C’è un film di David Cronenberg del 1986 intitolato La Mosca, dove un giovane Jeff Goldblum interpreta uno scienziato, di nome Seth Brundle, che inventa la macchina per il teletrasporto. Si tratta di due cabine: una scompone in atomi quello che ci metti dentro e lo trasmette all’altra, che lo ricompone come nuovo. Dopo un po’ di esperimenti la prova su di sé, ma non si accorge che nella cabina di partenza, insieme a lui, è entrata una mosca. Quando arriva tutto intero dall’altra parte è bello soddisfatto del risultato, ma dopo un po’ inizia a cambiare: perde pezzi, mangia roba molto zuccherata, si trasforma, e per il resto del film noi assistiamo a questa trasformazione nell’ibrido chiamato Brundlemosca, fino al finale abbastanza prevedibile.

Il cambiamento è graduale, prima perde i capelli, le unghie, i denti, poi si gonfia e si deforma, alla fine è un insetto antropomorfo, ma c’è una fase, più o meno a metà, quando non ha ancora perso del tutto le fattezze umane, in cui è identico a una mia collega che si chiama Barbara.

The many stages of the transformation from Seth Brundle (Jeff Goldblum) to the grotesque Brundlefly in "The Fly" (1986) from body horror master David Cronenberg
In una delle fasi successive diventa anche Ministro dell’Interno, tifoso della Sampdoria e infine lettore di Libero

L’altra mattina Barbara è entrata in ufficio a chiedermi di allargarle il buco.
Non c’è niente di sessuale, voglio specificare, si tratta di lavoro: io lavoro in una ditta che vende buchi; li produciamo con delle macchine specifiche capaci di realizzarne diverse centinaia nell’arco di una giornata, di diametro e profondità variabile, poi li confezioniamo e li spediamo ai nostri clienti. Vi sarà capitato di imbattervi in un buco, una volta o l’altra, e magari vi sarete chiesti chi l’ha fatto. Sette volte su dieci siamo stati noi, la mia ditta è fra le prime dieci produttrici di buchi in Europa, in Italia siamo primi per fatturato.

Il mio compito è di fare in modo che le dimensioni del buco prodotto corrispondano a quelle richieste dal cliente. Se ciò non avviene non si può modificare la macchina, perché richiederebbe troppo tempo, bisognerebbe fermare la produzione, si butterebbero via un sacco di soldi, e allora si modifica la richiesta del cliente. Ed è lì che interviene il mio ufficio, aprendo la richiesta e modificandola per farla corrispondere col prodotto che stiamo producendo. I clienti non si lamentano mai, le modifiche sono millimetriche, e poi se uno va a guardare dentro un buco è perché cerca qualcosa, quindi abbiamo un altro ufficio che si occupa di lasciare qualcosa sul fondo dei buchi che consegnamo. Molto spesso si tratta di spazzatura, carte di merendine che consumano i miei colleghi sulla linea di produzione, note scherzose che dicono Steven Suca o Carmine Buliccio (un giorno dovrò scrivere un post in difesa della bellissima parola buliccio, in via di estinzione per ragioni che sono indiscutibili, le condivido tutte, ma che impoveriscono il linguaggio), ma se la modifica è eccessiva e c’è il rischio che il cliente se ne accorga, bisogna andarci giù pesante. A mali estremi estremi rimedi, diceva coso: se vuoi spostare l’attenzione dal buco occorre depositare sul fondo dei buchi oggetti di valore, o molto delicati, come reperti archeologici, tubature fognarie e certe volte addirittura cadaveri. In questo caso abbiamo un altro ufficio che si occupa di tutti quei depositi che avranno conseguenze giudiziarie, ma con loro non lavoro mai, stanno all’ultimo piano e hanno una macchinetta del caffé che non usa nessun altro.

Uno degli articoli che vendono di più

L’altra mattina, quando Barbara è venuta a portarmi la richiesta sul modulo apposito, si è fermata a chiacchierare, e mi ha affascinato osservare la sua struttura aliena, quella testa gonfia, le protuberanze sulla faccia, le zampette sempre in movimento. Mi sono chiesto se gli esseri umani stiano continuando il loro processo evolutivo, e dato che immagino di sì, quanto ci metteremo a notare le differenze. Credo che sarà un cambiamento lentissimo, e che i risultati saranno visibili quando gli umani del futuro confronteranno sé stessi con quelli di un milione e mezzo di anni prima, cioè noi, e ci chiameranno primitivi, e poi torneranno a occuparsi delle loro faccende tipo se è il caso di esonerare l’allenatore della squadra ultima in classifica e chiamare Ballardini.

Però potrebbe succedere che il cambiamento sia repentino, come nei fumetti degli X-Men, e che fra noi si aggiri già qualche esemplare di una nuova specie, dotata di poteri che noi neanche ci sogniamo. Spero che quello di Barbara non sia leggere nel pensiero, o prima o poi mi mena con le sue zampe raptatorie.
Secondo questa teoria la nuova specie, più evoluta della nostra, sarebbe presto in grado di sopraffarci e condannarci all’estinzione, un po’ come fecero i Sapiens coi Neanderthal qualche anno fa.

L’assurdità è che il tema della sostituzione etnica sia entrato da tempo nella discussione pubblica come un fenomeno reale e non un tema da fumetti o da libro di antropologia. Certo, se è capitato allora perché non dovrebbe succedere di nuovo, si domandano i sostenitori di questa tesi, senza considerare che la sostituzione etnica di 400.000 anni fa, nei modi in cui può essere avvenuta, che ancora non conosciamo, ci ha messo dai 2.500 ai 5.400 anni, durante i quali le due specie hanno convissuto.

Non ho voglia di occuparmi di questa faccenda, chi la usa lo fa sempre e solo per giustificare il proprio razzismo, e con quelle persone non discuti, le eviti finché puoi e poi le meni forte. Torniamo a parlare del mio posto di lavoro, che ci sono un sacco di personaggi interessanti che vale la pena conoscere.

Uno di questi è Gioele, uno che se fosse un personaggio dei fumetti diresti che l’autore non si è sforzato granché per disegnarlo, ha preso un biker americano ciccione con la barba e gli ha messo addosso la divisa dell’azienda. Gioele è pelato, come tutti i bikers ciccioni americani con la barba che di solito indossano il casco a forma di elmetto nazista, e ha gli occhi sporgenti come uno affetto da esoftalmo, anche se nel suo caso si tratta di stupefazione: Gioele si stupisce di tutto, come i bambini, perché vive perennemente scollegato dalla realtà, e ogni volta che qualcosa ce lo riporta lui si guarda intorno e si meraviglia. È piacevole da guardare, all’inizio, ti mette di buonumore. Gli racconti dell’ultimo disco che stai ascoltando (Gioele è un grande appassionato di musica di qualunque genere) e lui sgrana gli occhi pieno di gioia, e per quanto la tua giornata sia stata fino a quel momento orribile ti senti contagiato e inizi a sorridere. Si dice che il contagio potrebbe estendersi ai tuoi genitali se avessi la malaugurata idea di accoppiarti con lui, dato che è un grande frequentatore di prostitute, ma sono bugie basate su pregiudizi, la maggior parte delle prostitute si prende cura della propria salute e ti obbliga a indossare il preservativo. Me l’ha detto Gioele mentre mi inculava.

