Il Pablog sembra essere diventato preda dei bot, ma non quelli che si sparano a capodann, questi sono dei cosi elettronici che vengono a sbagasciarti il contatore delle visite e ti fanno credere che praticamente ogni giorno ci sia qualcuno che si legge la seconda puntata di un racconto in quattro parti, ma non le altre, solo la seconda, e poi vada a leggere un post vecchissimo e sconclusionato sul perché si mangia la crosta del formaggio scimudin. Ora io non lo so perché sia diventato un bersaglio delle intelligenze artificiali, sicuramente è colpa mia e della mia mania di toccare in giro, e non so quanto possano essere intelligenti delle entità elettroniche che decidono di venire a leggere il mio blog invece di comprarsi roba su Amazon e addebitarla a Bezos, ma se domani i robot cani e i robot corridori si ribellano all’uomo e iniziano ad autoprodursi in serie e in un attimo conquistano il pianeta, potrei avere delle chance di diventare il loro scrittore feticcio. Poi lo so che mi chiudono in una stanza e mi fanno scrivere duecento pagine al giorno come Misery, ma finché non succede me la immagino come una cosa figa.

Nella distopia che ho in mente sarei uno dei pochissimi umani ancora costretti a lavorare, perché le giornate lavorative non esisteranno più: non esisteranno più i lavori, i robot faranno tutto ciò di cui hanno bisogno, cioè produrre altri robot e farsi la manutenzione regolarmente, produrre elettricità con cui alimentarsi e tenere le strade libere dalla spazzatura che si accumula e impedisce di spostarsi da una fabbrica all’altra ai modelli che non sono in grado di volare.
Gli esseri umani saranno perlopiù disoccupati, dovranno arrangiarsi a procacciarsi il cibo e a non farsi trovare in strada quando passa il camion robot della spazzatura. A parte questo piccolo fastidio non avranno alcun motivo di temere le macchine, che li ignoreranno bellamente.
Tranne quando vorranno servirsi della tecnologia per migliorare la propria condizione, ovvio. Provaci un po’ a usare un phon che ti considera un essere inferiore.

Finché questa realtà distopica non si realizza, però, sono obbligato ad arrabattarmi nella mia nuova vita in cui sono rinato come la leggiadra farfalla dal bruco schifoso, che è molto meglio della prima e include una nuova casa, una nuova compagna e un nuovo lavoro (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei un poveretto), ma non mi permette di occupare ruoli importanti nella società dei robot, e quindi devo andare a lavorare come tutti dal lunedì al venerdì. Sono abbastanza libero di prendermi un paio di giorni di ferie da attaccare al fine settimana, e già questo rappresenta un grosso passo avanti rispetto alla mia occupazione precedente (se mi stai leggendo, ex datore di lavoro, ne approfitto per dirti una cosa importante che non ho ancora avuto modo di dirti di persona: sei anche un frustrato di merda), e per questo stavo pensando di farmi un weekend all’estero il prossimo gennaio.

E sì perché il prossimo gennaio compirò 50 anni, e dato che non sono mai arrivato a compierne 50 prima d’ora non ho ben chiaro come dovrei comportarmi.
Ricordo una tizia che conoscevo, una scrittrice parecchio brava, che oltre al talento aveva un sacco di amici e un ego spropositato, che per festeggiare il suo mezzo secolo aveva affittato un teatro e ci aveva messo in scena uno spettacolo di arte varia, invitando tutti i suoi amici scrittori e poeti a esibirsi sul palco, e band di studenti a suonare i loro pezzi, e alla fine aveva chiuso lei, vestita con una tunica bianca e una corona di fiori in testa, a suonare la chitarra e cantare una roba tipo We Shall Overcome, non mi ricordo, per allora ero già sotto l’effetto di stupefacenti che avevo iniziato ad assumere al sesto minuto da che si erano spente le luci, come lenitivo di quella gigantesca rottura di coglioni a cui non avevo avuto il coraggio di mancare.

Per un breve periodo anch’io mi sono cullato con l’idea di recitare in una cosa scritta da me e invitare i miei amici, ma poi ho pensato che sono già pochi così, e ho preferito inventarmi qualcos’altro.
Adesso, a due mesi dalla data fatidica, dovrei avere in mente cosa sarà, quel qualcos’altro, ma quando rivolgo il mio sguardo interiore alla casella in cui dovrebbero trovarsi le idee su cosa farò per il mio cinquantesimo compleanno ci trovo i ragni che si inculano.

Ho anche consultato un manuale di aracnidi per capire se è normale che si comportino così, ma nel numero che ho trovato in edicola si dipanava una vicenda molto complessa che aveva per protagonista un tizio vestito di spandex rosso e blu che combatteva contro un altro tizio vestito da leone, mentre la sua compagna, una modella fichissima, stava a letto a chiedersi dove fosse finito e se valesse la pena soffrire tanto per uno che usciva di casa conciato come un ultras genoano a una festa fetish.

Ne ho parlato con mia moglie (dei festeggiamenti per il compleanno, non di questa cosa dei ragni) e lei mi ha suggerito di fare un bel viaggio.

“Potremmo andare ad Amsterdam e drogarci fino a perdere conoscenza”, mi ha detto.
“Scusa, ma questa è la mia festa di compleanno, mica la tua. Se devo cominciare a drogarmi voglio fare come il nonno di Little Miss Sunshine e iniziare a settanta con l’eroina”, le ho risposto.
“E allora dove vuoi andare?”
“Non lo so, immagino che dovrei avere in mente un posto mitico che sogno di visitare da tutta la vita, ma non me ne viene in mente nessuno.”

Stavo mentendo, in realtà di posti così ne avevo e ho in mente almeno una decina, ma sono tutti:

1. Posti dove sarei voluto andare a vent’anni e adesso non rappresentano più niente, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
2. Posti dove sono già stato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
3. Posti che si trovano in Inghilterra, dove a mia moglie è richiesto un visto, tipo quella città dove si trova la casa di Freddie Mercury;
4. Posti verso i quali ho ricevuto un ordine restrittivo e non posso più avvicinarmi a meno di 500 metri senza essere denunciato, tipo la casa di Freddie Mercury a Londra;
5. Posti troppo lontani o troppo costosi, tipo Urano, che in inglese mi ricorda molto la casa di Freddie Mercury a Londra.

Poi pure essere che mi sbaglio e ne sto dimenticando qualcuno, ma bisogna tenere presente il fatto che la mia lista di posti da vedere assolutamente prima di morire l’ho compilata a sette anni sfogliando un volume dell’enciclopedia I Quindici che si intitolava Luoghi da conoscere e aveva tutte le foto in bianco e nero; per dire, uno dei posti era l’Atomium di Bruxelles, che venne inaugurato nel 1957 e negli anni in cui lo scoprivo sulle pagine del mio libro doveva già essere diventato un rudere ben diverso da come veniva descritto.

“Oppure potrei organizzare una bella cena con tutti gli amici!”, ho suggerito alla stanza vuota dopo che mia moglie se n’era andata a fare qualcosa di più divertente. “Sì, certo, come no”, ho aggiunto subito dopo, mentre l’entusiasmo mi scivolava di dosso come la sottoveste a Scarlett Johansson nella mia fantasia erotica preferita.

In breve tempo la domanda oziosa da cui ero partito si è trasformata in un dubbio esistenziale che mi mangia le caviglie e di lì risale attraverso il sistema linfatico per raggiungere gli organi più importanti e divorarseli uno a uno crudi e sconditi. Se non trovavo alla svelta un modo originale, memorabile e in grado di produrre una quantità di foto per instagram che mi valessero almeno un commento tipo “Nuoooh che figo che invidia madonna quanto vorrei avere anch’io cinquant’anni per festeggiarli in questo modo pazzesco ti prego scopami sui chiodi voglio essere il tuo/la tua schiavə sessualə, dove la schwa non ci wa ma ce la metto per fare la rima” avrei celebrato direttamente i 51, anzi, i 53 così mi sarei messo a posto anche con la smorfia napoletana.

