che poi buoni propositi fa troppo cara mamma ti prometto che l’anno prossimo sarò più bravo e terrò in ordine la mia cameretta senza arrivare a farmi chiudere per una settimana nel ripostiglio senza mangiare né bere, mentre in realtà io volevo solo scrivere una lista di spunti di cose che mi piacerebbe veder realizzate in questo 2012 che sta arrivando.

E scusate se comincio col mio compleanno, ma cadrà a gennaio, non è che c’è tutto questo tempo per organizzarsi e le cose da fare sono molte. Per il mio quarantesimo anniversario vorrei evitare di ricevere dai miei amici un mucchio di regali che lo so, sono sentiti, lo capisco, sono destinati a una persona dai gusti particolari e non è facile azzeccarli, lo apprezzo tantissimo che vi siate ricordati e abbiate voluto celebrarlo al meglio, ma davvero, DAVVERO, non ho bisogno di nessun oggetto/apparecchio/libro/capo d’abbigliamento che giustifichi la vostra spesa. Davvero. Grazie, ma no grazie.

L’unica cosa che potreste fare, se proprio non riuscite a resistere alla voglia di rinfacciarmi che compio quarant’anni e sono probabilmente a metà della mia vita e quella più divertente era la prima, sarebbe aiutarmi a realizzare il secondo desiderio: bermi una Sagres seduto al tavolino di un bar. Non è molto, dite? Basta trovare un bar che tenga la birra portoghese, dite? Ecco, il fatto è che il bar io l’avrei già scelto: ha i tavolini fuori, è poco frequentato e soprattutto si affaccia sulla Ribeira, il lungofiume di Porto. Capito adesso? Se proprio non resistete alla voglia di farmi un regalo regalatemi un pezzettino di vacanza a Porto. Non mi interessa starci quindici giorni, mi bastano due o tre, il tempo di camminare per le strade e ascoltare i gabbiani, andare a mangiare ad Afurada e bermi la mia sagres guardando i barconi ormeggiati. Sarebbe il miglior regalo per i miei quarant’anni, ve l’assicuro.

Un altro degli impegni che ho preso con me stesso per il prossimo anno è quello di vendere il vecchio vespino 125 (monomarcia, non quei gloriosi pezzi da esposizione). Non che sia da buttare, intendiamoci, nonostante gli anni e i chilometri è ancora in grado di portare due persone oltre i Giovi senza neanche il fiatone, ma con l’anno nuovo erediterò (pagandomi il passaggio, che intenderei appunto ammortizzare con la vendita della vespa) un Beverly 500 con cui conto di andare a spappolarmi contro un muro, sopraffatto dalla velocità, entro aprile, e mi piacerebbe che il fedele vespino andasse a stare a casa di qualcuno che lo sappia apprezzare.

Il quarto proposito viene via col terzo, perché se non prendo la patente A il Beverly lo posso guidare solo a Napoli, e fare avanti e indietro tutti i giorni per andare a lavorare a Busalla diventa lunga. Non dovendo studiare per l’esame di teoria conto di riuscire a cavarmela senza troppa fatica, al limite nascondo dei criceti ammaestrati sotto i birilli e li faccio muovere a comando.

Restando in tema di motori come non ricordare che quest’anno dovrò anche cambiare macchina, che duecentomila chilometri e un minaccioso sibilo alla distribuzione pesano più di un incentivo statale? Per questo spero che il 2012 mi porti una massiccia dose di culo e mi faccia trovare una macchina usata pochissimo a un prezzo bassissimo, ma credo che farò meglio a rivolgermi al solito rivenditore di famiglia.

E le vacanze? Le vacanze quest’anno mi sa che saltano, oscure nubi si addensano all’orizzonte e minacciano spesone. Naturalmente una piccola pausa portoghese non è proprio una vacanza, non va contata nei sacrifici, soprattutto se regalata dagli amici, che amici!

E poi direi basta, l’ultimo proposito del 2012 è di andare allegramente in culo ai maya e ritrovarci qui fra 365 giorni per tirare le somme e farsi promesse per l’anno a venire. Buon anno a tutti!

Riassunto delle puntate precedenti:
A parte che se volete sapere cos’è successo ve lo leggete, che basta scorrere col mouse verso il basso, non è difficile neanche per dei ritardati come voi, ma ho deciso di mettere un riassunto perché avevo lasciato la storia a metà di un punto in cui era facile perdersi per chiunque, figurarsi per dei decerebrati come i miei lettori. Non vi ci abituate, la prossima volta invece del riassunto capace che ci metto un quiz a domanda multipla, giusto per vedere se siete stati attenti. Siete delle bestie.Dicevo il riassunto: Preso il porto di Porto andiamo in stazione a vedere due orari, che c’è da partire, e già che ci siamo cerchiamo una bottiglia di roba bevibile, che quella che abbiamo nel sacchetto è una sbobbazza da turisti.L’imponente edificio si trova dietro Praça da Libertade, in una zona bombardata dalla crisi e da quella misteriosa voglia di scappare che ha contagiato la città: tutti i negozi chiusi, tutti i palazzi vuoti. Di fronte all’ingresso un leone di pietra sbadiglia di noia a dover sorvegliare una facciata piena di finestre sfondate. Un po’ più in là un palazzo suggerisce di recarsi da lui per comprare bene e a poco prezzo, ma sbirciando le vetrine al pianterreno ti accorgi che dentro non c’è nient’altro che polvere e ragnatele.Il piazzale della stazione è delimitato da un corrimano in pietra, su cui un distinto signore si appoggia per osservare il viavai dei tram. Ha lo sguardo severo, forse giudica frettoloso quest’abbandono del quartiere, ogni tanto si infila in bocca uno spicchio d’arancia per meglio sopportare la solitudine.
Quando gli passo vicino rigurgita una pallina di bolo arancione giù dal muretto e si mette a sputazzare semi e sugo con un rumore liquido. Entro velocemente in stazione.L’atrio è sontuoso, tutto ricoperto di azulejos, decorazioni liberty, un bell’orologio in ferro battuto, i barboni se lo devono proprio godere un posto così.
Troviamo l’ufficio informazioni e ne chiediamo alcune per il nostro viaggio dell’indomani a Viana Do Castelo, dove si tiene una delle feste più importanti del Paese.
L’impiegato deve aver passato la giornata ripetendo sempre quello, perché appena gli siamo davanti ci mette in mano un foglio con tutti gli orari utili e inutili, prima ancora che apriamo bocca.
Bene! Lodi sperticate all’efficienza portoghese, che non paga sugli autobus ma ci fa prendere il treno! Andiamo a cercare una bottiglieria!

Dalla stazione giriamo di là, poi andiamo in su verso una strada che non conoscevamo, poi di nuovo in là, e di colpo ci troviamo in un viale pedonale pieno di gente, baretti, negozi di marca, ristoranti, cinema.. La via dello struscio! Ecco perché Porto è sempre deserta, vengono tutti qui!

Ormai è ora di chiusura e metà dei negozi hanno le serrande abbassate, ma c’è ancora molto viavai, la strada è lunghissima, ci vuole un po’ perché si svuoti. Maledizione, abbiamo scoperto l’isola del tesoro a libro ormai concluso, questa volta Jim Hawkins dovrà tornare a mani vuote dalla sua povera mamma. Domani andremo via senza aver fatto neanche un giro in questa parte di città così spendereccia. La lista delle cose da fare nella prossima visita in Portogallo si sta allungando.

Prendiamo una via laterale e arriviamo di fronte al Mercado do Bolhão, e proprio lì accanto notiamo una vetrina piena di leccornie, formaggi di capra, prosciutti affumicati e bottiglie di porto.
Il gestore è un signore molto disponibile che ci fa assaggiare un mucchio di roba mentre la commessa impacchetta la bottiglia di Ramos Pinto che cercavamo. Ecco un altro negozio da tornare a visitare in futuro.

Si è fatta l’ora di cena, contattiamo i nostri amici per darci appuntamento in piazza e andiamo prepararci.
Poco dopo siamo di fronte al McDonalds Imperial di Porto a guardare Alessandro con facce interrogative.

“Come sarebbe che sta male? Cosa le è successo?”
“Abbiamo passato la giornata a visitare cantine, ci saremo scolati tre bottiglie di porto in due. La poverina non regge l’alcool.”
“Ha vomitato?”
“Tantissimo. E faceva dei versi orrendi tipo BUAARGH! SBLEEEEUGH!”
“Ma che schifo!”
“E questo è niente! Quando ha cercato di tenere la bocca chiusa per limitare il rumore sono venuti fuori dei sibili gorgoglianti che mi hanno fatto temere di essermi fidanzato con una creatura inventata da Lovecraft, roba tipo HSSGLGLGLSSSRRRGHSSSGLGLRGH! Senza contare che per la pressione ha spruzzato tutto attraverso i denti, imbrattando le pareti del bagno in un modo che solo a pensarci mi viene voglia di andare a dormire da un’altra parte! Persino il barbone che dorme con noi si è lamentato, ed è uno abituato a vivere duramente.”
“Ma se sapeva di non reggere l’alcool perché ha bevuto così tanto?”
“Ma ha bevuto pochissimo, giusto mezzo bicchiere, il resto me lo sono calato io. Eppure è bastato quello per farla uscire di testa, prima si è messa a ridere e a cantare stornelli in romanesco in mezzo alla cantina, non vi dico la figura, poi ha insultato il cameriere perché insieme al vino ci voleva anche i popcorn. Figuratevi questo, nella cantina più esclusiva della città una romana ubriaca gli chiede i popcorn, come pensate che possa aver reagito?”
“Le ha ricordato chi è il suo presidente del consiglio, suppongo.”
“No, ha fatto finta di non vederla. Si è messo a fissare un punto del locale e ci ha ignorati per il resto della degustazione.”
“Tipico dei camerieri portoghesi. E poi?”
“E poi basta, quando sono riuscito a schiodarla da lì l’ho trascinata fuori.”
“Ha dato ancora in ecandescenze?”
“No, poi le è venuta la ciucca triste e si è messa a piangere, ha detto che nessuno la capisce, che non ha più l’età per fare la scema, che vuole adottare un gattino e Lazio merda.”
“Scusa ancora una cosa, Alessandro..”
“Dimmi pure”
“Perché sei tutto sporco di sangue?”

Dopo un paio di giri a vuoto optiamo per un ristorante dietro la piazza, un posto mediocre che sta accanto a uno superlussuoso e a una bettola ignobile. Il cameriere è fin troppo gentile, quasi servile nei suoi modi, probabilmente ci odia, anche perché Alessandro gli sta gocciolando sangue sul pavimento da quando siamo entrati.

20/8

Dacci oggi la nostra agonia quotidiana

È il giorno della gita fuori porta, appuntamento in stazione per andare a Viana Do Castelo, dove si tiene la festa annuale di Nossa Senhora De Agonia. Si tratta di una processione, un pellegrinaggio o romaria, come lo chiamano qui. Ci sono donne col foulard in testa e la vetrina dell’orefice appesa al collo, ci sono dei tizi mascherati da giganti, ci sono le bancarelle che vendono prosciutto affumicato, ma soprattutto ci sono i tamburi. A decine, a centinaia, i tamburi sono ovunque, e li senti da lontano col loro incalzare minaccioso, come un battaglione di Uruk-Hai.

