Ora non è che voglio trasformare questo blog in un sito di ricette, che oltretutto per quello c’è già Zuccannella, che è pure brava, anche se adesso si è messa a fare le liste di dieci, che non si fanno da dieci, si fanno da cinque, sennò non si diventerà mai come Nick Hornby, però avevo da prendere possesso del computer per cazzeggiare fino all’una e mezza, che poi devo tornare a lavorare e stasera non ci sarà verso di farlo, che la mia fidanzata ha la scimmia di facebook e se sta più di due ore senza controllare il proprio stato finisce per farsi i poke sulla faccia (li fanno ancora i poke su facebook? Ma a checcazzo servono?), e dovevo anche scrivermi degli appunti sulla cena di stasera, che cucino io come tutte le sere, anche quelle in cui non è vero che cucino, diciamo che sporco delle pentole, e sono la maggior parte delle sere, e allora per unire l’utile al dilettevole e prendere due piccioni con una fava, che poi non c’è due senza tre e la farina dell’ingegnere va tutta in crusca (questo è uno spoiler), ho pensato di scrivermi gli appunti qui sopra, così poi stasera me li leggo e faccio quello che mi è stato detto senza sbagliare e quando la mia fidanzata torna è contenta e mi premia come solo lei sa fare.

Niente di pornografico, semplicemente non mi tira la padella come ogni volta, voi non sapete quanto spendiamo all’anno di padelle, roba che mi ci potevo comprare una moto.

Allora, la ricetta è quella dell’arroz con pollo, nome esotico per definire il riso avanzato dal pranzo e tirarsela da cocinero mexicano. Si dirà cocinero? Boh, io in spagnolo so dire solo tenchiu.

Si compra un peperone, una cipolla e.. cos’altro mi ha detto? Ah già, un petto di pollo, sennò è difficile che ti venga come da ricetta.

Il riso, come ho detto, ce l’abbiamo già, già cotto e possiamo aggiungerlo dopo.

Si taglia il peperone a striscioline sottili, non quelle fettazze che ho fatto l’ultima volta, che poi ci vuole il machete, e si butta nella wok insieme alla cipolla, tagliata anche quella, ma chettelodico affare?

Se non hai la wok butta via tutto e ordina una pizza, tanto quando la tua fidanzata torna a casa e ti tira le stoviglie non corri il serio rischio di una commozione cerebrale.

Quando il peperone è cotto e la cipolla è nera e tutta attaccata al fondo della padella puoi buttarci la carne, anch’essa tagliata a striscioline. Mi viene il dubbio che si possa prima passarla nella farina e poi spruzzarla di vino bianco, ma tanto il vino non ce l’ho, facciamo che no.

Alla fine, quando la carne sarà cotta e il peperone nero e la cipolla una roba secca e scura che fa un sacco di fumo, butti il riso e lo fai saltare. Per questo ti servirà del tritolo, che disporrai strategicamente tutto intorno al fornello.

Servire caldo.

Per evitare i tediosissimi resoconti di viaggio cui ho abituato i miei lettori (due o tre, gli altri seimila che erano soliti passare di qui sono scappati via urlando quando hanno capito di che si trattava) ho deciso questa volta di limitarmi a piccoli paragrafi slegati fra loro, come farebbe una guida turistica per persone che non hanno voglia di leggere.  Auguri.


Low cost
Viaggiare con i low cost è generalmente una merda: non puoi portare bagaglio da stiva se non paghi, non puoi sceglierti il posto se non paghi, parti e arrivi dalla periferia dell’aeroporto e per giungere a destinazione, una volta atterrato, devi prendere un altro aereo. RyanAir o EasyJet fa poca differenza, la prima ti lascia a Stansted, la seconda a Gatwick, per arrivare in centro ci metti quasi quanto il volo fin lì. Va bene, Londra dista solo un’ora e mezza, non è un gran sacrificio e il prezzo è decisamente inferiore a quello proposto dalle compagnie di linea, però una volta che ti abitui a viaggiare comodo è difficile tornare indietro. Inoltre quella del bagaglio a mano è una gran rottura di balle, devi infilare il trolley nella vaschetta per misurarne il volume: se ci passa puoi caricarlo, sennò va nella stiva.
Se però al check-in ti trovi in fondo alla coda può essere che il tuo bagaglio a mano finisca nella stiva comunque, perché le cappelliere sono tutte occupate. Com’è possibile, se il volume a disposizione è uguale per ogni passeggero? Non lo so, forse qualcuno si porta dietro le valigie disidratate, che una volta riposte nel loro vano si gonfiano come le spugne e rubano il posto a quelle degli altri.

La menata più grossa è che se vuoi comprarti qualcosa nel luogo di destinazione devi sempre considerare lo spazio che occuperà al ritorno, oppure pagare il supplemento bagaglio, che sono comunque quei trenta euri.


Ostello
Se per viaggiare mi piace la comodità è un bel paradosso che sull’alloggio mi faccia così pochi problemi: lo Smart Hyde Park View ci offre una stanza minuscola all’ultimo piano con l’ascensore rotto. Non c’è il tavolino, ma se è per quello non c’è neanche l’armadio, e lo spazio intorno al letto è così esiguo che per alzarti devi scavalcare il bagaglio. Il bagno però è in camera ed è pulito, e se per arrivare al lavandino devi stare in piedi nella doccia è solo perché il piatto è molto largo.

Il personale è disponibile, la camera viene rimessa in ordine tutti i giorni, ma per farti cambiare le lenzuola probabilmente devi chiedere. La colazione è essenziale, tè, latte, cereali, marmellata, pan carrè, prosciutto e formaggio. Pagando ottieni anche qualcosa di più.
La posizione è interessante, Leinster Terrace si trova a Paddington, fra le stazioni di Queensway e Lancaster Gate, una zona molto tranquilla incuneata fra i ristoranti cinesi e le botteghe indiane e i palazzoni eleganti appena dietro. C’è una fermata dell’autobus proprio in fondo alla via, e il ristorante greco che incontri appena la imbocchi manda un profumo di carne alla brace che ti fa venir voglia di cenare anche alle tre del pomeriggio.