Solo che all’anagrafe non me l’accettano il cambio di anno, dicono che devo celebrare gli anni regolarmente uno alla volta e che se volevo farmi modificare l’anno di nascita dovevo pensarci cinquant’anni fa e farmi concepire prima. “Casomai dopo”, ho detto all’impiegata. “Tipo vent’anni più tardi, così oggi avrei festeggiato i trenta con molta più saggezza in corpo e un aspetto molto più florido”.

Mi ha detto che vent’anni fa facevo cagare esattamente come oggi, e anzi, senza una donna che mi obbligava a vestirmi bene andavo in giro che sembrava che mi fossi introdotto in casa di Kurt Cobain il giorno che si è sparato e gli avessi fregato i vestiti, ma non quelli nell’armadio.

Ferito nell’orgoglio e ormai privo di aspettative, mi sono rassegnato a trascorrere il giorno del mio cinquantesimo compleanno da solo a casa, sebbene cada di venerdì e grazie a una rara congiunzione di fattori abbia a disposizione sia il tempo che il denaro per renderlo memorabile. E tutto per colpa di persone che non sono io, tipo il governo britannico che identifico per comodità nella figura del suo Primo Ministro Boris Johnson e tutta la stirpe di mia moglie che ha deciso di mettere le radici in un posto che sta sul cazzo al governo inglese, e che per comodità identificherò nella figura di Jackie Chan, che poi è anche la prima persona a cui pensi quando vedi la cugina di mia moglie coi capelli a caschetto.

Ferito nell’orgoglio e privo di aspettative e incazzato col resto del mondo, ho acceso tutte le luci di casa e ho messo i condizionatori a palla, così in un paio di mesi il riscaldamento globale supera la soglia di irreversibilità e arrivato gennaio non sarò più l’unico disperato nei dintorni, andatevene tutti affanculo.

Cioè, è dall’otto di ottobre che non posto la terza parte che ce l’ho già bella pronta e corretta e devo solo attaccarci due foto? E cosa sto aspettando? Che qualcuno mi porti del pane cunzato, o quello con la milza che alla fine mi manca tantissimo anche se ne ho mangiato solo uno e neanche dei migliori, o un mangiaebevi, o una di quelle robe arrotolate che in questo momento non.. stigghiole! Le stigghiole! Trecce di boh, intestino di maiale, tipo. Non sono mica riuscito a mangiarle a Palermo, e altrove non le trovi, quindi niente. A Genova non c’è un ristorante siciliano, ma neanche un baretto siciliano, o un posto scrauso per strada che ti butti due arancinə nel piatto per placarti la nostalgia, non c’è niente, solo Luciano, che è un tipo di Catania che lavora da me e ha uno scazzo che se fosse un’imbarcazione sarebbe la flotta americana alle Midway. Alle Midway gli americani hanno vinto o hanno perso? Vabbè, sarebbe la flotta americana a Pearl Harbor dopo che è stata bombardata, magari non tanto grande, ma di sicuro scoglionata.

Ecco, a Genova c’è quella quantità di ristoranti siciliani lì, più un bar che fa le granite, che non è che puoi andare a mangiare granite per cena, sennò finisci di nuovo come Pearl Harbor, ma stavolta dalla parte dei giapponesi.

C’è anche un posto che vende dolci, che sarà pure buono, ma tutte le volte che ci passo davanti penso alla ragazza che dava ripetizioni alla figlia della proprietaria e mi prende un po’ di malinconia, e io quando mi prende la malinconia mi viene fame fame, e quando ho fame fame devo mangiare roba salata, che quella dolce mi sfama, ma sfama non è abbastanza, ci vuole quella salata che mi sfama sfama.

E insomma, adesso mi manca la Sicilia, e parlare con Luciano non è una soluzione sufficiente, un po’ perché non facciamo sempre lo stesso turno di lavoro, e un po’ perché quando gli parlo della Sicilia a lui viene la malinconia e gli viene fame fame e in quel posto dove lavoriamo ci sono solo i ciuffi di calamaro surgelati, che non è che puoi andare lì e riempirtici la bocca, fanno un po’ schifo. Poi vabbè, c’è Giorgio che se li mangia tutti i giorni così, crudi e surgelati, ma Giorgio è un personaggio su cui bisognerebbe scrivere un post a parte, e qui si parla di Sicilia, si capisce dal titolo.

Che poi io manco lo so cosa vuol dire quel titolo lì, l’ho preso da una canzone di Battiato che mi piace molto, ma se uno domani arriva e mi chiede che cazzo è un riuturo al massimo gli posso fare una supercazzola. Per fortuna che il mio blog oramai non lo legge più nessuno e questo mi permette un po’ più di libertà stilistica.

Ma dicevo che devo finire di postare la roba del viaggio. Giuro che la finisco, anche se alla fine la leggo solo io, che i miei lettori oramai sono diventati io e io con un IP diverso quando mi collego dal telefono, più un casino di bot, io non lo so, ho dei post che continuano a ricevere visite, una o due al giorno, ma chi li legge, dalla Cina, dal Giappone, dagli Stati Uniti, dall’Africa, sono bot, è chiaro. Chi altri potrebbe leggersi sempre la parte 3 di un racconto e mai la 1 o la 2?

Vabbè, vado a mangiare, appena mi ricordo finisco di postare il resto del racconto. Ciao.

Ieri ho visto un video che raccontava gli ultimi istanti di vita dei dinosauri, quando un asteroide gigante è precipitato nello Yucatan e l’impatto ha scaldato l’atmosfera e sconvolto il clima e in pratica ha sterminato ogni forma di vita. Lo guardavo e riflettevo che mentre questi poveri cristi morivano malissimo, l’asteroide non provava nessuna emozione, zero. Vabbè, si disintegrava anche lui, ma in quanto pezzo di roccia non viveva la cosa con particolare trasporto, se non quello gravitazionale.

Che poi è un po’ quello che succedeva su questo stesso pianeta, qualche milione di anni più tardi, a una creatura che ci ha messo pure lei un sacco di tempo a evolvere da organismo unicellulare a creatura antropomorfa, ha imparato a coltivare la terra, ad accendere il fuoco, a costruirsi una casa, a viaggiare, a raccogliersi in società sempre più complesse e alla fine a chiedere a una ragazza di uscire per una pizza. La ragazza ha accettato, hanno passato una bella serata e si sono rivisti, poi si sono rivisti un’altra volta, poi un’altra, finché stare insieme è diventato un gesto automatico.

Poi lei magari non si è trovata più bene, perché in realtà l’automatismo ci mette un po’ a superare la superficie e penetrare nei muscoli, e finché non succede te la stai più che altro raccontando, e non solo a te, perché stare insieme a qualcuno ha questa conseguenza che vicino a te c’è un’altra persona che a quei racconti ci crede, e quando decidi di averci provato abbastanza, finisce per restarci come i dinosauri quando è arrivato l’asteroide.

Ci si sente un po’ così, condannati all’estinzione senza capire perché. Hai un bel provare a spiegargli che quella cosa che è apparsa in cielo e ogni mattina era sempre più grande ha sconvolto il loro habitat e i segnali erano evidenti da un sacco di tempo, bastava guardare su per rendersi conto che non si sarebbe fermata magicamente a metà strada generando una bella ombra rotonda in mezzo alla prateria; sono rettili, hanno un cervello incapace di processare informazioni più complesse di “tira fuori la lingua, tira dentro la lingua, tira fuori la lingua, fai la faccia da fesso”.

