Stamattina alle tre e mezza ero seduto sul gabinetto e cercavo di capire dove mi trovavo. Mi trovavo sul gabinetto, l’ho già spiegato, ma una parte di me non ne era ancora del tutto cosciente. Stavo aggrappato al telefono come un naufrago per non annegare un’altra volta nel sonno, e la prima cosa che mi è capitato di leggere è stato il messaggio di un’amica che mi scriveva che è morto il mio scrittore preferito.

In quello stato di semi incoscienza mi sono chiesto chi fosse il mio scrittore preferito, e onestamente non saprei rispondere neanche adesso che sono passate due ore e sono già pronto al secondo caffè, ma nella zona grigia in cui mi dibatto a quelle ore non lo avrei saputo indicare neanche se avessi a casa il suo busto in marmo.

Questa è la conversazione che hanno avuto i miei due neuroni funzionanti:
“Ma chi, Saramago?”
“Ma no, è già morto, siamo anche stati sulla sua tomba l’anno scorso”
“Ma che tomba, era un albero”
“Siamo stati sul suo albero l’anno scorso”
“Sì vabbé adesso era un macaco”
“No un ulivo”
“No dico Saramago”
“Nel senso che diventerà come Gandalf?”
“Ma chi?”
“L’ulivo”
“A me l’ulivo fa venire in mente più D’Alema”
“Quindi è morto D’Alema?”
“Ma non è il mio scrittore preferito”
“E allora chi è?”
“Un segretario del PD coi baffetti”
“No, dico lo scrittore”
“Qui non c’è scritto. Aspetta che apro google”

Era Cormac McCarthy, come ormai sanno già tutti, e non è stata una grossa sorpresa perché aveva 89 anni, e dato che aveva appena pubblicato due romanzi avremmo dovuto aspettarci il prossimo fra 15 anni, ma uno a 104 anni che cosa ci deve raccontare ancora, lasciamolo crepare in pace poveretto.

Non so se era il mio scrittore preferito, mi sa che neanche ce l’ho uno scrittore preferito unico al di sopra di tutti gli altri. È stata comunque una botta, più di quella ricevuta due giorni fa per la scomparsa di Francesco Nuti, di cui amo tuttora smodatamente due film, ma che alla fine sentivo vicino come il lontano parente simpatico che racconta le barzellette.

C’è stata un’altra scomparsa eccellente in questi giorni, ma non credo valga la pena di aggiungere contenuti, il carrozzone è già pieno così. Speriamo che non finisca come nel 2016, non gioco al fantamorto e buona parte dei miei eroi hanno raggiunto un’età ragguardevole, vorrei centellinarmi i lutti per quanto possibile.

Comunque McCarthy scriveva come uno che ha girato tutto il mondo a raccogliere le parole più adatte e poi si è seduto alla scrivania e le ha provate tutte una per una per trovare quella che ci stava meglio, io quando leggo i suoi libri mi sento come se stessi di fronte a un fantasma, a una di quelle cose che sai che non potrebbero esistere eppure ce l’hai davanti e ti sta dicendo delle cose e insomma ci dev’essere un motivo se le sta dicendo proprio a te, forse sei l’Eletto ed è il caso che lo stai a sentire, e il pensiero che questo privilegio è solo legato all’aver comprato un libro ed è un’esperienza ultraterrena che potrebbe vivere chiunque eppure non c’è la fila davanti alle librerie, a me è una cosa che mette una profonda tristezza.

Sarà che l’opera di uno scrittore richiede una partecipazione attiva da chi ne fruisce, mentre per un film o un disco basta che ti siedi e stai sveglio, ma quando muore un gigante della letteratura non assistiamo a scene di lutto collettivo, cordoglio nazionale, funerali di stato. È più facile che ne goda un pluripregiudicato il cui unico contributo all’arte è stato scorreggiare al G8.

Ciao signor McCarthy, io non porterò il lutto in tuo onore. Oggi tornerò a casa un po’ più triste, mi leggerò qualche altra pagina del tuo libro e berrò un po’ di quel prosecco che ho stappato l’altroieri per festeggiare una bella giornata, e anche questa lo sarà, alla fine.

Grazie per ogni linea di dialogo che mi hai obbligato a rileggere all’indietro per capire chi dei due stesse parlando, per ogni pagina che mi sono ripetuto ad alta voce per ascoltarne la musica, per ogni capitolo che quando finiva era come aver terminato una tappa di montagna, per i cavalli.

 Mancavano 3 giorni a Natale, e il piccolo Pablo stava cominciando ad accusare gli strani disturbi che in genere sono dovuti alla carenza di sonno, ma siccome lui non conosceva quali siano questi strani disturbi nello specifico, attribuiva ogni scazzo che aveva al fatto che di notte si alzava a pisciare, cosa del tutto normale quando arrivi a cinquant’anni, ma uno dei grossi problemi che aveva il piccolo Pablo era la difficoltà ad accettare di essere entrato nella fase anziana dell’esistenza, che poi non sarebbe neanche stato così, a cinquanta mica sei decrepito, ma lui era un uomo, e reagiva come gli uomini, quindi si scoglionava facilmente, accusava strani dolori e stanchezza, era di cattivo umore e scorreggiava tantissimo.

Quello che però non avrebbe mai considerato come un segno dell’età fu trovarsi davanti il fantasma di Marley, un anziano socio d’affari di Ebenezer Scrooge, morto il giorno di Natale di sette anni prima. Primo perché lui Ebenezer Scrooge non sapeva manco chi fosse, e secondo perché se c’era uno scrittore che gli stava sul cazzo quello era Charles Dickens.

“Minchia, sto cominciando ad avere le allucinazioni!”, esclamò il piccolo Pablo di fronte a quel tizio nero coi dreadlocks.
“Get up, stand up, stand up for your rights!”, gli rispose quello, che evidentemente condivideva col piccolo Pablo la stessa ignoranza verso la letteratura britannica, e si era presentato nelle sembianze del primo Marley che aveva trovato su Google.
“Cazzo ci fa un rastamanno in camera mia alle due del mattino?”
“Sono venuto ad annunciarti una roba, bro”
“Sono incinto dell’agnello di Dio?”
“No, riceverai la visita di tre fantasmi che ti mostreranno delle robe e ti insegneranno qualcosa sullo spirito del Natale.”
“Ma non sono stato avaro o cattivo con gli altri, perché questo trattamento iniquo?”
“Non è per quel che hai fatto, è per cosa ti sei mangiato ieri sera. O pensavi che a cinquant’anni ci si potesse ingozzare come oche prima di andare a dormire e poi passare una notte tranquilla?”
“Fuck.”

Chiaro che per quella notte non si dormì più un cazzo nessuno, come fai a dormire dopo un’attività paranormale in camera da letto? Un minuto dopo l’apparizione eravamo in strada io e mia moglie in pigiama e ciabatte a cercare un esorcista aperto.

Poi con la luce del giorno tutto sembra più facile, e anche le cose più spaventose diventano sopportabili e addirittura ci si trova un lato positivo, dai, quanti possono dire di avere incontrato un’icona della musica morta quarant’anni prima senza dover usare un badile?
Ci passammo una bella giornata tranquilla e la sera andammo a letto senza pensare più alle cose brutte.

Alle tre mi sveglia una voce: “Pablooh! Pablooh! Oh Pablo! Oh! Ma ti svegli? Oh, il morto sono io!”

Era il fantasma dei Natali passati, interpretato da Natalin, il mio vecchio padrone di casa deceduto anni prima alla caparbia età di novantasei anni. Non voleva mostrarmi quant’era bello il Natale quand’ero bambino, voleva i soldi dell’affitto di quand’è morto, che nel trambusto che è seguito fra gli eredi che si accoltellavano nessuno è venuto a pretenderlo e alla fine me ne sono andato senza pagarlo.

Siccome di corsa in strada c’ero già andato la notte prima e non mi era piaciuto, stavolta ho provato a interagire:
“Ma scusa, com’è che proprio tu, che sei stato l’incarnazione terrena di Scrooge, l’uomo che piuttosto che spendere un centesimo moriva di fame, il più avaro, cinico, spietato figlio di puttana che mi sia mai capitato di conoscere, proprio tu sei diventato il fantasma dei Natali passati, che nel racconto originale incarna un messaggio tutto sommato positivo?”
“Perché quando muori da miliardario puoi fare il cazzo che ti pare. Funziona anche di là come qui, che ti credi?”
“Ma Gesù ci è sempre stato mostrato come un poveraccio!”
“A parte che lui è il figlio del capo e se voleva ereditare tutta la baracca doveva stare attento all’immagine che dava, dovresti vedere adesso come va in giro per il Paradiso, in decappottabile e circondato dalle fighe.”
“Da non credere!”
“Vabbè, senti, fammi trasmettere il mio messaggio di amore e fratellanza e mi levo dalle palle, che ho delle cose da fare: ricordati di quant’erano felici i tuoi Natali da bambino, la gioia dei regali e il calore della famiglia, cerca di trarre lezione sul tuo comportamento odierno eccetera eccetera. Ciao, buone feste. Ah, per quell’affitto non pagato riceverai notizie dal mio legale.”

Il fantasma di Natalin scomparve in una nuvoletta turchese che odorava un po’ di uovo marcio, ma forse era solo suggestione, oppure avevo di nuovo scorreggiato.

Passai un’altra notte sveglio, attanagliato dal panico: e chi ce li aveva i soldi per pagarmi un avvocato?

Poi la giornata trascorse senza telefonate da studi legali prestigiosi né postini che recapitano raccomandate sinistre, e in fondo mancavano ormai 2 giorni a Natale, e io e la mia consorte ci rituffammo sereni nei preparativi per il pranzo del 25, ci guardammo Una poltrona per due su una qualunque rete privata e la sera andammo a dormire presto perché verso le sei ci eravamo aperti una bottiglia di primitivo di manduria che sta benissimo col salame e un po’ di formaggio e dopo venti minuti eravamo già gonfi.

Il fantasma dei Natali presenti si materializzò intorno alle quattro, grattando il vetro della finestra. Immaginate lo stato d’animo di uno che viene svegliato di notte da un rumore e pensa subito al gatto, poi vede una faccia pallida che lo fissa dalla finestra, e realizza che al secondo piano non ci sono terrazzi su cui quella faccia potrebbe stare appoggiata, ed è un attimo che ti vengono in mente tutti i film di vampiri che hai visto da ragazzino e col cazzo che dormi più anche stavolta.

“Mi potrebbe aprire la finestra, per favore?”, disse la faccia pallida che stava fuori al freddo.
“Essì, se sei un vampiro non puoi entrare in casa senza che qualcuno ti inviti, conosco le regole!”
“Non sono un vampiro, sono l’avvocato del signor Natale.”
“Quindi sei un vampiro!”
“Beh, non uno di quelli tradizionali, ecco.”
“E che ci fai fuori dalla mia finestra alle quattro del mattino?”
“Di solito è da dove gli inquilini morosi cercano di scappare. Mi sono messo qui per sfruttare il fattore sorpresa.”
“Sei venuto a mostrarmi i Natali presenti?”
“Sono venuto a recapitarLe un’ingiunzione di pagamento.”
“E i Natali presenti chi me li mostra?”
“Il telegiornale. Mi apre la finestra, per favore?”

Ho tirato le tende e sono tornato a letto, se voleva stare fuori al freddo appeso al davanzale erano cazzi suoi.
Il mattino dopo l’abbiamo trovato duro come un sasso, l’abbiamo staccato dalla finestra versandoci sopra dell’acqua calda e siamo andati a seppellirlo nel bosco, poi abbiamo passato il resto della viglia di Natale cantando canzoncine che parlano di amore e speranza.