La nostra mattina invece comincia col suono più amichevole della macchinetta del caffè del bar in faccia alla stazione. È buono il caffè in Portogallo, non so se l’ho già detto. Il mio preferito è il Delta. Il barista è organizzatissimo, ha coperto il banco di tazzine, ognuna col suo cucchiaino e la sua bustina di zucchero, solo che Marzia vuole due bustine, e ne prende una da un piattino vuoto. A quel punto il barista, che nota l’incongruenza nel programma, si gratta la testa perplesso, quindi sposta una bustina da un altro piatto, ma non risolve il problema. Ne prende una da un terzo piattino e la pone al posto di quella che ha tolto, ma ancora non va. Non si capacita di come possano esserci tanti piattini, tante tazzine, tanti cucchiaini e una bustina di zucchero in meno. Alla fine decide di tirar via tutto dal banco e ricominciare da capo, ma a quel punto noi siamo già andati via.

Arriva della musica dalla stazione, e che sarà? È anche venerdì mattina, non il momento migliore per mettersi ad ascoltare la radio a quel volume che distorce tutto.
Avvicinandoci realizziamo che non viene dalla stazione, ma da un pulmino parcheggiato davanti pieno di bandiere rosse al vento: sono i comunisti portoghesi che distribuiscono volantini. Nella mia vita ho già avuto a che fare coi socialisti di Velletri, ora mi mancano solo i democristiani del Punjab.

Alessandro e Lucilla ci aspettano davanti alla biglietteria, anche loro col volantino rosso in mano. Non c’è niente da fare, per un italiano incontrare un comunista è come trovarsi di fronte un panda nano, lo tratta con ogni riguardo per paura che gli si estingua davanti.

C’è ancora un po’ di tempo prima del treno, giusto quello che occorre per una bella colazione a base di.. “quel tortino lì che mi sembra tanto gustoso”.
Gustoso lo è, niente da dire, ma la carne tritata alle sette e mezza è un ostacolo un po’ difficile da superare.

Il treno portoghese è diverso da quelli italiani, intanto per cominciare funziona, tutto, non una carrozza si e due no, e poi ha le porte che si aprono, i sedili interi, e nonostante questi bonus riesce anche a rispettare gli orari.

Durante il viaggio, che dura un’ora e mezza, si riempie all’inverosimile, tanto che ad un certo punto il controllore deve aprire uno spazio extra in testa al convoglio, dove di solito si tengono le merci ingombranti, tipo le biciclette, o le bare, nel caso di funerale in treno locale, che ultimamente va un casino, ne hanno parlato anche su una di quelle riviste di trend, che è il termine con cui si definisce una moda legata alle ferrovie, trend.

Fra i vari personaggi che vanno alla romaria di Viana notiamo una signora col testone vestita da materasso e la ragazza di Pippo, che è una che conosco io che sta con uno del mio paese, perciò la cosa andrebbe classificata come gossip locale, ma trovandoci su un treno che fa tutte le fermate ci sta.

“Senti un po’..”, mi dice Marzia ad un certo punto, distogliendomi dall’osservazione dei passeggeri,
“Non ti sembra che Lucilla abbia qualcosa di strano?”

La guardo perplesso, poi guardo Lucilla, che è seduta un po’ più in là e dorme col cappuccio della felpa tirato su, poi riguardo Marzia.

“Si, ora che me lo fai notare quel cappuccio la fa sembrare uno degli avvoltoi di guardia al castello del Principe Giovanni, nel Robin Hood della Disney.”
“Ma no, guarda meglio!”

Riguardo meglio, ma continuo a non vedere niente di strano.

“Ha il push-up?”, azzardo.
“Secondo me non è lei.”
“Come non è lei? E chi dovrebbe essere?”
“Ieri sera Alessandro è venuto al ristorante da solo, dicendo che lei stava male, ed era tutto sporco di sangue.”
“Si, ha detto che si è ferito radendosi.”
“Ma non si era fatto la barba! Non ti sembra una cosa strana?”
“No, anch’io di solito mi ferisco radendomi e poi non mi faccio la barba, perdo tanto tempo a ricucirmi le ferite che non me ne resta più per fare altro.”
“Io credo invece che l’abbia uccisa e poi sostituita con un sosia!”
“Quando torniamo a casa ti tolgo la televisione, vedi troppo Chilavisto!”

Al momento di scendere passiamo per il compartimento extra di cui sopra, che alla fine del viaggio ospitava fra le settanta e le ottocentoventi persone, ha raggiunto una temperatura e un tasso di umidità che neanche in India e quando si aprono le porte ed entra l’aria più fredda dell’esterno comincia a piovere.

C’è questa passeggiata sul lungofiume che parte dal porto e arriva a quella spiaggia di cui sopra, è una bella strada larga, pianeggiante, con un sacco di panchine, scommetto che a percorrerla in primavera è anche piacevole. Sotto il sole d’agosto è una tortura, non c’è neanche un albero a farti ombra, arriviamo a metà che sudiamo come gli ultimi classificati alla maratona di New York, quelli che neanche la gioia di essere arrivati in fondo, quelli che puzzano e basta.

E la fame aumenta, così torniamo indietro e ci infiliamo in quella trattoria che abbiamo visto in mezzo al paese, quella che non sembra un posto da turisti, la Taberna do São Pedro.
In effetti turisti non ce n’è, ma il locale è pieno. Buon segno.

Ci sediamo in un angolo e la cameriera ci porta subito una bella insalata. Alle nostre spalle, fuori dal locale, due uomini si danno da fare intorno a un grosso barbecue su cui buttano a cuocere il pesce. È una cosa che noti in paese, tutti hanno un piccolo braciere fuori dalla porta dove mettono a cucinare le sarde, qui la pesca dà veramente da vivere a tutti.

Rispettiamo la tradizione locale e ordiniamo pescato alla griglia (anche perché non c’è altro): sardinhas per Marzia e calamari per me. Ed è l’epifania. Un pesce così buono non l’abbiamo mai mangiato, soprattutto mai a questo prezzo, tre euri e mezzo. Va bene, non è eviscerato, ma in Portogallo il pesce si serve così dappertutto, e ha un sapore di mare che ci fa pulire i piatti in un secondo e poi cercare la cameriera per il bis. Pigliamo anche un’orata in due, e il prezzo non cambia, alla fine di tre piatti di pesce, un antipasto, un’acqua e una bottiglia di vino spendiamo 24 euri, ed è il pranzo migliore della vacanza.

A questo punto non resta che andare a vedere quest’oceano di cui tutti parlano, no?

Dalla parte della passeggiata abbiamo già visto che è lunga e noiosa, la faremo nei prossimi giorni, quando avremo una macchina. Per il momento si può tornare al traghetto e proseguire nella direzione iniziale fino alla foce del Douro, saranno cinque minuti di autobus.

Il traghetto non c’è ancora, ma non siamo soli ad aspettarlo, c’è un tizio dall’aria alcolica con un grosso sacchetto pieno di sarde che ciondola nei paraggi. È sulla sessantina, la panza e il parlare trascinato raccontano molto su come ami spendere i suoi pomeriggi. Mi si avvicina e mi domanda un euro per attraversare il fiume, poi cerca di ricambiare donandomi il suo sacchetto pieno di pesce fresco. E cosa me ne faccio di due chili di sarde? Per un attimo sono tentato di accettare, poi alla fine no grazie, che non ho neanche un frigo dove metterle. Se ne va sbuffando verso il primo bar, e di lui non so altro.

Una volta sbarcati sulla riva opposta prendiamo un autobus fino alla spiaggia all’estuario del fiume.

Eccolo lì”, dico a Marzia, “L’oceano.”
E lei subito: “Il Pacifico è più bello!”
E allora vattene sul Pacifico!”
Non posso, non ho la patente e a quest’ora non ci sono treni!”

Le chiedo se vuole scendere a bagnarsi i piedi, ma dice che no, preferisce camminare sul molo e guardare i pescatori che sfidano le onde per procurarsi il cibo in una lotta impari contro la natura selvaggia.
Il primo che incontriamo ha piantato la canna nel muro e se ne sta allungato a prendere il sole.

Tira vento sul molo, tiene lontano il caldo opprimente dei pomeriggi portoghesi, che con tutte le piastrelle che stanno intorno a riflettere i raggi solari pare certe volte di stare in un microonde. Sarebbe da passarci il pomeriggio qui a guardare l’orizzonte, immaginando di veder spuntare qualcosa da quella distesa d’acqua. La Corsica, magari.

Retrocediamo lentamente verso la spiaggia, superando un capannello di uomini intenti ad osservare la sfida dell’anno fra Gei Ar col cappello di paglia e un anonimo portoghese, a briscola.

Superiamo il Jardim do Passeio Alegre, un parco in stile liberty dove fotografo l’orinatoio più bello che abbia mai visto (e ci si può immaginare la scena di un tizio con una macchina fotografica appostato all’uscita dei bagni pubblici), superiamo un sacco di barche con e senza pescatori al seguito, superiamo la zona vivace della passeggiata e finiamo in quella desolata e caldissima, niente più da fotografare, ci accasciamo sul marciapiede e aspettiamo o eletrico che ci porti indietro.

Sul Muro dos Bacalhoeiros, ai margini della Ribeira, ci concediamo una sosta presso un circolo di velisti o pescatori o giocatori di freccette, sinceramente non ricordo. Quello che ricordo bene invece è il cameriere, che mi ha fatto assaporare per la prima volta dal mio arrivo in terra lusitana il sapore acido dell’incomunicabilità.

IO – Cosa vuoi bere?
MARZIA – Qualcosa di analcolico, una bibita gassata magari.
IO – Uma cerveja e.. algo.. con gas?
CAMERIERE – Mgrrr?
MARZIA – Quella roba rossa che ho bevuto ieri al bar!
IO – Come si chiamava?
CAMERIERE – Mgrrr?? Raurr!
MARZIA – Non mi ricordo! Va bene anche un tè!
IO – Un tè!
CAMERIERE – Raurr! Groarr aruarr! Mrrr!
IO – Tè! Tea! Ice tea!
CAMERIERE – Raurgh!! Graaah!! Mgrraaa!! Roooaarrrr!!
IO – D
uas cervejas! Duas! Duas! Mamma mia!

Eppure da bambino immaginavo il mio incontro con un personaggio di Guerre Stellari come un momento di gioia! Ma forse non era Chewbacca pelato, doveva essere qualche comparsa della nuova trilogia.

Guida all’acquisto intelligente

Allora, cosa ci resta da vedere?”
Ci sarebbe..”
Cosa?”
Beh..”
Beh?”
Ecco..”
Un’altra chiesa? Ma tu sei malato!”
Ma è quella barocca! A te il barocco piace! Ti ricordi a Palermo?”
Come minimo ci sarà da pagare.”
E poi in questa dice Alessandro che ci sono i diorami sanguinolenti e le statue dell’orrore!”
Uff. Vabbè.”