Clima
A Londra fa freddo e piove sempre, bisogna vestirsi pesante, giaccone e scarponcini, poncho impermeabile e cappellino, e speriamo che non nevichi.
Poi arrivi e ci sono sedici gradi, non cadono mai più di due gocce e c’è gente che gira in sandali. Il due gennaio. Coi sandali. Vabbè, ma quelli sono malati, la maggior parte delle persone si copre, che quando si alza il vento e cala il sole la stagione si sente eccome. Però gli scarponcini erano di troppo, guarda. E anche il poncho, che a parte quei dieci minuti di pioggia vera quando siamo andati alla National Gallery non ce n’è mai stato bisogno.

Estate in gennaio a Hyde Park

Portobello Road
“Quante stupende sorprese ci son, troverai cose oltre l’immaginazion alle bancarelle di Portobello Road”. Ve la ricordate? La cantava lo Spazzacamino in Pomi D’Ottone E Manici Di Scopa. Boh, forse non era lo Spazzacamino.. Forse non era neanche quel film lì e mi confondo con Mary Poppins. Vabbè, tanto la canzone è scaduta, a Portobello Road ci sono gli stessi negozi di ciarpame fabbricato in Thailandia che puoi trovare a Camden Town, a Barcellona, a Genova e ovunque ci sia un po’ di movimento. Gli stessi prodotti si ripetono vetrina dopo vetrina, cambia solo la fantasia del negoziante nell’esporli, e forse un po’ il prezzo; perfino i turisti sono fatti con lo stampino: coppie sulla cinquantina e ragazze molto truccate dall’accento romano.
L’unica eccezione è un negozio di prodotti scozzesi dove mi sono fatto tentare da una coppoletta, ma non c’era la mia taglia.

Londra o Roma o Parigi o Barcellona o

Saldi
A Londra il due gennaio di quest’anno sono cominciati i saldi. Ogni negozio, dal buco merdoso al grande magazzino, espone il suo bel cartello col numero a due cifre e il simbolo di percentuale. French Connection in Oxford Street ha tirato su una scritta cubitale tipo insegna di cinema che recita “I am the sale.”, quello di fronte ne ha messa una in risposta che dice “No, the sale it’s me, go fuck yourself!”.

Fra parentesi, French Connection in Gran Bretagna abbrevia il proprio nome in FCUK, che sta ovviamente per French Connection United Kingdom, ma avrei preferito leggere French United Connection Kingdom, fa più ridere.

Sui marciapiedi dello struscio non cammini, e io vado in giro con un’ossessa che sbava davanti a ogni vetrina e guaisce per ogni cappotto colorato a metà prezzo.

Per me invece è un dramma, vado da HMV e sono assalito da orde di cofanetti di dvd a meno di dieci sterline (il cofanetto definitivo di Father Ted te lo mollano a dodici, tipo), e non li posso comprare perché a casa non ho posto dove metterli. Da quando ci siamo sbarazzati della televisione, poi, diventa superfluo anche l’acquisto di videogiochi, perciò non ci passo neanche davanti allo scaffale che mi dice SuperMegaOffer, e corro fuori asciugandomi gli occhi.

Oxford Street
La via dello struscio economico, dei grandi magazzini, dei vestiti a badilate, dei pachistani che regalano borse e telefonini, dei negozi di cianfrusaglie per turisti; la via dei turisti, dei ragazzetti di periferia, delle orde di londinesi con una mano bianca dipinta in faccia e i canini che sporgono dalla mandibola, di gente che entra ed esce e si incrocia con quella che va avanti e indietro, e se ti trovi in mezzo alla corrente non c’è neanche il bagnino a salvarti; la via dei bigmac, dei bigwhoopers, dei kingroyal, dei cibi di polistirolo e della puzza di fritto e detersivo. Non ci ho mai trovato niente di interessante in questa strada, mai niente di appena originale, le uniche cose che ti fanno capire di essere a Londra e non a Parigi, tipo, sono le bandiere inglesi esposte nelle vetrine di souvenirs.

Vorrei che ti aprissi, Oxford Street, e ti portassi via tutta questa marmaglia. Io la odio questa strada.

Eat.
Londra è piena di ristoranti legati a qualche catena, e trovare da mangiare quando hai delle esigenze particolari non è per niente difficile. Capita così che ci si infili in un locale che si chiama Eat., nel senso di Eat-punto, e ci si abbuffi di cibi appartenenti a quella categoria salutista che va un casino negli ultimi tempi. I prezzi sono contenuti, sulle confezioni sono ben visibili gli ingredienti e l’avviso se sono compatibili con la dieta vegana, o celiaca o di quelli che hanno solo i cazzi loro ma ci tengono a ribadirli ovunque.

Uno zuppone low fat con dentro pollo, germogli di soia, spaghetti e del peperoncino incredibilmente piccante garantisce un’ottima parentesi nella città del fish&chips, e permette al tuo fegato di rimandare un pochino la disintegrazione.

Notting Hill
Mi ricordo che c’era questa strada in salita piena di negozietti e bancarelle di frutta e verdura, che sembrava di essere sul set del film con Hugh Grant, che fra parentesi è stato girato quasi tutto negli studios compresa buona parte degli esterni, però non l’ho trovata. In compenso ho trovato un negozio di ciarpame thailandese Notting Hill con l’insegna che riprendeva la locandina del film, e una ragazza molto truccata dall’accento romano che la fotografava.

Però nei pressi di Notting Hill Gate c’è un bel negozietto di libri e fumetti usati, dove si ascolta del buon swing e la proprietaria sembra competente: ha uno scomparto apposta per Alan Moore e uno per Garth Ennis, e nel reparto “decidi tu se vale la pena o è una cazzata” c’è una vecchia ristampa di Tex.

Per poche sterle mi porto via Hitman di Ennis, che mollo a metà, il primo volumone di una serie in bianco e nero che alcuni anni fa ha vinto un Eisner Award e si chiama Queen & Country (questo lo divoro proprio) e un libretto per un amico che potrebbe trovarci qualche spunto interessante.

Kensington Gardens
Ve lo dico subito, Peter Pan lo trovate sulla sponda del Serpentine, il lago che divide i Giardini di Kensington dal più selvatico Hyde Park; sta poco più giù dell’Italian Fountain, e francamente potrebbe tornarsene all’Isolachenonc’è, è molto più bella la statua di Alice a Central Park.

Un’altra delusione di questo posto è rappresentata dal cartello riguardante la fauna del laghetto, che ti elenca fra le specie presenti la bellissima anatra mandarina, e invece puoi passarci la giornata a cercarla, e quella stronza non si fa vedere. Secondo me l’ultima è finita nella pentola di uno dei tanti ristoranti cinesi della zona.