Oramai lo sapevo dove saremmo andati a parare, e la notte di Natale l’ho passata fuori, a ubriacarmi nei bar dei vicoli insieme a mia moglie e un gruppo di amici. Ad un certo punto incontriamo il mago Otelma, e tutti eh! oh! il mago Otelma! accidenti che celebrità! e lui si gira verso di me e con la caratteristica zeppola mi dice: “Fono il fantafma dei Natali futuvi, fono qui pev mostvavti cofa ti fuccedevà l’anno pvossimo.”
“Ok dai, sono abbastanza ubriaco per reggere le brutte notizie.”
“L’anno pvossimo passevai il Natale a casa con tua moglie e guavdevete Una poltvona pev due su una qualunque vete pvivata.”
“E basta?”
“Eh.”
“Sono un po’ deluso.”
“Questo passa il convento, se volevi una vita avventuvosa dovevi fave il divettove della clinica pev malattie infettive dell’ospedale di Genova: andavi in televisione tutti i giovni, ti viconoscevano pev stvada e ad un cevto punto incidevi puve un disco di canzoni di Natale.”
“No, vabbè, non mi lamento. Grazie eh.”

D’altronde se conduci una vita mediocre ci sta che anche i tuoi fantasmi siano mediocri, però continuo a pensare che se avessi potuto scegliere in quale storia di Natale finire avrei preferito che fosse quella in cui Bill Murray ripete sempre lo stesso giorno all’infinito. O al limite Die Hard, ecco.

Ultimamente ho delle amiche su Instagram che hanno deciso di diventare influencer, che è quando ti fai fotografare con una bottiglia di profumo in mano o con una collana al collo, e ringrazi l’azienda che te l’ha spedita perché tu un prodotto così pazzesco non l’avevi mai provato prima e da oggi la tua vita sarà migliore.

Quando andavo alla scuola elementare c’era la mamma del mio compagno Marcolino che una volta al mese invitava le altre mamme a casa sua e gli faceva provare i cosmetici dell’avon, e se loro si convincevano gliene vendeva un po’. Poi a volte tornavano a casa e il marito diceva ma che cazzo hai comprato, ma quello riguardava la loro sfera familiare e non ha niente a che vedere col mestiere di influencer, credo.

A me però questa cosa che Marcolino una volta al mese arrivava in classe e ci annunciava che domani sua mamma faceva la presentazione a casa sua ditelo alle vostre mamme, a me questa cosa stava un po’ sul cazzo. Mi sentivo come se Marcolino stesse usando a vantaggio di sua mamma un canale di comunicazione non autorizzato, era come se il figlio del maresciallo si fosse fatto venire a prendere a scuola dalla pattuglia dei carabinieri (lo faceva, e mi stava tremendamente sulle palle), o se Mentina, che era il delinquente locale, così chiamato perché a noi ragazzini ci chiedeva sempre se volevamo una mentina, attirandoci così nelle spire del consumo degli stupefacenti, fosse venuto all’oratorio a spacciare. E no eh, non si fa, non è la sede istituzionale, se vuoi spacciare vai ai giardinetti, come tutti.

Quando vedo le foto delle mie amiche influencer provo un po’ la stessa sensazione che provavo alle elementari, solo che adesso invece di invitare mia mamma a casa loro sono loro che si infilano nel mio telefono, e mi viene subito quel fastidio là, ma poi ci penso e non è per niente la stessa cosa. Intanto non mi stanno vendendo un prodotto, al limite mi consigliano di comprarmelo da me, e poi essendo io che seguo le loro pagine è più come se fossi io ad autoinvitarmi alle loro presentazioni.

Però c’è una cosa che ancora non funziona, e sono i prodotti. A me una foto delle belle gambe della mia amica che si spalma la crema non mi fanno venire voglia di comprarmi la crema, me ne fanno venire un’altra che ci siamo capiti, e me ne vergogno, perché penso a cosa succederebbe se mia moglie entrasse in casa un giorno e mi trovasse in camera da letto che sto facendo del sesso con un barattolo di crema per le gambe, ma sai che scandalo che sarebbe, è un pensiero così brutto che anche se fossi una donna io quella crema lì scusate ma non la comprerei mai.

Mi sono chiesto se le influencers influensano anche qualcos’altro, e ho fatto una ricerca su Instagram, scoprendo che la maggior parte si fa fotografare con le solite cose di cui sono piene le riviste di moda: gioielli, cosmetici, capi d’abbigliamento, scarpe. Prosciutti no, forme di pecorino sardo no, cacciaviti a stella no, giochi da tavolo no. Ho pensato che c’è tutto un mondo ancora da esplorare nel campo degli influencers. Vabbè ma lo posso fare io, ho pensato.

Ho scritto una mail a una delle mie aziende preferite per chiederle se mi mandava uno dei suoi prodotti per farmici una foto insieme e metterla su Instagram, ma mi ha detto che Instagram le censura le foto delle fighe di gomma, ma grazie per l’interessamento, mi ha detto. Ah ecco perché non ne vedevo mai!
Allora ho scritto a un’altra azienda che non produce surrogati in lattice di organi genitali, ma videogiochi, e le ho fatto la stessa proposta.
“Senti bello”, mi ha risposto, “la settimana scorsa la Ocasio-Cortez si è fatta un video in diretta mentre giocava a Among Us. Crederai mica di poter fare meglio?”
Per chi non lo sapesse Alexandria Ocasio-Cortez è una giovane rappresentante dei Democratici al Congresso degli Stati Uniti, che unisce un fisico da modella a delle idee progressiste molto ardite. È il sogno erotico di ogni elettore di sinistra, e se vi sembra poco considerate che prima di lei dovevamo accontentarci di Bertinotti.
Il pensiero che la Ocasio-Cortez fosse anche appassionata di videogiochi mi ha fatto venir voglia di comprarmi qualcosa dall’azienda di prima.

Dopo avere visto questo video anche voi vorrete l’università gratis per tutti

Allora ho provato con altri marchi che mi piacevano: il Consorzio Parmigiano Reggiano mi ha chiesto di mandargli una mia foto in costume, poi mi ha detto che se gliene mandavo un’altra mi denunciava; la BMW mi ha risposto grazie lo stesso e mi ha allegato un buono sconto di venti euro sull’acquisto della mia prossima auto. Nuova però, su quelle usate non vale; Borsalino mi ha detto siamo già falliti una volta, ci basta; Pino Pizza ha apprezzato l’idea e mi ha proposto di farmi una tessera che ogni dieci pizze ho una margherita in omaggio, ma gli ho detto che quella tessera lì ce l’ho già, è quella che fa a tutti, e lui mi ha risposto che allora me ne fa due, e ogni volta che ne completo una mi regala una margherita. Questo devo pensarci un po’ su, non mi sembra un cattivo affare.

Un altro prodotto che mi piace parecchio sono i whisky scozzesi single malt, mi sarebbe piaciuto scrivere a una distilleria scozzese single malt per inoltrare la mia proposta di collaborazione, ma ce ne sono così tante che non sapevo quale scegliere.
Ne ho parlato col mio amico Christian, che è un esperto di whisky scozzesi single malt, e gli ho chiesto se poteva suggerirmi il nome di qualche distilleria a cui inoltrare la mia proposta di collaborazione.
Mi ha detto che sarebbe stato felice di aiutarmi, ma di non buttarci troppo il cuore, perché le distillerie non si servono di uomini immagine, sennò ci avrebbe già provato lui, hehehe, ma che avrei comunque potuto provare con una delle meno conosciute, e mi ha dato l’indirizzo dell’etichetta Sad Deep Peeshatt’s, che vendono al Lidl a 5.60 la bottiglia.

Gli ho scritto subito, alla distilleria, ma non mi ha mica risposto. Che scemo che sono, ho pensato, gli ho scritto in inglese, loro sono scozzesi, devo scrivergli in scozzese, così ho preso la mia lettera e prima di ogni nome ci ho aggiunto mac, che gli scozzesi lo usano tanto il mac, così è venuto fuori che una frase tipo good afternoon diventava good mac afternoon, e I would like to offer you a collaboration diventava I would mac like to offer you a mac collaboration. Poi siccome non mi sembrava abbastanza inglese ogni tanto aggiungevo W Mac Independence! così a caso, che mi sembrava un buon modo di accattivarmeli, questi della distilleria scozzese.

Non mi hanno risposto di nuovo, allora sono tornato dal mio amico Christian per chiedergli il nome di un’altra distilleria scozzese a cui mandare la mia proposta di collaborazione.
Oh non c’era, aveva scritto a una distilleria scozzese famosa per offrirgli la sua proposta di collaborazione e questi l’avevano invitato in Scozia per fare un servizio fotografico tutto spesato e gli avevano regalato anche una cassa di bottiglie. Ma si fa così, che si rubano le idee agli amici e si parte per la Scozia per fare un servizio fotografico tutto spesato e ci si fa regalare anche una cassa di bottiglie? Ma almeno invitami, dico. Almeno regalami la cassa di bottiglie, dico. Invece non mi ha detto niente, sto lazzarone, è partito quatto quatto con la moglie e sono andati in Scozia senza avvisare nessuno. Mi sono un po’ risentito. Io non l’avrei mai fatto di partire per la Scozia per fare un servizio fotografico tutto spesato e di farmi regalare anche una cassa di bottiglie senza dire niente a chi mi aveva suggerito l’idea.

Questa cosa secondo me richiedeva una reazione adeguata. Ho deciso che dovevo farmi aiutare da qualcuno che fosse esperto nel settore delle influencers, e mi sono rivolto a quella che il mestiere di influencer se l’è inventato perché prima non c’era, non è che nel medioevo c’era una ragazza che andava in giro per i villaggi a mostrare il suo bel cappello a cono con la velina e a dire che se ti piaceva potevi fare quaranta leghe a cavallo e andarlo a comprare al mercato della città vicina, nel medioevo le ragazze stavano a casa a fare figli da mandare in guerra, e non è che nella belle epoque c’era una ragazza che andava in giro per le città a mostrare a tutti la sua bella gonna con la crinolina e a dire che se ti piaceva potevi farti venti chilometri in carrozza e andarla a comprare, nella belle epoque le ragazze si facevano fare i ritratti dai pittori, e non è che quando ero giovane io le ragazze andavano in giro per i paesi della valle a mostrare a tutti il giubbotto da paninara e a dire che se ti piaceva potevi farti dieci chilometri in corriera fino al paese vicino e poi prendere il treno e fartene altri trenta fino a Genova e andarlo a comprare alla Rinascente ma c’è l’hanno anche alla Standa però costa di più, quand’ero giovane io le ragazze uscivano coi ragazzi più grandi e a me non mi cagavano.
Ho deciso di scrivere a Chiara Ferragni.

Una foto di Chiara Ferragni presa da molto vicino

Le ho detto senti un po’ Chiara Ferragni, a me il mio amico Christian mi ha fregato l’idea di offrire la collaborazione a una distilleria scozzese single malt, e questi l’hanno invitato in Scozia per fare un servizio fotografico tutto spesato e gli hanno regalato anche una cassa di bottiglie. Non è che mi insegni a diventare un influencer anche a me così posso offrire la collaborazione a una distilleria inglese single malt più importante di quella del mio amico e smerdarlo, come diciamo noi da queste parti, che non ha un’accezione così negativa come può sembrare, ma significa semplicemente esporre un soggetto al pubblico ludibrio rivelando i suoi atti disonesti? PS, piaci molto a mia moglie.

Colpita dal mio linguaggio schietto e sincero, la Ferragni mi ha risposto che sarebbe stata felice di aiutarmi, perché un amico che ti frega l’idea e offre la sua collaborazione a una distilleria scozzese e si fa invitare a fare un servizio fotografico tutto spesato e si fa pure regalare una cassa di bottiglie è proprio una cosa che non si può vedere. Mi avrebbe insegnato i segreti del mestiere, ma siccome c’è il covid me li avrebbe insegnati in videochiamata. PS, ringrazia tua moglie da parte mia.

Il corso di influencer è iniziato dopo qualche giorno, perché la Ferragni aveva da andare a farsi le foto al Museo della Puleggia per un servizio sull’importanza dei musei che non ricevono abbastanza finanziamenti e se non li conosce tanta gente chiudono, ed è durato solo pochi minuti perché poi doveva prepararsi per andare a un servizio fotografico in un negozio di abbigliamento famoso, ma in quei pochi minuti mi ha spiegato che la prima cosa da fare era lavorare sull’espressione che fai nella foto. Lei per esempio si ispirava alla Monnalisa e infatti in tutte le foto che faceva aveva sempre un’espressione enigmatica che non si capiva se fosse felice o triste o stesse cercando di risolvere il sudoku, e mi ha suggerito di fare lo stesso e cercare nell’arte un’espressione che mi caratterizzasse. Poi mi ha salutato che doveva andare. Intanto che mi spiegava dietro è passato suo marito in mutande che doveva essersi appena svegliato e si grattava un’ascella.