Sette euri. No, dico. Che Marzia il diorama sanguinolento me lo voleva fare in faccia. Poi non è neanche il prezzo, fossero stati due era uguale, ti girano le balle pagare per entrare in chiesa, anche se hanno un bel dirti che ci restaurano, che ci mantengono, l’istituto cattolico ha delle entrate che manco la british petroleum, e inquina parecchio di più, e a me dargli dei soldi non mi va bene. E poi non sono due euri, sono sette, e con sette euri alla Taberna do São Pedro ci mangi un’orata e un piatto di calamari che sembra li abbiano tirati su dal mare direttamente sulla piastra, e ti danno pure tante patate bollite da farti venire la pellagra.
Comunque entriamo, che i soldi per l’arte son sempre ben spesi.

Ben spesi una bella merda!”, ribadisce ancora una volta la vocina della mia coscienza.

Ben spesi, poi, effettivamente una bella merda, che dentro a parte il diorama coi mori che fanno a fette quattro cinque martiri cristiani e un altro tizio con un albero che gli esce dalla pancia non è che ci sia ‘sta gran baroccheria da vedere, sebbene la guida ne parli come di un capolavoro di qui e di là, ma abbiamo già visto che la Santa non è da prendere proprio sempre alla lettera.

Con l’ultima chiesa dichiariamo terminata la visita della città. Lo sappiamo che ci sono ancora un mucchio di cose, musei, altre chiese, tutta la parte moderna, parchi, o Estádio do Dragão, che da quando ho scoperto che la squadra di calcio cittadina è stata fondata nel 1893 ne sono subito diventato tifoso, ma ce li terremo per la prossima visita, che tanto a Porto ci torniamo secco.

Andiamo invece a comprare il porto, che domani si va via col treno e si torna tardi, e dopodomani si va via con la macchina e si torna più, perciò o si piglia adesso o ce lo si piglia dove non si dice.
Torna giù alla Ribeira, arifai il ponte, percorri di nuovo il lungofiume di Gaia fin da Ramos Pinto. E trovalo chiuso. Nooo! Il dramma! E ora?

Marzia suggerisce di andare da Càlem, che è sempre indipendente e continua a darle quest’idea di giovane cantina rivoluzionaria che si ribella alle potenti multinazionali e perciò da sostenere, solo che lì c’è da fare la gita alle cantine e sembra obbligatoria, e non ne abbiamo per le balle. E poi ci devono essere i nostri amici in giro per bevute a scrocco, e lo sappiamo come va a finire, che ci incontriamo davanti a una distesa di bicchieri e bevi questo e assaggia quello e tu l’hai provato quest’altro e alla fine ci distruggiamo come e più che se fossimo andati da soli. No no, lascia perdere, chiediamo se si può comprare senza fare tutto il giro e stiamocene.

Da Càlem funziona così: appena entri ti implotonano in base al paese d’origine e ti fanno fare il giro dello stabilimento con una guida molto preparata. Prima ti fanno camminare per ore attraverso tunnel bui e umidi e pieni di pipistrelli, dicendoti che l’odore di muffa che senti sono le botti più antiche, quelle dove si conserva il vino più pregiato, e tu fai aaa e vorresti scattare una foto ricordo a quell’oscurità puzzolente, ma non te lo lasciano fare, che si rovina la stagionatura, ti dicono; in realtà stai camminando per una fogna dismessa sotto il Douro e l’odore che senti sono infiltrazioni vecchie di secoli e qualche topo morto da quarant’anni; una volta tornato alla luce ti portano in una stanza con un ritratto gigante di Nonno Càlem, il fondatore della cantina, un tizio coi baffoni e il cappello da contadino fotografato in piedi nella sua vigna mentre tiene in mano un rastrello. Nessuno ha mai usato rastrelli in una vigna, che se c’è uno strumento inutile in una vigna è un rastrello, ma la foto l’hanno scattata l’anno scorso e hanno pensato che faceva agricolo. Ti portano al cospetto di Nonno Càlem, dicevo, e c’è una che ti tiene fermo in piedi per un’ora e venticinque a raccontarti la storia della cantina, dal fondatore in avanti, in spagnolo. O in portoghese, se capisci lo spagnolo. O in olandese, se parli entrambe le lingue e mastichi anche un po’ di inglese. Pare che a una comitiva di giapponesi poliglotti, ferratissimi in tutte le lingue europee, abbiano propinato una spiegazione in un raro dialetto delle steppe caucasiche infilandoci in mezzo delle parole inventate sul momento.

Alla prova finale ci arrivano in pochi, in genere uno su sette otto: ti portano al negozio e finalmente ti fanno assaggiare il vino. Tutto. Ci sono ventiquattro qualità diverse di porto, più i vini da tavola per un totale approssimativo di novanta etichette, e te le fanno assaggiare tutte, una dopo l’altra, senza darti il tempo di respirare, ti strappano via il vuoto dalle mani e te ne danno uno pieno, e stanno lì e ti guardano severi finché non lo hai trangugiato, e fanno anche taptaptap col piede per metterti più a disagio. È la politica della cantina per evitare che il culto del vino venga rovinato dalle masse di turisti. Perché lo sanno che la maggior parte dei visitatori vuole solo bere del porto a scrocco e della visita alle botti e della fase di produzione non gliene frega niente, così loro estremizzano tutto, trasformano un’innocua gita scolastica in un percorso iniziatico per veri appassionati. Solo ai più degni sarà permesso di accedere al Sancta Sanctorum e accostare le labbra al Graal.
E a quelli che vogliono comprarsi una bottiglia, ovviamente, difatti a noi ci fanno passare dalla porta sul retro e in un attimo ci troviamo davanti alle casse, con un impiegato gentile che ci domanda cosa ci interessa.

L’idea sarebbe di prendere quel dieci anni che abbiamo assaggiato da Ramos Pinto, ma a scatola chiusa non si prende niente, che già ci hanno infinocchiato quelli dell’ostello di Lisbona che ci hanno fatto pagare in anticipo tutte le notti a venire, stavolta chiediamo di assaggiarlo.
Ci portano al bar e una signorina che ha già versato tanto vino da farsi venire il gomito del tennista beone ci porge due calici di Càlem dieci anni.

Secondo te com’è?”
Secondo te?”
L’ho chiesto prima io.”
Te lo devo proprio dire?”
Dai.”
E’ una merda.”
Già.”
E adesso come facciamo? Non possiamo uscire senza comprare niente, e se ci obbligano a fare il giro punitivo che dura il doppio di quello normale e comprende anche l’interrogazione alla fine?”
Prendiamone una bottiglia piccola, alla fine la sbolognamo a qualcuno.”
Ochei dai. Poverini però.”
Chi, Càlem?”
No, quelli che gli regaliamo la bottiglia.”

Ce la caviamo con un’elegante confezione mignon che la imbelinerei nel fiume appena usciti, a pensare che quello di Ramos Pinto è ormai inarrivabile, chiuso dietro una solida cancellata.
Però la città è piena di bottiglierie! Potremmo comprarcelo in un negozio!
Marzia applaude alla mia idea, e animati da nuovo spirito ci arrampichiamo per l’ennesima volta su per la salita verso la stazione di São Bento, che c’è da vedere un po’ a che ora partire domani.

19/08/2010

Instant Carmo
È una nuova mattina nella città di Porto, il sole tarda a mostrarsi, ma non ci preoccupiamo, l’ha fatto anche ieri, lo fa tutti i giorni in questa città vista oceano, poi pensi che pioverà, esci pesante e dopo un quarto d’ora ci sono trentasei gradi e tutte le piastrelle che ci sono appiccicate ai muri ti riflettono il sole negli occhi, e passi il resto della giornata cieco e sudato. Poi verso le tre, tremmezza muori disidratato.

In questa cupa mattina io e il Subcomandante Marzia abbiamoancora da vedere delle robe, così usciamo prestissimo dalla stanza, tipo le novemmezza, e andiamo a fare colazione, poi rompiamo ogni indugio e usciamo. Per fare la seconda colazione.
E si perché con tutte le pastelerie che ci sono in giro non puoi prenderti almeno un krapfen gigante, una roba con la panna, qualcosa..

Alla fine del pranzo, che le calorie assunte con un dolcetto basterebbero a tener su una squadra di calcio, scarpiniamo fino all’Igreja do Carmo, che non è lontana da dove ci troviamo.

La Santa Guida è rimasta affascinata dalle pareti esterne decorate ad azulejos, merita la visita!”, mi dice la fidanzata, stranamente disponibile verso il clero. Non discuto, si vede che la cena della sera precedente le ha abbattuto le difese immunitarie.

Le dura il tempo di arrivarci davanti e scoprire che la chiesa ha una sorella siamese da cui è separata solo per un vicoletto strettissimo: la Igreja dos Carmelitas.

Eccheccazzo, una non gli bastava?”, protesta, ma entriamo lo stesso. La vista degli azulejos ha un effetto rilassante su di lei, devo ricordarmelo quando torneremo a casa, magari ci arredo la cucina, così la smette di strillare se rovino la cena.

La chiesa all’interno è spoglia, tranne l’altare superaccessoriato, pesante come il trucco di una soubrette, e per entrare devi superare la prova tossico.
C’è infatti in strada un tizio chiaramente segnato dagli stupefacenti che fa la guardia ai passanti, ostentando noncuranza come può farlo uno che vive la sua vita in grassetto maiuscolo: sta appoggiato a un palo cercando di fischiettare e butta la testa velocemente di qua e di là per vedere se qualcuno si avvicina alla chiesa. Appena ne becca uno parte come un razzo e si fionda ad aprirgli la porta, mostrandogli contemporaneamente il bicchierino per l’elemosina. L’ingresso della chiesa ha due porte, e per evitare che il potenziale cliente imbocchi quella senza portinaio il nostro amico marcione lo invita bruscamente a passare dalla sua parte.
Se passi di là lo stesso non succede niente, ti aspetta all’uscita e ripete la scena.

Eletrica salsa (ba-ba ba-ba)
Ci allontaniamo ignorandolo e puntiamo verso il fiume, tanto per cambiare, ma stavolta da una via diversa, che dovrebbe portarci più a valle. Abbiamo deciso infatti di andare a visitare il borgo di S
ão Pedro da Afurada, luogo di pescatori che immagino pieno di graziose casette di legno e strade di pietra, con gatti e reti stesi al sole, uomini cui il mare e il sale hanno disegnato la faccia come la mappa di un tesoro, bar tenebrosi da cui senti venir fuori le più truci canzonacce, donne di malaffare, coccodrilli con una sveglia nella pancia, botteghe di protesi a forma di uncino.
Sono tutto eccitato, ho già in programma di comprarmi una pinta di rum e dividerla con quattordici individui in un’impresa di pompe funebri, ma se non dovessero esserci bottiglierie ad Afurada non importa, sono sicuro che almeno un jolly roger riuscirò a portarmelo via, anche a costo di tirarlo giù dal pennone.