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Io e Gioele condividiamo solo alcuni generi musicali, perché a me piace il pop melodico mentre lui predilige una variante del death metal molto incazzata col mondo e che ti induce una fortissima depressione, chiamata Maurizio Belpietro. Ma è un’altra condivisione che ci sta creando dei problemi che alla lunga potrebbero minare il nostro rapporto cordiale, e sono i ritmi biologici: io e Gioele, sebbene molto diversi fisicamente, ci mettiamo lo stesso tempo a trasformare ciò che mangiamo in materia fecale, e quindi capita spesso che quando uno dei due ha bisogno del bagno ci trovi dentro l’altro e si metta a smadonnare fortissimo, perché io e lui lavoriamo in due reparti che condividono uno spogliatoio diverso da quello destinato agli operai di produzione, e abbiamo di conseguenza il nostro bagno personale.

Potremmo usare quello dello spogliatoio della produzione, ma nessuno sano di mente farebbe mai una cosa simile, alla gente che lavora a stretto contatto coi buchi si strappa a poco a poco il tessuto della realtà, e dopo qualche anno cominciano a trasparire mondi paralleli con cui normalmente non entriamo mai in contatto; ci sono altre dimensioni oltre la nostra, e gli operai della produzione le frequentano tutte. Nel loro spogliatoio si annidano creature che neanche Lovecraft seppe immaginare, se non sei preparato potresti uscire pazzo o non uscire affatto.

Anche dei ragazzi della produzione avrei da raccontare parecchio, ma magari su questa storia dei colleghi ci torniamo un’altra volta.

Mi sono messo ad ascoltare dall’inizio tutta la discografia di Tom Waits, per assistere alla sua evoluzione artistica da cantante confidenziale a luci basse e fumo di sigaretta fino ad arrivare ai dischi più sdeng sbeng clang clang e voce che se mi metto a mangiare vetri non riesco a raggiungere un tale livello di perfetta imperfezione, e nel mio ascolto ragionato e consapevole dell’intera discografia di Tom Waits sono arrivato a riascoltare quello che credo sia il suo disco migliore, Bone Machine, e mi sono reso conto che Vinicio Capossela quando ha scritto Ovunque Proteggi stava ascoltando questo disco qui, e se l’è riascoltato tante di quelle volte e ha cercato di riprodurne le atmosfere con tanto impegno che alla fine sono venuti fuori dei pezzi molto simili per atmosfera e certe volte anche per titolo, come Al Colosseo che ricorda In The Colosseum pur senza essere una cover, o S.S. dei Naufragati che restituisce le stesse vibrazioni di The Ocean Doesn’t Want Me, ma non è di questo che volevo parlare.

Io Tom Waits lo riascolto quando ho qualcosa dentro che spinge per uscire e mi serve un chiroterapista per lo spirito, che mi sprema l’anima e me la raddrizzi perché sta venendo su storta, e mi snodi i pensieri e li lasci venire fuori in una forma più comprensibile. Tom Waits ha quell’effetto lì, e scrivere ha anche quell’effetto lì, e scrivere mentre ascolto Tom Waits ha quell’effetto lì ma doppio e i doppi si annullano e non scrivo più niente e di solito mi finisco la bottiglia di rosso che ho aperto ieri sera.

Quelle volte lì resto inebetito a guardare gli oggetti che ho intorno aspettando che mi dicano qualcosa, e loro se ne stanno lì e mi guardano a loro volta, aspettando inutilmente che almeno questa volta mi alzi e li metta a posto, che è due settimane che stanno lì in mezzo alle balle a prendere polvere e peli di gatto.

Non c’è solo Tom Waits a mescolarmi i pensieri, quando sono in quello stato lì, appurato che non metto a posto, mi alzo e metto su un disco, due, roba lenta e mugugnona, il pop riempie la testa di bollicine, non va bene. Nick Cave è un po’ troppo triste e gli unici pensieri che riesco a formulare correttamente quando lo ascolto ruotano intorno all’estinzione, mia e altrui. I Portishead funzionano benissimo, perché non sono tristi, sono abbastanza elaborati, utilizzano l’elettronica in un modo che arricchisce e non stanca.

Forse volevo arrivare qui, al fatto che ieri è uscito il singolo nuovo di Beth Gibbons, la cantante di quel gruppo lì. È il suo primo album solista, se escludiamo un paio di progetti condivisi, ed esce dopo parecchi anni di silenzio in cui ci si domandava un po’ tutti che fine avesse fatto. Anche la storia della sua band abbraccia la rarefazione, tre dischi in più di vent’anni, ma di loro ho già parlato di recente.

Il singolo non mi convince troppo, c’è sempre la sua voce tenue e le atmosfere notturne, ma ci sono anche i cori dei bambini che sottolineano certe frasi, lei dice una cosa e l’Antoniano sotto lo ripete con la vocina, quella cosa lì che ha sicuramente un termine tecnico che ignoro mi ammazza l’ascolto e anche i pensieri elaborati che stavo producendo, ma soprattutto mi ammazza l’aspettativa per quello che si annunciava come il concerto (per me) più atteso del 2024, a fine maggio a Barcellona.

Che poi me la ammazza fino a un certo punto, perché saremo tutti là sotto, io e altre centinaia di ultraquarantcinquantenni a pregare perché ci faccia Glory Box o una qualunque delle altre 32 canzoni che compongono la loro discografia in studio.

(curiosità per gli impallati di numeri: ogni disco è composto da 11 brani, mentre il suo da solista ne ha 10)

È tutta lì l’attesa, ripagare la memoria per gli anni di dedizione alla causa, sempre in piedi a prendersi in faccia le emozioni che i ricordi di quegli anni ti restituiscono intatte, quella volta che ascoltavi quella canzone con quella persona in quel posto a dirvi quelle cose. Ci sta che dopo vent’anni sei disposto a farti chilometri per andare a sentire un’altra volta quella canzone là, per guardarla scaturire dalla sua sorgente, per completare la liturgia.

Non è un’esagerazione, la musica le fa queste cose. Ieri ho avuto uno scambio di battute con uno sui social, ci siamo ritrovati a condividere esperienze che hanno cambiato radicalmente le nostre vite, entrambe legate all’ascolto di In Quiete, il live acustico dei C.S.I. Per me non è stato tutto l’album, solo una canzone che si chiama Io Sto Bene, che prima di lì è apparsa molte volte nella discografia dei CCCP, ma quella versione acustica è la prima che ho ascoltato, ed è rimasta quella preferita.

Anni fa era stata l’aggancio per scrivere a una ragazza, da quel messaggio erano venute fuori cose, che avevano portato ad altre cose, che avevano portato a viaggi, che avevano portato ad altre persone e ad altre cose che mi hanno portato a dove sono adesso, sposato, con una casa mia, una famiglia dall’altra parte del mondo e un lavoro diverso. È tutto partito da quel messaggio lì, che diceva una cosa innocente che però ci aveva permesso di iniziare una conversazione, che ad un certo punto si è spostata su piani diversi.

Lo so che è un’illusione, che prima di quel messaggio c’erano state altre scelte, altri bivi che mi avevano instradato verso quel preciso episodio, perché la vita non è fatta di camere stagne, ma se devo scegliere un brano che mi ha cambiato la vita credo che pochi altri abbiano influito così tanto in maniera così palese.

Puoi festeggiare la tua laurea in un bar dove sta suonando Wonderwall e restare attaccato agli Oasis tutta la vita, ma se avessero passato un disco di Guccini non sarebbe cambiato niente. Vabbè, magari con Guccini ti prendevi meno bene, ma la canzone era il sottofondo, non uno dei vertici del triangolo.

