano, la Boemia e la Moravia, arrivavano al 30%. A momenti erano più dei Cechi. I Cecoslovacchi decisero di chiudere un occhio e si limitarono a far girare barzellette razziste nei confronti dei loro ospiti. I tedeschi, dal canto loro, non si sentivano parenti dei padroni di casa, e presero a chiamarsi fra di loro Sudeti, dal nome della catena montuosa in cui abitavano. Südtirol ist nicht Italien, anche qui.

Il 12 marzo 1938 Hitler invade l’Austria, e i Sudeti sfoggiano la stessa faccia che vedi nei tifosi della squadra capolista un paio di giornate prima della fine del campionato.
Arriva settembre e la Germania, con la minaccia della guerra, riesce a farsi regalare i territori Sudeti. Tempo novembre e la Cecoslovacchia in pratica non esiste più, smembrata dai vicini, alleati della Germania nazista.

Nel settembre 1944 la Cecoslovacchia venne liberata dall’esercito sovietico, e negli anni successivi, con la nascita della Terza Repubblica, il Paese abbracciò il comunismo.
D’altronde, se mezza Europa ti porta via la casa e l’altra mezza te la restituisce, alla fine di chi vuoi essere amico?

Sotto la guida di Mosca, la Cecoslovacchia si liberò delle minoranze tedesche, obbligò gli ungheresi che non se ne volevano andare a prendere la nazionalità slovacca e a posare quei cazzo di violini, e diede inizio a un piano di radicalizzazione che quando senti i nostri politici di destra demonizzare il comunismo non riesci a dar loro torto. Però quello che descrivono loro non è comunismo, è il regime totalitario immaginato da Stalin; accentrare il potere nelle mani di pochi individui, eliminare i dissidenti, imporre una censura su ogni forma di espressione compresa l’arte, è un metodo che darebbe gli stessi risultati a ogni latitudine. E i nostri politici di destra sono un branco di scimmie che hanno imparato a mettersi le scarpe.

Nel 1968 venne eletto Alexander Dubček a segretario di partito, la figura che di fatto governava il Paese. A differenza dei suoi predecessori, Dubček spinse la Cecoslovacchia verso la democrazia: restituì la libertà di stampa, permise la nascita di circoli non allineati con l’Unione Sovietica, e cercò alleati in Occidente. È il periodo conosciuto come Primavera di Praga. E finì coi carri armati: l’Unione Sovietica occupò militarmente la Cecoslovacchia, riprese le purghe, e fino al 1989 la situazione tornò a essere la stessa di prima. Ci volle la caduta dell’Unione Sovietica per permettere ai Cecoslovacchi di tornare a respirare aria pulita. Si indissero elezioni, cominciò un periodo di riforme per riportare il Paese alla democrazia, e il 1 gennaio 1993 i due stati che avevano costituito la Cecoslovacchia decisero pacificamente di divorziare, diventando Repubblica Ceca e Slovacchia.

Se avessi saputo tutte queste cose quando sono stato a Praga, nel 2016, forse me la sarei goduta di più. Però avrei bevuto lo stesso quantitativo di birra, e di certo sarei andato a sentire Martina Trchová.

Nata il 14 febbraio 1983, come la sua collega che vive dall’altra parte del mondo di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, Martina Trchová (si pronuncia Tercovà) suona la chitarra in un trio jazz folk. Ha inciso tre album, qualche demo, per un po’ ha suonato da sola. Adesso ha raccolto i soldi per un nuovo album, grazie a una piattaforma di crowdfunding chiamata hithit.com.

In città fa un sacco di concerti, perlopiù in piccoli locali, e li riempie regolarmente. Se doveste andare a Praga nel prossimo futuro, provate a chiedere al proprietario dell’Airbnb dove state se la conosce.

E perdio, andate a mangiare al Vinohradsky Parlament!

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
MVibe – Ili Ili Tulong Anay


Eccoci di nuovo qui, e chi l’avrebbe mai detto che saremmo arrivati al diciannovesimo episodio. Si vede che questa quarantena mi lascia un sacco di tempo libero, eh?
Mi domando se dall’altra parte ci sia lo stesso entusiasmo, quando aprite il blog e trovate il titolo centotre-e-tre. Cosa fate, cambiate subito pagina e andate ad approfittare dell’abbonamento premium che Pornhub sta regalando a tutti gli italiani, e vi guardate Legend of Zildo?