Cammina cammina arriviamo sulla strada che costeggia il fiume. Siamo un po’ oltre la Ribeira, ma non così vicini a dove vogliamo andare. Davanti a noi si erge massiccio il vecchio deposito dei tram, ora adibito a museo. Qualcuno ci ha detto che è bello, la Santa Guida ne parla bene, ma vuoi mettere un tram con un giro di chiglia? Non esiste, voglio i miei pirati!
C’è una fermata dell’autobus con due controllori che ci spiegano la strada per il borgo di pescatori: dobbiamo prendere il tram fino al ponte da Arràbida e poi cercare un passaggio per attraversare il fiume. S
ão Pedro da Afurada è subito di là.

Un passaggio? Non mi ci vedo proprio a fare il navistop”, protesto.
Ma no, vedrai che ci sarà un traghetto”, mi rassicura Marzia, ma ormai mi sono fatto il mio film sulla pirateria, e sono convinto che qualunque battello diriga su Afurada sia carico di gaglioffi pronti a rapinarci.
Piantala! Non ci sono pirati ad Afurada!”
Essì, stai a vedere che hanno tutti windows originale!”
Nessuno di quelli con la benda sull’occhio, almeno!”
Staremo a vedere..”

Ci sono diversi autobus che portano in quella direzione, ma la cosa che vediamo sferragliarci incontro non appartiene alla categoria dei mezzi su gomma. È giallo, piccolo e panciuto, diresti che la fermata precedente l’abbia fatta dentro un cartone animato, e ogni volta che fa una curva hai l’impressione che debba ribaltarsi sulla schiena come una tartaruga.
È il vecchio tram che abbiamo incontrato sotto la Igreja dos Clerigos, e che adesso ci porterà alla nostra destinazione. Per i portoghesi il tram si chiama o elétrico, come fai a non volergli bene a un popolo che parla così?

Sul tram non c’è molta gente, possiamo sederci vicino al finestrino e scattare qualche foto del paesaggio, ma la vera attrazione sarebbe l’interno, perfettamente conservato, ancora con gli spaghi appesi al soffitto per suonare il campanello della fermata.
Non che fuori ci sia molto da vedere, dall’Atlantico sta venendo su un nebbione da paura, il Douro è immerso in una coltre bianca che ci impedisce di vedere perfino il ponte.
Capiamo di essere arrivati alla nostra fermata quando il tram supera il suo pilone di cemento, e a quel punto scendiamo.
E non c’è niente.
Ochei, c’è un bar su una palafitta che ha l’aria di essere piuttosto fico, oltre che chiuso, e alle nostre spalle dei brutti palazzi aspettano di essere completati, ma a parte l’aspetto di periferia dismessa non c’è altro, solo una banchina con una signora seduta a pulire un pescione e un altro tizio seduto per terra che dondola i piedi sull’acqua.
Nessuno dei due ha la benda sull’occhio.
Nessuno dei due ha la gamba di legno.
Nessuno dei due ha pappagalli sulle spalle.
Maledizione.

Questi posti davanti al mare
Nel nostro portoghese stentato chiediamo notizie del traghetto, e la signora, senza voltarsi, sempre col coltello in mano, ci indica la nebbia.

Vuol dire che il traghetto è stato inghiottito dalla nebbia con tutto l’equipaggio e che presto faremo la stessa fine anche noi. Scappiamo!”
Ma no, idiota, vuol dire che sta arrivando, non lo vedi? Eccolo!”

Infatti il traghetto arriva, col suo borbottio placido attracca e fa scendere i passeggeri. Da qualche parte ne spuntano altri che attendono di salire, un paio sono gli stessi che ho appena visto scendere, si vede che a casa non hanno la televisione e si divertono così, facendo avanti e indietro. Il biglietto costa un euro e c’è solo un canale, alla lunga gli conviene abbonarsi a sky.
Sale anche la signora, che si piazza sul ponte e ricomincia a far andare il coltellaccio. Ma non ce l’ha una cucina dove fare questi lavori? Si vede che qui il traghetto è un po’ come la piazza del paese, ci si ritrovano quelli senza cucina, quelli senza televisione, e a giudicare dai giornali che adocchio in cabina deve svolgere anche le funzioni di edicola.
Sono quotidiani sportivi, cosa che mi fa pizzicare il senso di ragno. Ci trovo un paio di notizie che mi fanno sentire odore di casa, ma niente di più; torno a sedermi sul ponte e scatto qualche foto al nulla.
La traversata dura qualche minuto, ed è il tempo sufficiente perché la nebbia sparisca. Quando arriviamo di là è una bella giornata di sole, i pescherecci stanno rientrando in porto e non c’è nessuna faccia da bandito per strada, nessuno che canti canzonacce, niente di niente.

Afurada è un paesino di case basse dall’aspetto moderno, parecchio anonimo, disposte in lunghe file ordinate. C’è qualche negozietto, c’è un piccolo mercato, un paio di ristoranti, ma niente di più.
I pescherecci si, quelli sono interessanti, circondati dai curiosi e da uno stormo di gabbiani in preda a un’agitazione frenetica. Stanno scaricando secchi di pesce, prevalentemente sardine, e i pennuti saltellano qua e là in attesa di potersi buttare sugli scarti. Una volta terminato lo scarico i pescatori se ne vanno e i gabbiani assaltano il battello: in mezzo alle reti ammucchiate sul ponte sono rimasti piccoli pesci, qualche granchio, che vengono subito contesi a beccate. Gridano e si pestano e fanno un gran casino: alla fine li ho trovati i miei pirati, non hanno la benda sull’occhio ma in quanto a uncini sono ben accessoriati.
Però che delusione queste strade tutte pulite e piastrellate, dove ritrovare un po’ dell’antico spirito?

Guarda che è un borgo di pescatori, non di pirati. Sei tu che ti fai dei film!”, mi rimprovera la fidanzata.
Perché, forse che i pirati non andavano a pesca?”, replico, seccato.
I pirati abbordavano le navi, che pesca!”
E cosa mangiavano, oro? Pescavano, te lo dico io! In ogni covo di pirati c’erano dei pescatori, quindi per il principio zero della termodinamica in un villaggio di pescatori devono trovarsi anche dei pirati, è lapalissiano!”
Il principio di che?”
Non lo so, vaneggio.”
Ma vaneggi male! Se fosse come dici tu allora i pirati avevano anche bisogno di vestiti, quindi in ogni città in cui ci sia un negozio di abbigliamento dovrebbero esserci dei pirati! Sarebbero ovunque, scusa!”
Mai affermato il contrario.”
E allora perché non consideri anche Genova una città di pirati?”
Certo che lo è, e lo dimostrano i prezzi nelle vetrine. O i ristoranti, vai un po’ a vedere quanto ti mettono una pizza e poi dimmi se Genova non è una città di pirati.”
Però a Genova non cerchi persone con la benda sull’occhio e il pappagallo sulla spalla.”
Perché in un centro così grande lo stereotipo del pirata si è disperso nella folla, è come il succo di arancia concentrato che ti danno all’ostello di Lisbona: se ci aggiungi un po’ d’acqua è buono, se ce ne metti troppa come fanno loro ottieni un liquido torbido dal sapore disgustoso che mai più ti farebbe pensare all’arancia, sebbene sia l’ingrediente principale.”
Hmm..”

Parlando e camminando arriviamo senza accorgerci a un edificio sul limitare dell’abitato, con una selva di bastoni a reggere delle corde: è il lavatoio pubblico, lo dimostrano le tante vasche all’interno, i panni stesi ovunque a sbattere al vento e soprattutto la signora incazzata che sfrega una maglietta sulla pietra e smadonna in portoghese. È un bel quadro da incorniciare questa donna che lavora coi mutandoni appesi dietro di sé e l’oceano sullo sfondo. Peccato per l’audio.

Senza la nebbia possiamo vedere bene l’orizzonte che credevamo già atlantico, e provare disappunto nello scoprire che non è affatto così. Una diga foranea imbriglia la foce del Douro, impedendo al mare di entrare a fare casino, ma anche a noi di inebriarci di infinito, e a Marzia questa cosa proprio non va giù. Dice che lei ha nuotato nel Pacifico, ma l’Atlantico lo ha sempre solo visto in televisione, e prima di tornare a casa vuole pucciarci i piedi dentro, anche a costo di andare fino al bagnasciuga a piedi.

In che direzione è questo maledetto oceano?”

Le indico una lingua di sabbia che emerge in fondo alla strada. Con tutta probabilità oltre le dune c’è l’Atlantico. O un posteggio.

E allora andiamo! O hai fame?”
No no, è ancora presto, andiamo pure a vedere l’oceano”

In realtà sono le undici e mezza e ho una fame che mangerei una tonnara. Girando per il paese abbiamo comprato un pezzo di pane locale dall’aspetto invitante, ma pesa come se fosse impastato col granito, ogni boccone che mando giù precipita nello stomaco con rumore di ghiaiaio.

La cantina
Dal prato di Gaia il profilo di Porto è una delle cose più belle che vorresti avere davanti, tranne forse trentasette centimetri di simpatia. Un labirinto colorato che si arrampica per il pendio, edifici appoggiati uno sull’altro come i gradini di un anfiteatro e tu, sul palco, a sentirti protagonista e spettatore insieme. Ricorda un po’ il centro storico di Genova, ma da noi per godere di una prospettiva simile devi imbarcarti su un traghetto.
La facciata di un palazzo è coperta da secoli dal pannello giallo della Sandeman, la più famosa marca di vino della città, ma non disturba affatto. L’uomo intabarrato col bicchiere in mano è una figura onnipresente, ti ammicca dalle vetrine, dai barconi sul Douro, dal tetto degli edifici, dai tram, è come Belen Rodriguez, ma recita meglio.
Altro discorso vale per la gigantesca insegna rossa della Seat che copre la facciata di un palazzo proprio davanti alla sé. Quella è veramente un pugno nell’occhio, non puoi non vederla, rovina le foto, è brutta.
Non che la cosa mi impedisca di portarmi via altre duecento immagini con la scusa che la luce è migliore.

La luce è un’altra cosa di cui bisogna parlare se si racconta del Portogallo, perché è un altro dei suoi elementi essenziali. Se potessi scattare una foto che riassuma questo Paese sarebbe l’insegna di una pasteleria a metà di una salita ripidissima, con una chiesa tutta arabescata in cima, un tram che viene giù, una casa decorata ad azulejos e una Madonna che piange. E sarebbe una foto sovraesposta. Perché la luce in Portogallo, come racconta Alessandro nel suo diario parallelo, “è del 46% più luce della luce che c’è da altre parti”. Roba da farti suicidare l’esposimetro.

La digestione del pesce ci prende un paio d’ore, ma quando ci alziamo siamo di nuovo tonici e pronti all’ennesima sfida, specialmente gastronomica. L’unico impegno che abbiamo è vederci con Lucilla e Alessandro, che sono arrivati in città da qualche ora, si sono accampati da qualche parte e stanno facendo i turisti chissà dove, ma abbiamo in programma di cenare insieme, quindi per un po’ siamo ancora liberi.