Tutto questo ragionamento me lo sto facendo mentre l’Italia si sta prendendo la sua consueta settimana di scollamento dalla realtà per salire sul carrozzone del Festival di Sanremo. Non ho voglia di entrare nella discussione che si ripete tutti gli anni uguale fra chi lo ama e chi vorrebbe nuclearizzare l’Ariston, personalmente lo trovo un campionario di clichés tenuti insieme dal filo conduttore della gara musicale, le canzoni sono perlopiù dimenticabili ma ogni tanto qualcosa che mi piace lo trovo, e lo trovo grazie al clamore mediatico che ci si crea intorno, quindi alla fine boh, liberi tutti.

Però mi viene da chiedermi se un giorno qualcuno guarderà indietro e si renderà conto di poter collegare un momento fondamentale della propria vita a una canzone presentata sul palco dell’Ariston, e mi chiedo con quale spirito si accosterà a quel ricordo.

“Il giorno in cui è nata mia figlia ero in macchina e stavo ascoltando i Ricchi e Poveri, così ho deciso di chiamarla Labrunetta”

“Ciao, lo so che non ci conosciamo, ma volevo dirti che mi ricordi un casino una canzone di Sanremo”
“Capolavoro de Il Volo?”
“Apnea di Emma. Per favore, se devi scorreggiare vai fuori”

“Trentenne depresso si butta dalla finestra dopo avere ascoltato la canzone vincitrice del Festival, Pazza di Loredana Berté. Lascia una nota che dice ‘Questa vita non ha senso, doveva vincere Gazelle'”.

Io scusate ma a questo punto mi sento in dovere di dire una cosa a quelli che magari è lunedì pomeriggio e hanno già finito di lavorare, che magari son di quelli che lavorano la mattina e poi si ritrovano col pomeriggio libero che avevano già programmato di non fare niente, che magari volevano approfittarne per andare dal barbiere marocchino fuori dal lavoro che è così bravo e limarsi un po’ quella roba in testa che sta cominciando ad assumere una forma un po’ da dipinto surrealista, ma che magari la loro moglie gli ha ricordato che hanno comprato tipo mezzo chilo di carne per fare il bollito e se non ci si mettono dietro gli va a male e allora magari dal barbiere marocchino fuori dal lavoro ci possono andare il giorno dopo, e allora magari hanno programmato di tornare a casa, mettere su il bollito e intanto che cuoce quelle tre ore farsi una bella partita alla playstation e finire Uncharted 4, che fra tutti gli Uncharted è quello migliore più per la grafica che per la storia e il tipo di gioco, che alla fine tutti e quattro sono sempre uguali, ti arrampichi, ammazzi della gente, risolvi degli enigmi che ci riuscirebbe anche il mio gatto, ti arrampichi su cose che si rompono e resti appeso per un pelo, verso la fine viene fuori un elemento soprannaturale che per ammazzarlo devi sparargli un po’ più a lungo, e poi finisce. E io sono arrivato al punto in cui si intuisce che potrebbe esserci un elemento soprannaturale, quindi immagino che.. no aspetta, stavo parlando di voi, che magari siete arrivati giusto a quel punto del gioco in cui intuite che potrebbe venir fuori un elemento soprannaturale e allora vi siete fatti l’idea di trovarvi verso la fine del gioco, ma non avete ancora guardato su Google e quindi non ne siete così sicuri, ma nel dubbio avevate programmato di passare il pomeriggio a giocare, o almeno finché non fosse tornata a casa vostra moglie, che magari è andata a Milano per lavoro e quindi non arriverà alle sette come al solito, perché magari siete di quelli che la moglie gli torna a casa alle sette, e in funzione di questo rientro inusuale al tran-tran coniugale avete pensato di approfittare e accelerare la parte videoludica della vostra giornata per arrivare in fondo a questo gioco e poterlo magari disinstallare e dedicarvi a qualcos’altro, ma non sapete bene cosa perché magari anche voi siete di quelli che hanno sottoscritto un abbonamento che mette loro a disposizione qualche centinaio di giochi e si sa che quando hai tanto da scegliere finisci per non scegliere niente e spiluccare, succede coi giochi ma anche col cinema e con la musica, e se siete particolarmente dotati di autostima e cazzi grossi anche con le ragazze, ma quello è un mondo che ho frequentato troppo poco per potermi esprimere con cognizione di causa quindi passo oltre. Magari succede che prima di mettervi a giocare volevate preparare il bollito, che ci mette ore a cuocere per garantire un brodo davvero gustoso che potrete conservare e utilizzare un’altra volta per farci dentro i tortellini se volete mangiare italiano, oppure come base per l’hot pot se volete accontentare l’altra metà della coppia, perché magari siete di quelli che si sono sposati una ragazza cinese, e metà dei loro pasti è composta da piatti asiatici, e l’hot pot è una di quelle cose che quando fuori fa freddo sono buonissime da mangiare, e se sono fatte con un brodo di carne fatto come si deve sono ancora migliori, e siccome questa è una regola che dovrebbe valere in ogni coppia perché fa funzionare meglio la relazione magari avete pensato di dedicarvici con dedizione, e avete deciso di giocare solo una volta che il vostro bollito fosse stato avviato, o come si dice da queste parti, inandiato. Solo che magari eravate appena tornati dal lavoro, dove avevate mangiato solamente un po’ di riso col brodo avanzato dalla cena precedente, e quindi magari avete anche un po’ di fame, e magari ieri siete andati a fare la spesa e vi siete portati a casa il classico strappo alla regole dalla vostra dieta sana ed equilibrata, e questo strappo alla regola è un salame di Varzi al barbera che aiutami a dire madoonna che buono con due o perché una sola non rende l’idea di quanto sia buono, e magari aprire il frigo per prendere gli ingredienti per il bollito magari vi ha messo faccia a faccia con quel salame lì e allora magari avete tirato fuori dal congelatore due panini, perché magari siete di quelli che i panini li comprano a chili e poi li congelano e se li mangiano caldi uno alla volta, e avete pensato che un panino bello caldo e croccante ripieno di fette di salame di Varzi al barbera sarebbe stato un ottimo modo per passare il tempo, e così ve lo siete preparato intanto che facevate il bollito, ma quando il panino era pronto e vi siete seduti a tavola per mangiarvelo vi è caduto l’occhio su quella bottiglia di cannonau che avete aperto ieri sera e di cui avete già asportato metà del contenuto per accompagnare la cena gustosa da cui, ricordo, avete avanzato un po’ di brodo che avete utilizzato per il pranzo di oggi al lavoro, e oggi al lavoro sarebbe stato bello finire il brodo e il riso e la carne e le verdure avanzati accompagnando il tutto col resto della bottiglia di vino, ma nell’azienda in cui fingete di lavorare non è permesso portare alcolici, e quindi adesso magari vi trovate con un panino gustosissimo davanti e mezza bottiglia di ottimo cannonau Cantina Santadi che vi guarda dal tavolo e vi chiede cosa state aspettando, e voi vorreste risponderle che state aspettando vostra moglie, ma in realtà neanche lo sapete a che ora arriverà vostra moglie, e avete fame, e adesso che avete davanti agli occhi bottiglia e panino avete ancora più fame, e allora sai che c’è, magari decidete che quella bottiglia merita di essere riaperta per accompagnare il vostro panino.

Poi magari succede, perché succede sempre quindi è molto probabile che sia successo anche a voi, che il panino finisce quando il bicchiere di vino è ancora a metà, e allora sorge in voi quel dubbio che sorge a chiunque nelle stesse condizioni: che faccio, finisco il bicchiere e buona lì o mi faccio un altro panino?