“Ehi, this sword is shaped like a dick!”
“Of course, this is a porn, everything here is shaped like a dick!”

No, sul serio, dovreste approfittare dell’abbonamento premium. Quando vi ricapita di guardare una parodia di un film Marvel che si chiama Assvenger?

Per quelli che nonostante le tentazioni preferiscono rimanere qui con me ad ascoltare musica sconosciuta proveniente da ogni parte del mondo, e scoprire nel frattempo qualche interessante aneddoto, avete tutta la mia gratitudine.
Però un po’ vi compatisco.

Ma andiamo avanti, che oggi ce ne andiamo in un posto lontanissimo.

La canzone della settimana scorsa è cantata, come detto, in lingua ilongo, una delle oltre 170 che si parlano nelle Filippine, e che appartiene a uno dei grossi ceppi linguistici del mondo, quello delle lingue austronesiane.

Eh?

Funziona così: la maggior parte delle lingue del mondo viene catalogata in famiglie linguistiche, aventi in comune un antenato. Chiaramente non stiamo parlando di un nonno poliglotta, ma di una lingua, antica e probabilmente scomparsa, da cui si sono evoluti gli idiomi di quella particolare famiglia. La ramificazione delle linee di discendenza viene chiamata filogenesi. La filogenesi dell’italiano, ad esempio, ci fa risalire alle lingue romanze, come quella del francese, del rumeno, dello spagnolo e del creolo-haitiano. E tutte derivano dal latino, ma fin qui lo sapevamo già.

Risalendo ancora l’albero arriviamo alla famiglia delle lingue indo-europee, una delle branche diffuse in Europa, ma ce ne sono veramente un quantità notevole.

Fra le lingue parlate in quella parte di pianeta che per facilità chiameremo Oceania, troviamo le lingue maleo-polinesiache, cui appartiene quella da cui siamo partiti, l’ilongo.
Scendendo lungo questo ramo incontriamo le lingue oceaniche, da cui si distinguono le lingue polinesiane, a cui appartiene, finalmente, la lingua rapanui, parlata esclusivamente sull’Isola di Pasqua.

Quand’ero bambino avevo un libro chiamato Atlante dei Misteri, su cui spendevo la maggior parte del mio tempo. Solo oggi, a distanza di anni, scopro che il suo autore, Francis Hitching, è un riconosciuto ciarlatano, ma allora tutte quelle storie di alieni e forze oscure che percorrono il mondo, e chi ha costruito davvero le piramidi, mi appassionarono al punto da avere influenzato molte delle mie decisioni nella vita adulta.

Senza le leggende su Palenque mi sarei mai appassionato alla cucina messicana?

Per esempio, se non avessi letto qualche teoria stramba sull’architettura esoterica, non so se mi sarebbe mai venuta voglia di visitare Castel del Monte; e se non avessi letto la storia dei disegni di Nazca non avrei passato gli anni da studente a leggere fumetti invece di prepararmi per le interrogazioni.

No, ochei, forse quello è perché sono un pelandrone. Ma comunque, uno dei grandi misteri del pianeta riguarda quell’angolo sperduto di oceano di cui parliamo oggi, con le sue teste di pietra che guardano l’orizzonte e forse aspettano qualcuno? Gli alieni? Il capitano Schettino?

Se avete voglia di saperne di più sull’Isola di Pasqua vi rimando alla lettura di Buoni Presagi, che c’è stato di recente, si è documentato a dovere ed è bravo a raccontare le storie.
E sarà felicissimo di essere taggato come alternativa a Pornhub.

Se invece volete restare qui e ascoltare la canzone di oggi, vi segnalo una pianista, Mahani Teave, l’unica musicista classica dell’isola. In realtà è nata alle Hawaii, e originario dell’Isola di Pasqua era suo padre, ma le informazioni che ho recuperato su di lei sono scarse. Avrei potuto cercare di più, ma se non avevo voglia di studiare quando andavo a scuola vi pare che mi metto a leggere la biografia di una pianista dell’Isola di Pasqua solo per appagare la curiosità di quattro lettori che hanno preferito stare sul mio blog invece che su un account premium di Pornhub?

Diciamo che è nata alle Hawaii perché sull’isola non esistono ostetrici per una precisa scelta semantica: l’Isola di Pasqua non dà i natali a nessuno.