Ho seguito il suo consiglio e ho cercato qualche opera d’arte a cui ispirarmi. Non è stato mica facile, la migliore se l’era presa lei, mi restavano un sacco di quadri di profilo che venivano bene se dovevo promuovere degli orecchini, ma per esempio coi rossetti era un casino, oppure le natività che potevi scegliere se essere quello che guarda il prodotto con gli occhi dell’amore materno o quell’altro che il prodotto lo adora e vorrebbe toccargli i piedi. Sennò c’era il quadro del tizio sul ponte che si tiene la testa e strilla, che lo puoi adattare a un sacco di prodotti, ma alla lunga è ripetitivo. Alla fine ho scelto un quadro astratto pieno di linee colorate, mi sembrava che mi concedesse sufficiente libertà espressiva.

Sono decisamente io!

La volta dopo che ho incontrato la Ferragni era appena tornata da accompagnare il figlio all’asilo e doveva sbrigarsi perché aveva un appuntamento dalla sarta per farsi fare il vestito che avrebbe indossato alla celebrazione dei cent’anni dalla nascita di Renato Carosone. L’abito l’aveva disegnato lei, voleva che fosse intriso di napoletanità, perciò ci aveva messo dentro il Vesuvio, Pulcinella e Marisa Laurito, che uno pensa che dovrebbe sembrare il cartone della pizza da asporto, ma invece aveva un suo equilibrio che alla fine sembrava fin carino. Però Marisa Laurito l’aveva disegnata uguale a Jim Morrison, che quando me l’ha mostrato, il disegno che voleva mettere sul vestito, ho fin pensato ma guarda, non lo sapevo che Jim Morrison era nato a Napoli.

Quella volta lì la Ferragni mi ha chiesto di mostrarle l’espressione che avevo trovato per le mie foto da influencer, e io le ho fatto la faccia ispirata alle linee colorate, e lei mi ha detto sembri la nonna di Fedez, che sarebbe suo marito, che in quel momento stava passando in ciabatte dietro di lei e si è girato e ha chiesto cosa c’entra sua nonna e la Ferragni gli ha mostrato la mia faccia a righe e lui ha detto boh e se n’è andato sbadigliando. Fedez sbadiglia a un volume molto alto.

Poi la Ferragni mi ha dato dei consigli sulle luci da usare quando mi faccio le foto, e mi ha consigliato di pagare un fotografo professionista, senza sapere che io ho un amico che fa il fotografo professionista e che si chiama Beppe, che poi è quello che mi ha fatto le foto quando mi sono sposato, e quando gliel’ho detto ha alzato le spalle come se non fosse tanto importante se il fotografo professionista fosse un mio amico o no, l’importante è che fosse un professionista, e poi mi ha salutato perché la stava chiamando qualcuno sull’altro telefono. La Ferragni ha tipo sei telefoni che si porta tutti dietro in una borsa molto grande che le tiene suo marito quando non è impegnato nelle sue attività di musicista/marito della Ferragni, sennò se li fa portare dal fotografo professionista.

I consigli della Ferragni mi sono sembrati molto utili per la mia carriera di influencer, ma un po’ limitati, così ho telefonato a Beppe e gli ho chiesto se aveva tempo per farmi da fotografo così in amicizia, che in tutto il mondo vuol dire senza pagare, ma a Genova uno che ti chiede di lavorare gratis non è un amico manco per niente, e infatti Beppe mi ha detto che io e lui non eravamo mica così amici, e io per convincerlo gli ho detto che se mi faceva da fotografo poi gli presentavo la Ferragni, e allora ha accettato.
Però ti fai fotografare nudo, mi ha detto, che a Beppe piace tantissimo fotografare i nudi, e infatti ha un profilo Instagram pieno di donne nude, ma uomini niente, che gli ho chiesto perché gli uomini nudi non li fotografi mai, e lui mi ha detto che gli uomini nudi hanno il ciondolone che è antiestetico, ma io questo problema non c’è l’ho, e si è messo a ghignare che non ho mica capito perché.

Lo studio di Beppe?

Mi ha fatto un servizio fotografico molto professionale dove ci sono io nudo che tengo in mano una bottiglia del migliore whisky scozzese single malt Glenbuchnachfiddaskraillephroaigavulinieneich, che è una distilleria così prestigiosa che produce solo tre bottiglie ogni dieci anni e una se la compra il Papa, una Obama e una viene venduta a un’asta che si tiene a casa del proprietario della distilleria e a cui vengono invitate solo le persone più importanti del mondo che si sono distinte per meriti speciali in campo artistico o scientifico o sociale.
La bottiglia che abbiamo usato per il servizio fotografico ce l’aveva Beppe in salotto, era mezza vuota. Quando abbiamo finito il servizio fotografico, per festeggiare, ce la siamo bevuta tutta, solo che Beppe si è accorto che un paio di foto erano venute male e ha voluto rifarle, così è andato di là a prendere un’altra bottiglia ancora da aprire.

Col mio servizio fotografico professionale in tasca ho chiamato di nuovo la Ferragni per farmi dare qualche consiglio su come fosse meglio spedirlo alla distilleria scozzese single malt, e intanto ne ho approfittato per presentarle Beppe, come avevo promesso. Lui appena l’ha vista le ha chiesto se voleva fare un servizio fotografico nuda, e lei gli ha risposto molto professionalmente che quei servizi fotografici lì non li faceva per una precisa scelta di marketing, ma che se per lui era uguale poteva chiederlo a suo marito, ma a Beppe non piace fotografare gli uomini nudi perché hanno il ciondolone, e le ha chiesto alla Ferragni se suo marito aveva il ciondolone. In quel momento è passato dietro la telecamera il marito della Ferragni in pigiama che gli ha fatto un gesto che voleva dire teloqui il ciondolone, ma in realtà non gliel’ha mostrato davvero perché anche lui sta molto attento alla propria immagine. Sulla credenza dietro di lui c’era una bottiglia di Glenbuchnachfiddaskraillephroaigavulinieneich piena per tre quarti.
La conversazione è finita lì un po’ bruscamente e senza che la Ferragni mi spiegasse come era meglio spedire la mia offerta di collaborazione alla distilleria scozzese single malt.

Beppe mi ha suggerito di mandargliela via PEC e mi ha prestato la sua casella email perché i fotografi professionisti hanno tutti la PEC mentre i disoccupati senza ciondolone non ce l’hanno mai, e intanto che la spediva alla distilleria scozzese single malt ne ha spedito una copia a un po’ di riviste soft porn cui era abbonato per interessi puramente professionali.

Una settimana dopo la distilleria scozzese single malt ha cambiato nome al suo whisky e l’ha chiamato Whisky, ha cambiato l’etichetta e ne ha messo una bianca anonima senza disegni né niente e ha pubblicato un comunicato che diceva “se avete visto delle foto con un tizio nudo che tiene in mano una bottiglia di Glenbuchnachfiddaskraillephroaigavulinieneich non siamo noi, il nostro whisky si chiama Whisky e basta”.

In compenso mi ha scritto una delle riviste soft porn cui Beppe era abbonato per interessi puramente professionali, e mi ha proposto di tenere una rubrica intitolata “no, è che durante il servizio fotografico faceva freddo”, in cui rispondo alle lettere di persone con problemi di bassa autostima e pubblico foto di me nudo che dovrebbero risollevare il morale di queste persone infondendo loro la sensazione che c’è sempre qualcuno che sta peggio di te.
Ho accettato, e nel giro di un paio di numeri la mia rubrica era la più letta della rivista, tanto che l’editore mi ha chiesto se volevo dirigere un giornale tutto mio che parlasse di quello che volevo, mi dava carta bianca.

I servizi fotografici tipici della rivista

Siamo partiti un mese dopo, giusto il tempo di registrare il nome della nuova rivista, di cui ero direttore e unico redattore. Ho deciso di intitolarla Christian Merda, e in ogni numero insulto il mio amico Christian e invento offese creative su di lui, oltre a un sacco di notizie volte a screditarlo non necessariamente fondate su fatti reali. C’è una rubrica che si chiama Di cosa puzzano i piedi di Christian, una rassegna fotografica delle peggiori foto di Christian, una storia a puntate che raccoglie gli aneddoti più imbarazzanti di Christian raccolti negli anni e una classifica delle migliori cattiverie su di lui votate online dai lettori. C’è anche una rubrica della posta dove discuto coi lettori dei principali argomenti di attualità e trovo il modo di dimostrare che sotto sotto è colpa di Christian.

Ieri mi ha telefonato l’editore per dirmi che la rivista non sta andando benissimo, il primo numero l’ha comprato una persona sola a Roma, che quindi non può essere Christian. Questo mi ha dato lo spunto per l’articolo di apertura del secondo numero della rivista, in cui accuso Christian di essere un taccagno.

Sono a Genova, posteggiato fuori dalla stazione Principe, e sto aspettando mia moglie che arriva col treno perché dobbiamo andare a comprare i peperoni dai cinesi di Via Gramsci. Non chiedetemi perché i peperoni dei cinesi invece di quelli del besagnino sotto casa, non lo parlo il cinese, non lo so. So che devo stare ad aspettare venti minuti seduto in macchina in mezzo a uno spaccato di umanità in agitazione come puoi trovare solo fuori da una stazione o all’outlet durante i saldi. C’è la ragazza che torna da scuola e la mamma le chiede di sbrigarsi che deve ancora passare dalla Enza, e lei poverina cerca di farsi spazio fra le auto in doppia fila con lo zaino che le si impiglia negli specchietti; c’è quello seduto in macchina che ascolta la nuova canzone di Fedez col video dei bambini con gli occhiali da sole e la pelliccia rosa, e muove la testa a tempo durante il riff di Robert Miles e pensa che è un riff molto interessante e all’epoca non l’aveva apprezzato abbastanza; c’è il nigeriano che parla al telefono a un volume nigeriano, che uno pensa che probabilmente in Nigeria ci dev’essere tutto il giorno la banda che suona per strada avanti e indietro e copre qualunque conversazione, sennò non si spiega; e c’è la Enza, che è venuta incontro alla sua amica per evitarle un viaggio, ma ha scordato il telefono a casa e non può avvisarla.

Qualcuno mi bussa nel vetro della macchina e smetto di fare quel che stavo facendo, e col dito indice ancora appiccicoso faccio scorrere il finestrino verso il basso. “Sì?”, chiedo alla donna in giubbotto di jeans e leggings che è venuta a incastrarsi fra la mia auto e un furgone Volkswagen nero. “Sta andando via?”, mi domanda lei, e solo adesso noto il muso di un’altra macchina puntato contro il bagagliaio della mia, con le luci accese e una figura maschile al volante. “Sto aspettando una persona”, le dico, ma lei non si arrende, e mi chiede se posso lasciare il posto alla loro macchina perché devono prendere il treno e sono già parecchio in ritardo. Accetto, non mi fa alcuna differenza parcheggiare davanti o dietro la macchina di qualcun altro, e la donna si divincola dal pertugio e scompare alla mia vista.

Giro la chiave, inserisco la marcia e faccio scivolare la mia macchina fuori dal parcheggio, ma a metà strada sento un colpo sul retro, come di qualcuno che sbatte contro il portellone posteriore, e subito dopo qualcuno strilla. Apro la portiera e mi infilo nello stretto passaggio fra la mia auto e il furgone nero, al termine del quale posso vedere sul pavimento un piede scalzo che prima non c’era. È il piede della donna di prima, c’è anche lei attaccata, coi suoi leggings e il giubbotto di jeans. Devo averla urtata durante la manovra.