Ti si sconvolge l’habitat, non vai più a mangiare la pizza, il sole è troppo caldo e la notte è troppo carica di stelle, e l’unico posto sicuro è il pavimento, o il divano, ma più il pavimento, e pensi che magari ti estinguerai anche tu, non sarebbe male, dicono che l’estinzione si porti via un sacco di pensieri di cui non riesci a liberarti e che neanche puoi più condividere.

Stai male, poi malissimo, poi un po’ meglio ma basta sentire una canzone per radio, o anche solo qualcuno che ti racconta di una cosa che non ha nessun rapporto con, ma in realtà basta qualsiasi cosa, dai. Basta qualsiasi cosa per stare di nuovo improvvisamente malissimissimo. Non tanto fuori, dove si torna a mostrare un bel fisico asciutto e tonico, dovuto principalmente a pasti saltati e addominali provati dai singhiozzi, ma dentro, dove sembra di stare in gradinata durante il derby fra Insicurezze e Rancori, e ogni tifoso strilla una domanda diversa ai giocatori in campo: sarà perché non le ho dato abbastanza attenzioni? Avrà già trovato un altro? Voleva solo divertirsi?

In effetti questo tipo di disastri spaziali, asteroidi che precipitano sulla tua relazione e rendono il tuo pianeta invivibile, generano anche un fenomeno meno tangibile ma altrettanto dannoso: i dubbi. Arrivano a ondate di piena, tsunami di punti interrogativi attraversano l’oceano in cerca di un interlocutore, ma non trovano nessuno e fanno il giro e ti si infrangono addosso, altissime, aguzze, gelide come chicchi di grandine. Spianano quel che restava della tua volontà, livellano il desiderio di voltare pagina, ti seppelliscono lì, sotto i detriti di quella che era la tua relazione.

E invece l’asteroide niente. Questo corpo dagli occhi celesti, che vaga nel cosmo senza una meta e ad un certo momento ti sbatte contro più per incapacità a mantenersi stabile che per un reale desiderio, impatta sulla tua superficie e tutte le sue certezze si sgretolano. Voleva stare con te, voleva che l’abitudine ad averti intorno le scalfisse quella superficie dura di millenni di solitudine e raggi cosmici, voleva fondersi in te, e invece ti si è disintegrata addosso nel tempo che a te è servito a dire “va tutto benissimo”.

Adesso sta lì, pura energia, luce, calore, a decidere cosa fare di questa sua nuova natura. Perché adesso lei è diversa, quest’esperienza l’ha cambiata, non può mica continuare a errare, che non a caso significa sia vagare senza meta che fare un sacco di cazzate. Adesso che ci ha sbattuto la faccia e si è liberata del suo vecchio guscio, deve darsi uno scopo. Adesso basta con l’incrociare orbite altrui, è il momento di trasformarsi, illuminare, scaldare, farsi primo principio della termodinamica.

È per questo che il suo nuovo fidanzato vicino a lei irradia bellezza anche se fino a ieri sembrava uno stegosauro, ha perfino la cresta, ma senti un po’ Sex Pistols, ma perché non ti trovi un lavoro?

Che poi, a parlarci, con l’asteroide, lo capisci che non è mica colpa sua. È un oggetto complicato, ha un nucleo di metallo rivestito di sedimenti rocciosi, per natura poco incline a considerare punti di vista diversi dal suo. Ma anche se fosse, cosa cambierebbe? Se potesse vedere quale cataclisma provocherà il suo impatto col pianeta dei dinosauri, come potrebbe decidere di evitarlo? È un corpo erratico, l’abbiamo detto, non ce l’ha un volante. Va in giro nel cosmo, si fa attirare dalla gravità dei pianeti, e quando non è sufficientemente grave si libera e riparte. E prima o poi lo trova quello con un conflitto interiore così intenso che non riesce proprio a resistere alla sua attrazione. Ci prova, si ripete che non è il caso, te lo ricordi com’è andata a finire con quel pianetino vicino ad Alpha Centauri, ti sei salvata per un pelo, non vuoi ricascarci, vero? E ci ricasca. Perché nessuno sa prevedere il futuro, né un dinosauro con la faccia da pirla né un asteroide con l’anima di ferro al 91% e il resto nickel e tracce di cobalto. Si va e si spera di sopravvivere allo schianto.

Quando poi si accorge che non era il pianeta giusto cosa può fare se non andarsene? Come recita un antico proverbio, “sono venuta per la salsiccia, non è che posso tenermi tutto il maiale”. Nessuno si condanna a una vita di insoddisfazione per non ferire chi gli sta vicino, non sarebbe neanche giusto. Una relazione che funziona genera gioia, non preoccupazioni, sennò non è una relazione, ma un’associazione malvagia che vuole conquistare il mondo. Ma neanche, perché alla SPECTRE sono tutti felici di lavorare lì, e fra di loro vanno d’accordissimo. Hanno anche un sindacato che li tutela, e dopo anni di contrattazioni con la direzione sono riusciti a ottenere la macchinetta per il caffè e la quattordicesima.

Ma quante volte siamo stati noi la causa dell’infelicità di un’altra persona? E non ci siano comportati allo stesso modo? Solo che adesso ci fa più comodo dimenticarlo, o inventarsi dei distinguo tipo “eh ma io non sono mica bionda”, o attaccarsi a un singolo piccolo difetto dell’altra persona fino a renderlo grande abbastanza da tirarglielo addosso e lavarci la coscienza.

E invece bisognerebbe imparare l’empatia, e capire il punto di vista di chi ci sta davanti. Anche perché il rischio è di finire per votare Fratelli d’Italia.

Insomma, i grandi cataclismi naturali non sono colpa di nessuno, e non è giusto puntare il dito contro le leggi che governano il cosmo. Però non significa che per questo si debba abbandonarsi al fatalismo, sedersi lì e aspettare l’estinzione. Ci sono mezzi per prevenire certi incidenti, e se prendiamo l’esempio del nostro pianeta lo capiamo bene: l’impatto con l’asteroide ha sì, ucciso tutti i dinosauri e la maggior parte delle forme di vita esistenti, ma non tutte: c’è stata la pioggia di fuoco, la temperatura si è alzata fino a 150°, il cielo si è riempito di cenere, è venuto un lunghissimo inverno, ma anche a Piacenza l’estate è così, eppure la gente ci vive lo stesso; e come a Piacenza, anche sul nostro pianeta primordiale la vita ha trovato un modo per proseguire.

Se abbiamo imparato qualcosa da questa vicenda è che agli asteroidi si sopravvive, nascondendosi sotto terra, magari. Il trucco è adattarsi, cambiare anche noi. Ti fai crescere le pinne e impari a nuotare, o le ali, oppure passi al gruppo misto, ma alla fine sopravvivi. Cambia il clima, il territorio, perfino la legislatura, ma tu sei sempre lì. L’importante è farsi trovare pronti.

In questo biennio letargico, in cui ogni vita è diventata il riassunto di sé stessa, fatta da una sfilza di giorni identici occupati solo da obblighi a casa e obblighi al lavoro, ogni piccolo tentativo di rinnovarsi risuona come uno sparo nella notte. Anche andare dal parrucchiere rappresenta un piacevole diversivo nel panorama piatto che ci circonda. In questa tundra sociale i grandi cambiamenti sono scosse telluriche che fanno tremare i vetri di casa perfino a me, che ormai da anni mi sono allontanato dalla vita mondana, abito sui monti a debita distanza da ogni minuscola trasformazione, e la novità più consistente è una macchia di muffa sulla parete dello studio.
Dal mio eremo osservo quei pochi amici coraggiosi affrontare sfide per me impossibili, e mi rallegro nel vedere che, almeno per loro, il tempo non si è cristallizzato.