L’ultima grande delusione è rappresentata dal Princess Diana Memorial Playground, un grande parco giochi pieno di meraviglie, fra cui voglio ricordare il tepee degli indiani e il galeone dei pirati, accessibile ad un prezzo ragionevole, ma ahimè, solo ai bambini e agli adulti che li accompagnano. Il fastidio di non avere mai un figlio quando serve!

Per il resto il parco è più curato del suo vicino di fronte, il laghetto rotondo è sempre al sole (oddio, per quanto si possa essere sempre al sole in Inghilterra) ed è un piacere sedersi a guardare gli uccelli, e laggiù in fondo c’è il Kensington Palace, che è più bello dei bagni pubblici di Hyde Park.

Peter Pan e Wendy ricordano i vecchi tempi ai Giardini di Kensington

(continua)

Foto del Subcomandante Marzia.

Tutti i diritti riservati.
Guarda che non scherzo.
Sono tutti cazzi tuoi.
No, davvero.
Tu non hai idea.

Insomma che niente, vado a dormire, mi sveglio oggi ma più tardi e scopro che dopodomani prendo la macchina il treno l’aereo la metro l’ascensore e non dormo più per quindici giorni, che nella città che non dorme mai anche schiacciare una pisa in un angolino, così di nascosto, mentre son tutti girati, fa brutto, e se c’è una cosa che in quel posto lì non va mai fatto è far brutto, che in quel posto lì son tutti tirati e fighi anche quando non fanno niente di speciale, che a te sembra che non facciano niente di speciale, ma in realtà loro stanno facendo qualcosa che altrove non si potrebbe mai: stanno facendo niente di speciale in un modo figo, e provaci un po’ a Ronco se ci riesci, che già andare in stazione coi capelli arancioni ti rende argomento di conversazione per una settimana e ancora dopo due c’è gente che ti saluta guardandoti sopra la fronte, si vede che la Pietrina non gli basta a questo paese di tricoconservatori.

La prima cosa che devo fare una volta di là è alzarmi a un’ora decente e incontrare i miei cognati mia cognata e il cognato della mia fidanzata tutta la cognateria sotto l’arco dove Harry capisce che non può vivere senza Sally che poi torna indietro di corsa e si fa tipo due tre boroughs che è una cosa che da noi fa strillare la milza solo a pensarci, come se io andassi a lavorare correndo, ma te l’immagini, un’infortunio sul lavoro al giorno sempre che riesca a raggiungere il cancello della ditta. Comunque ci si dovrebbe vedere là, e spero che tardino un po’, così vado a farmi subito la foto davanti a casa di Martin Mystère e poi me ne faccio anche una nella via di Bob Dylan abbracciato alla fidanzata che però sarà difficile che sia disponibile dato che è morta, vorrà dire che mi porterò la mia da casa, vedi che a viaggiare con del bagaglio extra alla fine torna utile.

Sto scrivendo in modalità fullscreen, che è una cosa che sembra di scrivere su un foglio, è anche bello da vedere, senza margini e colori di sfondo, tutto bianco, come battere a macchina una nuvola, chissà quando piove le macchie d’inchiostro che lascia sulle lenzuola stese.

(continua)

Gli italiani sono un popolo ben strano, gli aumenti le tasse e se ne stanno, gli metti un puttaniere come presidente e se ne stanno, glielo metti pregiudicato, mafioso, lo circondi di nostalgici del regime, piccoli e grandi delinquenti, e questi niente, imperterriti, al limite mugugnano al bar prima di aprire la Gazzetta e vedere se l’Inter si tiene Milito.
Poi scoppia la rivolta in Tunisia, e tutti dicono che eh, ci vorrebbe qui da noi, che questa classe politica sarebbe da mandare via a calci, però alla fine non succede niente. Scoppia la rivolta anche in Egitto, e tutti dai che forse è la volta che ci svegliamo, epperò niente neanche stavolta, l’Inter pare che Milito se lo tenga, vai un po’ a vedere chi compra il Milan.
Un giorno in Spagna, che ha un governo che magari non è il migliore del mondo, ma che qui ce lo sogniamo di notte, decidono che non si sentono abbastanza rappresentati, che la loro non è mica democrazia e scendono in piazza, e sono tanti.
Ora dico, la Spagna non ha un governo ridicolo come lo abbiamo noi, ha perfino un’opposizione reale, e sono tutti per strada a lamentarsi, possibile che noi no? A qualcuno viene su un conato di nazionalismo, che farsi superare dalla Libia ci sta, ma dalla Spagna no, eh?
Si sente in sottofondo l’inno nazionale, che nelle questioni di chi sia più figo fra gli stati europei è quello dei mondiali, e poo poppò poppo poo poo, ci si organizza per andare in piazza anche noi!

Oppure è solo finito il campionato e la sera non si aveva niente di meglio da fare, fatto sta che ci si dà appuntamento mercoledì 25 maggio in piazza De Ferrari.

Non è stato facile convincere le persone ad alzarsi dal divano, e le altre associazioni si sono messe subito di traverso, quelli della Sinistra Porcoddue non si sentono rappresentati dallo slogan e allora bisogna discutere di cosa scrivere sui cartelloni, sennò loro non ci vengono a far figure, e quelli dell’Opposizione Siamo Noi dicono che invece loro non sono d’accordo sul giorno, che il mercoledì hanno la partita a calcetto, poi ci sono quelli di Italia Svegliati che hanno dei dubbi su Piazza De Ferrari e vorrebbero fare il presidio alla stazione, mentre gli incazzati di Contro Tutti non vengono perché ci sono anche gli altri e loro contro-tutti-e-con-nessuno sennò devono cambiarsi il nome e allora bisogna fare una riunione di emergenza e fino alla settimana prossima non hanno tempo.

Insomma, alle nove in piazza ci siamo io, il Subcomandante e due ragazzi di un centro sociale che però hanno già detto di avere degli impegni. E basta.
Marzia parte subito con gli improperi danteschi, ahi genovesi popoli diversi, perché non sono io pel mondo spersa e invece sto qui insieme a voi morti di seghe? Ma io me ne vado a vivere in Olanda e vi frego tutti, merde!
“Guarda che così va a puttane l’endecasillabo”, commento, ma è inutile, quando parte per le sue crociate non ascolta più nessuno. Non mi resta che tirare fuori il picino e mettermi a cercare una rete wi-fi per giocare a elements.