Dall’altra macchina scende un uomo con pochi capelli e la fronte ampia, gli occhialini rotondi e un abito da ufficio. Ha delle briciole sulla camicia. Si avvicina al corpo inerte della donna e sta in piedi lì, senza dire niente. Non si china a soccorrerla, non chiama aiuto, non cerca di menarmi, niente. Sta in piedi e guarda un po’ lei e un po’ me. Io sostengo lo sguardo per un secondo, ma questa situazione sta scivolando nell’assurdo più velocemente di quanto ci impiego ad addormentarmi quando è mia moglie a scegliere un film: siamo seri, non posso avere investito questa donna, non era nel campo visivo del mio finestrino posteriore; e se anche l’avessi investita non posso averle recato alcun danno, ero praticamente fermo; e se anche l’avessi uccisa non è così che reagirebbe il suo compagno; e se anche reagisse così ad un certo punto mi sarei pure rotto il cazzo, perciò gli chiedo “quindi?”.

Lui non si muove, resta di stucco, al che io penso “sarà un barbatrucco”, e quando sto per farmi da parte parte da una macchina I’m Too Sexy dei Right Said Fred, probabilmente il pezzo più tamarro degli anni ’90, ed è lì che capisco cosa sta succedendo. L’uomo si strappa l’abito con un gesto sicuro, neanche fosse il primo ballerino degli Stazione Principe Dream Men, e resta in perizoma su un fisico scolpito che se fosse davvero un impiegato dell’INPS allora tutti gli impiegati dell’INPS avrebbero forti agevolazioni sulle ore di palestra durante la pausa pranzo, e su questa cosa si dovrebbe indagare di più. La donna salta in piedi resuscitata come la carriera della Cuccarini in televisione dopo il coming out leghista, si toglie il giubbotto di jeans e mostra l’altro pezzo del costume abbinato ai leggings, nonché un fisico che se ad un certo punto si togliesse anche il costume non si lamenterebbe nessuno.

Si mettono a ballare insieme nello specchio fra la mia macchina e quella del tizio, e in un momento la coreografia si allarga ad altri passanti, compresi il nigeriano e la Enza. Molti si fermano a guardare, tirano fuori i telefoni e riprendono la scena. Compare una telecamera professionale, poi un’altra, poi una terza montata su un braccio mobile che si solleva e fa le riprese dall’alto.

Lo spettacolo dura in tutto pochi minuti, poi si disperde senza lasciare tracce. Dev’essere un flash mob di protesta contro il governo, oramai ne organizzano due alla settimana, sempre più originali: una volta si prendevano a cuscinate, poi sono passati alle spade laser, e dopo che ci è scappato il morto sono tornati a forme artistiche più innocue.

Poi arriva il regista Paolo Sorrentino coi capelli pettinati da un lato soltanto, e insieme a lui c’è l’attore Toni Servillo, e viene fuori che non era un flash mob, ma una scena del sequel de La Grande Bellezza: Jep Gambardella Contro Lo Sporco Impossibile. Il regista sta spiegando all’attore che nel bel mezzo della coreografia dovrebbe notare una ragazza cinese che si fa largo fra la folla, e caderne innamorato all’istante, ma che probabilmente dovranno tagliare quella scena perché l’attrice che era stata scritturata per girarla è rimasta bloccata in Cina a causa del Covid. Al suo posto stava pensando di metterci Vittorio Sgarbi, che si faceva largo fra i ballerini roteando una scimitarra, e Jep Gambardella invece di innamorarsi doveva estrarre la pistola e spacciarlo una volta per tutte, e in quel momento mia moglie si è fatta largo fra la massa di viaggiatori e mi è venuta incontro.

Il regista Paolo Sorrentino ha smesso di parlare, le è andato incontro come l’angelo che va dalla Madonna a dirle che partorirà il figlio del suo capo, e le si è gettato ai piedi esclamando “È lei!”. Mia moglie ha detto “Credo che si stia sbagliando, ma la capisco, noi cinesi siamo tutti uguali”. Toni Servillo ha detto “Preferivo sparare a Sgarbi”. Io non ho detto niente, ma mi giravano le balle perché anni di teatro e quando finalmente mi capita l’occasione della vita scelgono al mio posto l’ultima delle dilettanti.

Sono tornato a casa solo e scornato. Qualche mese più tardi ho rivisto mia moglie, era in televisione e spiegava alla giornalista del Tg2 che La Grande Bellezza era il suo film preferito e bla bla bla sogno che si avvera bla bla bla contatti con importante casa di produzione americana bla bla bla Los Angeles ma le manca molto la sua gatta. Di suo marito non ha detto niente, ma che le manca la sua gatta sì. Sta stronza, ho pensato, così ho preso le scarpe più costose di mia moglie e le ho buttate nello staccapanni giù in strada, e nella scatola ci ho infilato la sua gatta. Ho chiuso tutto con lo scotch e gliel’ho spedita per posta ordinaria non raccomandata. Dovrebbe arrivarle fra sei mesi, forse sette.

Mentre tornavo dall’ufficio postale soddisfatto per le mia azione che fa tanto bene all’umore, ho trovato mia moglie sotto casa, felicissima di vedermi. Mi ha detto che adesso non dobbiamo più preoccuparci del futuro, è diventata miliardaria, e vuole condividere la sua fortuna con l’uomo che l’ha resa felice. Mi ha detto che mi ama e che le sono mancato un casino, e che le è costato tantissimo non parlare di me a tutti, ma la produzione stava cercando di costruire un’immagine di lei da vendere al mercato orientale, e una donna sposata con un italiano ha meno appeal. Mi ha detto che ha parlato tantissimo di me al regista americano e che l’ha convinto a farmi un provino per interpretare il commissario Gordon nel nuovo film di Batman. Mi ha detto anche altre cose, ma non le ho sentite perché mi sono messo a correre in lacrime verso l’ufficio postale, già sapendo che avrei trovato una lunga fila di pensionati e che nessuno di loro mi avrebbe lasciato passare avanti, ed era quasi l’ora di chiusura.

Vieni a trovarmi uno di questi giorni, mi ha detto. E io ci sono andato a trovarla, cos’avevo da perdere? Da quando ho smesso di lavorare perché il mio capo è impazzito e ha dato fuoco alla fabbrica di popcorn (l’incidente più allegro nella storia del paese, almeno fino a quando non hanno trovato il cadavere del mio capo), ho un sacco di tempo libero, e avendo speso il mio primo giorno libero nell’acquisto del biglietto fortunato della lotteria di capodanno, ho anche un sacco di soldi da spendere.

Ho preso il treno e sono partito per questo posto che sulla cartina era solo a mezz’ora da Padova, ma non ho considerato che Padova sta a diverse mezz’ore da Milano, che sta a più di un’ora da casa mia.
In pratica ho cambiato sei treni, e quando finalmente sono sceso alla mia destinazione mi accompagnavano due sherpa, arruolati solo per reggermi le balle.

Il posto era davvero attraente, se fossi stato un banco di nebbia o un aspirante suicida: una casetta bassa con le sbarre alle porte e all’unica finestra, forse adibita a carcere, e una poco più alta, con più porte e quindi molte più sbarre, che potevi definire stazione per via del cartello blu col nome della località che qualcuno aveva appeso sotto una delle finestre al primo piano, prima di sprangare anche quelle.

Di fronte a quel piccolo avamposto di civiltà, la pianura veneta si estendeva fino a un filare di alberi che mi ostruiva la vista di qualcosa che poteva benissimo essere il panorama più bello mai visto da occhio umano, ma che non potendo vedere immaginavo deprimente come un siciliano leghista, così, sulla fiducia.

Ho voltato la testa prima di qua e poi nella direzione opposta, e ho visto binari in entrambi i lati. Non c’erano treni che ci correvano sopra coi fari puntati su di me, perciò ho attraversato in barba al divieto, fuck the system.
Poi non c’era manco il sottopassaggio, come avrei dovuto attraversare l’unico binario, scavandomi un tunnel?

Il piazzale della stazione era una strada dove l’asfalto risaliva alla Seconda Rivoluzione Industriale, e le biciclette incatenate alla ringhiera piegata da generazioni di temporali dovevano essere quelle con cui i primi operai si erano spinti fin lì quando avevano costruito la ferrovia.
C’erano anche delle auto, segno che qualcuno doveva avere costruito anche un benzinaio a una distanza raggiungibile, quindi da qualche parte lì intorno doveva esserci dell’acqua e una rete elettrica. Se avessi scoperto dove si trovava avrei potuto pisciare, tirare la catena, comprarmi una lattina di fanta e ricaricare il cellulare, ma per raggiungerla mi sarebbe servita una macchina, che avrei dovuto scassinare, cruscottosmontare, filocollegare e mettere in moto. Troppo difficile, facevo prima ad andare a piedi lungo la stradina che portava in paese.

A destra della stradina un prato grande come tre campi da calcio era stato adibito a parcheggio, con file di alberelli a delimitare i posti auto. Ci potevi parcheggiare la Fiat in quel prato, probabilmente neanche l’intero paesino raggiungeva quelle dimensioni. Cosa spingeva gli abitanti della pianura veneta a transumare in quel posto, i lupi mannari?

Mentre mi ponevo questi dubbi esistenziali mi è finito il viale della stazione, e mi sono ritrovato a un incrocio. La strada terminava contro una fila di case, dal mio lato i campi, di fronte quelle villette piccolo borghesi pianterreno primo piano terrazzino che negli anni ’70 erano considerate architettura d’avanguardia, tutte col loro bel pilastro in facciata e il portone all’interno.

Sono andato a sinistra e sono finito subito in un campo. Sono tornato indietro e ho proseguito verso destra, e stavolta la fortuna mi ha arriso, perché la strada in quella direzione è andata avanti ancora per un po’, permettendomi di scoprire nuovi ed eccitanti aspetti della villa locale, che vado di seguito ad elencare.

  • Il gusto discutibile per le villette non è neanche paragonabile all’attrazione che hanno i locali verso il trash delle baracche tirate su con pezzi di cartelloni pubblicitari fregati lungo la provinciale;
  • Le villette di cui sopra sono circondate da giardini in cui i cittadini abbandonano ogni tipo di suppellettile, dal forno a legna in cui hanno nidificato i tassi (ma forse ciò denota un amore per i roditori, bisognerebbe approfondire) all’altalena su cui è fiorita la ruggine, a un trattore senza la ruota posteriore sinistra, a una collezione di bancali mezzi smontati e scheletri di biciclette Graziella;
  • La polizia locale nutre alcuni pregiudizi verso i non residenti, e quando ne vede passare uno lo tallona da vicino senza scendere dal grosso automezzo a otto posti in dotazione.

“Buongiorno, mi chiamo Pablo, questa è la mia fedina penale, questo è il passaporto e questa la tessera fedeltà ikea. Mi trovo nel vostro simpatico borgo per incontrare una vecchia amica che conobbi molti anni fa, quando prestai il servizio militare da queste parti, e che mi ha invitato a trascorrere il fine settimana a casa sua. Non so se ci saranno implicazioni sentimentali (credo di no) o erotiche (spero di sì), ma mi impegno fin d’ora a comunicarvi eventuali sviluppi. Mi impegno altresì a non commettere alcun crimine o danneggiamento della proprietà comunale durante la mia permanenza in loco. Non ho pregiudizi nei confronti delle forze dell’ordine nè dei leghisti, a patto che i fenomeni non si presentino contemporaneamente.”

Hanno smesso di seguirmi, ma prima mi hanno spiegato come raggiungere il centro del paese. Dovevo girare a sinistra al bivio, e seguire i cartelli con scritto centro del paese.

Il centro del paese era rappresentato da una chiesa modesta nelle dimensioni e nella manutenzione, con le pareti di mattoni rossi, a cui era stata appiccicata la facciata di qualche cattedrale neoclassica, bella lucida e di un colore bianco che spiccava anche al buio. Se fosse stata una persona sarebbe stato Donald Trump subito dopo che si è spruzzato il fondotinta.

Proprio accanto alla chiesa c’era la banca in cui lavorava la mia amica. Sono entrato e ho chiesto di lei alla cassiera.