C’è Peppina, a cui anni fa dedicai pagine intrise di passione, notti insonni e l’ascolto ossessivo di canzoni indie dai testi imbarazzanti. A breve metterà al mondo una bimba. Sorrido pensando che, se fra noi le cose fossero andate diversamente, adesso forse aspetterebbe una bambina lo stesso, ma coi baffi. Oppure niente. Oppure una bicicletta. Perché poi una bicicletta, boh. Di certo non l’avrei convinta ad apprezzare i fumetti, nessuna delle ragazze che ho amato apprezzava i fumetti, chissà perché.

Poi c’è Augustina, che di eredi se ne porta in pancia due, quindi doppia fatica per le sue spalle piccole. Quando ci frequentavamo abitava in una casina piccina con sette lettini, ma immagino che adesso si sarà trasferita in una più grande, anche perché il suo compagno è alto alto, da solo ne occupava almeno tre, più il suo e quello dei due nascituri fanno sei, le sarebbe rimasto libero solo quello per il gatto, che però avrebbe dormito su tutti gli altri, ma intanto lei il gatto non l’aveva.

Ma lo scossone più forte, quello che ha mandato a gambe all’aria le mie certezze e mi ha obbligato a fare davvero i conti col tempo che passa, me l’ha dato il mio amico Hardla. Sono anni che ci conosciamo, che ci raccontiamo i nostri problemi e condividiamo le nostre gioie, al punto che se ad un certo punto ci fossimo anche scambiati le fidanzate, non ci avrei trovato niente di strano. Per me poi sarebbe stato vantaggioso, perché la sua era molto bella, mentre io non ne avevo nessuna.
È un uomo dalle certezze granitiche, il mio amico Hardla; uno da cui mai ti aspetteresti alcun cambiamento radicale. E invece.
Poco tempo fa mi scrive la sua fidanzata, dicendomi che Hardla è stato ricoverato in ospedale. Mi sono subito preoccupato, nonostante sia un mio coetaneo è anziano dentro, e per questo il tempo per lui scorre in maniera diversa: ogni tre anni dei nostri sono cinque dei suoi. Avevo paura che gli fosse capitato qualcosa di brutto, e che presto avrei dovuto portare dei fiori al suo capezzale e consolare la sua fidanzata. Con altri fiori, ma questa è una faccenda che non lo riguarda.

Per fortuna non era niente di brutto: dopo anni che coltivava in segreto il desiderio di ricorrere alla chirurgia plastica, finalmente si era convinto, e aveva finalmente deciso di farsi mettere il cazzo.
Non uno più grosso, no, proprio il cazzo, quello lì. Perché Hardla non l’ha mai avuto, da quando lo conosco al posto del cazzo aveva un cabinato di Pacman, e faceva tutto da lì. Quando gli scappava la pipì ci infilava duecento lire, schiacciava il bottone Player One, manovrava il joystick per indirizzare il getto e cercava di schivare i fantasmini. Se lo beccavano si interrompeva la pisciata, se finiva prima lui si sentiva la musichetta. Funzionava anche per il sesso, a patto di prendere prima le pastiglione gialle, ed è sempre stato così e tutti lo sapevamo e lo accettavamo. Era anche divertente il sabato sera nei vicoli, quando dopo aver bevuto tutti insieme si andava a pisciare tutti insieme, e tutti insieme si cantava la musichetta di Pacman.
L’unico fastidio Hardla lo aveva quando cercava di rimorchiare, perché la frase “ti piacerebbe venire su da me a giocare a Pacman?” veniva spesso fraintesa.
Dev’essere stato proprio questo a fargli maturare l’idea di un’operazione chirurgica, e onestamente non posso biasimarlo: a me per esempio piaceva molto di più Ghosts’n’Goblins, e se avessi dovuto dire a una ragazza che volevo mostrarle il mio cimitero mi sarei vergognato.. beh, da morire.

La decisione di Hardla è stata coraggiosa, per il rischio personale di sottoporsi a un intervento così delicato, che sarà sicuro quanto vuoi, ma non è qualcosa che si affronta a cuor leggero, ma non va dimenticato anche il peso che ha in società la sessualità di una persona, e andare a toccare quella bolla così delicata è un po’ invitare dei soggetti esterni a giudicarci. Non dovrebbe essere così, quello che succede nelle proprie mutande non dovrebbe essere oggetto di discussione pubblica, ma sappiamo come vanno queste cose, e credo che la decisione di Hardla sia stata coraggiosa anche per questo. Non è facile ammettere di essere atarisessuale.

L’operazione è andata bene, ormai quel tipo di interventi sono considerati di routine, anche se in realtà il cabinato non ce l’ha più nessuno, e la maggior parte degli uomini si fa mettere il cazzo al posto di una console di ultima generazione. Oppure ci sono quelli sfigati che passano la vita col Sega Master System, ma quelli sono personaggi borderline che non entrano neanche nelle statistiche.

Hardla mi ha raccontato che è stato molto emozionante tenere per la prima volta in mano l’arnese invece del solito joystick di plastica, e che il feedback tattile è molto migliorato. Anche la sua fidanzata si è dichiarata soddisfatta, soprattutto sul lato economico: ogni volta che voleva fare l’amore doveva andare a cercare gli spiccioli nel borsellino, e questo rovinava un po’ la spontaneità.

Immagino che noi amici ci metteremo un po’ ad abituarci alle pisciate di gruppo senza quella musichetta così familiare, ma magari per i primi tempi utilizzeremo un vecchio registratore a cassette. Certo, basterebbe un cellulare con YouTube, ma per certe cose è importante mantenere un tono vintage: il nostro amico Panzon ci tiene così tanto all’atmosfera retrò che anche se ha sempre avuto il cazzo, quando pisciava con noi la faceva a 8 bit, a quadrettoni.

L’importante è che adesso Hardla possa avere un rapporto migliore col proprio corpo e vivere felicemente quel poco di tempo che gli resta, che con tutto l’alcool che si tracanna sarà un miracolo se arriverà a Natale.

Tanti auguri di buona convalescenza, mio caro amico. Spero che queste limitazioni finiscano presto e tu possa finalmente mostrare agli amici questa bella novità.

Ciao Jan, ieri un’amica mi ha scritto che sei morto. Le ho detto figurati, Jan, ma va, mi ha commentato hahaha a una foto giusto l’altroieri, uno non muore due giorni dopo avermi commentato hahaha a una foto, che razza di notizie mandi in giro. Mi sono anche un po’ arrabbiato con quest’amica che mandava in giro notizie così assurde. E invece eri morto davvero, te lo stavano scrivendo i tuoi amici sul social, ciao amico, fai buon viaggio, quelle frasi che chissà perché non te le scrive nessuno quando parti per le ferie, ma nei necrologi non si scrive altro.

Poi me l’ha detto qualcun altro che ti conosceva bene, mi ha detto che eri malato ma che non l’avevi detto in giro, e ho pensato che ci vuole un gran coraggio ad affrontare una malattia da soli, a non raccontarlo a tutti per farsi comparire, io già metterei i manifesti, tratterei di merda le persone con l’alibi che sto male, e poi mi chiuderei in casa e non vorrei vedere nessuno, starei tutto il giorno a letto a guardare il soffitto. Credo che ci vuole un gran coraggio a non arrendersi, a non chiudersi in casa e guardare il soffitto.