Vila Nova De Gaia è la zona delle cantine, allineate una accanto all’altra alle nostre spalle vivono del commercio di bottiglie, ma hanno trovato un lucroso mercato organizzando visite guidate per i turisti. Per quest’attività così redditizia si servono di individui senza scrupoli, i bagarini. Sono inarrestabili, riconoscono il turista al volo e ci si avventano contro con quella finta cortesia che è quasi insolenza, gli si piantano davanti e gli decantano la magnificenza della cantina, l’accuratezza della spiegazione multilingua di cui potrà godere e soprattutto la quantità di assaggi gratuiti compresa nel prezzo d’ingresso. Nel mio caso è facile, ho la macchina fotografica perennemente appesa al collo e l’espressione estatica del bambino in gita, mi basta transitare dall’altra parte del marciapiede e i bagarini mi sciamano addosso come testimoni di geova su un campanello. Per fortuna ho Marzia a tenerli lontani, non ama essere importunata dai passanti e li scaccia roteando i suoi sguardi minacciosi.

Però il porto di Cristiano Ronaldo non era granché, vuoi rinunciare a un assaggio di qualcosa di meglio? Andiamo da Ramos Pinto, di cui non sappiamo nulla, ma che non si serve di buttadentro e la cosa ci fa già simpatia.

Il primo impatto è ottimo, appesi alle pareti ci sono manifesti pubblicitari liberty firmati Rossotti, Capiello e Metlicovitz, tre autori che mi scatenano un’emozione fortissima quando mi rendo conto di non averne mai sentito nominare neanche uno. Ma è perché sono un ignorante, si tratta di tre importantissimi illustratori italiani dei primi del Novecento, autori di quei manifesti che oggi pullulano le bancarelle vintage che fanno tanto elegante a metterli in salotto e che strapaghi per realizzare poi che sono tutte riproduzioni sgranate che se le vedessero Rossotti, Capiello e Metlicovitz ti sputerebbero in faccia.

Con sei euri ci facciamo la degustazione per principianti, cinque bicchieri dal bianco più giovane a un rosso di dieci anni, un breve manuale “assaggiatori di vino for dummies” con l’omino dalla faccia triangolare in copertina che punta il dito, le schedine per annotare le sensazioni provate, una matitina.

Agitiamo il bicchiere come veri sommeliers, notando come l’alcool resti appiccicato al vetro, ma non a quello della finestra, cazzo fai, pulisci che ci vedono; diamo una prima annusata veloce e poi una seconda più lunga e intensa, per riconoscere ogni elemento che impreziosisce il bouquet, financo lo strutto e i chiodi arrugginiti tirati via dalla botte dopo quarant’anni di stagionatura, assaggiamo a piccoli sorsi, passandoci il gustoso nettare su tutta la superficie della lingua, così da permettere alle papille gustative che stanno in fondo di guadagnarsi la paga anche loro, che non fanno mai un cazzo e non le posso neanche lasciare a casa perché sono raccomandate dall’alto.

Annotiamo scrupolosi quello che abbiamo colto dall’esame del primo bicchiere, ci dedichiamo con diligenza a studiare il secondo, proviamo il terzo, tracanniamo il quarto e facciamo ampi gesti di approvazione fischiando rumorosamente e dandoci grosse pacche sulle spalle dopo esserci spazzolati il quinto. È il migliore, non ci sono dubbi! Ha un retrogusto di noce così persistente che ndevi mandarlo via a parolacce, Non lo compriamo solo per non doverci portare dietro la bottiglia, ma prima di abbandonare la città torneremo senz’altro.

In realtà Marzia ha letto sulla Santa Guida Lonely Planet che esiste una piccola cantina indipendente chiamata Càlem, e il suo spirito ribelle la spingerebbe ancora una volta a sostenere le minoranze, anche quando sono proprietarie di un capannone grande come un campo da calcio. Non ci andiamo subito perché se beviamo ancora qualcosa di più forte dell’acqua distillata andiamo in coma etilico, ma le prometto che non mi butterò in nessun incauto acquisto prima di aver visitato i suoi amici “rivoluzionari”.

Tempo libero
L’ennesimo bagarino ci arpiona col suo blocchetto di vouchers: questo propone una gita in battello della durata di 50 minuti per la modica cifra di dieci euri, più una visita guidata alle cantine Offley’s. Accettiamo, forse l’aria del fiume ci rischiarerà le idee, e io già sbavo all’idea di fotografare il ponte da una nuova prospettiva.

La gita è tranquilla, la parte a monte fino al Ponte Maria Pia è piuttosto anonima, quella zona della città è troppo moderna, si vedono le spiagge che abbiamo notato arrivando in treno. L’unica cosa degna di rilievo sono due pescatori seduti coi piedi in acqua a leggersi i libri di Pedro Gambadilenho a turno, a voce alta. Quando ritengono di avere letto abbastanza buttano i libri nel Douro e si baciano voluttuosamente facendo un sacco di spruzzi. Chiedo a Marzia cosa ne pensi di quel bizzarro teatrino, ma dice che non ha visto niente e che mi sono inventato tutto e che dovrei farmi visitare da un medico appena torniamo in Italia. Certe volte quella ragazza mi preoccupa, è talmente apprensiva..

Il viaggio in battello prosegue verso la foce, fino al borgo di Afurada, un villaggio di pescatori che abbiamo in mente di visitare il giorno dopo. C’è una fitta nebbia che ci impedisce di vedere l’oceano, ma è anche meglio, possiamo immaginare che sia proprio lì a due passi, come direbbe Cristo.

Dopo la gita non andiamo a vedere le cantine perché sono già chiuse, ma anche perché non ce la facciamo più neanche a tornare a piedi fino all’ostello. Ci sediamo sul prato e aspettiamo che i nostri amici ci trovino.

“Allora, avete alloggiato nel nostro ostello superfigo?”, chiedo a Lucilla.
“No”, mi risponde, “Non c’era posto, così abbiamo cercato lì vicino.”
“E dove avete trovato?”, domanda Marzia.
“Stiamo nel grosso palazzo abbandonato su Avenida dos Aliados”, rivela Alessandro, mortificato.
“Però costa poco!”, cerca di giustificare Lucilla. “Abbiamo una camera molto spaziosa!”
“Si, la dividiamo con solo quattro barboni!”, interviene Alessandro.
“Ma nel nostro c’è la colazione compresa!”, dico.
“Nel nostro sono compresi gli scarafaggi!”, replica.
“Nel nostro ci sono i film!”, insisto.
“Nel nostro gli ubriaconi che si accoltellano!”, insiste. “E c’è anche la connessione remota!”
“Davvero?”
“Si, nel senso che uno dei barboni che dormono con noi una volta si collegò a internet”.

Lasciamo che i nostri amici vadano a prenotare al ristorante buonissimo segnalato da un’amica di Marzia che va in Portogallo tutti i giorni, un posto dove cucinano il polpo alla brace come lo mangiavamo in Puglia, dove ti servono pezzi di tentacolo lunghi un metro e passa. Noi strisciamo sul primo autobus che ci riporti in centro per una doccia ricostituente.

Il Rivoli Cinema Hostel è sempre lì, con le sue serrature elettroniche a custodire ogni sorta di meraviglia. Appena varcata la soglia c’è una bacheca di prodotti locali, fra cui due bottiglie di porto, alcuni gadgets di Star Wars che mi fanno venir voglia di inoltrare domanda di assunzione e..

“Aaahhh!!”, strilla Marzia come se avesse visto il più grosso scarafaggio della sua vita.
“Cosa! Dove!”, faccio io.
“Guardaaaa!”, e indica la bacheca, solo che non ci sono scarafaggi, ma delle assurde scarpette di plastica. Ho capito tutto. È incredibile come uno strillo di gioia femminile somigli così tanto a un urlo di terrore, dopo tutto questo tempo non ho ancora imparato a riconoscerli, come l’impercettibile differenza di tono che distingue un “non ho niente (sono assolutamente serena e in pace col mondo)” da un “non ho niente (ti odio con tutte le mie forze e sto seriamente pensando di ucciderti nel sonno)”.

Insomma che ha visto delle scarpe che pare siano l’ultima novità in fatto di abbigliamento alternativo, quelle robe di moda fra chi non vuole essere di moda, che in Italia costano come le ciabatte orrende di Prada e invece qui te le porti via con quindici euri. Evidentemente i portoghesi sono meno stupidi degli italiani.

“Devo scoprire dove le vendono! Devo averle a tutti i costi! Devono essere mieee!”

La trascino via di peso, e per fortuna che alla reception c’è un tizio che non parla né inglese né spagnolo, perché se avessimo avuto una minima speranza di comunicare avrei potuto scordarmi la cena.
Torniamo invece a Gaia e occupiamo il nostro tavolo al ristorante Casa Adão, dove lavora la cuoca assassina.

Ancora È costei una grossa signora con la cuffia e la voce imponente, che lavora segregata nel suo spazio tra i fornelli dalla mattina alle sette fino a notte inoltrata, tanto che capita spesso che debba fermarsi a dormire lì. Per questa ragione si è organizzata tenendo una coperta e un cuscino dentro il forno, che non usa. Tutti i piatti della Casa Adão sono bolliti.
I ritmi di lavoro massacranti hanno segnato profondamente il carattere della signora, che col passare degli anni ha raggiunto un tale livello di misantropia da minacciare col coltellaccio chiunque le rivolga la parola. È evidente che nella cucina di un ristorante sia inevitabile rivolgersi alla cuoca, e questo genera dei conflitti che spesso sfociano in gesti violenti, come quello cui siamo testimoni quella sera, quando la cameriera riporta in cucina un piatto di riso lasciato intatto e la cuoca lo prende come uno sgarbo personale.

Il dialogo esatto fra le due non lo posso riportare per ovvie difficoltà linguistiche, ma cercherò di essere il più fedele possibile al concetto, e mi scuso fin d’ora per le libertà narrative che mi concederò.

CAMERIERA – Il tavolo quindici non ha neanche toccato il riso.
CUOCASSASSINA – E io cosa ci devo fare?
CAMERIERA – E io che ne so? Mangiatelo!
CUOCASSASSINA – Io me lo devo mangiare? Io? Loro se lo devono mangiare! Quei bastardi! Lo sanno quanta cura ci ho messo a prepararlo?
CAMERIERA – Beh, magari non avevano più fame.. Hanno preso parecchi antipasti..
CUOCASSASSINA – Lo sai dove glieli infilo gli antipasti? Fammeli vedere, voglio vederli in faccia quei figli di puttana!
CAMERIERA – Sono.. sono andati via..
CUOCASSASSINA – Sono andati viaa? Li hai mandati viaaah?!?
CAMERIERA – Hanno pagato e se ne sono andati, cosa dovevo fare, sequestrarli?
CUOCASSASSINA – Aargh! Li ammazzo! Giuro che li ammazzo! Bastardi! Mi fanno fare una vita da schiava e poi non mangiano! Figli di puttana! Gliela faccio vedere io gliela faccio!