No, diciamola bene, sono entrato e siccome non mi ricordavo più che faccia avesse la mia amica sono andato dalla cassiera e le ho chiesto se si chiamava Annalisa. Ho sperato che mi rispondesse di no, perché l’Annalisa che avevo conosciuto trent’anni prima era una mia coetanea dal fisico asciutto e i modi gentili, mentre questa dimostrava dieci anni e almeno altrettanti chili di più del necessario, e aveva un tono di voce assai sgarbato. Mi ha detto che Annalisa era la direttrice signora Angelini, e che l’avrei trovata in ufficio, dove naturalmente non mi era permesso di entrare e chi mi credevo di essere.
Ho capito che da quelle parti era considerato maleducazione approcciare una donna mentre ci si passa voluttuosamente la lingua sulle labbra, e le ho chiesto in un tono più distaccato se per favore poteva chiamare lei invece della polizia, che c’era un equivoco e sarebbe stato chiarito tutto in un momento.

Quando Annalisa è uscita dall’ufficio ho realizzato la portata del mio errore. Se l’avessi vista subito non avrei avuto nessun dubbio, era uguale a come la ricordavo, si era solo fatta i capelli biondi. Anche le rughe sugli occhi erano una novità, ma davano al suo sguardo la dolcezza della nonna quando rimbocca le coperte al nipotino. In quel momento desideravo tanto finire la giornata nel suo letto, a farmi raccontare le favole porche.

“Pablog! Sei venuto davvero!”

Questo di solito me lo dicono dopo, ma rispetto alla simpatia disinteressata che mi mostrava quando ci frequentavamo allora era già un grosso passo avanti.
Anche venirmi incontro e abbracciarmi dimostrava una fisicità che allora mancava. Tutto stava andando per il meglio, ho sperato fortissimo che a casa sua ci fosse un bidet: odio lavarmi il cazzo nel lavandino, dopo.

“Sinceramente non credevo che saresti venuto a trovarmi. Ci siamo ritrovati solo ieri, e adesso mi fai questa sorpresa!”
“Sono un uomo imprevedibile. Ma parliamo di te, sei sposata? La signora antipatica seduta laggiù ti ha chiamato signora Angelini.”
“No, non sono sposata. La signora Pomponazzi chiama tutti così.”

Era una mia impressione o mi aveva appena rivolto un sorriso malizioso?

Non mi ha dedicato altro tempo, era oberata di lavoro. Pensa un po’, i direttori di banca lavorano, io credevo che stessero chiusi tutto il giorno nel loro ufficio a schiacciare a caso i tasti della calcolatrice e che tutto il lavoro lo facessero quelli davanti che muovevano i soldi. Credevo che il loro unico compito fosse controllare che i cassieri non si infilassero in tasca le mazzette da cinquanta euri e i punti della spillatrice. Io se fossi il cassiere di una banca farei esattamente così.

Le ho promesso che l’avrei aspettata fuori, e lei mi ha consigliato di fare due passi in paese. È carino, mi ha detto, vai a vedere Villa Tristezza, l’ha fatta Palladio.

Ho capito che io e lei avevamo due concetti diversi di carino, per me carino esclude qualsiasi cosa che ti faccia venire voglia di buttarti sotto un intercity, quindi il migliore pregio che avrei potuto offrire a quel buco di merda era “probabilmente non radioattivo”.

Sono uscito, ma non sono andato a visitare nessuna villa dal nome deprimente costruita da uno che la noia ce l’ha scritta sulla carta d’identità.
Avrei fatto un giro per il paese, invece. Quel borgo era un’arnia onusta di prelibatezze, e io ero l’apicoltore che l’avrebbe violata.

La prima tappa l’ho fatta al Bar Mattacchione, che prometteva grasse risate fin dall’insegna. Di sicuro qui dentro fanno stand-up comedy, mi sono detto, sopravvalutando tantissimo il concetto dei veneti per divertimento.
Come nella migliore tradizione locale, dentro al bar c’erano due uomini, entrambi tristissimi, entrambi col bicchiere in mano, impegnati in una conversazione in cui le parole uscivano trascinate come nella scena delle quadrighe in Ben Hur, coi congiuntivi calpestati, i pronomi fatti a pezzi e il senso della frase preso a frustate. Non ho capito di cosa stessero parlando, ma avevo fame e volevo un tramezzino, così ho chiesto a quello meno sbronzo dei due di tornare dietro il banco e guadagnarsi lo stipendio. Il signor Mattacchione doveva essere l’altro, perché non si è mosso nessuno. Sono uscito senza neanche fregarmi un boero dal banco, guarda a volte l’onestà cosa ti porta a fare.

Il bar dopo distava sei metri, e si chiamava Il Re dello Spritz. Sono entrato e ho chiesto uno spritz. Me l’ha fatto prima della chiusura del locale, così mi sono preso coraggio e ho chiesto anche un tramezzino. Mi ha fatto anche quello, e mi ha messo davanti una ciotola con le olive e un’altra piena di patatine. Nonostante avessi chiesto da mangiare! Cioè, a Genova se chiedi un panino ti tolgono le patatine per non andare fuori budget, e qui in questo paesello di poche misere anime trascuravano l’economia in favore della solidarietà. Ero commosso, ho preso un tovagliolino di carta dal distributore di plastica sponsorizzato Segafredo e mi sono asciugato gli occhi, poi ho guardato la barista come il cane al canile guarda la bambina che è venuta a scegliere il suo nuovo migliore amico, e le ho donato silenziosamente il mio cuore, ma per non gettarle in faccia qualche inutile clichè mi sono limitato a proferire la frase di circostanza “Quanto le devo?”.
“Dodici e cinquanta.”
“Alla faccia del cazzo!”

I negozi stavano lasciando di nuovo il posto alle villette brutte e a quelle più vecchie che ancora mantenevano un certo decoro. Sono entrato in una stradina laterale e dopo pochi minuti sedevo su una panchina in mezzo a un parco giochi per bambini. Senza alberi, circondato dalla strada. In pratica avevano messo uno scivolo e due panchine in mezzo a una rotonda.
Non c’erano bambini, nessuno si sarebbe sognato di portare a giocare i bambini in una rotatoria stradale, con quel sole estivo di agosto se non fossero finiti investiti dal signor Mattacchione che tornava a casa in pausa pranzo si sarebbero fusi sullo scivolo.

Mi ha chiamato Annalisa. Dove sei? Sto uscendo. Arrivo, aspettami.

Di qui in poi il tempo deve avere accelerato, immagino per l’emozione di trovarmi finalmente coinvolto in un appuntamento, il quarto della mia vita nonostante abbia dedicato tutte le mie energie alla ricerca dell’anima gemella, spingendomi perfino a iscrivermi a Tinder, ma di quello preferisco parlare un’altra volta perché ne conservo un ricordo orribile.

Il tempo deve avere accelerato, e di quel che è accaduto poi conservo solo immagini sbiadite. Nella prima ci sono io che torno sui miei passi alla svelta. Nella seconda Annalisa esce dalla banca insieme alla sua collega della cassa, che mi guarda malissimo da lontano e sale in macchina senza salutarmi.

Annalisa dice che mi porterà a cena in un ristorante semplice ma valido. Purtroppo stasera il suo ristorante preferito è chiuso, e comunque non le avevo detto che sarei venuto a trovarla, se ci fossimo visti un altro giorno avrebbe avuto più tempo per organizzarsi.
Le rispondo che non importa, e che se le avessi detto prima che sarei venuto a trovarla non sarebbe stata una sorpresa, e poi rido come se avessi fatto una battuta formidabile, mentre lei abbozza un sorriso dei suoi, che sembra perplesso, ma in realtà lo so che è solo timidezza. È sempre stata così, fin da quando ci siamo conosciuti, e forse è proprio questo che mi piace così tanto di lei. Oltre al fatto che non tocco una donna da tre anni, e se non ci sta neanche questa mi tocca provarci con la postina, che mi fa sempre le battute spiritose quando mi consegna le bollette. Solo che la postina è mia sorella, preferirei di no.

Ma secondo me Annalisa ci sta, la vedo che si protende verso di me mentre cerca di allacciarsi la cintura in auto, e mi sfiora la gamba quando mette la terza, e ogni tanto si gira e mi sorride con quel sorriso timido che dicevo prima. Mi chiedo se adesso mi porterà su una strada poco frequentata e posteggerà in una piazzola e si sgancerà la cintura di sicurezza e poi mi metterà una mano sul cazzo senza parlare, ma si ferma davanti alla pizzeria Il Genio Della Pizza e dice che siamo arrivati.

Passo la serata più noiosa della mia vita ad ascoltare questa cretina che pontifica di immigrazione e corridoi umanitari. Ma in Veneto non erano tutti leghisti? Cerco di mostrarmi interessato, mostro di saperla lunga, e le dico che una volta mio cugino è stato in vacanza in Kenya, e questa cosa sembra fare colpo, perché mi mostra di nuovo il sorriso perplesso, molto più perplesso.

Poi, dopo un paio di eternità, paghiamo il conto (pago io, è un trucchetto che mi ha insegnato mio padre da ragazzo per fare colpo sulle femmine) e torniamo alla macchina. Mi sento crescere una grossa erezione e faccio fatica a stare seduto comodo, e lei se ne accorge e subito si mostra premurosa e mi chiede se sto male, e allora ne approfitto e le chiedo se può fermarsi che devo prendere una boccata d’aria, e lei si ferma, ma non è una piazzola isolata, è sotto casa di qualcuno che vive in una villetta col pilastro all’ingresso e il giardino con la betoniera vicino al pollaio, e c’è un sacco di luce, però non è che puoi sempre stare a fare il pignolo, quando capita l’occasione la devi cogliere al volo (un altro dei saggi consigli di mio padre, elargitomi a ventinove anni quando mi stavo preparando per il mio primo appuntamento con una ragazza e lui è entrato in bagno per cagare che non ce la faceva più), così appena lei tira il freno a mano io la agguanto per un polso e me lo tiro fra le gambe e le dico tira questo adesso (un consiglio che per me ha un valore molto importante perché me lo diede mio padre sul letto di morte).

A questo punto non ho capito bene, perché mi ha mostrato la sua espressione perplessissima, ma poi mi ha tirato un pattone che mica pensavo che una ragazza così minuta avesse tutta quella forza, e mi ha urlato di scendere e un sacco di altre parole che non posso ripetere perché mia mamma mi ha insegnato che certe cose una persona per bene non le deve dire, e lei chiaramente non era la persona per bene che credevo, e allora perché perdere del tempo con una così, e glielo dico mentre scendo, che non è una persona per bene, ma lei urla più forte e mi sa che non mi ha sentito, e poi parte sgommando, ma le si spegne il motore e prova ad accenderlo e non si accende, e penso che forse è un trucco per non ammettere che in fondo mi voleva anche lei e ci sta ripensando e aspetta che mi faccia avanti io perché le ragazze sono orgogliose e non ammettono mai di averci ripensato (questo non me l’ha insegnato mio padre, l’ho visto in un episodio di Dawson Creek che considero molto formativo), e allora mi avvicino, e per farle vedere che non me la sono presa le sorrido un po’ beffardo, ma lei parte proprio in quel momento e il sorriso un po’ beffardo mi si secca in faccia perché è notte e non so dove cazzo sono.

Lo chiedo alla signora che si affaccia a guardare chi è che strilla sotto casa sua a quell’ora di notte, ma lei pensa chissà cosa e chiama il marito che esce sul terrazzo in canottiera e pantaloni del pigiama e ha in mano un fucile da caccia.

Non so dove sono, ma se uno ha l’abitudine di affacciarsi in terrazza in pigiama e fucile non è un posto dove voglio stare ancora, notte o no. Mi metto a camminare nella direzione che secondo Google dovrebbe portarmi alla stazione più vicina, che non è quella in cui sono arrivato, ma una lì vicino, che è appunto vicino a lì ma non certo a me. Dice che dovrei camminare per un’ora in questa direzione e poi girare a destra, ma scoprirò poi che i tempi di percorrenza su google maps sono arrotondati per difetto, e che in Veneto i treni sono più rari delle ragazze che ci stanno. Me la scrivo questa frase, credo che mi tornerà utile in futuro.