Come tiro fuori il computer comincia ad arrivare gente, erano già tutti lì in attesa di un segno, hanno visto un tizio con gli occhiali e il portatile e si sono avvicinati convinti di essere al cospetto dell’organizzatore occulto.

No, guardi, io sono solo uno, l’organizzatore non so chi sia”, vorrei dire loro, ma Marzia è in piedi sul muretto ad arringare la folla col piglio del leader, la mia presenza è ormai superflua, qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione e sembra già di sentire la tromba di Roy Paci scandire il ritmo della protesta.

Arriva un gruppetto e ci dice che il vero organizzatore è un ragazzo con la maglia gialla, guardate, è quello laggiù che sta stendendo manifesti. Ci uniamo al gruppo e transumiamo presso la “base”, seguiti da quelli che nel frattempo si sono aggregati.

In un attimo in piazza ci sono un centinaio di persone, hanno slogan sulle lenzuola, manifesti a pennarello, hanno la faccia da studenti, qualcuno ha portato la tenda, altri la birra, tutti quanti la curiosità di vedere cosa succede. Gira un tizio con una telecamera da reporter, intervista l’organizzatore, poi un punk, che fa sempre scena, poi sparisce, ed è l’unico contatto con l’informazione che il presidio ha in tutta la sera.

I ragazzi che hanno organizzato l’incontro tirano fuori due megafoni da bambini e chiedono ai presenti di sedersi, e la maggior parte lo fanno, poi si presentano e leggono il loro volantino, ma non si sente veramente un cazzo di quello che dicono, e la gente comincia a sbuffare.

Interviene qualcuno a lamentarsi della situazione italiana, gli organizzatori dicono che va bene, ma che ci vorrebbero delle idee, sennò stiamo in piazza a fare niente. Un tizio, che credo appartenga a un centro sociale, dice che bisogna fare casino in via XX Settembre, alla Regione, butta là un “saccheggiare” che non viene preso sul serio da nessuno. Ancora gli organizzatori apprezzano, ma non ci sarebbero idee migliori? Tipo come mantenere il presidio più a lungo?
Più che all’avanguardia di una rivoluzione sembra di essere ad un gruppo di autoaiuto, commenta qualcuno.
Una ragazza propone di portare strumenti e suonare, occupare la piazza occupando il tempo.

Poi prende la parola un ragazzo con la barba e i pantaloni col cavallo basso, alla turca, dice di essere appena arrivato e di non sapere cosa succede, però ha capito che a parte l’entusiasmo lì non c’è altro, e tira su un pippone sulla lotta di classe e su come ostacolare il potere colpendolo nel portafoglio. Restano tutti un po’ spiazzati, che ad alzarsi e dire che una manifestazione è male organizzata è capace chiunque, più complesso è suggerire qualcosa di concreto, ma poi viene fuori che il tizio appartiene al gruppo di Quelli Che Lo Hanno Fatto Prima E Meglio; è l’ultimo rappresentante della sinistra che mancava all’appello, ci si chiedeva che fine avesse fatto, qualcuno temeva uno scontro con le forze dell’ordine, che Quelli Che Lo Hanno Fatto Prima E Meglio ci si picchiano sempre con la polizia, fa parte del loro rito di riappropriazione del territorio. In effetti tendono a riappropriarsi sempre del territorio di cui si sta già riappropriando pacificamente qualcun altro, come se fosse l’unico territorio riappropriabile, e di solito finisce che il territorio poi viene riappropriato solo dai lacrimogeni e da qualche cassonetto ribaltato, e non resta che andare a riappropriarsi di un territorio un po’ più in là.
Cavallo Basso elenca i maggiori successi del suo gruppo d’azione, occupazione di scuole, autostrade, stazioni e autogrill, ma non devono essere stati particolarmente efficaci, perché alla fine l’Italia è nella stessa merda in cui si trovava quindici anni fa, grazie tante. Forse sarebbe ora di cambiare strategia.

Fa una comparsata anche Don Gallo, ma resta ai margini dell’assembramento, discute con qualcuno e poi va via senza prendere la parola. Peccato, magari poteva dare un po’ di slancio. Più probabilmente avrebbe tenuto banco fino allo sfinimento (suo o nostro) e si sarebbe dovuto strappargli il microfono a forza.

Verso le undici e mezza decidiamo che va bene così, il megafono passa di mano senza soste, ma nessuno ha ancora buttato giù un piano, anche di breve durata. Si parla di aggiornarsi a sabato sera, in piazza ci sarà anche una festa, si potrebbe cercare di usarla come trampolino. Più che altro si parla, si parla, ma di concreto poco.

E si che c’è appena stata la manifestazione degli operai di Fincantieri, ce ne sarebbe da fare, contattarli, farli venire a parlare, agganciarsi alle altre piazze d’Italia, visto che con le altre associazioni di Genova non c’è dialogo, che sono tutti degli snob di merda.

Speriamo che la notte porti consiglio..

Il nuovo disco di Vinicio Capossela si chiama Marinai, Profeti e Balene, un omaggio alla letteratura di mare, da Omero a Melville, ma c’è anche Celine, che è come incontrare Gargamella in pizzeria, e non è un caso che il tour prenda il via da Genova: il cantautore ha sempre dichiarato il proprio amore verso la città e il teatro Carlo Felice sembra fatto apposta per celebrare la navigazione d’altri tempi, col pubblico seduto sul ponte di una caravella, i suoni che rimbombano dal palco come dentro un secchio, il mal di mare che ti viene se pensi a quanto cazzo hai pagato il biglietto.

Anche il palco è allestito sullo stesso tema, i musicisti sono vestiti da marinai, c’è una prua sul palco (proprio davanti al mio posto, cristodio), il pennone dell’albero maestro fa da sfondo e le ossa della balena si aprono e si chiudono sulla testa di quello strano equipaggio. Il capitano della nave ha il tricorno in testa, è seduto al pianoforte illuminato da una candela, e appena si apre il sipario attacca con le canzoni dell’ultimo disco.

Ecco, Marinai Profeti E Balene non è immediato come Ovunque Proteggi, forse non ne possiede neanche la freschezza, ma non è neanche tetro come Da Solo, e dopo i primi due tre ascolti cominci a sospettare di essere davanti a un prodotto migliore, pieno di riferimenti letterari senza risultare pesante, stratificato come la millefoglie di cipolla, e quando arrivi a sentir suonare le conchiglie, le catene, una sega e il carillon più complicato del mondo il sospetto si tramuta in certezza, quello in copertina col cappello da Napoleone è un genio.

