it actually was, a rebel song

Mi sono reso conto, con un certo fastidio, che questo blog si sta riempiendo di necrologi, e il fastidio è dovuto alla consapevolezza che la causa stia nel mio anno di nascita, che col tempo mi trovo a condividere con sempre meno persone.
Oggi purtroppo se n’è andato uno dei pilastri dei miei vent’anni, una donna un po’ più vecchia di me, che ha avuto una vita molto ma molto peggiore della mia, anche se a prima vista potrebbe sembrare il contrario. Si chiamava Sinéad O’Connor, e non ho mai imparato a pronunciare correttamente il suo nome (è più o meno Scinèid).

Ora non voglio mettermi qui a raccontare le sue disgrazie, ci sono un sacco di informazioni disponibili in rete se uno ha voglia di andarsele a cercare, e se non ne ha voglia non vedo perché dovrei premiare la sua pigrizia riassumendogliele io.

Oltretutto fra le reazioni alla sua morte sui social ho letto diversi commenti di disprezzo per cose che o non erano vere o richiedevano un minimo di contesto, e l’ultima cosa che ho voglia di fare è mettermi a discutere con questi personaggi, che tanto sarebbe tempo perso. E comunque torniamo sempre a quella volta che strappò in diretta tv la foto del papa, un gesto potentissimo allora, ma che ancora oggi, fra i milioni di contenuti che ci affollano la giornata, riesce ancora a farci fermare per un momento il respiro. A certi fa ancora andare la lingua e le dita, non c’è niente da fare.

Se fermi l’immagine al fotogramma giusto puoi vedere il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei

Forse non è stata un’artista indimenticabile, è esplosa con una canzone che non era neanche la sua (e il cui autore è morto di morte prematura, come lei e come un altro ottimo interprete dello stesso brano, ma non sarò io a dire che la canzone porta sfiga), ha pubblicato qualche disco perlopiù ignorato dal pubblico, ha collaborato con un sacco di artisti più o meno famosi, coi quali ha tirato fuori delle perle. Ma era un’artista della madonna, e se non avesse sabotato la propria carriera con una caparbietà invidiabile, oggi saremmo molti di più a celebrare la sua scomparsa.

Se gli irlandesi sono stati considerati per secoli gli sfigati d’Europa, lei è stata di sicuro la sfigata d’Irlanda, ha incarnato per tutta la vita le disgrazie di cui è stato protagonista il suo popolo, dagli abusi dei preti all’esilio, al lutto. Per tutta la sua breve vita si è portata dietro un peso enorme, senza mai riuscire a conviverci. Ha cercato una quadra ovunque, nell’impegno sociale, nel cristianesimo, nel rastafari, alla fine si è perfino convertita all’islam, ma quel macigno non l’ha mai posato, e alla fine c’è rimasta sotto.
Poteva finire quarant’anni fa in un vicolo con una pera nel braccio, o nel suo letto imbottita di anfetamine durante una qualunque delle crisi che l’hanno perseguitata, e non ci sarebbe stato niente di inaspettato. Ha superato tutto, ha cercato sempre di trovare un modo, ma si vedeva che i mostri che aveva dentro se la stavano mangiando; poi l’anno scorso suo figlio si è ammazzato, e immagino che abbia semplicemente smesso di resistere.

A guardarla da lontano si potrebbe definire una fra i tanti artisti che fra gli ’80 e i ’90 hanno azzeccato un paio di canzoni per poi tornare nell’anonimato, ma è chiaro che non è così: la settimana prima che uscisse Nothing Compares 2U, a febbraio del 1990, la testa della classifica la occupavano i Technotronic, ma non so chi se li ricorda, oltre a me. Così come pochi si ricordano di Crystal Waters, e non credo che leggeremo mai da nessuna parte il necrologio di uno dei Kris Kross (di quello ancora vivo, peraltro. Lo sapevate? No, appunto).
Non era una qualunque, aveva una carriera spianata davanti: il secondo album, quello di Nothing Compares 2U, vendette 7 milioni di copie, e subito dopo partecipò al concerto di Berlino di Roger Waters per celebrare la caduta del muro. Era un fenomeno, e piaceva a tutti. Almeno finché non cominciò a dire quello che pensava, e quello che pensava non piaceva a tutti, perché era incazzata con l’America, era incazzata con la Chiesa Cattolica, e anche se aveva le sue ottime ragioni per essere incazzata il pubblico cominciò a fischiarla.

Trovatevi qualcuno che vi guardi come Sinéad O’Connor guardò il pubblico del Madison Square Garden alla fine della sua canzone.

Di lì in poi il termine “spianata” riferito alla sua carriera assunse tutto un altro significato.
Però noi c’eravamo. Noi che ci eravamo innamorati della sua testa rasata e della sua voce incazzata e delle lacrime e di quegli occhi che guardavano il mondo come se fosse stato un gatto che aveva di nuovo cagato fuori dalla cassetta.
Per noi Sinéad O’Connor ha rappresentato una grossa fetta della nostra vita. Non ci siamo limitati a cantare le sue canzoni, abbiamo modellato il nostro immaginario femminile su di lei, e da allora abbiamo subìto una bizzarra attrazione verso le ragazze coi capelli cortissimi, gli occhi grandi e il naso a punta e parliamo di noi stessi al plurale per imbarazzarci di meno. Abbiamo continuato a seguirla attraverso i suoi dischi mediocri, le sue dichiarazioni che col tempo si sono fatte meno incazzate e più tristi, e i suoi cambi di pelle per cercare di sopravvivere, che abbiamo interpretato come stranezze di una persona allo sbando.