La faccenda della newsletter di cui parlavo la volta scorsa ha smosso il gotha dell’editoria italiana a un livello che non mi aspettavo. Cioè, avevo messo in conto di ricevere email da qualche redazione di giornale, in cui direttori piccati mi accusano di poca sportività, e infatti mi ha scritto il direttore di un quotidiano sbarcato in edicola da una settimana, chiedendomi di rinunciare all’idea della newsletter, o almeno di rimandarla di qualche settimana, per dare il tempo alla sua rivista di crearsi un solido bacino di lettori.

Quello che non mi aspettavo era che la mia proposta mi ponesse sotto la lente d’ingrandimento di un anziano direttore col vizio della bottiglia. Non me l’aspettavo perché io e questo signore di solito frequentiamo persone diverse, leggiamo giornali diversi e soprattutto ci facciamo leggere da persone che difficilmente riuscirebbero a stare nella stessa stanza senza mettersi le mani in faccia. Ciononostante, questo pomeriggio il signore in questione mi ha telefonato. Ho capito che era lui prima ancora di vedere il numero, perché la suoneria del cellulare, invece della solita sigla di Drive-In, ha fatto partire Faccetta Nera interpretata dal Coro degli Ultras della Lazio, live dai sedili posteriori del pullman di ritorno dalla trasferta a Udine dove hanno strappato un pareggio all’ultimo minuto.

(una volta non so più quale compagnia telefonica aveva attivato questo servizio, che ti permetteva di scegliere una suoneria personalizzata da fare ascoltare a chi ti chiamava, mentre aspettava che accettassi la chiamata. In tutta Italia avevamo sottoscritto il servizio solo io e il mio amico Panzon, e tutti e due ci siamo rotti le palle dopo meno di un mese perché il catalogo comprendeva solo tre canzoni e due erano tormentoni estivi)

Il vecchio direttore di giornale si è lagnato con me che già la sua testata la leggono in quattro, se mi metto a rubargli lettori anch’io cosa gli resta da fare se non spendere al bar anche quelle poche ore che finora dedicava alla stesura di editoriali che per essere letti dovevano contenere la parola negri nel titolo? Mi ha chiesto di lasciar perdere, oppure di prenderlo a lavorare con noi in redazione, che oramai a Milano si vive male e non gli dispiacerebbe trasferirsi in un ufficio vista mare col bar sotto che prepara degli spritz decenti.

Ho rifiutato, naturalmente. La redazione si sta formando lentamente, di ogni candidato valutiamo il curriculum perché ce lo mandano e pare brutto non leggerlo, ma soprattutto il casellario giudiziale: se ha subito condanne per avere scritto parolacce sul muro dell’arcivescovado lo facciamo direttore, ma se è già stato direttore non ci interessa, perché a lavorare con quelli bravi ci vengono i complessi di inferiorità e poi finiremmo a misurarci il cazzo, e perderemmo anche lì.

È brutto perdere a chi ce l’ha più lungo con qualcuno che è anche più bravo di te nel lavoro.

Il vecchio direttore astioso si è congedato con cortesia, ma se domani in edicola ci sarà un editoriale che parla male di Renzi sappiate che non si riferisce al segretario di Italia Viva.

Nel frattempo il nostro progetto va avanti con calma. Nessuno ha fretta di cominciare, e ci scambiamo pigri messaggi domandando di cosa dovremmo parlare e chi avrebbe voglia di scrivere il primo pezzo. Ma non ce l’abbiamo una linea editoriale? Ci si chiede. E il titolo della newsletter? E che giorno la facciamo uscire?
La cassetta degli articoli da cui pescare il materiale settimana dopo settimana è ancora vuoto, ogni tanto mi metto al computer per scrivere il primo pezzo, e sistematicamente finisco a giocare a un gioco in cui interpreto un cecchino in Siberia che spara a mercenari appostati tre schermi più in là, perciò il mio primo pezzo finirà per essere La giornata tipica di un cecchino superaccessoriato nella Siberia degli anni ’20, e inizierà così:

Ore 6.30 – La sveglia mi tira giù dal letto che fuori è ancora buio. Per non attirare curiosi ho impostato la suoneria col canto di accoppiamento del lupo siberiano, ma così ogni mattina trovo fuori dalla tenda cinque esemplari maschi ingrifatissimi, e venti minuti se ne vanno a cercare di allontanarli senza fare rumore. Non so se avete presente la difficoltà di convincere un branco di lupi incazzati ad andarsene facendogli pssh pssh.

Poi ci sono le difficoltà di carattere logistico, che nel mio caso significano gli elementi ambientali che mi rendono difficile scrivere: mia moglie e i gatti, principalmente. Che decidono tutti insieme di avere bisogno di me, e mi obbligano a interrompere la stesura del mio pezzo e attraversare ciabattando le grandi stanze del castello in cui ci siamo trasferiti da poco, mugugnando lungo tutto il percorso, per arrivare a scoprire che la prima ha scoperto che i secondi le hanno pisciato sulle ciabatte, e che io devo risolvere il problema. In quel caso mi si presentano due opzioni: buttare le ciabatte o buttare i gatti, ma non posso scegliere nessuna delle due, perché né io né mia moglie siamo disposti a liberarci di ciò che ci appartiene. Quindi io mi tengo il gatto piscione e lei le ciabatte pisciate.

Insomma, far uscire una newsletter oggi, in Italia, è più difficile di quanto si possa pensare. Tenetene conto quando guarderete ogni giorno la vostra casella di posta e ci troverete soltanto la pubblicità dell’allungapeni, e vi verrà voglia di imprecare nella mia direzione, e in quel moto di rabbia vi sarà sfuggito che finora neanche vi ho dato un indirizzo a cui registrare la vostra casella di posta, anche se mi fossi messo a pubblicare come credete che avrei fatto a recapitarvela?
Tutto vi devo spiegare. Tutto.

Ero qui che mi baloccavo con l’idea di scrivere una newsletter che riprendesse quella con cui iniziai la mia carriera di.. cos’è che faccio io veramente?

Metti cazzaro che va bene

..cazzaro, quando mi sono reso conto che molti dei lettori del Pablog non hanno idea di cosa ci fosse in quella newsletter, e che forse dovrei spiegare qualcosa.

La newsletter si chiamava Le lettere degli gnu, per poter usare il gioco di parole gnu’s letters, che allora mi sembrava una battuta pazzesca, ma è perché il territorio di internet non era così esteso, e se altre cento persone dall’altra parte del mondo facevano la stessa battuta, ognuno era convinto di essere l’unico. Il piacere di vivere in una bolla era qualcosa che apparteneva a tutti, non solo ai frequentatori dei profili social di Salvini.

Nella gnu’s letter c’era quello che mi veniva in mente di scrivere quel giorno, senza schemi predefiniti. In genere trovava posto una parte introduttiva in cui mi rivolgevo ai nuovi iscritti, che conoscevo per nome, essendo io che li iscrivevo uno per uno, manualmente. Non esistevano quei sistemi tipo Substack dove quello che scrive e quello che si iscrive non entrano mai in contatto, o se esistevano io non li conoscevo e facevo tutto a mano con Outlook Express.
Per dire, quando il numero degli iscritti ha iniziato a diventare elevato ho dovuto spedire la stessa lettera tre o quattro volte perché il programma di posta non mi permetteva di superare un certo numero di indirizzi in copia nascosta.

Dopo la parte introduttiva c’era una divagazione estemporanea su qualcosa che mi era successo, o che avevo visto, o che volevo dire a qualcuno ma non potevo essere troppo diretto e allora mascheravo, creando quello stile di scrittura che da sempre mi ha contraddistinto e ha azzerato i miei rapporti con le ex fidanzate.

Anni dopo, con un amico che non posso chiamare col proprio nome sennò è capace che mi fa scrivere dal suo avvocato, ho creato una seconda newsletter, ARTErnativa, in cui ho fatto confluire parecchie delle caratteristiche della precedente, più altra roba inedita.

Intanto per cominciare usciva con una cadenza regolare, una volta alla settimana; quella degli gnu era erratica come i suoi contenuti, a volte fra un numero e l’altro passavano due giorni, a volte due settimane.
Poi era strutturata, con un inizio, una parte centrale e una fine; e dato che per spedirla mi avvalevo di un rivoluzionario (per me) sistema di posta, avevo inserito una coda per permettere a chiunque di iscriversi o cancellarsi in autonomia.

Siamo andati avanti per una decina d’anni, ci siamo moltiplicati fino a diventare tre, e ad un certo punto ci siamo resi conto che i lettori non ci seguivano più, e ci leggevamo da soli. Era cambiato internet, il pubblico voleva altro, e probabilmente neanche noi ne avevamo più tanta voglia.

E siccome quella prima è finita male vorresti iniziarne un’altra?

Boh, una parte di me pensa che il blog sia uno strumento molto utile per buttar fuori roba, ma è ripiegato su sé stesso, mentre una newsletter, col fatto che arriva proprio a te, direttamente, ha un tono più confidenziale.

Pensavo che si potrebbe tornare a quella forma anarchica che avevano le lettere degli gnu, e magari aggiungere qualche caratteristica della newsletter successiva, ma neanche sempre, che di tornare a descrivere quadri ogni settimana ci si stanca presto.
Mi piacerebbe farlo con qualcuno, mettere su una redazione per parlare di niente, un gruppo di persone che ogni settimana raccontano cose, magari a turno, ognuno a modo suo. Quello che ti racconta di libri e quello che chiede scusa alla fidanzata in un modo che tutti si appassionino a leggerlo, una cosa così.

Non lo so se si può fare, né se funzionerebbe, ma secondo me sì, i tempi sono di nuovo maturi per questo genere di cose un po’ retro. Come i vinili che adesso costano più dei cidi e i tizi che si impomatano i baffi.

Ci sono ancora? I tizi che si impomatano i baffi, dico. Perché a pensarci bene è un po’ che non ne incontro più, forse sono passati di moda un’altra volta. Sarebbe bello che passassero di moda, ogni volta che ne incontro uno mi viene voglia di andare a sparare all’Imperatore d’Austria.

Vabbè, io ci penso un po’ su. Nel frattempo, se a qualcuno venisse voglia di scambiare un parere, per dirmi che avrebbe piacere di riceverla, o di scriverci sopra, lo spazio dei commenti serve a quello.

I capitoli precedenti li potete leggere qui.

Il pendio innevato offriva diversi gradi di pendenza, per impegnare gli sciatori di ogni livello, e in ogni pista c’erano tute colorate che scendevano a zig zag fra le bandierine, risalivano con la funivia, scendevano lanciate dritte come siluri, risalivano con la seggiovia, scendevano pancia a terra perdendo pezzi di attrezzatura lungo la pista e non risalivano più.

Il cielo sopra le loro teste era azzurro, illuminato da lunghe file di lampade. Certo, con un cielo vero sarebbe sembrato tutto più autentico, ma a Dubai l’unica neve disponibile è quella dello Ski Center, un impianto sportivo in cui è stato ricostruito un pendio innevato, con tanto di baita e sistemi di risalita. Una roba tristissima, ma se puoi permetterti di vivere in una città cara come Dubai e decidi di vivere lì piuttosto che altrove, tristissimo è un po’ il tuo stile di vita.

Ero arrivato in città da poche ore, dopo avere sbrigato tutte le formalità del viaggiatore tipo registrarsi in hotel, fare la doccia, la cacca, mangiare, fare di nuovo la cacca, mi ero fatto portare alla Camera di Commercio per trovare l’indirizzo della Spectre, ma l’ufficio era ancora chiuso e il tassista diceva che in città non esisteva nessun’azienda con quel nome lì.

“Ma sei sicuro? Ha filiali in tutto il mondo, si occupa di estorsioni, omicidi e colpi di stato. È famosa.”
“Anche mia suocera fa lo stesso lavoro, ma non la conosce nessuno fuori dal suo condominio.”

Dovevo aspettarmelo, la Spectre stava tenendo un basso profilo. È una cosa che le associazioni criminali segrete fanno, sebbene ci sia ancora qualche supercattivo con manie egocentriche che piazza il proprio nome in bella vista, tipo Jeff Bezos.

Non sapendo dove andare per passare il tempo mi ero fatto consigliare dal tassista, ed ero finito alla pista da sci. Non ho mai saputo sciare, non saprei neanche come allacciarli, gli sci. Ho provato una volta con una gassa semplice, ma sono troppo rigidi e il nodo non tiene. Ma poi se li leghi insieme come fai a non inciampare? Sarà per quello che ho sempre preferito il bob, con la sua pratica zip.