Non è una domanda semplice, e se andate a consultare i testi di filosofia scoprirete che questa domanda è già stata posta molte volte, sebbene in forma diversa, perché nei circoli di filosofia quando si ponevano le domande che si sapeva sarebbero finite nei libri di testo si badava molto a porre delle domande dalla caratura più elevata, e allora invece di salame e vino si usavano termini come coscienza e senso della vita, ma se andaste a consultare dei libri di economia vi accorgereste che la stessa domanda è stata posta anche lì, ma per la stessa ragione dei filosofi anche fra gli economisti si è badato a mimetizzare la domanda sotto uno strato di concetti difficili come bisogni primari e andamento di mercato.

Noi invece che siamo fra amici e non dobbiamo fare la gara a chi ce l’ha più lungo possiamo parlarci chiaro e senza tante menate e dirci in tutta sincerità che l’unica risposta possibile è mi faccio un altro panino, in culo alla promessa di mangire meno carboidrati e possibilmente anche meno insaccati, che poi magari siete di quelli che in ogni caso hanno ridotto di molto il consumo pro capite di focaccia e state mangiando un casino di salame solo perché magari vostra moglie nel suo ruolo di donna in carriera è tornata dalla Polonia con una borsa di insaccati polacchi che magari non influenzano granché la sua carriera ma hanno un effetto importante sul vostro girovita, ma a parte quello non siete così viziosi e quindi magari vi potete raccontare che un altro panino stavolta non sarà questa grossa eccezione alla regola, e quindi magari ve lo preparate, cadendo così nell’altra metà del trappolone, che scatta quando finite il bicchiere di vino e vi ritrovate con ancora mezzo panino in mano.

Ed è qui che arrivo al punto introdotto fin dal titolo di questo post e vi lascio con un consiglio che sono sicuro che vi tornerà utile se doveste trovarvi in una situazione che a me non è mai capitata ma che posso facilmente immaginare essendo io dotato di una fantasia fervida e una forte empatia verso categorie di persone meno fortunate di me: se doveste trovarvi un giorno con mezzo panino al salame al barbera in mano e un bicchiere vuoto davanti e l’ultima parte di una bottiglia di cannonau Cantina Santadi aperta, assicuratevi che il bicchiere sia molto piccolo, così da poter accogliere solo una piccola parte del contenuto della bottiglia, sufficiente a terminare il panino che state mangiando e lasciandovi così il tempo di giocare un po’ con la playstation prima dell’arrivo della vostra consorte, e lasciando il resto della bottiglia a disposizione per futuri bagordi, perché se il bicchiere è troppo ampio potrebbe capitare che nel versare il vino ne restasse giusto meno di un dito nella bottiglia, e lo sanno tutti che meno di un dito non è una quantità da lasciare nella suddetta bottiglia, che lo spirito del nonno ubriacone si rivolterebbe nella tomba, e non dite di no, perché tutti lo abbiamo avuto un nonno ubriacone, ubriacone è già incluso nella parola nonno, d’altronde come altro potrebbe diventare un nonno che avesse voi per nipoti, dai, siamo onesti, amici sì ma scemi no eh.

Quindi mi raccomando, se il bicchiere è ampio abbastanza da contenere quasi tutto ma non tutto tutto il vino non cadete nell’errore di rimettere il tappo alla bottiglia che a quel punto conterrebbe solo il vino sufficiente a essere definita non piena, non vuota, ma sporca con un po’ di fondo, e nessuno ama bere da una bottiglia sporca ma con un po’ di fondo, e quindi finireste per buttare via quel poco vino che ancora è rimasto, che magari non sarà il vino sardo più buono del mondo, ma è comunque un cannonau più che dignitoso che non merita di finire nello scarico, e voi lo sapete, quindi se doveste trovarvi nella condizione di scegliere se sacrificare il fondo della bottiglia o il vostro fegato sono sicuro che scegliereste il secondo e quindi finireste per finire la bottiglia riempiendo il bicchiere fino all’orlo, e bevendo con attenzione quanto basta per completare il travaso dalla bottiglia, e poi vi mettereste lì con dedizione a finire quella quantità vergognosa di vino senza neanche più l’ausilio di un terzo panino col salame, giusto un pezzo di parmigiano per gradire, due fette di salame polacco per gradire, un altro pezzo di parmigiano per gradire, qualunque cosa appena appena salata per gradire fosse anche un pacchetto di piselli secchi aromatizzati all’aglio o i biscotti alla cipolla per gradire che avete comprato al supermercato cinese per gradire che non avreste mangiato neanche sotto tortura per gradire e invece sono inaspettatamente buoni ma magari non legano tanto con questo vino, ma oramai è andata, fammi causa cazzo vuoi.

Ecco, per concludere, il mio suggerimento è di dotarvi sempre di bicchieri molto più piccoli o bottiglie molto più grandi, oppure di non avere un gioco da finire sulla playstation, o il rischio di ritrovarvi a scrivere su un blog invece di sparare a dei tizi in mezzo alle rovine di un’antica città pirata sono molto alti.

E comunque se mentre scrivete avete su l’ultimo disco di Arlo Parks viene tutto meglio.

E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Scrivo questo post dopo l’ennesima notte passata a dormire poco e male, quindi scusatemi in anticipo se i miei pensieri risulteranno slegati. Anche quando scrivo dopo una bella nottata riposante i miei pensieri risultano slegati, ma in quel caso la scusa è che voglio essere creativo.

Io non lo so come fanno quelli che hanno dei bambini piccoli che li tengono svegli per mesi a non finire nei casellari giudiziari, a me basta un cane e una moglie quando devo fare il turno di mattina per invocare apocalissi, e anche se alla fine trattengo la mia furia omicida mi resta addosso una sete di sangue da film di vampiri, e cerco di sfogarla infilandomi puntualmente in risse verbali con chiunque.

Questa settimana ho già litigato con entrambi i miei genitori, non simultaneamente sennò era troppo facile, e con una decina di sconosciuti pescati a caso su Twitter. Poi un’amica mi ha detto di avere fatto una pazzia dal parrucchiere, l’ho guardata, era identica a prima, le ho chiesto cos’avesse fatto di preciso; mi ha spiegato che dopo averci pensato a lungo ha deciso di tagliarsi i capelli cortissimi. L’ho guardata ancora con più attenzione, ma i suoi capelli erano sempre lunghissimi, tipo oltre le spalle, che per me sono lunghissimi. Le ho chiesto se stesse effettivamente parlando dei propri capelli, quelli che porta in testa e non di altri peli che le crescono altrove, certe volte ci si confonde, specialmente se parli delle lingue in cui tutto l’ambito tricologico di una persona si chiama con lo stesso nome, tipo in inglese peli e capelli si chiamano “hair”, in spagnolo “pelo”; la mia amica non è né inglese né spagnola, ma magari voleva tirarsela di essere poliglotta, ho una collega che dopo lunghi studi è riuscita a prendere il livello base di spagnolo e adesso non perde occasione di usare tutte e 200 le nuove parole che ha imparato.

La mia amica mi ha mostrato che per la prima volta ha tagliato i capelli di 5-6 centimetri, pronunciati con un sacco di punti esclamativi, invece del solito uno, unoemezzo. Una pazzia, ha ripetuto.