Ciò che segue non è molto chiaro, gli altri camerieri ad un certo punto si sono frapposti tra il nostro tavolo e la finestrella della cucina, e non abbiamo più potuto vedere com’è andata a finire, ma pare che la cuoca abbia brandito un’ascia e abbia cercato di correre in strada per inseguire i clienti; la cameriera ha cercato di impedirglielo, che c’era da preparare un bacalhao per il tavolo otto che stavano aspettando già da un po’, ma la cuoca pazza di rabbia ha tentato di divincolarsi e si è ferita.

Tutto ciò ha ritardato di parecchio la nostra ordinazione, ma abbiamo ingannato l’attesa bevendo vinho verde e pregando per la nostra incolumità.

Il polpo arriva, effettivamente è tagliato in pezzi così grandi che fra i tentacoli si trovano ancora dei frammenti di chiglia, ma non è gustoso come quello di Mola Di Bari. Non credo dipenda dalla cuoca, ma anche se fosse mi guardo bene dal protestare, e così i miei compagni. Mangiamo tutto in silenzio, non ci lamentiamo nemmeno quando nel piatto troviamo un dito mozzato ancora sanguinante. Ci limitiamo a ripulirlo col tovagliolo e a lasciarlo nel piattino delle mance al momento di alzarci.

Il conto ormai è un’abitudine, quando va male come stasera sono quindici a testa, ma abbiamo mangiato come struzzi e Alessandro ha bevuto tanto vino che quando se ne va canta La Montanara Uè.

18/08/2010 Colazioni
Mi risvegliai di soprassalto con qualcosa che mi stava sbattendo sulla faccia, ma non era l’ascia di un albergatore portoghese pazzo, era un raggio di sole infilatosi di soppiatto fra le tende. Eravamo sopravvissuti, l’ostello non aveva davvero niente di negativo. Accanto a me Marzia dormiva ancora, se c’erano dei criminali assetati di sangue in giro per i corridoi avevano risparmiato anche lei. Forse pensandoci meglio qualcosa di negativo quel posto ce l’aveva..

C’era qualcosa di strano in me quella mattina, ma non mi riusciva di capire cosa fosse. In bagno mi scrutai a lungo nello specchio, senza trovare nulla di diverso, tuttalpiù qualche nuovo capello bianco, un po’ di stanchezza negli occhi forse. Eppure..

La hall della colazione era accogliente come la sera prima, facce assonnate ci salutarono in diverse lingue, tranne le due ancora impegnate a limonare. Ma non avevano ancora smesso? Mi riempii la tazza di latte e fiocchi d’avena, un bicchiere di spremuta d’arancia e misi due fette di pane a tostare, quindi mi rivolsi alla mia compagna:

Non per canzonarti, ma stanotte hai emesso uno squassante e forte peto, mi sono risvegliato di soprassalto!”
A parte che non ti ho svegliato io, ma un raggio di sole infilatosi di soppiatto fra le tende, lo hai scritto tu nella seconda riga, stamattina non ti sei lavato la faccia, vero? Hai una prosa da romanzo. Brutto, peraltro. Fila a lavarti la faccia!”

E così feci.

Poi sono tornato e abbiamo fatto colazione, terminata la quale ci siamo gettati a capofitto nelle meraviglie cittadine.

Appena varcata la soglia dell’ostello, svoltando a sinistra, si finisce in Avenida Dos Aliados, un viale in salita che col suo gemello di fronte che poi è sempre lui ma in discesa, racchiude il centro cittadino, una piazza lunga chiamata Praça Da Liberdade. In cima c’è il municipio con la sua torre a punta in mezzo alla facciata, in fondo una colonna con sopra Dom Pedro IV a cavallo.

Un sacco di begli edifici si affacciano su questa piazza, quasi tutti famosi: così al volo riconosco il Palazzo dei Papi, la Basilica di San Marco, il Partenone e il mausoleo di Lenin. La Tour Eiffel è in stato di abbandono, ed è un vero peccato, però dentro il Deposito di Zio Paperone ci hanno aperto un Mecdonalz. All’improvviso il destino della Tour Eiffel mi sembra meno drammatico.

In fondo alla piazza, ignorato dai passanti, un venditore di giornali fuso nel ferro non conosce orari, maltempo e festività e ogni giorno lo trovi lì appoggiato alla cassetta delle lettere, con la bocca spalancata e il quotidiano davanti. Sbircio il giornale, ma non lo compro, è vecchio di parecchi anni.

Andiamo a fare la seconda colazione in una grossa pasteleria sulla salita che conduce alla Igreja de los Clerigos, e qui ci sarebbe da dire un paio di cose su questi panifici portoghesi, che entri per comprarti due rosette e rimani basito di fronte a una quantità di dolci da far ingrassare anche un fantasma. Ci sono i già citati pasteis de nata, ci sono delle bombe di krapfen uguali ai nostri ma grandi almeno il doppio, con un ripieno di crema pasticciera talmente spesso che all’inizio l’ho scambiato per una fetta di pesca sciroppata; ci sono delle fettazze di torta fatte di panna e canditi, come se avessero incrociato una cassata siciliana con un pandoro Bauli; ci sono delle sfogliate monumentali, delle dimensioni di un guantone da baseball, ci sono anche dolci piccoli, spacciati per miniature degli altri, ma sono grandi come un dolce dei nostri, un po’ come se spacciassero l’IPhone per un IPad nano, chi ci crede?

Come fanno i portoghesi a mangiare così tanti dolci e non subire drastiche metamorfosi del proprio corpo? È inspiegabile..

Due donnone con un culo che sembra scolpito in un autobus mi caracollano incontro dall’alto, con un movimento troppo simile a una slavina perché possa star lì a farmi ipnotizzare dal movimento sussultorio delle loro cicce; mi infilo nella pasteleria e la smetto di farmi certe domande, che poi non apprezzo le risposte.

Prendo un tortino che sotto ha la stessa sfoglia del pastel de nata, ma sopra è ricoperto da una misteriosa sostanza filacciosa appiccicaticcia dolciastra. Bava di Alien caramellata? Non lo so, però non è male. Essendoci anche i tavolini e il bar aggiungo un bicchierone di succo d’arancia e un caffè, mentre Marzia si tiene il suo espressino e piange. Per consolarsi ci mette sei bustine di zucchero, ma si vede che il confronto non regge.

Usciamo prima che si suicidi col cucchiaino, che è di quelli di plastica che quando si rompono fanno le schegge, metti che si tagli, e completiamo la scalata della collina fino all’Igreja De Los Clerigos. Ci giriamo tutto intorno, che l’ingresso è sul lato, e prima di entrare faccio un paio di foto al nostro primo tram portoghese.

Vabbè, ma vedrai che a Lisbona ti toglierai la voglia di foto ai tram!”, mi dice la mia saggia fidanzata. Solo che non c’è molto altro da fotografare, giusto la vetrina di una bottiglieria, poi entriamo.

Cibo per lo spirto
Nell’Igreja de los Clerigos si adora il Signor Morto, che non so se sia la gioiosa statua del Cristo cadavere pieno di ferite sanguinanti che sta vicino alle panche o quel simpatico teschio autentico che mi sorride da dentro all’altare. Non c’è il tabernacolo, forse le ostie gliele infilano in bocca.
Da come se la ghigna non so se ritroveranno il vin santo.

C’è questo rapporto che hanno i portoghesi col dolore.. sembra una parte fondamentale della loro esistenza, la sfoggiano come una medaglia. Se dovessi arrampicarmi tutti i giorni in corda doppia per tornare a casa e rischiassi di morire ogni volta che piove e ho finito il sale, probabilmente vivrei il mio rapporto con la sofferenza nella stessa maniera, ma a vederlo dall’esterno è una cosa quasi esagerata. Nella religione, poi, ci vanno giù belli pesanti. Sensi di colpa, cadaveri esposti, ossari ad ogni angolo, la nostra guida trabocca sangue più del Necronomicon. Poi per forza impari a conviverci, io me l’immagino la mamma, dopo la messa, passare davanti all’altare e dire al figlioletto: “Mariolino saluta il Signor Morto, che andiamo!”.

Dopo la chiesa saliamo in cima alla torre per le foto panoramiche, e quando torno giù mi sono perso la fidanzata. Penso subito al peggio, ma quando torno indietro a controllare non c’è nessuno a litigare col prete seduto alla cassa.

Dopo un po’ la vedo arrivare placida, mi dice che aveva capito “foto segnaletiche”, così si è fermata al piano ammezzato a sputare ai passanti finché non è arrivato un gendarme ad arrestarla. Torna or ora dalla stazione di polizia, mi dice fiera, mostrandomi le foto di profilo.

Dal sagrato della chiesa, svoltando a sinistra rispetto alla strada per cui siamo arrivati, capitiamo davanti al Palazzo delle Esposizioni, in realtà non sono sicuro che si chiami Palazzo delle Esposizioni, forse è un nome che mi sto inventando ora, ma quando ci siamo arrivati davanti c’erano in effetti delle esposizioni di fotografia, quindi direi che come nome va bene. Domani scrivo al Comune di Porto perché provvedano a sostituire l’insegna.

C’è una mostra fotografica che Marzia giudica interessante: Immagini della Resistenza Portoghese dal 1891 al 1974. Io non sono convinto, una mostra sull’evoluzione del materiale elettrico nella Penisola Iberica mi sembra una noia mortale. Le suggerisco di tenercela per un giorno di pioggia, che è come dire aspettiamo il prossimo terremoto, e andiamo via.

Scendendo nuovamente verso il Douro c’è una chiesa che da fuori sembra fighissima, potrebbe essere quella che la guida definisce “un capolavoro dell’arte barocca, una roba da non sapere dove posare lo sguardo a meno che non ci sia una devota con una camicetta scollata inginocchiata su una panca, accaldata dal fervore mistico, il tessuto incollato alle sue forme generose”, ma la guida è nello zaino, lo zaino è sulle spalle, si fa prima ad entrare noi dentro che a tirare lei fuori.

Per entrare si paga, come nella chiesa precedente. Se là ho rischiato di vedere Marzia azzannare il sacrestano qui potrebbe succedere di peggio. Le impongo di rimettere i sampietrini nel selciato.

A parte un paio di azulejos e dei grossi lampadari la chiesa è di uno squallore inverecondo. Quando usciamo ci regalano anche una busta contenente delle bellissime cartoline di santi, c’è la Madonna Del Motorino Che Non Parte, quella al mare e anche il preziosissimo Cristo Della Gamba Di Tavolino Sull’Alluce Quando Ti Alzi Di Notte Che Hai Sete.

Mi porto via un crocefisso di legno, più perché Marzia me lo pianta nella schiena che per reale interesse, e scendiamo in strada per risalire un’altra volta verso la , la cattedrale della città, che è da ieri che la vediamo lassù e non siamo ancora saliti a scoprirne le meraviglie.