Era l’otto luglio del 2010 quando sono riuscito a vederla dal vivo, al Porto Antico di Genova.
Aveva i capelli lunghi, non era più la ragazza su cui avevo costruito il mio immaginario femminile, adesso sembrava più sua madre, ma neanch’io ero più quel ragazzino là.
Portava un vestito a fiori e una chitarra, ma gli occhi erano sempre quelli, sempre splendenti di una rabbia che non aveva ancora smesso di bruciarle dentro. Aveva detto anche allora qualcosa contro la Chiesa, un riferimento al vescovo che abitava poco distante, o qualcosa del genere, non ricordo.

Stamattina in rete si trovano commenti di ogni genere, alcuni molto belli e toccanti. Vabbè, ci sono anche quelli negativi, ma appartengono tutti agli stessi profili che negano il riscaldamento globale, l’utilità dei vaccini e il nazismo di Putin.
Tolti i terrapiattisti, l’opinione comune è che se ne sia andata una persona stupenda, che avrebbe dovuto essere ascoltata di più. Fra tutti, ne vorrei riportare due, che mi hanno colpito per ragioni diverse. Mi scuso in anticipo per la traduzione povera e i tagli, non posso riportare il link perché Elon Musk è fondamentalmente un idiota.

L’Irlanda negli anni ’80 era un luogo buio che si stava spostando verso la luce. Erano i nostri artisti e, più di tutti, i nostri musicisti, che indicavano la strada da seguire.
Piccola di statura, i capelli rasati, Sinéad O’Connor cominciò a prendere a calci le ultime vestigia di rispettabilità del nostro passato cattolico. Il fatto che la sua testa fosse rasata non era dovuto al caso; dato il modo in cui i corpi e le azioni delle donne erano controllati, lei era il simbolo supremo di chi eravamo, e di chi volevamo essere.
E poi si mise a cantare.
“Mandinka” cambiò molte cose, perché era arrabbiata e cruda ed energica e rassicurante, tutto insieme. Poi arrivò “Troy”, e all’improvviso questo folletto incazzato con gli anfibi (non nel senso che era in lite con le sue scarpe, n.d.t.) stava cambiando le classifiche e il modo in cui vedevamo noi stessi.
Lavorai in un hotel dove alloggiava durante quell’iniziale esplosione di popolarità che non si addiceva alla sua figura – piccola, vulnerabile, circondata da persone che volevano qualcosa, ma lei se ne lasciò travolgere. Suonò all’Olympic Ballroom, e sia noi che lei fummo storditi dalla sua esibizione. Ad un certo punto non aveva più canzoni da cantare, e dovette ripeterne qualcuna. Non importò a nessuno.
Poi arrivò il successo vero, e tutte le belle cose finirono.
Ci sono persone migliori di me – fra cui Sinéad stessa, nella sua autobiografia – che possono raccontarvi la storia del suo dolore e di tutto ciò che le è successo, e di tutte le persone che l’hanno abbandonata così brutalmente.
Immaginate di essere gravati da qualcosa della grandezza e della magnificenza di quella voce, e di non esserne felici; per lei questa cosa era talvolta un macigno.
Non cambiò niente nella sua musica; quel dolore era sempre lì, ed è così triste che qualcuno che ci ha dato così tanto non abbia potuto godere di quella generosità che ci ha sempre mostrato.
(…) Siamo stati fortunati ad averla avuta, e dovremmo chiederci cos’altro avremmo dovuto fare per tenerla con noi; la sua sofferenza avrebbe dovuto essere qualcosa che andava condiviso fra tutti noi, perché glielo dovevamo, alla fine.
Riposa in pace, Sinéad.
Nothing – nothing – compares.

Philip O’Connor (giornalista irlandese)

L’anno scorso ero in Irlanda per lavoro. Stavo bevendo una pinta fuori da un pub di Dalkey con alcuni nuovi amici, quando una donna ci passò accanto con passo determinato. Piumino chiuso fino alla nuca e la testa china coperta da una sciarpa. Uno dei miei nuovi amici borbottò un’esclamazione, saltò in piedi e la inseguì. Trenta metri più avanti il mio amico e la donna si abbracciarono, e lui mi fece cenno di raggiungerli. Fu là, sotto la luce dei lampioni, col freddo che ci condensava il respiro, che incontrai Sinéad. Mi guardò negli occhi, e con una dolcezza disarmante, disse “oh, sei tu, Russell”.
Tornò al tavolo con noi e ordinò un tè caldo. In una conversazione senza barriere passammo dalla recente ondata di calore su Dublino alla politica locale, da quella americana alle proteste per i diritti delle popolazioni locali che stavano avendo luogo in diversi paesi, ma specialmente in Australia. Ci parlò dei suoi caldi ricordi della Nuova Zelanda, di fede, di musica, film e di suo fratello, lo scrittore. Ebbi l’opportunità di dirle che per me lei era un’eroina.
Quando la sua seconda tazza si stava raffreddando all’aria della notte si alzò, ci abbracciò tutti e si allontanò a grandi passi verso i lampioni offuscati dalla nebbia.
Noi quattro ci siamo seduti e, con parole diverse, abbiamo espresso lo stesso pensiero. Che donna straordinaria.
Che il tuo cuore coraggioso riposi in pace, Sinéad.

Russell Crowe (gladiatore)

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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