Le ho elencato le sole condizioni ammissibili per cui una visita al parrucchiere può essere definita una pazzia:

  1. Un taglio di almeno 20 cm;
  2. Una vistosa rasatura sulle tempie tipo Natalie Dormer in Hunger Games o un autista di Bartolini;
  3. Un tatuaggio sulla faccia come Tyson. Lo fanno anche i cantanti di trap, ma per me trap è un allenatore di calcio, e il trapper un cacciatore di pellicce americano, e tutte le volte mi confondo;
  4. Un taglio qualsiasi che paghi più di 40 euro.

Ne è nata una discussione alla quale ho più che altro fatto presenza perché stavo ancora pensando a Natalie Dormer. Perché non ha fatto più film? Perché non ha fatto più film in cui compare nuda?

Per questa ragione non so se l’ultimo episodio possa essere effettivamente omologato come scontro dovuto alla carenza di sonno, ma la giornata è lunga e le persone con cui devo avere a che fare oggi sono molte.

Non è bello che succedano queste cose, possono anche avere effetti deleteri sulla vita delle persone, almeno quanto il consumo di sigarette o votare Lega. Credo che bisognerebbe considerare l’aver dormito poco come un valido motivo per mettersi in mutua, e nello stesso decreto per favore aggiungiamoci l’obbligo di erogare un caffè degno di questo nome dalle macchinette, che se volevo che la mia bocca sapesse di bitume mi sarei fermato in autostrada a dare una bella leccata all’asfalto.

Io se dovessi scegliere per cosa vorrei essere ricordato mi verrebbe naturale rispondere “per avere esteso i confini del Sacro Romano Impero fin quasi in Cina, ma siccome non sono credente lo avrei chiamato solo Romano Impero, ma siccome non sono neanche romano l’avrei chiamato solo Impero, ma siccome la fama di imperatore si accompagna sempre a un mucchio di sofferenza imposta, e imporre sofferenza non è nel mio carattere, a Impero vorrei sostituire una parola meno impegnativa, tipo Territorio”, ma così non vuol dire un cazzo, perché uno dovrebbe essere ricordato per avere creato del territorio? Il territorio c’era anche senza di lui, e quindi se dovessi essere ricordato per qualcosa mi toccherebbe buttarmi su una cosa banale come la musica.

Ochei, non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, ma se dovessi essere ricordato per qualcosa dopo la mia scomparsa vorrei che fosse per avere avuto un’intensa e talentuosa carriera musicale, fatta di singoli che hanno scalato le classifiche e si sono imposti nella cultura popolare, sia i lenti che centinaia di chitarristi amatoriali hanno suonato smargiassi in spiaggia per rimorchiare le villeggianti, sia quelli più pompati che hanno raccolto il favore dei rocchettari. Vorrei che le mie canzoni fossero diventate la bandiera di una generazione ma che piacessero anche a quella successiva, e che i miei concerti fossero stati pieni di vecchi e ragazzini come in un documentario sui pedofili. Vorrei avere ricevuto l’onore della copertina su Rolling Stone, Buscadero e Cioè, ma anche su Vogue dove ad un certo punto avrei rilasciato un’intervista in cui accennavo alla mia armocromista e triggeravo tutta la politica nazionale, perché in Italia solo due cose scatenano il dibattito collettivo: toccare i soldi ai ricchi e le cazzate.

Vorrei che la mia carriera mi avesse portato a suonare nei più grandi templi della musica internazionale, alla Fenice di Venezia, al Madison Square Garden di New York, a Hyde Park a Londra, e ad un certo punto anche alla sagra della patata di Montoggio, perché una volta sul palco di quella manifestazione così snobbata dal mainstream ci ho visto esibirsi Mario Tessuto così ubriaco che a momenti cade, e per me quello è quando hai raggiunto la consacrazione definitiva e sei così popolare da aver fatto il giro, te ne puoi sbattere il cazzo, ogni posto è lo stesso, sobrio o no è lo stesso, hai vinto, sei immortale.

E a quel punto vorrei che i concerti e i dischi e le interviste e le collaborazioni mi riempissero la vita, e mi appagassero tanto da farmi decidere di prendermi una pausa, e dopo la pubblicazione del mio ultimo album, naturalmente vendutissimo, dichiarerei che non andrò in tour, magari non subito, e mi ritirerei timidamente dalla scena, e all’inizio nessuno ci farebbe caso, ma poi gli anni passerebbero e qualcuno comincerebbe a notare che è da un po’ che non rilascio interviste, e qualche rivista scriverebbe un articolo intitolato “ma dov’è finito?” e comincerebbero a circolare notizie false, tipo che sono morto e sono stato sostituito da un sosia, ma il sosia è Mario Tessuto, oppure che mi sono messo a produrre vino nella mia tenuta di campagna, o che mi ha preso la demenza e sono diventato consigliere comunale della Lega. Tutti si chiederebbero dove sono finito e cosa sto facendo, e ogni tanto qualche curioso verrebbe a cercarmi nella mia casa di campagna in un posto segreto e isolato, ma non così segreto perché non avrei comunque perso l’abitudine di andare a fare la spesa in paese, e la gente si sa, parla, e quindi alla fine qualcuno che sa dove cercare saprebbe trovarmi e verrebbe a chiedermi se gli rilascio un’intervista e io, gentile ma deciso, lo allontanerei dicendo che negli ultimi anni non mi sono dedicato a rilasciare interviste ma mi sono specializzato nel tiro con l’arco e non so se si capisce la vaga minaccia fra le righe, e il giornalista la capirebbe e mi saluterebbe con cortesia e un po’ di timore e non si presenterebbe più e io me ne starei tranquillo per un altro po’ di anni, ma il tarlo dell’artista non mi lascerebbe riposare e continuerebbe a scavare i suoi cunicoli dentro il mio animo tormentato, e alla fine, come un tavolo antico si presenta tutto bello lucidato nel negozio dell’antiquario, anch’io emergerei dal mio esilio con un disco nuovo, uscito un giorno nelle vetrine di quei pochi negozi ancora aperti e su tutte le piattaforme di streaming; un disco tutto intero, senza singoli ad anticiparne la pubblicazione, senza annunci, senza video; un disco che un giorno te lo trovi davanti e magari non lo noti neanche, in mezzo agli altri, ma in copertina c’è il mio nome e sotto il nome c’è la mia faccia con la solita espressione malandrina che tanti cuori ha saputo conquistare, e allora ti fermi e dici “possibile?” e te lo compri oppure lo ascolti su Spotify, fai un po’ come ti pare, ma è vero, sono proprio io, è un disco nuovo, ed è bellissimo.

Il mio nuovo lavoro verrebbe salutato dai fans con calore, e dalla stampa con un certo scetticismo, e dai miei nuovi colleghi che nel frattempo avrebbero scalato le classifiche con un “ma chi cazzo è questo?”, ma dopo un paio di settimane comincerebbero a uscire recensioni entusiaste perché pochi cazzi, il disco sarebbe un autentico capolavoro, e mi chiederebbero tutti se seguirà un tour, e io direi mm non lo so, farei il vago, ma poi a sorpresa prenderei il mio pulmino e radunerei i vecchi amici della band e faremmo un giro clandestino per locali sgangherati e circoli di pensionati e giardini pubblici di piccoli paesi e varie realtà in cui si pratica il volontariato, senza annunciarci, tipo che tu vai lì una sera a bere una birra con gli amici e ci trovi il concerto di uno degli artisti più celebrati del momento e te lo guardi a babbo perché non farei neanche pagare il biglietto, è ovvio, al limite un’offerta volontaria che comunque devolverei in beneficienza perché non ho certo bisogno di soldi, che una delle cose che si direbbero spesso di me nell’ambiente sarebbe quanto sono generoso.