Ma dicevo del concerto, che scorre via come una fregata fra leviatani e sirene. Tutta la prima parte è occupata dalle canzoni nuove, d’altronde è un album doppio, e dai vecchi cappelli di Capossela, cui si aggiunge il tricorno che indossa nelle foto promozionali. Parla col pubblico senza esagerare, presenta il susafonista di altezza variabile, dice due parole sulle canzoni, ma è quasi esclusivamente musica, tanto che quando escono i coristi si limitano a muovere la bocca senza proferire alcun suono, lasciandoci tutti un po’ scossi. Scopriremo poi che c’era un problema fonico.

Solo alla fine della parte “concept” il cantante introduce il gruppo, e scopriamo che dietro le casse che abbiamo di fronte, dietro la prua della barca da cui ogni tanto va a cantare Capossela, ci sono altri due membri dell’orchestra, di cui uno con dei capelli pazzeschi, bianchi e riccioli e sparati in ciuffi che sfidano la gravità.

Comincia la seconda parte, quella dedicata ai “relitti che porta la risacca”. Una versione rallentata di Che Coss’è L’Amor, la sorpresa di Morna, che io e il Subcomandante ci guardiamo a bocca spalancata e poi lei muore di gioia, poi qualche altro pezzo nuovo, poi tutti in piedi per L’Uomo Vivo e Il Ballo Di San Vito, poi Camminante, che non sto neanche a riguardare il Subcom, la raggiungo all’altro mondo con un sorrisone in faccia. Chiude con Le Sirene, che più lo ascolto più credo che sia una perla.

Oggi tutte le mie certezze sulla musica stanno barcollando, non sono più sicuro neanche di chi sia il mio cantante preferito, ho solo voglia di sedermi da qualche parte e mettere su il mio ultimo acquisto. E non ho ancora visto l’altra cosa che mi sono comprato, il dvd del tour precedente, che ho già collocato fra i tre più bei concerti cui abbia mai assistito. Vi saprò dire..

Le pratiche per ottenere il visto per gli Stati Uniti sono lunghe e difficili, soprattutto quando devi partire da zero col passaporto. Molto difficili. Così difficili che se ne fa cenno in antichi testi greci, in merito alle dodici fatiche di Ercole quando il semidio, dopo avere sconfitto l’Idra di Lerna, partì alla ricerca di una cabina per fare le foto certificate.

Dai documenti forniti dalla Questura pare che la foto debba avere caratteristiche specifiche, non devi avere il cappello in testa, fare smorfie, sorridere, essere serio, incazzato, guardare dall’altra parte, avere gli occhiali storti, pensare ai cazzi tuoi, esserti alzato tardi e devono essere trascorse almeno tre ore dall’ultimo pasto.

Gli apparecchi abilitati a questo tipo di documenti ti fanno la foto e poi la limano, correggono tutti i difetti e infine stampano una riproduzione di te che somigli a Liz Taylor e quasi quasi per natale ti regali un lifting. Oppure divorzi.
A Genova cabine prodigiose ce ne sono poche, una in stazione Principe, ma ci è andata ad abitare una famiglia di tunisini, non vedono di buon occhio gli sconosciuti che si fanno la foto nel loro soggiorno; qualcuno dice che un altro apparecchio si trovi in centro, ma non si sa bene dove, chi dice in Corso Torino, chi in Piazza Dante, chi sostiene di averlo visto in Via XXV Aprile in una notte di plenilunio.

Per fortuna nei giardinetti di Busalla ce n’è una in buone condizioni, ed è lì che mi trovavo ieri sera dietro insistenza della fidanzata, il Subcomandante Marzia.

“Ma sei sicura che non vada bene una foto qualsiasi?”
“Dobbiamo affidare le pratiche per entrare nel Paese più paranoico del mondo al corpo più inaffidabile d’Italia, sei davvero sicuro di volerti fidare?”
“Beh.. in effetti..”

Fuori dalla cabina staziona un “losco figuro da Lonely Planet” (la guida più venduta nel mondo nutre un vero e proprio terrore verso gli individui che camminano a testa bassa nei quartieri meno frequentati, li addita spesso come malintenzionati e vi consiglia di non uscire con del denaro in tasca. Tuttalpiù, se volete prendervi un caffè, potete sempre ricorrere al borseggio), ma non abbiamo timore, perché abbiamo portato con noi il Feroce Jack, la belva sanguinaria, terrore delle postine, incubo dei gatti, che però adesso tira come un dannato per andare a correre in mezzo alla strada.
Astuto come una faina non l’ho detto, vero? Beh, c’è un motivo.

In ogni caso non mi fido, anche se il tizio col cappuccio della felpa tirato su sembra più un bimbominkia che gioca col cellulare potrebbe essere un subdolo rapinatore che ha applicato alla cabina un dispositivo che spruzza un potente narcotico quando premi il bottone verde, così da poterci addormentare e poi spogliarci dei nostri beni in tutta tranquillità. Mando avanti Marzia, in fondo se siamo qui è colpa sua.

Mette i soldi, schiaccia il bottone, segue le istruzioni, si mette in posa, rischiaccia, aspetta, non perde i sensi, bene! Quando esce e mi mostra il risultato ho la prova che quell’apparecchiatura è prodotta da qualche centro estetico: l’espressione neutra di Marzia è la stessa di un bulldog cui abbiano tirato indietro le guance, ma nella foto che tiene in mano c’è Liz Taylor ai tempi di “La Gatta sul Tetto Che Scotta”, con tanto di occhi viola.

“Incredibile!”, esclamo, “Ti ha raddrizzato gli occhi!”
“Eh si, ha corretto anche quel lieve difetto al naso che..”
“E quell’orrendo porro che hai in mezzo alla fronte non c’è più! E neanche la mascella sporgente! E i pelazzi neri a unire le sopracciglia! E i brufoli! E i capelli unti! E..”
“La pianti?”

Mi siedo sullo sgabello con la fiducia di una casalinga che vota forzaitalia perché gliel’ha detto Ambra in televisione, ma quando esco ho la faccia della stessa casalinga diciassette anni più tardi.
Nelle foto che tengo in mano non ci sono io, la persona che è ripetuta otto volte in diverse misure ad alta definizione non mi somiglia neanche un po’. È Liz Taylor. Come sarebbe oggi se ne riesumassi il cadavere.