Un’altra chiesa? Ma cosa c’hai nella testa? Io lì dentro non ci vengo!”
Ma è la Sé, la cattedrale della città! Che è da ieri che la vediamo lassù e non siamo ancora saliti a scoprirne le meraviglie!”
Per me può anche tenersele le sue meraviglie, io altri soldi al clero non glieli do!”
Vabbè, senti, facciamo che arriviamo su e ci limitiamo a guardarla da fuori, va bene?”
E non entriamo?”
No, la guardiamo un po’ dall’esterno e poi andiamo a pranzo.”
Sicuro? Non è che poi ti viene voglia di vedere il chiostro..”
Solo l’esterno, giuro.”
Ochei, andiamo.”

La cattedrale è in cima a un quartiere che sembra più vecchio degli altri, sebbene altrettanto decadente. Ci sono delle terrazze panoramiche molto gradevoli, da una vediamo un lavatoio pubblico con due donne che chiacchierano, e Marzia si fa prendere dalla nostalgia. Si vede che stare tanto tempo senza fare una lavatrice l’ha scossa. Cercherò di venirle incontro sporcando più vestiti possibile.

Ma no, cretino, pensavo ai lavatoi che c’erano quando era ragazza mia nonna!”
Ehi, non puoi ritrattare adesso! Io ormai mi sono macchiato la maglietta!”
Coosa? Qui? Ora? E con cosa l’hai macchiata, se eri in piedi vicino a me e non hai niente in mano!”
Tsk tsk, noi sporcatori professionisti non abbiamo bisogno di agenti esterni per macchiarci gli abiti, quelli li lasciamo ai dilettanti!”
Cazzi tuoi, te la tieni macchiata per il resto della vacanza, io lavatrici non ne faccio!”

In cima alla collina la cattedrale è imponente, ma dentro non c’è granché, giusto una signora che ti chiede soldi per visitare il chiostro e un gruppo di italiani che celebrano messa col parroco che officia nella nostra lingua troppo bene per non essere un connazionale. Si vede che per i parroci funziona un po’ come per il caffè, se non ti fidi di quello locale ti porti appresso il tuo. Marzia mi tira via di peso e torniamo fuori, davanti a una specie di colonna tutta arabescata, che qualcuno dice essere l’antica gogna. Non lo so, io con la Gogna ci andavo a scuola alle medie e non era così piena di roba manuelina.

Torniamo giù per un altro vicolo e finiamo dritti in mezzo a Marciopoli, una piazzetta stracolma di tossici, sugli scalini delle case, sui muretti, in equilibrio precario in mezzo al passaggio, stesi per terra coi cani. Ci sono tutte le categorie che ho imparato a riconoscere, dai fumati con un po’ di scazzo agli isterici in coca, dai pancabbestia col cane borchiato agli eroinomani che si grattano la faccia. È come Pufflandia, solo che i funghi se li sono calati loro quando hanno finito il crack. Stanno aspettando qualcuno che evidentemente non siamo noi, visto che ci lasciano passare senza degnarci di uno sguardo. Probabilmente sarà Gargamella con le dosi, vai a sapere.

Cibo cibo
Torniamo sulla Ribeira, che tanto sempre lì finisci, e andiamo a mangiare da Filha Da Mae Preta, un posto suggerito anche dalla Santa Guida, che nei ristoranti ci acchiappa sempre. Lo troviamo per caso esplorando un vicolo dove non eravamo mai passati, è un buco di quelli che piacciono a noi, con tre tavolini di plastica fuori, perché dentro non ci sta neanche uno sgabello.

Scopriremo poi che il ristorante indicato dalla guida non è quello, ma la sua versione spendacciona sul lungofiume, traboccante di turisti e coi prezzi ritoccati verso l’alto; noi evidentemente siamo finiti nell’hard discount.
Il cameriere è lo stesso per entrambi i locali, e deve farsi un culo non indifferente. Somiglia a Cristiano Ronaldo, solo un po’ meno buliccio.

Mangiamo bacalhau à moda de Braga lei e polvo con molho verde io.
Il primo è un pasticcio di baccalà, pomodori, peperoni, olive, gatti randagi e un copertone di Lada Niva parecchio consunto, tutto adagiato su un letto di patatine fritte tagliate a rondelle. Marzia emette un sospiro come di chi è chiamato a sostenere una prova difficile, io uno simile, ma come di chi ha capito di avere ordinato il piatto sbagliato. Il mio è un po’ meno monumentale, polpo al prezzemolo annegato nell’aceto finché non ha rivelato il nascondiglio del bottino. E a me l’aceto neanche piace. Lo mangio perché è comunque molto buono, ma non sono soddisfatto, e annego i dispiaceri in una bottiglia di vinho verde Boca De Sapo, più buono di quello servito al mercato. Marzia si cala anche una birra, che qui non hanno la Super Bock, ma la sua diretta concorrente, la Sagres, un po’ più dolce.

Per non farci mancare niente ci facciamo anche un giro di porto Offley, e alla fine siamo da dito puntato tutti e due.

Lo puntiamo sugli invitanti prati al di là del fiume, per un’oretta buona ci scordiamo di fare i turisti e collassiamo al venticello fresco di Gaia.

Segunda feira de Lisboa

Atterriamo dieci minuti prima delle nove, ora locale, e già ci siamo rifatti gli occhi avvicinandoci alla città da est, lungo la via tortuosa del Tago, u Tejo come lo chiamano qui, fino a quando apre le sue sponde come braccia verso l’oceano. Lisbona è illuminata da migliaia di luci e riempie tutto il promontorio; una linea bianca spezzata si allontana verso l’altra sponda, è il ponte Vasco Da Gama.

Appena ritirata la valigia andiamo a cercare un mezzo di trasporto. Il marciapiede dove arrivano i taxi è affollato come alla biglietteria di un concerto, chiediamo come mai e ci sentiamo rispondere che il mezzo è particolarmente economico. Intanto che siamo lì che decidiamo dove andare arriva l’autobus e saliamo su quello insieme a pochi altri, mentre la maggior parte resta ad aspettare la navetta, che costa il doppio e ci mette lo stesso tempo.

Mi guardo in giro un po’ sperso, al buio le case che sfilano dai finestrini sembrano uguali a quelle di qualunque periferia italiana, con la sola differenza che capisco pochissimo di quel che dicono i miei vicini di posto.

Marzia mi indica un palazzo sulla sinistra e restiamo tutti e due ad ammirarlo, ma non è un raro gioiello di architettura moresca, è un casermone abbandonato che abbiamo visto su internet qualche tempo fa. La sua particolarità è di essere stato ricoperto dal murale più bello che possa ricordare, con un tizio grande come tutta la facciata che infila un braccio in una finestra e agguanta un’altra persona sulla parete di là. Quando torniamo a Lisbona veniamo a fotografarlo secco!

Scendiamo in Praça Dom Luis, a Rossio, e vengo travolto da un deja vu che mi fa tremare le ginocchia. Mi sento come se fossi già stato lì, riconosco ogni angolo, ogni vetrina, i ristoranti, la colonna al centro della piazza, mi oriento come se fossi lì da un mese più che da un minuto. Mi volto verso Marzia che ho le lacrime agli occhi per l’emozione di scoprirmi un veggente, ma lei mi guarda come se fossi sempre lo stesso cretino con cui vive da cinque anni.

“La conosci perché l’hai cercata su google maps, idiota! Dimmi dove dobbiamo andare e falla finita.”

Ah già, la tecnologia infida che mi ha fatto imparare a memoria la strada per l’albergo ma mi ha fatto scordare di mettere l’olio nella macchina.

Arriviamo alla reception del Poet’s Hostel con la sicurezza di un testimone di geova verso la casa dell’operaio che ha appena fatto la notte, scopriamo che si trova proprio dietro il bar di Pessoa, quello con la statua in bronzo seduta al tavolino a farsi fotografare da mezza Italia, tre quarti di Giappone e tutta la Francia, e scopriamo che la nostra camera è in un altro palazzo un po’ più in là, trecento metri sopra la fermata dell’autobus.

Per raggiungerlo attraversiamo quella parte di quartiere che sta fra la Baixa e il Barrio Alto, e ad ogni angolo svoltato faccio un verso stupito per la bellezza di quel che sto vedendo. Lisbona sembra disegnata, coi suoi pavimenti di porfido e i muri a piastrelle, le case basse, le piazzette a sorpresa, ci sono scorci da cartolina ad ogni angolo. Ci sono anche un casino di italiani, e la cosa mi infastidisce un po’, tanto che cerco di spacciarmi per straniero fra gli stranieri parlando genovese.

La camera è al terzo piano di una palazzina che mi ricorda il b&b di Londra dove ho lavorato, scale verticali in legno rivestito di moquette, strettissime e rumorosissime, ogni piano diverso dai precedenti. Siamo praticamente nel sottotetto, e la temperatura è quella di un solaio assolato, ma la stanza è caruccia, un letto sul pavimento, muri arancioni, un abat-jour rosso, quando spegni la luce sembra un boudoir, chissà che sogni che farò.

Scendiamo in piazza e ci vediamo con gli altri due sotto i pilastri del teatro Carlo Felice Lisbonese, gironzoliamo un po’ e andiamo a mangiare noi, bere loro, in fondo alla via del nostro albergo, orata e bacalau alla griglia. Da stramazzo, molto turistico, qualità discreta, un gran casino, il cameriere mi ha detto Cesare Prandelli, non ci torno più.

Andiamo a dormire nel lettino basso con le molle a vista e un caldo allucinante, ma appena mi addormento non ci sto neanche male. Sarà che sono stanco, ma tranne un paio di volte che mi sono sentito cadere sul pavimento sono stato da dio. Alle tre sono rientrati i nostri vicini di piano, e hanno fatto un gran casino, ma non me ne sono accorto.

17/08/2010 A cidade do Porto

“Allora ci alziamo alle sette, andiamo a far colazione e prendiamo la metro fino a Oriente, che è una bella stazione, saliamo sull’intercity delle otto, massimo nove e per le undici siamo a Porto, ochei? Ochei.”

Ci alziamo alle otto e ci vuol tutta, facciamo la cacca e usciamo. Colazione in un baretto in Praça Dietro Quella Do Teatro, dove ci rendiamo conto che non tutti i camerieri parlano la nostra lingua, questo non mi chiama Cesareprandelli, ma fatichiamo un po’ a spiegargli che Marzia non può mangiare niente col burro. Mangio il dolcetto nazionale portoghese, il pastel de nata, un bicchiere di sfoglia pieno di crema, piuttosto buono, ma Lucilla che me l’ha consigliato mi ha detto che il suo aveva la crema calda, così come lo mangio io è un po’ pesante. L’espresso è dignitoso, solo in Francia bevi quelle brode infami.