Ho ciondolato un po’ a fondo pista, ma l’addetto mi ha preso a parole, a fondo pista non ci si può stare, devi andare su o andare fuori. Fuori faceva troppo caldo, mi sono fatto dare un paio di sci e sono andato su. In coda davanti a me c’era una tipica famiglia degli Emirati, marito moglie moglie moglie moglie e moglie; sembravano eccitati di trovarsi lì, specialmente le mogli, agitavano le braccia e parlavano a voce molto alta. Dal tono sembravano felici, ma avevano la faccia nascosta dal velo e gli occhiali da sci, non spuntava neanche il naso, era difficile capire se fossero allegre o veramente incazzate. Nel dubbio ho smesso di tenere gli sci sulla spalla e sbatterglieli in testa. In attesa del mio turno mi arrovellavo sui dubbi che in quel particolare periodo della mia vita mi tenevano sveglio di notte: come si allacciano gli sci? E se arriva il mio turno di scendere e non li ho ancora allacciati? E una volta arrivato in fondo cosa faccio, torno su o mi faccio riportare alla Camera di Commercio? E che ne sarà di Kim Wexler alla fine di Better Call Saul?

La moglie del tizio davanti mi ha detto una cosa piena di consonanti aspirate, io le ho allungato una caramella al miele, che in questi casi fa bene, e per mettersela in bocca si è tolta il velo. Oh, non era Baby Fuckmerightintheass, la ragazza della spiaggia di Nassau? Guarda che l’islam è ben strano, le donne in spiaggia possono girare mezze nude ma sulle piste da sci devono indossare il velo. Un’altra moglie si è scoperta la faccia e sotto era mascherata da ombrellone, e questa era una stranezza peggio ancora di quella del costume da bagno! La terza moglie si è tolta il velo, ed era la signorina carina ma non come quell’altra dell’hotel di Macao, e la quarta moglie si è rivelata essere il tassista. Ho fatto la cosa più logica in questi frangenti, sono andato dal marito e ho provato a tirargli la barba, per vedere chi sarebbe venuto fuori. È venuta fuori una pistola. Ho capito che non era aria, e mi sono buttato giù per la pista da sci, senza gli sci.

Se affronti una pista senza gli sci va sempre chiamata pista da sci o bisogna darle un altro nome più appropriato? Tipo pista da mocassini di pelle, o più precisamente da un mocassino di pelle, visto che l’altro l’ho perso appena sono saltato giù dalla pedana di partenza.

La famiglia moderna mediorientale mi si è gettata all’inseguimento brandendo ognuno una pistola, proprio come avrebbe fatto una famiglia tradizionale statunitense, solo che loro avevano gli sci e ci sapevano andare. Io ho fatto del mio meglio per arrivare in fondo in posizione eretta, ma non c’era paragone fra la mia discesa e la loro: quando i giudici mi hanno assegnato il settimo posto non è stata una sorpresa per nessuno.

Baby Fuckmerightintheass si è offerta alle telecamere con gli occhi lucidi per l’emozione.

“Sinceramente non credevo che ci sarei riuscita, tutti davamo per favorito il tassista di Macao, è un atleta incredibile, ma ho fatto la mia gara senza voler dimostrare niente, e quando sono arrivata in fondo e ho visto i tempi non riuscivo a crederci. Gareggiare senza pressioni mi ha aiutato molto, di sicuro.”

“Non certo la tua gara migliore”, mi ha detto il commentatore sportivo della Rai, “Cos’hai sbagliato? Oltre a non avere indossato gli sci, intendo.”
“Guarda, Max, non lo so di preciso. Col mio allenatore avevamo preparato questa discesa al meglio, ma appena ho perso un mocassino ho capito che non sarei riuscito a ottenere un buon tempo. Aggiungici che i miei avversari mi hanno sparato lungo tutta la discesa.. Sì, e poi era previsto che per sfuggire ai miei inseguitori saltassi nel vuoto da un burrone e volassi via col paracadute, ma dopo la nevicata artificiale di ieri le condizioni della pista non erano favorevoli, il burrone si è riempito di polistirolo, mi è toccato fare il giro più lungo e passare attraverso il boschetto. La prestazione ne ha sicuramente risentito.”
“Il tuo prossimo impegno è il supergigante di domani. Pensi di riuscire a guadagnare il podio?”
“Non lo so, domani ho la parrucchiera alle dieci, poi devo passare alla camera di commercio per cercare l’indirizzo della Spectre, perché qui fra una cosa e l’altra si è fatto tardi, oramai per oggi non ce la faccio mica. Come diceva sempre Rocco Siffredi, vediamo come si mette.”

Qualcuno mi ha messo una mano sulla spalla, da dietro. Ho sentito un brivido gelato lungo la spina dorsale, ho capito che per me era finita. Mi sono voltato, l’uomo con la barba e il turbante che mi aveva puntato la pistola addosso una discesa fa me la stava puntando ancora, da molto più vicino, e stavolta non c’erano piste su cui tentare la fuga.
Meno male, credevo fosse Rocco Siffredi!

Mi hanno messo un sacco in testa e mi hanno caricato su un’auto dai vetri oscurati. Dopo un po’ di strada siamo arrivati all’aeroporto, e la macchina è stata agganciata a un cavo che l’ha sollevata all’interno di un grosso velivolo dai vetri oscurati. Abbiamo volato per qualche minuto, fino ad atterrare all’interno di una barca di grosse dimensioni dai vetri oscurati, che ci ha portati al largo, dove una gigantesca balena dai vetri oscurati ci ha inghiottiti e portati alla super base segreta su un’isola artificiale però vulcanica, il covo della Spectre!!

Prima che mi facessero uscire da tutti i mezzi di trasporto c’è voluto un po’, che una volta non si trovavano le chiavi della stiva della barca, poi quelle del bagagliaio della macchina, e chi ha preso le chiavi delle manette di questo tizio, ma soprattutto abbiamo dovuto aspettare un bel po’ prima che la grossa balena ci espellesse attraverso un metodo che non sto qui a spiegarvelo perché ho appena mangiato.

Mi hanno portato attraverso una serie di porte metalliche fino a una stanza arredata con un gusto moderno, in cui spiccava come una macchia su un foglio bianco un caminetto all’antica, in cui ardeva un grosso ceppo scoppiettante. La base, come ho detto, era scavata nel sottosuolo di un’isola vulcanica: la temperatura media si aggirava sui 40 gradi, sudavano tutti come bestie, ma in quella stanza c’era il caminetto acceso. E davanti al caminetto, su una poltrona dall’ampio schienale che ne copriva il volto, stava seduta una figura misteriosa. Teneva in braccio un grosso gatto persiano dal manto candido, e lo accarezzava lentamente.

“Signor Blofeld, il prigioniero è qui”, ha detto una delle guardie che mi avevano scortato.

La figura in poltrona ha fatto scendere il gatto e si è alzata lentamente.

Una lunga cicatrice gli attraversava l’occhio destro.
Il maglione dolcevita che indossava era pieno di peli di gatto.

“Signor Delbruck, finalmente ci conosciamo”
“Mi chiamo Pablo. Renzi Pablo”
“Ah, siete parenti?”, mi ha chiesto anche lui, come tutti.
“No”, ho risposto, come tutte le volte.

Il mio ospite si è accorto che stavo sudando, e si è scusato per la temperatura troppo alta, ma soffriva di una rara malattia chiamata anzianite, che lo obbligava a girare sempre col maglioncino. Per farsi perdonare mi ha offerto un bicchiere di polenta.

Mi sembrava venuto il momento dello spiegone, quando il cattivo di turno racconta all’eroe in cosa consiste il suo piano malvagio, ma Blofeld non era un gran chiacchierone, dopo avermi allungato il bicchiere di polenta è tornato alla poltrona e ha cercato di far scendere il gatto, che l’aveva occupata. Quello di scendere non ci pensava neanche, e ci si è aggrappato con tutte le unghie.

Blofeld si è messo a tirare, il gatto a soffiare, poi si è girato di scatto e gli ha aperto una mano con una zampata.

“Ecco lì, un’altra cicatrice”, si è lamentato lui. E ha chiamato un assistente per farsi medicare.

Me ne stavo in piedi in un salotto caldissimo sotto un vulcano a guardare un agente del male che si faceva ricucire una mano, e da bere c’era solo della polenta scondita. Non certo il quadro affascinante che mi ero immaginato al momento di spedire la mia domanda di assunzione.

“Senta, dottor Blofeld, se ha da fare magari torno dopo”, ho provato a dire.

“No no, stia stia, ci metto un attimo”, ha risposto. Quando il medico se n’è andato è andato alla scrivania, ha aperto il cassetto e ne ha estratto una pistola. Ma ancora?

“Se voleva uccidermi perché non ha incaricato i miei aggressori?”
“Non è per lei, stia tranquillo”, ha risposto, poi è tornato alla poltrona.

Lo sparo ha fatto accorrere un paio di inservienti con un sacchetto di plastica, che si sono sbarazzati del cadavere del gatto e hanno sostituito la poltrona con una nuova, identica.

Si sono fermati sulla porta, in attesa di un ordine. A un cenno di Blofeld sono usciti, e rientrati subito dopo con un sacco, da cui hanno estratto un altro gatto bianco a pelo lungo.

Da come sembrava incazzato non avrei scommesso granché sulla sua sopravvivenza, né su quella dell’altro occhio di Blofeld.

“Lei ama i gatti, signor Renzi?”, mi ha chiesto.
“Ne ho due, ma i miei sono più mansueti”, gli ho risposto.
“Immagino. Sa a che razza appartiene questo?”
“Non è un persiano?”
“Lo sa che è maleducazione rispondere a una domanda con un’altra domanda?”
“Non l’ha appena fatto anche lei?”
“Sta cercando di farmi innervosire?”
“No, ho visto cosa succede a chi la fa innervosire”

Il sorrisetto di Blofeld voleva avere qualcosa di diabolico, ma non riuscivo proprio a sentirmi minacciato da uno col maglione pieno di peli di gatto.

“Questi gatti non sono persiani, appartengono a una razza selezionata con cura da centinaia di anni, una razza mantenuta segreta e acquistata solo dai pochissimi che se lo possono permettere. Il loro valore sul mercato è incalcolabile. E io ne ho appena ammazzato uno. Ha idea di quanto mi costano ogni mese, questi piccoli bastardi? Capisce adesso perché uno si trova costretto a conquistare il mondo?”
“Perché non prova al gattile?”
“Ci ho provato, ma non facevano consegne a domicilio. Quando avrò conquistato il mondo potrò mandare i miei sgherri in qualunque angolo del mondo a raccogliere i gatti più belli, senza dover spendere un centesimo. Buahahahahaha!”
“Mi sta dicendo che vorrebbe conquistare il mondo per non dover pagare la spedizione di un gatto?”
“No, anche perché Netflix mi propone solo film di merda e mi annoio a stare tutto il tempo chiuso in questa base. E poi ho un sacco di testate nucleari, sarebbe un peccato non usarle, no?”

“Glielo impedirò!”, ho esclamato, più perché mi sembrava la cosa giusta da dire che per reale convinzione. Blofeld ha riso. “E come?”, mi ha chiesto.
“Non lo so!”, ho risposto, con un tono un po’ meno enfatico ma sempre abbastanza su di giri.

“Ce la giochiamo a morra cinese? Chi perde muore.”
“Mi sembra un’idea del cazzo.”
“Anche a me, non sono bravo a morra cinese.”

Blofeld è tornato alla scrivania e ha aperto il cassetto.

“Ho un’idea migliore. Lei mi ha causato parecchi problemi, signor Renzi. Ha eliminato Leslie Chow, il mio uomo migliore. E ha fatto arrestare il mio agente a Nassau dalla guardia costiera. Credo che per lei adesso sia venuto il momento di morire.”
“Non così in fretta, Blofeld!”, gli ho risposto, puntandogli addosso il mio dito indice.
“Crede davvero che un agente del servizio segreto inglese non abbia con sé un qualche gadget pazzesco in grado di tirarlo fuori dai pasticci?”
“Non ce l’ha, l’ho fatta perquisire. In tasca aveva solo uno scontrino del panificio.”
“E che mi dice di questo dito che le sto puntando addosso?”
“Non è un dito?”
“Non sa che è maleducazione rispondere a una domanda con un’altra domanda?”
“Mi sta prendendo in giro?”
“È disposto a correre il rischio?”