“Spero che la polizia me la accetti lo stesso.”
“Spero che la polizia non ti arresti come sospetto terrorista.”

Le pratiche per ottenere il visto per gli Stati Uniti sono lunghe e difficili, soprattutto quando devi partire da zero col passaporto. Molto difficili. Così difficili che se ne fa cenno in antichi testi greci, in merito alle dodici fatiche di Ercole quando il semidio, dopo avere sconfitto l’Idra di Lerna, partì alla ricerca di una cabina per fare le foto certificate.

Dai documenti forniti dalla Questura pare che la foto debba avere caratteristiche specifiche, non devi avere il cappello in testa, fare smorfie, sorridere, essere serio, incazzato, guardare dall’altra parte, avere gli occhiali storti, pensare ai cazzi tuoi, esserti alzato tardi e devono essere trascorse almeno tre ore dall’ultimo pasto.

Gli apparecchi abilitati a questo tipo di documenti ti fanno la foto e poi la limano, correggono tutti i difetti e infine stampano una riproduzione di te che somigli a Liz Taylor e quasi quasi per natale ti regali un lifting. Oppure divorzi.
A Genova cabine prodigiose ce ne sono poche, una in stazione Principe, ma ci è andata ad abitare una famiglia di tunisini, non vedono di buon occhio gli sconosciuti che si fanno la foto nel loro soggiorno; qualcuno dice che un altro apparecchio si trovi in centro, ma non si sa bene dove, chi dice in Corso Torino, chi in Piazza Dante, chi sostiene di averlo visto in Via XXV Aprile in una notte di plenilunio.

Per fortuna nei giardinetti di Busalla ce n’è una in buone condizioni, ed è lì che mi trovavo ieri sera dietro insistenza della fidanzata, il Subcomandante Marzia.

“Ma sei sicura che non vada bene una foto qualsiasi?”
“Dobbiamo affidare le pratiche per entrare nel Paese più paranoico del mondo al corpo più inaffidabile d’Italia, sei davvero sicuro di volerti fidare?”
“Beh.. in effetti..”

Fuori dalla cabina staziona un “losco figuro da Lonely Planet” (la guida più venduta nel mondo nutre un vero e proprio terrore verso gli individui che camminano a testa bassa nei quartieri meno frequentati, li addita spesso come malintenzionati e vi consiglia di non uscire con del denaro in tasca. Tuttalpiù, se volete prendervi un caffè, potete sempre ricorrere al borseggio), ma non abbiamo timore, perché abbiamo portato con noi il Feroce Jack, la belva sanguinaria, terrore delle postine, incubo dei gatti, che però adesso tira come un dannato per andare a correre in mezzo alla strada.
Astuto come una faina non l’ho detto, vero? Beh, c’è un motivo.

In ogni caso non mi fido, anche se il tizio col cappuccio della felpa tirato su sembra più un bimbominkia che gioca col cellulare potrebbe essere un subdolo rapinatore che ha applicato alla cabina un dispositivo che spruzza un potente narcotico quando premi il bottone verde, così da poterci addormentare e poi spogliarci dei nostri beni in tutta tranquillità. Mando avanti Marzia, in fondo se siamo qui è colpa sua.

Mette i soldi, schiaccia il bottone, segue le istruzioni, si mette in posa, rischiaccia, aspetta, non perde i sensi, bene! Quando esce e mi mostra il risultato ho la prova che quell’apparecchiatura è prodotta da qualche centro estetico: l’espressione neutra di Marzia è la stessa di un bulldog cui abbiano tirato indietro le guance, ma nella foto che tiene in mano c’è Liz Taylor ai tempi di “La Gatta sul Tetto Che Scotta”, con tanto di occhi viola.

“Incredibile!”, esclamo, “Ti ha raddrizzato gli occhi!”
“Eh si, ha corretto anche quel lieve difetto al naso che..”
“E quell’orrendo porro che hai in mezzo alla fronte non c’è più! E neanche la mascella sporgente! E i pelazzi neri a unire le sopracciglia! E i brufoli! E i capelli unti! E..”
“La pianti?”

Mi siedo sullo sgabello con la fiducia di una casalinga che vota forzaitalia perché gliel’ha detto Ambra in televisione, ma quando esco ho la faccia della stessa casalinga diciassette anni più tardi.
Nelle foto che tengo in mano non ci sono io, la persona che è ripetuta otto volte in diverse misure ad alta definizione non mi somiglia neanche un po’. È Liz Taylor. Come sarebbe oggi se ne riesumassi il cadavere.

“Spero che la polizia me la accetti lo stesso.”
“Spero che la polizia non ti arresti come sospetto terrorista.”

21/03/2011, a dirla tutta un lunedì mattina, quindi un post breve, che il lunedì mattina si va a lavorare incarogniti, e forse è questa la ragione per cui mi sento come un appartamento vuoto, col cartello affittasi appeso alla fronte e tutte le persiane chiuse a rimbombare il silenzio. Si, probabilmente è quello, e non l’effetto della prolungata esposizione a me stesso senza gli scudi termici e i deflettori da astrocaccia che la presenza di Marzia mi garantisce. Perché quando sono da solo mi trasformo in una specie di riassunto dei Fantastici Quattro, divento invisibile anche ai vicini, mi allungo a prendere la parte di casa che ho a portata di braccio senza alzarmi dalla sedia, mi si infiammano gli occhi per le eterne sessioni di videogiochi e a non lavarmi la pelle si ricopre di un roccioso strato di sporcizia.

Al di là delle considerazioni fumettistiche, oggi dovrebbe essere una bella giornata, che quando tornerò a casa la troverò abitata da creature con cui posso parlare. No, meglio, da cui posso aspettarmi una risposta. E pazienza se mi aspetterà una scudisciata per aver lasciato la casa in condizioni tali da far ribrezzo a un libico di ritorno dal Giappone, sarà bello riaverla in giro a lamentarsi. Un po’ meno sarà dover preparare cene socialmente accettabili a orari prestabiliti, che l’unico vantaggio del vivere soli è il panino improponibile delle cinquemmezza, che ti fa un po’ da pranzo e un po’ da cena.