Per fare prima ci dirigiamo alla stazione di Santa Apolonia, una costruzione piuttosto semplice, pitturata di azzurro, poco affollata, dà un’impressione di spazio. Il bigliettaio ci dice di correre, che l’intercity sta per partire e quello dopo c’è molto più tardi. Lo prendiamo dopo una prova podistica con doppio zaino su pavimento scivoloso e andiamo a cercare il nostro posto. Anche qui un mucchio di italiani, principalmente romani. Li vediamo seduti qua e là per i vagoni, poi di nuovo sciamare verso i loro posti, che quelli dove si erano seduti appartenevano a qualcun altro.

Marzia non dice niente, osserva lo stato del treno col fervore mistico di chi vede la madonna. Quando dietro una porta troviamo la carrozza bar, col bancone e i tavolini, si fa venire le stimmate.

Il viaggio è tranquillo, ad un certo punto sale una grossa signora con un cesto pieno di pasticcini e prova a venderli. Griderebbe anche, ma ha il fiatone, ci vuol tutta che non stramazzi in corridoio.

Arriviamo a Porto e mi ricordo di nuovo tutta la strada fino all’albergo, dove si prende la metropolitana, dove si scende, dove si svolta usciti dalla stazione. L’unica cosa che non potevo sapere è che una volta in cima alle scale ti prende un odore di mare che a Lisbona manca del tutto.

Passiamo davanti al mercato, e vuoi non entrare? Basta un’occhiata per decidere che sarà la meta del nostro pranzo, ma prima l’ostello, che tanto è lì dietro.

Appena superato il portone ci accoglie una parata di locandine di Star Wars, e io decido che voglio venire a vivere lì. E dai, l’ostello di Lisbona era sacrificato, ma non te ne rendevi conto se non avevi niente con cui confrontarlo, appena ci provi diventa un buco merdoso.

Questo, oltre alle stanze a tema cinematografico molto accoglienti coi materassi che non si sentono le molle e col soffitto più alto di un metro e una temperatura che non ti fa sciogliere la maglietta addosso e senza quella cazzo di lampadina rossa e coi pavimenti che non scricchiolano al minimo respiro e i corridoi più larghi di quaranta centimetri ha pure una terrazza dove andare ad abbordare le olandesi completa di piscina, no dico, piscina, ha la playstation, ha una chitarra, ha un casino di libri, ha una spada laser buttata lì a disposizione del primo jedi che passa, e come se non bastasse ti rifanno la camera ogni giorno.

La nostra stanza è ispirata alla Sposa Cadavere di Tim Burton e si affaccia sul teatro Rivoli di marcata ispirazione fascista. Sono curioso di scoprire quale piega assurda prenderanno i miei sogni in un posto così, alla prima cena di bacalhao.

Se non fosse che abbiamo già pagato le restanti notti a Lisbona andrei a cercare un altro posto.

Ci sistemiamo e via secchi a pranzo al mercato do Bolhao.

C’è un tavolino libero dietro i banchi del pesce, gli altri sono tutti occupati da turisti e gente del luogo. Li riconosci, sono quelli che al posto della macchina fotografica hanno in mano una birra Super Bock.

Mentre aspettiamo di ordinare ci mettiamo a chiacchierare con un tizio pelato che sembra essere autoctono. Per farsi capire mescola parole portoghesi ad altre spagnole, Marzia gli risponde in spagnolo con qualche vocabolo portoghese pronunciato comunque in spagnolo, io gli parlo in italiano aggiungendo ‘inho’ in fondo ad ogni suono.

Parliamo a lungo, ma sinceramente non so di cosa: durante la giornata Marzia mi dice cose che ha saputo dal tizio, e la guardo come se mi recitasse a memoria l’opera omnia di Pessoa, comprese le pubblicazioni scritte con lo pseudonimo di Pietro Gambadilegno, che non conosce nessuno.

La cameriera invece è portoghese senza influenze estere, e quando ci presenta la lista dei piatti non capiamo un belino. Alla fine ci porta quello che ha ordinato il nostro vicino, sardine grigliate con un contorno abbondante di patate bollite, lattuga e pomodori.

Al tavolo accanto si siede una comitiva di vecchietti brasiliani, che fanno come il vicino portoghese e attaccano bottone. Nel frattempo il vicino se n’è andato e il suo posto l’hanno preso due ragazze spagnole con le quali attacchiamo bottone noi. Aggiungiamo la coppia francese seduta più in là che ci guarda e ridacchia ed è chiaro come col semplice aiuto di una brocca di vinho verde siamo riusciti a trasformare una trattoria all’aperto in un club internazionale di ittiofili.

I brasiliani continuano a chiamare la cameriera Maria, finché lei non rivela di chiamarsi Filippa. A quel punto siamo noi che la chiamiamo Maria, per pietà.

Terminato il pranzo ci scambiamo l’indirizzo email coi brasiliani e ce ne andiamo.

Il Douro

La visita della città comincia dal basso, per prima cosa andiamo a vedere la Ribeira, il quartiere che sta sul fiume, ma soprattutto la meraviglia del ponte di ferro Dom Luis I, costruito dalla zia di Gustave Eiffel coi pezzi avanzati della torre parigina.

Le strade del centro sono ripidissime, una casa su tre è in rovina, verrebbe da pensare che nelle giornate di pioggia gli abitanti siano soliti uscire dalla porta e scivolare giù fino al Douro.

Ed eccolo il fiume, lo vediamo appena oltre la distesa di ombrelloni di un ristorante. Dietro di lui Vila Nova De Gaia, la città gemella che sorge sull’altra sponda, solo Gaia per quelli di qui, e proprio nel mezzo il ponte, il Ferraccio, come lo chiama un portoghese tipico che mi sono appena inventato, ma che potrebbe benissimo essere un alter ego di Pessoa sconosciuto ai più, Pedro Gambadelenho.

È imponente, il ponte (anche Pedro Gambadelenho, ma non sto parlando di lui ora), due livelli a diverse altezze tenuti insieme da un arco gigantesco, su quello basso passano le macchine e ci si buttano i ragazzini per farsi fotografare dai turisti, quello alto è per i treni e ci si buttano gli adulti, ma a loro le foto non le fanno, tuttalpiù l’autopsia.

Non puoi far finta che non ci sia il ponte quando sei sul lungofiume, attira lo sguardo, è come un vecchio parente che sta lì affacciato a guardare le barche che gli passano sotto.

Non è l’unico ponte, in città ce ne sono altri quattro o cinque, dalla stazione di Campanhà alla foce, comunque ti volti ne vedi uno, ma non sono tutti belli come questo.

E il fiume, il fiume è vivo, non è come l’Arno, o il Tevere, che se ne stanno lì rinchiusi nei loro argini a farsi adocchiare dai passanti, questo è una piazza, c’è gente intorno, c’è gente in mezzo, ci sono i barconi che fanno su e giù a portare turisti a vedere i ponti per 10 euri, c’è il motoscafo che per una cifra più alta ti regala piroette, testacoda, un bagno fuori programma e la possibilità di vomitarti il pranzo sulle scarpe, c’è il solito coglione sulla moto d’acqua che impenna sulle scie dei barconi e va avanti e indietro e bzzzz e bzzzz e bzzzzz e ti verrebbe voglia di affittare il motoscafo e speronarlo una volta per tutte, ci sono i vecchi battelli che portavano le botti, tutti ricostruiti belli uguali ormeggiati davanti a Gaia e a quelli che corrono o vanno in bici o prendono il sole sui prati di fronte alle cantine del porto.

Raggiungiamo il ponte, ma non lo attraversiamo subito, prima ci arrampichiamo su per un vicoletto tutto a scale, ripidissimo, per passare di là dal lato superiore e goderci il panorama. Ci sono dei gatti, Marzia perde ogni dignità inseguendoli tutti nella speranza di poterne toccare almeno uno; fa dei versi che la gente si volta e ci guarda e scuote la testa, micimicimici mimiminininipipipipi, io indosso dei baffi finti, non si sa mai.

Il ponte dall’alto non è affascinante come il suo piano inferiore, e ci tira anche un vento che d’inverno ti ci voglio vedere, ma la vista è magnifica, Porto dall’alto è un capolavoro di tetti e pareti colorate, con questa cornice d’acqua a sottolinearne ogni screpolatura, ogni vicolo.

Scendiamo verso Gaia e incrociamo un tizio con un grosso grifone sulla maglietta, e ti pare che non gli dico niente? Ci scambiamo le solite formalità da turisti all’estero, da quanto tempo siete qui, vi piace la città, abbiamo comprato nessuno nel frattempo, e ci salutiamo.

Il lungofiume di Vila Nova De Gaia è bello soleggiato, c’è meno casino che di fronte, anche perché i ristoranti sono tutti sulla strada alle nostre spalle, qui c’è un prato a separare la passeggiata dalle barche; la vista di Porto è da cartolina, sembra una città olandese del ‘500, faccio un centinaio di foto in venti minuti, ne avrò da scremare parecchie al mio ritorno a casa.

Non ci spingiamo tanto in là, ripercorriamo il ponte passando di sotto e prendiamo la via dell’ostello col passo della salita.

In una stradina appena fuori la Ribeira ci imbattiamo nell’Adega São Nicolau, un ristorante suggerito dalla Guida Giorgia, la sorella di Marzia che va ad abbuffarsi in giro per il mondo e non si trova bene in nessun posto. Se è piaciuto a lei vuol dire che merita, così torniamo in camera a cambiarci, che quando va giù il sole il termometro scende parecchio, e usciamo con lo stomaco a farci da navigatore.

C’è una strana folla sulle scale accanto al ristorante, e non tardiamo a scoprire perché: sono tutti in coda per un tavolo! Abbiamo un mancamento, forse è il caso di scegliere un’altra meta per la cena. Una coppia italiana che sta cenando fuori ci suggerisce di aspettare, che merita, e allora vabbè, aspettiamo.

Una mezz’oretta più tardi ci sediamo, facciamo sparire le polpette di baccalà che arrivano per antipasto e ci buttiamo sulla portata principale come ciclisti sull’ultimo chilometro: cernia grigliata e polpo in una maniera che non ricordo, ma che poi è fritto col riso. Finisco il mio e quello della mia compagna, che ha uno stomaco da principiante, tanto con le salite che ci sono in città puoi ingozzarti quanto vuoi e andare a dormire sempre bello leggero.

E siccome le scale non sono mai abbastanza vuoi mica negarti il piacere di arrampicarti fino sul tetto del palazzo per visitare la fantomatica terrazza, sede di tutte le feste più fighe della città, dove c’è addirittura la piscina e si vedono le torri di Isengard e Mordor, vuoi mica negartelo?

Saliamo ancora i due piani che restano e telalì la terrazza, piena di ragazzotti che confabulano in molteplici lingue, ma che quando limonano ne usano solo due per volta, nella più classica tradizione degli ostelli, compreso quello di Hostel, ma senza che ti ammazzino dopo.

Io per la verità un po’ fifa di essere ammazzato nel cuore della notte ce l’ho, che un posto così bello senza controindicazioni non mi sembra vero. O ci ammazzano tutti e due o ci svegliamo alle quattro in mezzo a un rave in camera e non c’è più verso di chiudere occhio.