Non so che vita abbia avuto Mahani Teave su un’isoletta in mezzo al Pacifico famosa solo per i testoni, ma non dev’essere stata terribile, se adesso vive ancora sull’isola e ha fondato una scuola di musica dove si insegnano diversi strumenti, fra cui l’ukulele.

L’edificio in cui sorge la scuola, peraltro, è costruito in gran parte con materiale di recupero: 1.500 pneumatici, 30.000 lattine, 10.000 bottiglie di vetro e 12 tonnellate di cartone. Non dev’essere stato facile, ma c’è da tenere in considerazione che sull’Isola di Pasqua non vivono lupi che possono soffiarti giù tutto.

Buoni propositi per il futuro: passare tutta la vita in ciabatte

In un’intervista all’Huffington Post racconta come ha cominciato a suonare: quando aveva 18 anni una signora tedesca si trasferì sull’isola, e lei andò a romperle le palle tutti i giorni perché le insegnasse a suonare il pianoforte. Se abitassi in una città normale chiameresti la polizia, ma sull’Isola di Pasqua il capo della polizia è Benjamin Linus, e la gente preferisce arrangiarsi da sola.

Dopo pochissimo sapeva già suonare Mozart, e una volta che era lì che suonava è arrivato uno dei più celebri pianisti cileni, che l’ha mandata da un insegnante sulla terraferma, e ha dato il via alla sua carriera. Un po’ come successe a me una volta, avrò avuto sette anni, ero al campetto da solo e per passare il tempo stavo in piedi sullo scivolo a declamare il monologo di Lady Macbeth, quando è arrivato Vittorio Gassman che pisciava il cane, e mi ha mandato a scuola di teatro da uno dei migliori insegnanti del Paese. Solo che quel giorno non era in casa, così sono tornato al campetto e la mia vita ha preso una svolta diversa. Vedi a volte il culo?

Chiudo con una breve esibizione di Mahani Teave e Viviana Guzman, una flautista cilena che sono sicuro avrete già sentito nominare, al Conservatorio di Pechino, nel 2013.

(continua)


Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error


Nell’episodio precedente siamo diventati ufficialmente anziani, e abbiamo affrontato lo scottante tema della “musica che ascoltano i ragazzini”, mettendoci dalla parte del genitore che ai suoi tempi quella roba lì non esisteva e si ascoltavano i Pu. Ho cercato di darvi una visione distaccata e priva di giudizi, anche perché da quando vivo con una che di pop ci vive, il mio senso critico la mia spocchia si è ammorbidita parecchio.

Comunque il gruppo coreano si chiamava VIXX, che si pronuncia come un famoso marchio statunitense di prodotti per stappare il naso. Ed è proprio a quel marchio che ci rivolgiamo per introdurre il prossimo passaggio, andando a toccare un Paese finora rimasto fuori dalle nostre frequentazioni.

Procter & Gamble è una multinazionale americana, fondata nel 1837 da un candelaio inglese di nome Procter e un saponiere irlandese che si chiamava, come avrete intuito, Gamble. I due si conoscevano per avere sposato le sorelle Norris, e fondarono una società sotto il consiglio del suocero, il signor Chuck. Per 40 anni, P&G si limitarono a produrre quello che sapevano fare, candele e saponi, diventando i fornitori ufficiali dell’Esercito Unionista durante la Guerra Civile Americana, finché negli anni ’80 il nipote di Procter, William Arnett, iniziò ad espandere l’azienda e a introdurre nuovi prodotti.

Ad oggi P&G possiede aziende in tutto il mondo, tranne a Cuba e in Corea del Nord, e produce un’infinità di articoli, come appunto nel caso dello spray contro il raffreddore.
Probabilmente nel vostro bagno, o sotto il lavandino della cucina, ci sono diversi prodotti Procter & Gamble, anche se non lo sapete. La politica aziendale, è infatti quella di utilizzare altri marchi per differenziare le diverse linee di produzione. Perché? Le ragioni sono molteplici, e qui qualcuno ha provato a spiegarle.