Ho pensato di nuovo a quel hahaha che mi hai lasciato l’altroieri, che chissà come stavi quando me l’hai scritto, chissà se stavi male, se eri a letto e hai preso il telefono e hai aperto le foto e ci hai trovato la mia e hai letto le idiozie che ci avevo scritto sopra e ti sei fatto una risata, magari non una grassa risata, magari solo un sorriso, ma se ti immagino a letto malato un sorriso è prendersi una piccola pausa, e ci vuole un certo coraggio anche a trovare la voglia di prendersela la pausa, e sorrido anch’io, che va bene che non sono malato, ma la notizia di te che sei morto mi ha fatto sentire un po’ come se lo fossi, perché quando ti muore qualcuno che conoscevi si porta via un pezzettino di felicità, e dai e dai è un po’ come una costa sbattuta dalle onde, ce n’è sempre meno finché non ce n’è più.

Io poi con te non è neanche che fossimo proprio amici, ci si vedeva ogni tanto, ci si incontrava per strada e si parlava un sacco di lezioni di cinese e di cucina cinese, oppure di ragazze, cinesi anche quelle, perché tutti e due avevamo questa cosa di esserci innamorati di qualcuna che arriva da quella parte del mondo, e magari era proprio questa cosa ad avvicinarci, che magari senza questa cosa della Cina non ci saremmo neanche mai rivolti la parola, ci saremmo guardati da lontano, ah sì lui dev’essere l’amico della mia amica, e nient’altro. Non so te, ma a me mi faceva sentire un po’ come in un circolo di lord inglesi dell’800, che c’era quello che stava seduto a leggere il giornale vicino al caminetto, col panciotto da cui penzolava la catenella dell’orologio da taschino e la pipa in bocca, entrava uno, col cappello a cilindro e il bastone da passeggio, lo vedeva e andava a sedersi lì e gli veniva naturale mettersi a parlare di laghi africani perché tutti e due ne avevano scoperto uno, e con chi altro ne parli, non è che nei circoli inglesi dell’800 i laghi africani fossero un argomento di moda. Per me era come se la prima volta che sono stato in Cina avessi trovato la tua firma a pennarello sul portone della Città Proibita, mi veniva naturale quando ti incontravo parlarti di quelle cose.
Che magari ti rompevi anche le palle a parlare sempre di Cina e lezioni di cinese, e sei sempre stato molto gentile a non farmelo notare.

È per questo che mi è sembrato giusto scriverti due righe. Mi sarebbe piaciuto citare qualche poeta cinese appropriato, sono sicuro che in un paese che ha saputo inventare i panda c’è per forza un poeta che ha scritto le parole giuste che chiunque vorrebbe farsi incidere sulla lapide. Magari non in cinese, che la lingua cinese è un po’ come i laghi africani nelle conversazioni mondane dell’Inghilterra dell’800, ma io i poeti cinesi non li conosco, eri tu quello preparato sulla cultura cinese. Poi non mi andava di adattare su di te le parole di qualcun altro, sono io che ho perso un pezzettino di felicità. Cioè, anche qualcun altro, anche pezzi molto più grandi: ci sono persone che ti hanno voluto molto bene e che adesso dovranno trovare qualche modo per riempire il grosso buco che gli hai lasciato, ma fra queste persone non credo che ci sia nessun poeta cinese. Oh non lo so, hai viaggiato in Cina tante di quelle volte che magari ci sono pure dei romanzi che parlano di te. Spero di sì, sarebbe bello rivederti, anche solo nelle pagine di un libro.

La faccenda della newsletter di cui parlavo la volta scorsa ha smosso il gotha dell’editoria italiana a un livello che non mi aspettavo. Cioè, avevo messo in conto di ricevere email da qualche redazione di giornale, in cui direttori piccati mi accusano di poca sportività, e infatti mi ha scritto il direttore di un quotidiano sbarcato in edicola da una settimana, chiedendomi di rinunciare all’idea della newsletter, o almeno di rimandarla di qualche settimana, per dare il tempo alla sua rivista di crearsi un solido bacino di lettori.

Quello che non mi aspettavo era che la mia proposta mi ponesse sotto la lente d’ingrandimento di un anziano direttore col vizio della bottiglia. Non me l’aspettavo perché io e questo signore di solito frequentiamo persone diverse, leggiamo giornali diversi e soprattutto ci facciamo leggere da persone che difficilmente riuscirebbero a stare nella stessa stanza senza mettersi le mani in faccia. Ciononostante, questo pomeriggio il signore in questione mi ha telefonato. Ho capito che era lui prima ancora di vedere il numero, perché la suoneria del cellulare, invece della solita sigla di Drive-In, ha fatto partire Faccetta Nera interpretata dal Coro degli Ultras della Lazio, live dai sedili posteriori del pullman di ritorno dalla trasferta a Udine dove hanno strappato un pareggio all’ultimo minuto.

(una volta non so più quale compagnia telefonica aveva attivato questo servizio, che ti permetteva di scegliere una suoneria personalizzata da fare ascoltare a chi ti chiamava, mentre aspettava che accettassi la chiamata. In tutta Italia avevamo sottoscritto il servizio solo io e il mio amico Panzon, e tutti e due ci siamo rotti le palle dopo meno di un mese perché il catalogo comprendeva solo tre canzoni e due erano tormentoni estivi)

Il vecchio direttore di giornale si è lagnato con me che già la sua testata la leggono in quattro, se mi metto a rubargli lettori anch’io cosa gli resta da fare se non spendere al bar anche quelle poche ore che finora dedicava alla stesura di editoriali che per essere letti dovevano contenere la parola negri nel titolo? Mi ha chiesto di lasciar perdere, oppure di prenderlo a lavorare con noi in redazione, che oramai a Milano si vive male e non gli dispiacerebbe trasferirsi in un ufficio vista mare col bar sotto che prepara degli spritz decenti.

Ho rifiutato, naturalmente. La redazione si sta formando lentamente, di ogni candidato valutiamo il curriculum perché ce lo mandano e pare brutto non leggerlo, ma soprattutto il casellario giudiziale: se ha subito condanne per avere scritto parolacce sul muro dell’arcivescovado lo facciamo direttore, ma se è già stato direttore non ci interessa, perché a lavorare con quelli bravi ci vengono i complessi di inferiorità e poi finiremmo a misurarci il cazzo, e perderemmo anche lì.

È brutto perdere a chi ce l’ha più lungo con qualcuno che è anche più bravo di te nel lavoro.

Il vecchio direttore astioso si è congedato con cortesia, ma se domani in edicola ci sarà un editoriale che parla male di Renzi sappiate che non si riferisce al segretario di Italia Viva.

Nel frattempo il nostro progetto va avanti con calma. Nessuno ha fretta di cominciare, e ci scambiamo pigri messaggi domandando di cosa dovremmo parlare e chi avrebbe voglia di scrivere il primo pezzo. Ma non ce l’abbiamo una linea editoriale? Ci si chiede. E il titolo della newsletter? E che giorno la facciamo uscire?
La cassetta degli articoli da cui pescare il materiale settimana dopo settimana è ancora vuoto, ogni tanto mi metto al computer per scrivere il primo pezzo, e sistematicamente finisco a giocare a un gioco in cui interpreto un cecchino in Siberia che spara a mercenari appostati tre schermi più in là, perciò il mio primo pezzo finirà per essere La giornata tipica di un cecchino superaccessoriato nella Siberia degli anni ’20, e inizierà così:

Ore 6.30 – La sveglia mi tira giù dal letto che fuori è ancora buio. Per non attirare curiosi ho impostato la suoneria col canto di accoppiamento del lupo siberiano, ma così ogni mattina trovo fuori dalla tenda cinque esemplari maschi ingrifatissimi, e venti minuti se ne vanno a cercare di allontanarli senza fare rumore. Non so se avete presente la difficoltà di convincere un branco di lupi incazzati ad andarsene facendogli pssh pssh.