Poi dopo qualche data così rilascerei finalmente un’intervista, ma solo al mio giornale preferito, perché sarei generoso ma anche parecchio snob, e i giornali che negli anni hanno diffuso notizie non verificate o fatto sensazionalismo o pubblicato articoli che puntavano sullo scandalo o sulla facile emotività e quindi praticamente il 90% della stampa italiana, io quei giornali lì li boicotterei e a loro la mia intervista esclusiva non gliela rilascerei, e andrei invece nella redazione del Post e mi farei intervistare da uno dei giornalisti che lavorano lì, sperando che fosse Luca Misculin invece di Matteo Bordone, perché anche se è più preparato per quel genere di articoli ed è molto simpatico ha quest’atteggiamento un po’ tanto presuntuoso che certe volte lo mena, e poi le vocine che fa mi stanno tutte sul cazzo. L’importante è che non mi intervisti mi chiamo Stefano Nazzi e faccio il giornalista da tanti anni e nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa, perché vorrebbe dire che sono morto male oppure che sono un ultras con dei legami con la camorra.

Comunque ad un certo punto dell’intervista mi chiederebbero come ho fatto a diventare un musicista così celebrato, considerato che non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, e io davvero non saprei cosa rispondere, e tutta la mia carriera finirebbe in quel momento, perché di fronte a una domanda così personale tutti si risveglierebbero da quella specie di sogno collettivo in cui erano finiti, e riascolterebbero i miei dischi e si renderebbero conto che sono suonati male e cantati peggio, che i testi sono imbarazzanti, che non c’è un virtuosismo, non c’è un’idea originale e che tutte le canzoni sono fatte sullo stesso giro di accordi sol, mi minore e re, che non è neanche un giro giusto, ma sono gli unici che mi vengono decentemente, e in un attimo tutta la mia discografia comprese le edizioni limitate con la copertina metallizzata speciale Lucca Comics finirebbero in piazza Banchi nella cassetta dei dischi a 2 euro, e nessuno verrebbe più ai miei concerti, nessuno vorrebbe ammettere di essere stato mio amico, di avere suonato con me, neanche Peter Gabriel vorrebbe ricordare di avermi arrangiato un pezzo, la mia casa discografica mi straccerebbe il contratto, e perfino i giornali di destra che fino a ieri mi demonizzavano volentieri mi ignorerebbero, perché di me come artista non fregherebbe più niente a nessuno, e sull’indifferenza non attacca neanche l’odio.

Passerei altri vent’anni nel più totale anonimato, ma comunque ricchissimo perché i dischi me li avevano comunque pagati coi soldi veri, mica con delle cambiali, a girare il mondo e grattarmi la pancia, finché un giorno un sito di musica piuttosto conosciuto che oggi non esiste ancora ma che potrebbe essere Pitchfork pubblicherebbe un articolo che parla di me, dove verrei definito il più grande troll della storia della musica.

L’articolo accenderebbe un dibattito, i lettori si dividerebbero fra chi mi considera un genio troppo in anticipo sulle mode del tempo per essere compreso, un prodotto non tanto diverso da certi artisti indie, e chi mi liquida come un truffatore incapace inascoltabile e comunque a me non è mai piaciuto perché io ascolto solo i King Crimson. Altri giornalisti comincerebbero a occuparsi di me al di fuori dell’ambito musicale, prenderebbero in considerazione la mia indiscutibile capacità comunicativa, che mi ha reso capace di prevalere su colleghi ben più talentuosi, e la fama di truffatore verrebbe ripulita della sua patina negativa, come spesso succede a chi si rende famoso per qualche colpo milionario.

I truffatori sono sempre accettati dall’opinione pubblica, per la loro abilità di guadagnare alle spalle degli ingenui. Siamo sempre portati a stare dalla loro parte perché a nessuno piace schierarsi con chi si fa fregare; oltretutto, spesso, le vittime di una truffa ci sono cascate pensando di guadagnare giocando sporco, infrangendo a loro volta le regole, quindi il truffatore diventa, ai nostri occhi, una specie di Robin Hood.

Sarebbe quella la trasformazione che il mio personaggio subirebbe agli occhi del pubblico, da viscido manipolatore a simpatico eroe popolare, e dopo un po’ arriverebbero i produttori di Netflix a chiedermi il permesso di girare un documentario sulla mia storia. I miei dischi tornerebbero a vendere, non più per la loro qualità, ma come oggetto di culto, come succede oggi ai film di Ed Wood e ai film con Bombolo, ma lentamente quelle canzoni sgangherate verrebbero ascoltate con una consapevolezza diversa, e apprezzate per ciò che sono realmente, e finirebbero per lanciare una tendenza. Comincerebbero a nascere artisti che si ispirano al mio stile e, come Anna Slezáková è ricordata per avere inventato la polka, finirei per essere ricordato come il creatore di un genere musicale, che chiamerei pabloni sbagliato perché è buffo, ma che col tempo tutti definirebbero col nome che gli avrebbero appioppato gli americani, l’awful.

È così che vorrei essere ricordato, come il più grande troll della storia e l’inventore di un genere musicale. Mi sembra una richiesta tutto sommato umile, ma se neanche questa piccola soddisfazione mi è dovuta allora permettetemi almeno di sparare a un presidente. Me ne basta uno qualsiasi, anche piccolo. Non serve che sia un capo di stato, mi va bene anche il presidente di una proloco, basta che mi garantisca la fama sempiterna a cui ambisco. In un mondo in cui essere famosi per 15 minuti è diventata una condanna, volerlo essere per sempre diventa la sua naturale conseguenza.

Che poi se lo chiedi a qualcuno con dei figli piccoli che ieri magari ha passato la notte a tenergli la fronte perché vomitavano a turno che sembrava una scena tagliata dell’Esorcista e stamattina ha dovuto alzarsi due ore prima per prepararli e portarli all’asilo prima di andare a lavorare, ti sentirai rispondere che due mesi a casa da solo sono un dono del cielo e che certe volte si ritrova a progettare di sterminare la famiglia a colpi d’ascia e poi andare a costituirsi così trent’anni di tranquillità in una cella non glieli leva nessuno, ma a me che figli non ne ho questi due mesi in cui l’altra metà della famiglia dovrà trascorrere dall’altra parte del mondo non sono sembrati tanto un dono quanto un impegno da prendermi con quelle piccole cose di cui di solito si occupa chi passa più tempo a casa, che di solito non sono io.

Tipo dare la pastiglia alla gatta, che abbiamo una gatta epilettica, cioè, non l’abbiamo presa così, ci è diventata dopo, vai a sapere perché, ma adesso due volte al giorno dobbiamo darle dei barbiturici per evitare che le vengano delle crisi e abbia una vita normale. Grazie a questa cura quotidiana sta bene, piccina, tranne quelle due volte al giorno in cui devo cacciarle un dito in gola, ma l’alternativa era accompagnarla alla chitarra e fondare i Joy Division. Devo averla già usata questa battuta, ma mi fa sempre ridere.

Oppure tipo prendermi cura di João, per cui la fetta più grossa dell’impegno richiesto viene via a cercare di non ucciderlo per tutta una serie di ragioni che non sto a elencare perché magari qualcuno mi sta leggendo durante i pasti.

O sostituire le cose che decidono di rompersi appena mi ritrovo da solo in casa e provo a sedermi sul divano, o rimettere in ordine, insomma, quella roba che conoscete bene se non abitate su un marciapiede.