Nel 1582 venne istituito il calendario gregoriano, che poi sarebbe quello che consultiamo noi per sapere quando chiedere ferie e sfruttare il pontone del primo maggio, guardare quanto manca al prossimo stipendio e ricordare le date importanti. È grazie alla riforma voluta da Gregorio Tredici che stasera sono sdraiato sul letto col picino sulla pancia a celebrare nel modo che mi è più familiare il mio primo lustro in compagnia della ragazza che sta uccidendo scheletri al piano di sotto.

Mi piacerebbe contare tutti i momenti piacevoli che abbiamo trascorso insieme in questi cinque anni, ma mi toglierebbe troppo tempo, e preferisco dedicarlo a cose migliori, a vivere altri cinque anni come questi, passati a misurare le sue mani nelle mie.

Mentre le donne sono impegnate nell’esplorazione dell’ennesimo supermercato io e Andrea ci riposiamo al bar di fronte. Ho con me il picino, così proviamo a collegarci a una rete wi-fi. Secondo lui i locali ne sono tutti forniti, e chiediamo alla cameriera se quel bar è uno dei tanti.
“Mi spiace, non sono di queste parti”, è la risposta.

Senza connessione stiamo a guardare fuori dalla finestra, e vediamo Michela stramazzare in mezzo alla via, vittima del ghiaccio. Scendiamo anche noi, ma senza ammucchiarci, e torniamo a casa, dove terminiamo la serata allietati da un racconto di Andrea a tema medico: quello di oggi si intitola “le meraviglie del riflesso gastrocolico”.

04/01/2010

Mi sveglio in piena notte dentro un buco, il materassino si è sgonfiato e mi ha fagocitato. Non mi metto a rigonfiarlo nel silenzio della casa, anche perché temo sia bucato, lo tolgo e dormo sul pavimento. Sogno di essere calpestato dalla banda dell’esercito compresa la grancassa, e la mattina sono una rosa.

Dopo la colazione scendiamo in giro per Leiden, e la prima tappa la facciamo al bar sotto casa. Io vorrei visitare le meraviglie della città, di cui ho tanto sentito parlare: la bancarella delle aringhe, il negozio di giochi da tavolo e quello di fumetti. Marzia mi porta a vedere dei mulini ghiacciati, dei canali ghiacciati, e quando ci raggiunge sua cugina esploriamo il supermercato Vroom. A fondo. Tipo tre ore più i supplementari, pranzo dentro e altri due tre giri per riambientarci gradualmente al freddo esterno, dove nel frattempo è scoppiata una tormenta di neve.

Io scappo prima, vado da solo a cercarmi i negozi, ma quello di fumetti è chiuso, quello di giochi da tavolo è stato ceduto, e la bancarella delle aringhe ha i sigilli della polizia perché ci è morto dentro qualcuno. Un cartello avvisa che alla riapertura le aringhe saranno vendute col 70% di sconto.

I prezzi olandesi sembrano mediamente più bassi, verrebbe voglia di approfittarne. Mi infilo in un negozio per skaters spacciandomi per giovane, attratto da un paio di cuffiette fighe che vorrei regalare al Subcomandante per fare carriera, ma costano quanto un trapianto di retina al mercato clandestino. Le regalerò un pacchetto di ciungai e camminare.

Non c’è altro da ricordare nella giornata, torniamo a casa stanchissimi e io vengo anche aggredito da Gattino, ma me la cavo con un’escoriazione profonda al piede destro guaribile in un paio di settimane portandomi immediatamente al pronto soccorso e pregando la madonna di Chihuahua, la protettrice delle escoriazioni ai piedi causate dai gatti sanguinari.

05/01/2010

Contrariamente alle nostre abitudini riusciamo a uscire di casa prima di mezzogiorno, e ci concediamo un’appagante colazione al bar sotto casa, un piccolo baretto figo della catena Bagels & Beans. Abitassi qui sarebbe una meta fissa ogni mattina, anche se non ci posso leggere gli articoli di Adamoli su Repubblica.

Prendiamo il treno per Amsterdam, che l’ultimo giorno vogliamo dedicarlo alla città, e come sempre restiamo delusi appena scendiamo dalla stazione: troppe macchine, gente, casino. Come già nella vacanza siciliana, quando lasciammo la tranquillità di Cefalù per la bolgia di Palermo, ci sentiamo spaesati dopo aver vissuto due giorni in una specie di presepe; il primo istinto è di tornare in stazione, fanculo alla missione di reclutamento. Il Subcomandante è mortificato più di me, era partita per mettere su un esercito e si è trovata a girare supermercati e cianfrusaglierie. Che andrebbe anche bene, non sa resistere alle cianfrusaglierie, ma almeno sperava di riuscire ad assoldare almeno un caporale fra un cappellino e una tovaglia.

Facendoci coraggio a vicenda ci inoltriamo nella via dei negozi di fronte alla stazione, percorrendola tutta dovremmo arrivare prima o poi al museo di Van Gogh, che se dobbiamo restare in questo casino di città almeno che ne valga la pena. A dire il vero io sono un bell’ipocrita di merda, che della pittura mi importa una sega, e vorrei vedere le donnine in vetrina, ma il quartiere a luci rosse è da un’altra parte, e devo fare finta di niente. Lungo il cammino però allungo il collo in ogni vicolo, sperando di sbirciare almeno una tetta.

L’odore di erba fa pensare a un pagliaio, ma molto più allegro. Ci sono parecchi italiani, chi con la canna d’ordinanza, chi col cellulare, entrano ed escono dai negozi mescolandosi con la gente del posto. Qui i miei compatrioti si sentono a casa, non perché riescano a comportarsi più civilmente che altrove, ma perché con tutti gli sconvolti che ci sono passano inosservati.

I negozi sono tutti identici, ad Amsterdam come a Leiden, o a Londra, e mi sa anche a Tokio: le stesse insegne campeggiano ovunque, e dentro ci trovi sempre le stesse cose. C’è la catena di articoli di lusso e quella di merce a basso costo, quella di saponi e quella di brioches, i cappelli, le scarpe, i cacciaviti, tutto standardizzato e ripetuto in serie in ogni strada o centro commerciale del mondo. Quello che distingue un po’ Amsterdam dalle altre località è la presenza costante di smart shops, quei negozietti che vendono chilum, ma ancora per poco, ormai stanno aprendo anche loro in altri Paesi, moltiplicandosi come funghi. Allucinogeni.