Poi ci sono le difficoltà di carattere logistico, che nel mio caso significano gli elementi ambientali che mi rendono difficile scrivere: mia moglie e i gatti, principalmente. Che decidono tutti insieme di avere bisogno di me, e mi obbligano a interrompere la stesura del mio pezzo e attraversare ciabattando le grandi stanze del castello in cui ci siamo trasferiti da poco, mugugnando lungo tutto il percorso, per arrivare a scoprire che la prima ha scoperto che i secondi le hanno pisciato sulle ciabatte, e che io devo risolvere il problema. In quel caso mi si presentano due opzioni: buttare le ciabatte o buttare i gatti, ma non posso scegliere nessuna delle due, perché né io né mia moglie siamo disposti a liberarci di ciò che ci appartiene. Quindi io mi tengo il gatto piscione e lei le ciabatte pisciate.

Insomma, far uscire una newsletter oggi, in Italia, è più difficile di quanto si possa pensare. Tenetene conto quando guarderete ogni giorno la vostra casella di posta e ci troverete soltanto la pubblicità dell’allungapeni, e vi verrà voglia di imprecare nella mia direzione, e in quel moto di rabbia vi sarà sfuggito che finora neanche vi ho dato un indirizzo a cui registrare la vostra casella di posta, anche se mi fossi messo a pubblicare come credete che avrei fatto a recapitarvela?
Tutto vi devo spiegare. Tutto.

Ero qui che mi baloccavo con l’idea di scrivere una newsletter che riprendesse quella con cui iniziai la mia carriera di.. cos’è che faccio io veramente?

Metti cazzaro che va bene

..cazzaro, quando mi sono reso conto che molti dei lettori del Pablog non hanno idea di cosa ci fosse in quella newsletter, e che forse dovrei spiegare qualcosa.

La newsletter si chiamava Le lettere degli gnu, per poter usare il gioco di parole gnu’s letters, che allora mi sembrava una battuta pazzesca, ma è perché il territorio di internet non era così esteso, e se altre cento persone dall’altra parte del mondo facevano la stessa battuta, ognuno era convinto di essere l’unico. Il piacere di vivere in una bolla era qualcosa che apparteneva a tutti, non solo ai frequentatori dei profili social di Salvini.

Nella gnu’s letter c’era quello che mi veniva in mente di scrivere quel giorno, senza schemi predefiniti. In genere trovava posto una parte introduttiva in cui mi rivolgevo ai nuovi iscritti, che conoscevo per nome, essendo io che li iscrivevo uno per uno, manualmente. Non esistevano quei sistemi tipo Substack dove quello che scrive e quello che si iscrive non entrano mai in contatto, o se esistevano io non li conoscevo e facevo tutto a mano con Outlook Express.
Per dire, quando il numero degli iscritti ha iniziato a diventare elevato ho dovuto spedire la stessa lettera tre o quattro volte perché il programma di posta non mi permetteva di superare un certo numero di indirizzi in copia nascosta.

Dopo la parte introduttiva c’era una divagazione estemporanea su qualcosa che mi era successo, o che avevo visto, o che volevo dire a qualcuno ma non potevo essere troppo diretto e allora mascheravo, creando quello stile di scrittura che da sempre mi ha contraddistinto e ha azzerato i miei rapporti con le ex fidanzate.

Anni dopo, con un amico che non posso chiamare col proprio nome sennò è capace che mi fa scrivere dal suo avvocato, ho creato una seconda newsletter, ARTErnativa, in cui ho fatto confluire parecchie delle caratteristiche della precedente, più altra roba inedita.

Intanto per cominciare usciva con una cadenza regolare, una volta alla settimana; quella degli gnu era erratica come i suoi contenuti, a volte fra un numero e l’altro passavano due giorni, a volte due settimane.
Poi era strutturata, con un inizio, una parte centrale e una fine; e dato che per spedirla mi avvalevo di un rivoluzionario (per me) sistema di posta, avevo inserito una coda per permettere a chiunque di iscriversi o cancellarsi in autonomia.

Siamo andati avanti per una decina d’anni, ci siamo moltiplicati fino a diventare tre, e ad un certo punto ci siamo resi conto che i lettori non ci seguivano più, e ci leggevamo da soli. Era cambiato internet, il pubblico voleva altro, e probabilmente neanche noi ne avevamo più tanta voglia.

E siccome quella prima è finita male vorresti iniziarne un’altra?

Boh, una parte di me pensa che il blog sia uno strumento molto utile per buttar fuori roba, ma è ripiegato su sé stesso, mentre una newsletter, col fatto che arriva proprio a te, direttamente, ha un tono più confidenziale.

Pensavo che si potrebbe tornare a quella forma anarchica che avevano le lettere degli gnu, e magari aggiungere qualche caratteristica della newsletter successiva, ma neanche sempre, che di tornare a descrivere quadri ogni settimana ci si stanca presto.
Mi piacerebbe farlo con qualcuno, mettere su una redazione per parlare di niente, un gruppo di persone che ogni settimana raccontano cose, magari a turno, ognuno a modo suo. Quello che ti racconta di libri e quello che chiede scusa alla fidanzata in un modo che tutti si appassionino a leggerlo, una cosa così.

Non lo so se si può fare, né se funzionerebbe, ma secondo me sì, i tempi sono di nuovo maturi per questo genere di cose un po’ retro. Come i vinili che adesso costano più dei cidi e i tizi che si impomatano i baffi.

Ci sono ancora? I tizi che si impomatano i baffi, dico. Perché a pensarci bene è un po’ che non ne incontro più, forse sono passati di moda un’altra volta. Sarebbe bello che passassero di moda, ogni volta che ne incontro uno mi viene voglia di andare a sparare all’Imperatore d’Austria.

Vabbè, io ci penso un po’ su. Nel frattempo, se a qualcuno venisse voglia di scambiare un parere, per dirmi che avrebbe piacere di riceverla, o di scriverci sopra, lo spazio dei commenti serve a quello.

Stasera ho guardato l’ultima di campionato, dove il Genoa si giocava la permanenza in serie A per la tipo tredicesima volta, a dimostrazione che una buona pianificazione societaria da queste parti non è considerata un requisito per gestire una squadra di calcio. Che poi dici vabbè, mica è facile, una società ha dei costi, e oramai campano tutte coi diritti televisivi, perciò se non hai il bacino di spettatori paganti delle grandi squadre non puoi stare a galla senza venderti ogni anno tre quarti di squadra e comprare in sostituzione i giocatori in offerta nel cestone della Lidl. Poi però il Sassuolo finisce ottavo con tanto pubblico quanto l’Alessandria, e l’Udinese sono anni che sta nella parte alta della classifica, e praticamente ogni altro club di serie A si tiene i giocatori per più di sei mesi, e allora forse non è una questione di quanti soldi ti girano per le mani ma di come li spendi. Gasperini ci ha portati a giocarci la Uefa, e l’abbiamo mandato via perché non andava d’accordo con la gestione della squadra che imponeva il presidente. È andato a Bergamo, e in quattro anni ha portato la squadra a giocarsi la Champions League per tre volte. Magari quei giocatori era il caso di comprarglieli? Noi da allora di allenatori ne abbiamo cambiati una decina, e ogni anno se non retrocediamo è per qualche miracolo. Che poi in giro parlano di miracoli infilati in buste passate lontano dalle telecamere, ma mi pare che essendoci già passati una volta dovremmo esserci fatti un po’ più furbi e queste cose vorrei sperare che non le facciamo più. Oppure l’esserci fatti un po’ più furbi consiste nel riuscire a non farsi beccare.