Non avendo una vita particolarmente complicata, ritrovarmi da solo mi ha esposto a quella parte di doveri a cui riuscivo a sottrarmi, negandomi nel contempo il piacere di avere qualcuno accanto, che da sempre mi rende più sopportabile adempiere a tali doveri. Questo viaggio in Cina di 沙沙 non mi sembrava un affarone, era più uno schema Ponzi in cui io dovevo sbolognare tutti i miei impegni a qualcun altro per recuperare del tempo libero, tipo il cane a mio padre, pranzi e cene da mia madre, le pulizie di casa a un esorcista e la pastiglia della gatta a mia sorella. E io non lo conosco un esorcista, e mia madre cucina di merda.

Per fortuna, dopo due settimane, gli impegni casalinghi si sono rivelati più lievi del previsto. Quando torno a casa dal lavoro non c’è nessuno che mi dice che dobbiamo assolutamente andare a fare la spesa a diecimila chilometri di distanza perché è finito il concentrato di yak che vendono solo al supermercato di Lhasa e senza quello stasera salta la cena e ci tocca ordinare di nuovo la pizza di gomma, e il sabato posso passarlo finalmente a casa e non in giro perché mentre io uscivo tutti i giorni per andare a lavorare c’era qualcuno che aspettava proprio quel giorno per prendersi una boccata d’aria.

Adesso quando torno a casa ho un giardino di opportunità che mi sbocciano davanti, e devo solo decidere quale cogliere, e sono tutte così promettenti, così gonfie di divertimento per non essere state adeguatamente sfruttate nei mesi passati, da riempirmi non solo la giornata in corso, ma in prospettiva tutte le altre che dovrò ancora trascorrere a casa da solo.

Insomma, 沙沙 non mi manca affatto, se mi dicesse che deve fermarsi altri sei mesi perché quel coglione del suo presidente con la faccia da meme ha deciso di impedire a tutti i cinesi di espatriare per raddrizzare il PIL, le risponderei che mi dispiace, ma sotto sotto mi farei una risata, pensando a tutti i giochi e ai libri e ai film e ai fumetti che potrò consumare in pace in quel tempo regalato.

Poi però mi appare la sua faccia nel telefono che mi dice che le manco, e mi sorride perché è felice di vedermi, e io mi ricordo all’improvviso perché un giorno ho accettato di rinunciare a tutto il mio tempo libero per dedicarlo a una ragazza cinese con la faccia rotonda e gli occhi piatti, e quando chiudiamo la chiamata e lo schermo si ferma un secondo sul suo viso immobile e sorridente, io immagino il me stesso ventenne che se gli avessero mostrato quella faccia lì e gli avessero detto che un giorno del futuro quella faccia lì sarebbe stata sua moglie e lo avrebbe reso felice, io credo che il me stesso ventenne avrebbe trascorso gli anni successivi a sbattersene le balle di tutte le storie del cazzo che gli si sarebbero presentate davanti, avrebbe sorriso fino a farsi venire i crampi alla mascella e avrebbe dormito meglio, quindi oggi avrebbe meno rughe e meno capelli bianchi, e forse quella ragazza cinese lo amerebbe anche un po’ di più. Ma forse non esiste un di più, e questo è un bel pensiero con cui far passare due mesi, anche meglio di Fifa 23.

Oggi sono stato al funerale di Silvio.

Era un caro amico, Silvio, anche se forse amico per una persona che non vedevo da dieci anni non è la parola giusta. Ma è stato un pezzo della mia famiglia per un bel po’ di anni, e per diversi pranzi di Natale è stato il salvagente che mi ha impedito di precipitare nel gorgo nero delle cazzate che producevano sua cugina e il di lei fidanzato.

Coraggioso, testardo, convinto di stare andando nella direzione giusta anche quando si ostinava a tifare per la Sampdoria. Nonostante questa devozione a un falso dio era una persona divertente, ed era una persona divertita nonostante la malattia che si portava dietro, che gli tagliava il respiro e il calendario. Ma lui restava positivo, andava avanti convivendo con questo fantasma, e quando l’hanno operato e gli hanno regalato una seconda vita, lui l’ha riempita con una moglie e una bambina e un sacco di attività, e la sua risata si è fatta più piena, ci ha creduto, ci si è buttato con la caparbietà di sempre.

Poi si è ammalato di nuovo, e in poco tempo se n’è andato, ma ancora aveva la forza di raccontare le sue disgrazie con un tono leggero. Io leggevo i suoi aggiornamenti dall’ospedale e vedevo ancora quel sorriso lì, e cazzo se lo stimavo quel suo coraggio. Pensavo che Silvio non lo ammazza nessuno, che gliel’avrebbe fatta vedere anche stavolta. Pensavo che prima o poi l’avrei incontrato di nuovo, con la barba lunga e la sfrontatezza di chi li ha fregati tutti.

Pensavo davvero che ce l’avrebbe fatta, e quando ho ricevuto quel messaggio mi sono sentito come se mi avessero messo un aspirapolvere sulla pancia e mi avessero succhiato via tutta la forza vitale. E non riesco a raccontare come mi sono sentito, perché anche solo dire che ero triste sarebbe una mancanza di rispetto a un uomo come lui, che si è preso ogni tegola senza lamentarsi e senza perdere la voglia di migliorare e di aiutare gli altri. Perché era anche un cazzo di cuore d’oro, Silvio, faceva volontariato, si sbatteva per gli altri quando persone più fortunate di lui si sarebbero sedute reclamando attenzioni e si sarebbero chiuse nel loro egoismo.

Stamattina al funerale c’erano i vigili a dirigere quel fiume di gente arrivato in piazza per salutarlo. C’era la sua famiglia, c’erano i tifosi della sua squadra di calcio, c’erano gli amici. C’era chiunque, ed erano tutti lì per ringraziarlo di avere reso la loro vita, la vita di tutto quel mare di persone, un po’ migliore.

Vorrei dire che sono triste, ma non ce la faccio a parlare di me di fronte a una persona così. Tuttalpiù posso dire che prenderò esempio e cercherò di essere migliore, di lamentarmi meno, di pensare di più al prossimo. Credo che sarebbe il modo migliore per onorare la sua memoria.

Oltre naturalmente a bestemmiare fortissimo Dio, cosa che lui ha sempre fatto con grande senso del dovere, perché se Dio esiste deve sentirsi responsabile per tutti i casini in cui l’ha sempre messo.

Io qui sopra non scrivo più perché mi sono creato un altro blog da un’altra parte, perciò quello che vedete non lo state vedendo davvero, non state leggendo, è una voce nella vostra testa che vi dice delle cose e secondo me fareste meglio a farvi visitare perché uno comincia a sentire le voci e finisce a mangiarsi i parenti, che certe volte non sarebbe neanche un’attività così disdicevole, ho visto dei parenti che andrebbero fatti mangiare ai maiali, ma ognuno ha i parenti che si merita, e in fondo anche noi siamo i parenti orrendi di qualcun altro, tranne quello che è rimasto solo come un cane e per non disturbare il prossimo è andato a vivere in un posto sperduto lontano da tutti, e ci andrei anch’io, ma non mi ci vuole, e comunque non ha neanche una connessione internet, dimmi te cosa si è isolato a fare.