Il museo di Van Gogh è interessante, ma poco fornito, e le opere più importanti si trovano altrove. Per fortuna le ho già viste quasi tutte qua e là, e i dipinti esposti meritano comunque una visita. Un paio di volte resto lì a bocca spalancata per un quarto d’ora a contare ogni pennellata sulla tela, fino a scivolare dentro il dipinto e immaginarmi di essere in un campo di Arles, alla fine dell’Ottocento.

Invece quando esco dal museo sono ancora ad Amsterdam, e ne ho le balle piene, oltretutto ha cominciato a nevischiare, c’è pieno di ragazzotti in cerca di emozioni lisergiche e figa in serie, il Subcomandante mugugna e dobbiamo ancora fare la spesa. Sulla via per la stazione ci compriamo l’aringa, un trolley, due formaggette e visitiamo un paio di negozi pazzeschi di abbigliamento.

Torniamo a Leiden e facciamo ancora in tempo a visitare il negozio di giochi, dove mi compro Spank The Monkey, un gioco di carte che riempirà le nostre serate all’ECLN. Non ho visto le fighe in vetrina, ma alla fine va bene così.

Michela ha preparato la pastasciutta al sugo di funghi e pancetta, e la nostra vicina ci ha spedito un paio di foto di quei due bastardi di El Bastardo e Morelia Toñita a pranzo da lei. Altro che difendere il castello dagli imperialisti! Quando torniamo a casa gliela facciamo vedere, scrocconi che non sono altro!

06/01/2010

“Chissà se la befana mi ha lasciato qualcosa nella calza”, penso appena mi sveglio, alle quattro del mattino. Probabilmente no, le ho addosso da quando sono partito, se solo provasse ad avvicinarsi cadrebbe dalla scopa. La casa è silenziosa, anche Gattino sembra essersi dimenticato di noi. Ci vestiamo e usciamo quatti quatti, poi in strada trasciniamo i bagagli sull’acciottolato facendo un casino che sembra una corsa di camion della spazzatura.

All’aeroporto facciamo il check-in alle macchinette, dove ti permettono anche di scegliere il posto; ne prendo due più avanti possibile, perfino i piloti sono seduti alle nostre spalle, speriamo di non patire il freddo durante il volo.

A differenza della Malpensa, dove le poltroncine sono poche ed essenziali, qui puoi sbragarti in salottini sparsi per il terminal, oppure sulle chaises-longues appartatenegli angoli silenziosi. A quest’ora di mattina è tutto silenzioso, la maggior parte dei negozi sono chiusi, facciamo colazione in un bar dove riesco a farmi rapinare per un succo d’arancia che sa di segatura e un espresso prelevato direttamente dal serbatoio di un 737. Ci sono anche degli atleti in tuta rossa, forse una squadra di calcio, ma non ne riconosco neanche uno.

A bordo siamo seduti in due in un posto da tre. Per approfittare di tutto quello spazio mi tolgo le scarpe e mi allungo su due sedili, in una posizione invero scomodissima. Poi mi tolgo anche le braghe, ma il Subcomandante mi obbliga a rispettare il decoro.

C’è una lampadina che non funziona, o così sostiene il comandante. Bisognerà sostituirla e ciò comporterà un ritardo di circa mezz’ora. Già che son lì col cacciavite in mano spero che riattacchino anche la turbina qui a destra, che loccia un po’.

Mi faccio odiare dalla hostess che distribuisce caffè brodoso chiedendole un tè, e quando me lo porta mi dice che quello scaracco che galleggia nel bicchiere è in realtà una spruzzata di latte, all’inglese. Neanche con l’ingrediente segreto la mia bevanda riesce a somigliare a qualcosa di bevibile. Osservo Marzia che sorseggia il suo caffè, e mi chiedo se la ritroverò ancora viva all’atterraggio.

Finalmente ci mettiamo in moto, l’aereo comincia a rollare sulla pista, lentamente, e rolla, rolla, rolla ancora. Ma quanto cazzo rolla? Va bene che siamo ad Amsterdam, ma mi sembra che si esageri..

Capisco che qualcosa non va quando le hostess chiedono ai passeggeri una colletta per pagare al casello: torneremo a casa in autostrada!

Due ore più tardi arriviamo al confine con la Germania senza troppi problemi, tranne quando il pilota ha cercato di superare un camion e per non scontrarlo con l’ala è praticamente uscito di strada.
Per lo stessa ragione non ci si può fermare a nessun autogrill, e a bordo ci si arrangia come viene, si creano lunghe code davanti alla toilette e ci sono i soliti furbi che cercano di saccheggiare l’armadietto dei sandwich. Però è divertente, sembra di essere sul pullman della scuola, sui sedili in fondo ci si passano delle canne e qualche coppia attacca a pomiciare, e in business class hanno tirato fuori una chitarra e strimpellano pezzi dei Beatles.

Prima o poi arriviamo a Milano, ringraziamo il pilota e le hostess e andiamo a prendere il treno. Appena saliti l’odore di pisciazza ci commuove: siamo tornati a casa! Davanti a noi si siede una ragazza col cappello bianco, che si scappera per tutto il viaggio. Veniamo avvicinati anche da una tizia che vuole il latte in polvere per il figlio, da uno scarcerato ieri che ha i documenti per dimostrarlo e deve fare il biglietto, dal vecchietto chiacchierone, dal sordomuto che vende pupazzetti fatti da lui in Cina, da quello che si è perso, da quello che non sa dove deve scendere, da quello che non sa dove deve timbrare, da quello di prima che quando ha capito dove doveva scendere ormai eravamo ripartiti e vuol sapere cosa c’è dopo.

“Dopo Rogoredo?”, gli chiedo.
“Dopo la vita. Salterò dal treno in corsa e non è detto che sopravviva.”
“Scherzi? Alla velocità con cui ci muoviamo puoi tranquillamente fare una passeggiata lungo i binari e risalire con tutta calma.”

La neve ci saluta dalle parti di Voghera, e fino a casa sta lì fuori ad aspettare che scendiamo per ghermirci le scarpe, ma è neve familiare, il suo freddo lo conosciamo bene e sappiamo affrontarlo. Siamo a casa, ricominciamo a brontolare per le solite magagne, la stufa, il lavoro, il disordine, la cena, i gatti..

Alla fine l’ECLN conta tanti membri quanti erano prima, sono lo zoccolo duro, ci si può fidare di loro.

..Però a quei due bastardi la casa della Lella gliela faccio vedere io gliela faccio..