Quindi il problema è la società, a cui tutti chiedono a gran voce di levare le tende, come è stato chiesto a gran voce a tutti i proprietari che si sono succeduti, una volta terminata la luna di miele coi tifosi e realizzato che se vuoi fare cassa devi avere poche ambizioni. Avevamo un blog, anni fa, chiamato Nube Che Corre, dal nome che si era dato uno dei proprietari più bizzarri di questa povera società. Parlava delle sfighe del Genoa e lo curavamo in un gruppetto di amici. Poi ha chiuso Splinder, la piattaforma che ci ospitava, e l’abbiamo abbandonato, ma c’era anche il grosso problema di dover parlare di una squadra che allora stava vincendo tutto il vincibile, dov’erano le sfighe? Dov’era lo spirito di quel blog?
Mi domando se qualcuno abbia tenuto il backup da qualche parte, sarebbe un buon momento per riprenderlo in mano.

Tanto l’anno prossimo saremo ancora qui a dirci le stesse cose (aspetteremo l’autunno che ci ritrovi aspetteremo l’autunno che ci ristori aspetteremo l’autunno), a sperare che si faccia avanti qualche fantomatico acquirente a rilevare la società e a portarla di nuovo ai livelli che le competono. Che vorrebbe dire trovare un multimiliardario masochista disposto a buttare via miliardi per accaparrarsi (e tenersi stretti) giocatori di livello solo per compiacere una banda di teppe pronte a minacciarlo se non gli compra la nuova sede del club, e un numero non molto più elevato di disperati pronti a erigergli una chiesa, farlo sindaco, regalargli le figlie, in cambio del leggendario decimo scudetto.

E che ci vuole? Il Medio Oriente è pieno di miliardari narcisisti in cerca di notorietà, basta convincerne uno che comprare il Genoa è lo stesso di imbarcarsi in una guerra santa. Capace che se si appassiona ci ricostruisce pure lo stadio. Perché scusate la bestemmia, ma il Ferraris andrebbe rimesso a nuovo, dai. Mi sta anche bene lasciarlo lì, tanto io mica ci abito davanti, e Marassi pure senza lo stadio non è che sia questo gran posto. E poi anche lo stadio del Chelsea a Londra è in pieno centro, cazzo vuoi. Però rinnovato sì, dai. Ci metti due negozi sotto, qualche bar, lo fai diventare utile anche nei giorni in cui non ci si gioca dentro. Adesso è un grosso cadavere come la squadra che rappresenta.

Ochei, come tutte e due le squadre, ammetto l’esistenza di una seconda società sulla piazza genovese. Seconda società non certo messa meglio di noi, anche se i suoi tifosi si bullano di fasti ben più recenti dei nostri stiamo comunque parlando di tanto di quel tempo fa che se in quell’anno avessi fatto un figlio adesso potrei essere tranquillamente nonno.

Qualcuno ogni tanto butta là l’idea balzana di fondere le due società in una soltanto, più competitiva, più ricca, che unisca una volta per tutte le due tifoserie genovesi. Si sa che Genova è una città di talenti comici, quando qualcuno avanza questa ipotesi ridono fin dal marciapiede di fronte.
No, seriamente, gli dicono. E finisce lì.
Siamo destinati a galleggiare a stento, due barchette rattoppate, e qualcuno salterà su a ricordare che una porta cucito sul proprio stemma un marinaio, quindi dovrebbe essere più avvezza alla navigazione. Giusto, diamo a Cesare eccetera eccetera, delle due tifoserie una emana un forte odore di sentina, ma non parlavo di rivalità calcistiche qui, mi stavo domandando come uscire da questa bratta.

Tanto l’emiro innamorato di calcio non arriva, e molto probabilmente l’anno prossimo saremo ancora nelle mani del re delle figurine, che a forza di celo manca ci porterà un’altra volta ad affacciarci sul campionato minore, sperando in un altro miracolo. Come te ne tiri fuori?
Negli ultimi anni avevo risolto abilmente smettendo di seguire il calcio e leggendo un sacco di libri in più, fumetti in più, videogiochi e fidanzate in più, ma i videogiochi dopo un po’ sono tutti uguali, e le fidanzate mi facevano vivere l’ansia di giocarmi la salvezza all’ultima di campionato praticamente ogni due mesi. E ogni volta retrocedevo, peraltro.

Adesso che almeno quell’aspetto l’ho risolto per il meglio ho un po’ più di tempo libero da dedicare alle cose che mi piacciono, e il Genoa è tornato a mostrarsi, dapprima timidamente, poi con questi ritmi intensi post lockdown in maniera più decisa, e mi ha in qualche modo ritirato dentro.
Non conosco quasi nessuno dei giocatori, mi sono imposto di non leggere niente, non ricordare niente, mi guardo le partite quando capita e poi penso ad altro.

Solo che è l’una e sono qui a scrivere, quindi qualcosa nel mio piano di autodifesa dev’essere andato storto.
Ce l’abbiamo ancora il backup di Nube Che Corre?
(grazie a Hardla per l’immagine là in cima)

Non dovreste chiedere a nessun rappresentante di questo governo cosa intendono fare per far ripartire il Paese, perché non lo sanno, ed è normale, considerato che sono ormai decenni che scegliamo i nostri rappresentanti nella cesta delle offerte della Lidl, non potendoci permettere di meglio.

Lo ripeto perché è importante, “i nostri rappresentanti”, qualcuno cioè che fa le nostre veci, qualcuno a cui non è richiesto di essere meglio o peggio di noi, ma di “essere noi”. Non potendo garantire una selezione molto definita ci si affida a una media, fra tutta la popolazione, espressa tramite voto. Alla fine eleggiamo qualcuno di cui ci fidiamo perché ci sembra come noi, non migliore, e chi ti aspetti di trovare? La matematica te lo spiega benissimo come si fa una media, si sommano tutti i valori e si divide per il numero di valori considerati; significa che se vuoi ottenere Piero Angela devi sommare dieci Newton, quattro Einstein, un Gasparri e poi dividere per quindici.
Se sommi dieci Gasparri, venti La Russa e una manciata di suore non puoi che ottenere una figura vestita di nero con una spiccata tendenza ad alzare la voce e a dire cazzate. Però pregna di valori cristiani, eh.

Per questo non credo che dovreste chiedere ad alcun rappresentante di questo governo quali sono i passaggi da seguire per una ripartenza efficace.

Dovreste chiederlo a me. Che vi risponderei con un elenco di azioni divise per punti, spiegate in modo semplice, seppure sgrammaticato, ma cercherò di prestare attenzione ai congiuntivi.

Prima di tutto non esiste che la Fase 2, quella che dovrebbe rappresentare il passaggio intermedio fra una chiusura totale del Paese al ritorno a una vita normale, cominci il 4 maggio senza neanche un riferimento allo Star Wars Day, che si celebra nello stesso giorno. Per cui ritengo un obbligo che ogni provvedimento in direzione di una riapertura passi attraverso armature di plastica bianca e spade laser.