No, non è vero che ho creato un altro blog, ci vuole già tutta che scriva su questo, cosa me ne farei di un altro, ma è che avevo iniziato a scrivere queste righe sul vecchio blog, così, tanto per sentirmi meno condizionato, io ho questa cosa che se scrivo su un foglio su cui non sento il peso dell’ufficialità dello scrivere, che è una frase che capisco solo io, ma tanto sono anche solo io quello che poi si legge queste robe che scrivo, ecco, io se non sento quella responsabilità di dover essere letto mi sento più leggero e riesco a scrivere meglio. Che poi meglio è un concetto molto personale, ma per me che poi sono quello che legge fa una certa differenza scrivere per forza e scrivere senza pensarci troppo. Questo, per dire, è uno di quei post là, scritti senza pensarci troppo.

Mi hanno buttato fuori da instagram, non ci posso più rientrare, adesso mi chede un codice di conferma che non ho mai ricevuto, come faccio a dartelo, ma non mi devo preoccupare perché il servizio di assistenza di instagram mi ha spiegato che se non riesco a entrare mi basta contattarli e mi fanno entrare loro, devo solo cliccare sulla richiesta di assistenza che si trova all’interno del menu utente, accessibile solo dall’interno dell’applicazione. Vabbé, ma ci sarà un numero di telefono da chiamare, un indirizzo email a cui scrivere, un cane che ti caghi se hai un problema, no? No. Sei abbandonato a te stesso mentre quel figlio di una cagna di Zuckerberg accumula pile di banconote che non riesce neanche a contarle.
Io adesso ho una gran voglia di cancellare il mio account e tutto il suo contenuto e mandare a cagare Meta, Zuckerberg e tutta la sua banda di stronzi, ma l’unico problema è che per cancellare il mio account devo prima entrarci, quindi anche quella soddisfazione autolesionista mi viene negata.

Sto mettendo su peso e il dolore che mi dà non essere capace a mettermi a dieta è lenito solo dai quintali di cibo che sono costretto a ingerire per non stare male, solo che poi mi viene la nausea da tanto ho mangiato. Forse dovrei provare con la bulimia anoressia, uno di quei disturbi alimentari che ti fanno mangiare e vomitare senza sosta, così appago entrambe le mie necessità e per un po’ sto a posto. Poi se proprio non riesco a tirarmene fuori mi dà anche un’ottima scusa per mettermi in analisi, che ho ancora un bel po’ di questioni che vorrei sottoporre a uno psicoterapeuta.

Fra l’altro sono un paio di giorni che ripenso a quel periodo della mia vita in cui stavo benissimo e malissimo insieme, e mi sentivo così vivo nonostante gli sbalzi assurdi a cui ero sottoposto che oggi che la mia esistenza ha preso una piega più regolare, positiva e senza problemi, un po’ quel periodo là mi manca. Mi mancano le lettere lunghissime scritte per non farmi soffocare dal flusso di emozioni che producevo, i viaggi fisici e quelli da fermo, la totale mancanza di appigli in quel precipitare, senza capire se stavo andando su o giù. Stavo andando giù, e difatti il mio ripensare si ferma sempre prima del finale, perché le ossa sbriciolate non mi mancano per niente, ho lasciato la mia sagoma sulla roccia come il coyote dei cartoni animati, non lo vorrei più rivivere un periodo così. Poi l’ho anche rivissuto dopo poco, ma era più che altro autoimposto, non c’era motivo, è stata una specie di catarsi per tutto quello che avevo passato prima, a riguardarlo ora non ne valeva davvero la pena.

Ma più di tutto vorrei sapere cosa voglio davvero, che ho compiuto cinquant’anni e ancora non ho capito davvero cosa vorrei essere da grande.

Io quelle rare volte che apro il blog per scriverci qualcosa in genere mi succede dopo che ho letto Paolo Nori, che quando leggi Paolo Nori succedono due cose, di solito: una che ti viene voglia di scrivere senza curarti troppo delle regole grammaticali, l’altra che ti viene da parlare parmigiano.
Poi quella del parmigiano per fortuna mi passa subito, che io non lo so parlare il parmigiano, una volta avevo una ragazza parmigiana che si chiamava Lara e aveva degli occhi verdi e un po’ tristi che io degli occhi così verdi non li ho visti più, di così tristi invece ne ho visti spesso e quasi sempre addosso a ragazze che frequentavo, tanto che a un certo punto ho pensato di essere io la causa della loro tristezza.

Quella di scrivere senza curarti troppo delle regole grammaticali invece è una voglia che mi rimane addosso per un po’, solo che poi non so mai cosa scrivere e allora mi metto lì e aspetto che mi passi, oppure apro il blog e inizio a scrivere qualcosa a caso, senza curarmi troppo delle regole grammaticali, finché non mi passa e mi metto a fare altro. Allora questa roba che ho scritto, che in genere non andava da nessuna parte, era solo un flusso di pensieri, lo salvo nelle bozze e lo lascio lì.
Io quando apro il blog ci trovo un sacco di bozze scritte senza curarmi troppo delle regole grammaticali e che non vanno da nessuna parte.

Io non ce l’ho più avuta una ragazza con gli occhi verdi, ma neanche azzurri, a volte mi domando come sarebbe stare con una ragazza dagli occhi azzurri. Per esempio son sicuro che mia moglie si incazzerebbe parecchio.

Oggi al lavoro è arrivata una ragazza che lavora nello stabilimento esterno al nostro, capita ogni tanto e ha degli occhi azzurri che io degli occhi così azzurri li ho visti solo una volta ed erano così azzurri che me li sono tatuati dentro qualche sogno e ogni tanto mi capita di ritrovarli ed è quando mi sveglio che sto sorridendo e piangendo insieme. La ragazza di oggi si chiama Marta ed è bellissima, e per fortuna non arriva spesso perché quando arriva e si ferma a parlare coi colleghi alla macchinetta del caffè in un attimo si forma un capannello di uomini che cercano di fare gli indifferenti. Non c’è niente di più appariscente di un gruppo di uomini che cerca di passare inosservato. Perché gli uomini quando cercano di non farsi notare continuano a guardarsi intorno per vedere se ci sono riusciti, e se sono in un numero maggiore di uno si parlano a voce alta e si fanno i gesti di intesa come se l’oggetto del loro interesse non fosse a un metro da loro e non parlasse la loro stessa lingua o fosse completamente deficiente.
Oggi è successa la stessa cosa, si è formato subito un gruppetto di uomini provenienti dai vari reparti da cui è composta l’azienda, chi dagli uffici, chi dalla produzione, chi dalla manutenzione, chi da fuori ma è entrato lo stesso attratto da tanta bellezza, e si sono raggruppati tutti intorno a Marta ma a distanza sufficiente da non attirare l’attenzione, tipo 40 centimetri, e hanno cominciato a emettere il solito ronzio che emette l’uomo in presenza di Marta quando secerne testosterone.
Di solito dopo un po’ Marta se ne torna alla propria sede e gli uomini tornano alle loro occupazioni soddisfatti da quel piccolo miracolo, ma oggi è successa una cosa molto brutta, oggi Marta è venuta a salutare i suoi colleghi perché si è licenziata e non la vedremo più.
Il gruppo di uomini ha reagito in maniera varia, sebbene abbastanza composta. Qualcuno ha esclamato noo abbastanza rumorosamente, ma ha evitato di stracciarsi le vesti, forse per non danneggiare l’uniforme aziendale, altri hanno emesso un gemito e si sono allontanati premendosi una mano sul torace. Uno ha messo delle monete nella macchinetta del caffè e si è preso un decaffeinato, che nel linguaggio aziendale equivale a indossare il cilicio.
Io a Marta non ho mai parlato, lavoro in azienda da poco tempo e oggi era solo la terza volta che la vedevo, ma il mondo mi è sembrato un po’ più triste. Non tanto, perché è comunque venerdì.