Quasi tutte le grandi aziende adottano questo sistema, procurando grossi mal di testa ai consumatori etici, che vorrebbero boicottare l’Unilever per la lista di crimini ambientali che la riguarda, ma vorrebbe dire liberarsi di metà dei prodotti per la casa e l’igiene personale, o sostenere aziende più equo-solidali, che però si trovano solo in una piccola bottega in centro arredata in legno grezzo, che vende prodotti selezionati a prezzi da boutique.

Per qualche anno ci ho provato anch’io, ma essere coerenti fino in fondo con le proprie scelte etiche significa stravolgere il proprio stile di vita a un punto tale che vivere come atto in sé diventa un gesto contro natura, e francamente non ne ho voglia. Ammiro chi ci si dedica con costanza, e non possiede un cellulare, un computer, le scarpe di pelle né quelle che contengono plastica, non mangia carne né derivati animali, non si sposta se non con mezzi pubblici eco-sostenibili, non utilizza prodotti testati sugli animali, quindi niente cosmetici, e quando si ammala si lascia morire perché anche i medicinali richiedono lo stesso tipo di sperimentazione. Davvero, quelli coerenti fino in fondo li ammiro, ma non posso essere come loro.

Ma torniamo alla multinazionale da cui siamo partiti.

Nel 2017 la Vick’s lanciò una campagna pubblicitaria che aveva per tema la famiglia nella società contemporanea: storie toccanti di persone che dovevano affrontare sfide difficili per il bene dei propri cari. La prima storia di “touch of care”, così si chiamava la campagna, era ambientata in India, e raccontava la storia di Gauri, una donna transgender, che adottava una bambina, scontrandosi con la società indiana. Fu un successo enorme in tutto il mondo, il video divenne presto virale, in ogni Paese si volevano adottare bambine, diventare transessuali, vennero venduti un sacco di sari, e l’economia indiana ricevette un impulso così forte che poté permettersi di comprare all’Italia una decina di marò e piantarla di rompere il cazzo coi due che teneva in custodia.

L’unica che non guadagnò granché da questa storia fu proprio la Vick’s. Il suo prodotto si vedeva pochissimo nel video, e neanche in primo piano, e nessuno sembrava fare caso allo sponsor di quella storia.

Si decise di girarne un altro, ambientato nelle Filippine, dove un bulletto di una baraccopoli adotta un bambino e trova la spinta per cambiare vita. Stavolta il prodotto venne inquadrato bene, in primo piano, e a contribuire al successo di video e azienda fu anche il fatto che a nessuno fregava davvero di volersi trasferire in uno slum filippino, e ci si concentrò a dovere sul marchio pubblicizzato.

Ad un certo punto il bulletto redento canta una ninnananna al bambino, mentre lo spalma di crema. Si tratta di Ili Ili Tulog Anay, una canzoncina appartenente alla tradizione degli Hiligaynon, una delle etnie presenti nelle Filippine. Nell’arcipelago che compone questa nazione si parlano 175 lingue diverse, quindi, per offrirvi un panorama completo del Paese che siamo venuti a esplorare, parlerò delle Filippine anche nelle prossime 174 puntate, mostrandovi un video per ognuno dei gruppi etnici riconosciuti.

No, scherzo, dai. La prossima volta andiamo da un’altra parte, anche se non so ancora dove, che a me quest’atmosfera rilassata da dopobomba fa venire voglia di oziare sul divano.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain

Per scrivere il prossimo capitolo voglio servirmi di un collegamento facile, e spostarmi di pochissimo, ispirato dal mio attuale stile di vita. Per essere coerente fino in fondo dovrei parlarvi di qualche artista che non si lava né si fa la barba, ma negli Stati Uniti ci siamo stati da poco, preferisco portarvi altrove.

Aspettate a gioire, perché oggi vi porto nel magico mondo del K-Pop!

Intanto che cos’è, il K-Pop?
La versione breve è che si tratta di musica pop che arriva dalla Corea del Sud, dove per musica pop intendiamo un genere musicale che pesca un po’ da tutti gli altri generi di successo per creare qualcosa di orecchiabile che ti rimanga in testa a lungo.
Rispetto a un brano da classifica di qualunque altra parte del mondo, il K-Pop ha poche differenze, anche perché spesso i suoi interpreti cantano in inglese. La grossa linea di demarcazione è tracciata dai video che accompagnano le canzoni, dove gruppi di ragazzini coreani in abiti molto colorati, si dimenano in coreografie anche piuttosto complesse.