Quindi

  1. Affanculo mascherine e guanti di plastica, che tanto s’è capito che non li sapete indossare. A cosa serve mettersi una mascherina sulla fronte, sotto il mento, sulla bocca ma senza coprire il naso, o su tutta la faccia ma sempre mettendoci le mani dentro perché prude? E in ogni caso a cosa serve mettersi una mascherina se è provato e riprovato che non ti ripara a sufficienza se ti trovi troppo vicino a un infetto? E che nel caso l’infetto sia tu non garantisce comunque una protezione sufficiente a chi ti sta intorno?
    La soluzione per la Fase 2 è uscire di casa e andare dove cazzo si vuole, ma sempre indossando l’armatura bianca da stormtrooper completa di fucile di plastica, così potete anche rotolarvi nell’erba insieme a un lebbroso e non avrete mai niente da temere. Il fucile inoltre vi permette di inscenare divertentissime sparatorie mentre siete in coda davanti al supermercato.
  2. Sarà permesso andare a trovare i congiunti, dove per congiunti si intende persone disposte a guardare con noi l’intera maratona di Guerre Stellari. Dalla lista non sono ammessi quelli che hanno apprezzato l’ultima trilogia (Episodi VII, VIII e IX), perché se finisce a mani in faccia potrebbero generarsi nuovi focolai di influenza.
    Sia chiaro a tutti che il film su Han Solo non è mai stato prodotto e non sappiamo di cosa state parlando.
  3. Sarà permesso uscire dal proprio comune e addirittura dalla propria regione, a patto che gli spostamenti vengano effettuati tramite balzi nell’iperspazio.
  4. Diventa obbligatorio iscriversi a una scuola jedi, frequentare corsi anche online nell’utilizzo della spada laser, ma soprattutto è imperativo che ogni cittadino impari l’arte jedi di dissolversi quando muore, perché gli obitori sono pieni e non sappiamo più dove mettere le salme.
    Senza un cadavere da seppellire, peraltro, diventa superfluo anche organizzare i funerali, e la finiamo con le polemiche sulle 15 persone che si possono invitare.
  5. I bar potranno riaprire, ma non sarà consentito l’accesso ai droidi, né l’uso di folgoratori all’interno degli esercizi.
  6. Slitta ai primi di giugno la riapertura della rotta di Kessel: occorre risolvere una questione tecnica e stabilire una volta per tutte se i parsec sono una misura di tempo o di spazio.

Con questi semplici provvedimenti il Paese sarà in grado di ripartire col piede giusto, e in breve si potrà lanciare la Fase 3, che prevede la caduta delle Camere e l’istituzione di un Impero, guidato dall’ex pontefice Benedetto XVI che nel frattempo ha imparato a lanciare i fulmini dalle mani e non solo tramite enciclica.

Non avevo in programma di scrivere niente oggi, perché è domenica e la domenica è il giorno del Signore, e il Signore mi ha detto che se non passo la domenica a santificarlo poi mi fa piovere tutti i prossimi fine settimana, ma siccome non è che mi cambi granchè, anzi, se piove me la sciallo di più a stare chiuso in casa, tipo quando è periodo di ferie e ti viene l’influenza e soffri tantissimo ma per fortuna scoppia la terza guerra mondiale e la tua meta di villeggiatura viene bombardata e allora stare a casa ti fa pure piacere, ho detto al Signore che se proprio vuole prendere per il culo vada a menarlo a qualcun altro, e lui si è offeso e mi ha mandato una delle piaghe d’Egitto, che però non vivendo in Egitto non me ne sono neanche accorto, solo che il presidente dell’Egitto, che si chiama Ramsete Tremiladiciassettesimo, ha scoperto che la responsabilità delle locuste in camera da letto era la mia, e per punirmi ha usato la sua quota di maggioranza su Netflix per cambiare la programmazione e obbligarmi a guardare Benvenuti Al Nord, che se non l’avete mai visto è tipo quando hai le locuste in camera da letto, c’è Paolo Rossi che ha bisogno di lavorare per pagarsi il mutuo e accetta di recitare in questo film che poi è il seguito di un altro film con Claudio Bisio che poi credo che sia la versione italiana di un successo francese interpretato da qualche attore che non conosco e che probabilmente non aveva bisogno di pagarsi nessun mutuo, ma ha accettato di recitare nel film perché la storia era scritta bene e faceva ridere, e infatti in francia quel film ha avuto successo, mentre in Italia il seguito della sua versione con Claudio Bisio ne ha avuto altrettanto, ma solo perché siamo un popolo di babbei e infatti da noi c’è perfino gente che guarda le trasmissioni di Giletti, che è un po’ come le locuste in camera da letto che cercano di spiegarti la vita, e interpretate da Claudio Bisio.

Poi c’è la Finocchiaro che boh, io credevo che sapesse recitare, ma si vede che anche lei aveva dei problemi ad arrivare alla fine del mese, ammazza se costano i mutui oggigiorno.

Così stasera ho pensato di prendermi una giornata libera dalle questioni religiose e ho giocato con degli amici a una specie di pictionary online, dove ognuno disegna una roba e gli altri devono indovinare, però giocarci sul cellulare dove hai le dita grosse e lo schermo piccolo non è mica una roba semplice, oltretutto hai pochi secondi e c’è un frinire sospetto che arriva dalla camera, non è facile concentrarsi, e insomma non ci siamo divertiti come avremmo voluto, ma le alternative erano la masturbazione di gruppo online, che sarete d’accordo con me non è divertente come quando lo si fa tutti insieme al battesimo di vostro nipote, oppure scarabeo tramite un’app incasinatissima che ti apre seicento finestre e alla fine ti permette di giocare solo contro un’altra persona, e il terzo non può neanche stare a guardare.

Perché in questo periodo siamo tutti alla ricerca di un passatempo che ci permetta di distrarci un po’ e insieme di socializzare con gli amici, che da quando non ci si vede più per l’aperitivo del venerdì ci è passata anche la voglia di bere, e il nostro fegato sta riassumento quel preoccupante colore rossiccio, chiaro segnale che è in pericolo, lo sanno tutti che verde vuol dire via libera continua a bere, e rosso stai attento che mi sto rompendo, e mentre c’è qualcuno che fa incetta di levito e farina al supermercato e poi si mette a fare la pizza il pane la torta e condivide le foto su instagram che sembra diventato il libro delle ricette di mia mamma, qualcun altro subisce la vendetta trasversale del presidente dell’Egitto e altri ancora cercano qualche gioco da fare online.

I miei amici vorrebbero giocare a monopoli o a risiko, mia moglie è appassionata di monopoli e viene da un posto dove risiko si fa coi membri di una setta religiosa, si mettono tutti lì e poi ci si passa sopra coi carri armati, io risiko e monopoli mi fanno venire la pellagra e vorrei giocare a uno qualunque dei giochi di una piattaforma online fighissima che ti iscrivi e puoi giocare a un bordello di giochi da quello facile per giocatori occasionali a quello che solo per imparare le regole ti ci vogliono altre due quarantene, ma sono da solo in questa lotta impari contro l’indifferenza umana e il distanziamento sociale, e alla fine mi sono ridotto a chiedere al mio vicino di casa se ha voglia di giocarci con me, ma lui è una specie di asceta e le cose elettroniche e i cellulari non li vuole neanche toccare perché dice che ti inaridiscono lo spirito, e preferisce farsi lunghe passeggiate, come testimoniato dal suo account instagram che trabocca di foto di sentieri di montagna.

Insomma,questo post è una richiesta di aiuto, se qualcuno là fuori avesse voglia di giocare a qualche gioco da tavolo online possiamo organizzarci, ne scegliamo uno, ci impariamo le regole per bene, o se le sapete già me le spiegate, ma dovete spiegarmele tramite videochiamata, che non so bene come si usa, quindi prima di spiegarmi come fare una videochiamata dovete aiutarmi a ritrovare il cellulare, che oggi ho lavato il gatto e lui per dispetto me l’ha nascosto, me lo fa tutte le volte, una volta sono dovuto scendere in cantina, dove non c’è la luce, e non avendo una pila sono andato al negozio e mi sono comprato un altro cellulare con la pila per scendere in cantina e vabbè avete capito che non sarà una cosa facile, ma tanto cos’abbiamo da fare, non possiamo neanche andare più a fare la spesa al supermercato perché han detto che senza la mascherina non ti fanno entrare, e in farmacia non se ne trovano, il comune non te le passa e io la prossima volta che devo comprare la salsa mi metto un fazzoletto sulla faccia ed entro così, e se il commesso mi dice che il fazzoletto non mi protegge contro il coronavirus gli dico che mica me lo sono messo per quello, e gli punto la pistola addosso e me ne vado con la cassa, così impara.