Il fenomeno in Corea ha origini datate: durante gli anni della Guerra di Corea, la presenza massiccia di occidentali nel Paese aveva introdotto generi musicali nuovi, e qualcuno ne aveva tratto ispirazione per lanciare dei gruppi musicali composti di sole donne, sulla scia delle Ronettes, di Ronnie Spector.
Da lì alle band di ragazzini odierne il passo è breve, pianti un seme e lo lasci crescere; oggi la Corea del Sud produce qualcosa come 60 nuovi gruppi all’anno. La Corea del Nord invece produce disertori denutriti, che in video hanno una resa molto inferiore, ed è per questo che quando si parla di K-Pop non viene considerata.

Quello che contraddistingue il K-Pop più di ogni altra cosa, se vogliamo, è il suo legame coi media. Mentre una canzone, di solito, viene passata alla radio, esce in singolo, e se ne fa un video per distribuirla in tv e sulle varie piattaforme online, un nuovo singolo delle boyband coreane esce direttamente in televisione, accompagnato dall’immancabile balletto. Il K-Pop non esiste senza il suo supporto visivo.

L’impatto visivo di questo genere è enorme, e ne favorisce la popolarità ben oltre il territorio nazionale: in Giappone impazziscono per il K-Pop, in Cina lo copiano, in Corea del Nord non hanno la televisione.

Ma una caratterizzazione così forte si porta dietro anche dei limiti. Le popstar coreane sono delle icone, e se vuoi raggiungere il successo devi trasformarti in qualcosa di stereotipato che ha poco in comune con una persona vera. Tipo un cartone animato. Legata da un contratto decennale che spesso non garantisce neanche un guadagno adeguato, una popstar coreana viene creata a tavolino, deve mantenere standard rigidissimi per restare al passo con le esigenze del mercato, non invecchia, non ingrassa, non cambia mai. Viene usata finché funziona, e quando il suo successo cala la sostituiscono con un’altra popstar. La vita di una popstar coreana è breve e parecchio stressante, ed è per questo che parecchi non la reggono.

Ma perché vi sto raccontando del K-Pop?

Perché nel capitolo scorso avevamo visto che il 30 giugno 1997 si tenne la cerimonia con cui il Regno Unito riconsegnava alla Cina il territorio di Hong Kong, dopo un’occupazione che durava 150 anni; ma il 30 giugno è anche il giorno in cui compie gli anni la popstar sudcoreana chiamata N.

Il suo vero nome sarebbe Cha Hak-yeon, ma si fa chiamare N perché da bambino guardava i telefilm di Zorro, ma li guardava da sdraiato, e alla fine di ogni puntata, quando il giustiziere mascherato lasciava la sua firma sul petto del malcapitato di turno, quello che il bambino leggeva era una N.

Nel maggio 2012 la sua boyband, VIXX, debutta a M! Countdown, una trasmissione dove puoi votare il tuo artista preferito. La pagina web del programma ti permette di accedere alla biografia di ogni artista e sbirciare le foto provocanti di un sacco di ragazzine.
A luglio dello stesso anno, i VIXX sono a Baltimora, USA, all’Otakon Festival, una convention dedicata agli anime e alla cultura giovanile asiatica. Se siete mai stati a Lucca Comics avete una vaga idea di cosa si tratta.

I VIXX vanno avanti dal 2012 al 2018 inanellando singoli, album e apparizioni in tv e sui palchi di mezzo mondo. Sono venuti anche in Italia, nel 2013, in un locale dove l’anno dopo ci ho visto suonare Liam Gallagher.

Al momento la carriera dei VIXX è sospesa, alcuni membri stanno facendo il militare, qualcuno ha preso altre strade, altri si sono persi. Se volete c’è anche un video di un tizio che ha provato a scoprire dove sono andati a finire. Per una band nata nel 2012 sembra essere arrivato l’inevitabile momento in cui bisogna scendere dal palco.

N, a quanto pare, è stato assegnato alla banda dell’esercito, che non sembra essere quella cosa che potete immaginare, con soldati in divisa che marciano per le strade suonando gli ottoni, stando a quanto ci mostra questo video.

Dovrebbe finire presto, il periodo di leva in Corea del Sud dura un anno e mezzo, e per agosto potrebbe essere già fuori. Sempre che non metta un piede su una mina.

(continua)