Il sorrisetto beffardo si è trasferito dalla faccia di Blofeld alla mia. Sulla sua adesso era visibile un certo nervosismo.

“Tenga le mani bene in alto sopra la testa. E non provi a chiamare aiuto, o le faccio un buco nelle costole.”

Mi sono avvicinato, ma il gatto mi si è messo davanti e mi ha fatto lo sgambetto. Blofeld ne ha approfittato per saltarmi addosso, ha cercato di strapparmi il dito di mano.

“Ne ho altri nove!”, gli ho detto, e gli ho piantato l’indice dell’altra mano fra le costole.

Ghiri ghiri ghiri ghiri! Blofeld soffriva il solletico, si è buttato per terra e ha cercato di divincolarsi, ma gli anni di esperienza da fratello maggiore hanno reso le mie mani un sofisticato strumento di tortura, gli sono balzato a cavallo e l’ho immobilizzato fra le cosce, mentre le mie dita continuavano a tormentargli i fianchi.

“Basta, la prego, basta!”, mi implorava, con le lacrime agli occhi.
“Come si fa a distruggere la base?”, gli ho chiesto, senza smettere di solleticarlo.
“Nella sala di controllo dei missili atomici c’è un bottone rosso. Sta proprio accanto al bottone rosso che lancia i missili su tutte le principali capitali mondiali, ma questo attiva l’autodistruzione. Per non confonderci ci abbiamo attaccato un pezzetto di scotch.”
“Come arrivo alla sala di controllo dei missili?”
“Deve uscire da quella porta e girare a destra. Quando è in fondo al corridoio prende la porta accanto alla macchinetta del caffè e scende le scale fino al terzo piano. Da lì e meglio se chiede perché è un po’ complicato.”

L’ho lasciato andare e sono corso fuori. Ho raggiunto la sala di controllo e il pannello coi due bottoni. Uno dei due aveva un pezzetto di scotch attaccato sopra. Non mi ricordavo più se quello con lo scotch lanciava i missili o faceva esplodere la base, così li ho schiacciati tutti e due.

Ha cominciato a tremare tutto, una voce si è diffusa dagli altoparlanti: “Lancio previsto in trenta secondi. Ventinove. Ventotto.”

Un’altra voce ha cominciato a scandire un conto alla rovescia diverso: “Autodistruzione attivata. Questa base esploderà in cinquantanove.. cinquantotto.. cinquantasette..”

le due voci si sono sovrapposte, mentre una contava ventiquattro ventitrè l’altra diceva cinquantasei cinquantacinque. Chiaramente hanno perso il conto. Una ha cominciato a chiedere all’altra a che numero fosse arrivata, l’altra l’ha accusata di non essere abbastanza professionale, hanno iniziato a litigare. Mentre raggiungevo la superficie e recuperavo un battello, dagli altoparlanti hanno cominciato a volare gli insulti.

“Ah si?”, ha detto una delle due voci mentre prendevo il largo, “Allora l’autodistruzione l’attivo io, così impari!”.

La fiammata del vulcano che eruttava lava e pezzi di base ha colorato di porpora l’orizzonte, come se fosse stato il tramonto. Di lì a poco sono stato raccolto da una nave che stava accorrendo in cerca di soccorsi. Mi hanno dato dei vestiti asciutti, perché i miei puzzavano di sudore. Poi mentre stavo sul ponte a godermi il vento il capitano è venuto a portarmi il telefono di bordo, c’era una chiamata per me.

Era il mio capo, M, che si congratulava per il successo della missione, e mi chiedeva di rientrare alla base di Londra per il prossimo incarico.

Ho detto “prima il piacere, poi il dovere”, e ho lanciato il telefono in mare. Il capitano si è messo a gridare e mi ha dato uno scappellotto.

FINE

La puntata precedente la trovate cliccando qui.

Paradise Island, spiaggia di sabbia bianca, acqua così limpida che non la vedi, palme fin dove riesci a guardare. Stese ad asciugare al sole sui loro asciugamani, alcune donne in bikini dirigono a gesti una truppa di camerieri eleganti con vassoi carichi di bibite alla frutta.

In mezzo a questo paesaggio da cartolina, un uomo si aggira per la spiaggia: ha i capelli spettinati, indossa una camicia bianca e un paio di scarpe eleganti, che si toglie ogni tre o quattro passi per svuotarle dalla sabbia. Suda tantissimo.

Sono io, naturalmente.

Camminare per la spiaggia di Nassau mi ha fatto capire per l’ennesima volta come io e il mare non siamo davvero compatibili. Fa caldo, si suda, non so indossare le scarpe adatte, mi scotto subito e non so mai cosa fare. Ho fatto avanti e indietro tutta la superficie dei Bagni Miramare di Nassau, ma di tizi con la cicatrice sulla faccia non ce n’erano, solo una profusione di culi scolpiti che mi ha fatto sentire scomodo nelle mutande.

Sono andato al bar della spiaggia, e ho mostrato la foto del tizio con la cicatrice al barista. Non ha telefonato a nessuno né adottato comportamenti sospetti, si è limitato a scuotere la testa e mi ha allungato un bicchiere con dentro un ombrellino.

“Potevi almeno metterci dentro qualcosa di liquido”, gli ho detto, succhiando lo stecchino di legno, ma lui parlava solo Bahamense, che somiglia tantissimo all’inglese, se solo fossi in grado di capire almeno quella lingua.

Ochei, la mia ricerca del tizio sfregiato poteva dirsi terminata, non avevo altre tracce da seguire. Tanto valeva prendermi una vacanza. Ho chiesto al barista se aveva un telo da spiaggia da imprestarmi, e magari un paio di infradito e della crema solare, ma lui non ha capito e mi ha passato un altro bicchiere vuoto con dentro un ombrellino. “Potresti metterci almeno del ghiaccio?”

È arrivata una ragazza mora, coi capelli corti e gli occhi nerissimi. Era giovane, camminava col passo morbido ed elastico di un predatore nella savana. Il costume che portava addosso era piccolissimo, doveva averlo tolto a una delle sue Barbie, e le sue forme generose bramavano libertà. Tutti si sono voltati a guardarla, ma era così attraente che tutti si sarebbero girati a guardarla anche se avesse indossato un cappotto rosso, un paio di scarpe da clown, e un cappello a cilindro con un gatto aggrappato sopra.

Si è appoggiata al banco come se fosse stato il gesto per cui era venuta al mondo, e ha chiamato il barista Hubert. Lui le ha preparato un bicchiere pieno di ghiaccio, foglie di menta e un paio di liquori diversi, che ha infine guarnito con una fetta di arancia.

Non sapevo che il barista si chiamasse Hubert, forse era per quello che a me continuava a portare bicchieri vuoti. Ho provato a chiamarlo Hubert anch’io, e lui è arrivato a chiedermi cosa volessi.

“Ne vorrei uno uguale”, gli ho detto, indicando la ragazza.

Mi ha allungato un altro bicchiere vuoto con dentro un ombrellino. Ma cosa cazzo!

La ragazza ha riso, mi ha chiesto where I was from, le ho detto quello che stai bevendo tu, bellezza.

I don’t speak italian, mi ha detto lei, e io le ho risposto ah sei italiana pure tu? Hai un accento strano, di dove sei, di Foggia? E mi sono avvicinato, come farebbe qualunque uomo italiano che all’estero perde tutte le inibizioni e ci prova perfino con quelle a forma di deumidificatore Beghelli.

“Come faccio a ordinare un bicchiere come il tuo?”, le ho chiesto con la voce di Francesco Prando quando doppia Daniel Craig quando guarda una donna dritta negli occhi e sai che sta per cacciarle la lingua così profondamente in gola che speri che si sia fatta il bidè.

“Come ti chiami?”, mi ha faticosamente chiesto in una lingua a me comprensibile.

“Pablo”, le ha risposto il gabinetto di guerra riunitosi in fretta dentro le mie mutande. “E tu?”

“Baby”, mi ha risposto. “Baby Fuckmerightintheass”.

Per mostrare che avevo capito le ho detto “Nessuno mette Baby in un angolo”, ma forse era troppo giovane per avere visto Dirty Dancing. Ha fatto un cenno al barista, che mi ha finalmente allungato un bicchiere pieno. “Ci ho messo anche l’ombrellino”, mi ha detto mentre me lo porgeva.

Baby dal cognome impossibile da ricordare mi ha preso per mano e portato sotto il suo ombrellone, dove c’erano due sdraio libere.

Accanto al palo una borsa da spiaggia da cui spuntavano creme abbronzanti, spazzole, una pistola e tutto quell’armamentario che di solito una ragazza ama portarsi dietro in queste occasioni.

Ha fatto un cenno, e il barista Hubert si è palesato con un dizionario inglese-italiano. Lei ha iniziato a parlargli in inglese, e lui a tradurmelo.

“Cosa ci fa a Nassau un bell’uomo come te? Sei qui per affari?”, mi ha detto Hubert con la stessa voce languida della mia nuova amica.

“Sto cercando un uomo con una cicatrice sull’occhio”, gli ho risposto.

“Non avevo capito che ti interessavano gli uomini”, mi ha detto Hubert, e poi mi ha fatto l’occhiolino.

“Solo per lavoro. Sono un agente segreto, e lui è il mio obiettivo.”

Qui Hubert non deve aver tradotto proprio parola per parola, perchè Baby mi ha guardato schifata, poi si è alzata e se n’è andata via.

“Sei un coglione”, mi ha detto poi il barista, pescando con cura ogni parola dal vocabolario.

“No, tu sei un coglione! L’hai fatta andare via! Come barista fai schifo, con sta cazzo di ossessione per gli ombrellini, e non sei bravo neanche come interprete!”

“Gli ombrellini dovevi leggerli, non buttarli via: contenevano dei messaggi in codice. Sono un agente segreto anch’io, e quella ragazza lavora per Blofeld, ed è stata incaricata di ucciderti!”

Ancora questa parola, blofeld. Ho provato a cercarla su google, e mi è comparsa la faccia del tizio con la cicatrice sull’occhio. A quanto pareva blofeld non era una parola straniera, ma il suo nome: Hans Stavro Blofeld, capo di un’organizzazione malvagia chiamata Spectre snc che ha per obiettivo conquistare il mondo. Era iscritta al registro delle imprese di Dubai, dove godeva di importanti agevolazioni fiscali, quindi mi aspettava un altro viaggio dall’altra parte del mondo.

“Ti conviene andartene subito”, mi ha detto Hubert, “Per adesso sono riuscito ad allontanarla facendole credere che sei solo un innocuo idiota, ma se capisce che sei davvero un agente cercherà di eliminarti. Nessuno può avvicinarsi a Blof..” ed è stramazzato sulla sabbia, con la bocca piena di sangue.

La pistola nella mano dell’ombrellone fumava ancora. E adesso che si stava tirando fuori dalla sabbia potevo vedere chiaramente che aveva le gambe, e anche una faccia!

Non potevo essere così sfortunato! Chiunque si pizzica le dita col meccanismo dell’ombrellone, ma solo a me ne è capitato uno che cerca di uccidermi!

Sono corso via, ma devo avere preso la direzione sbagliata, perché la spiaggia è finita ed è cominciata l’acqua. Non potevo mica scappare a nuoto fino a Miami, non erano ancora passate tre ore da che avevo finito di mangiare.

Un gruppo di ragazzini stava spingendo in acqua un pedalò bianco e giallo, mi ci sono avventato contro e li ho spinti via, poi sono balzato sul potente mezzo di trasporto e ho pedalato verso la libertà, con una grinta che se non mi hanno fatto l’antidoping è solo perché a quell’ora faceva troppo caldo per mettersi ad assaggiare le urine di qualcuno. L’ombrellone assassino ha agguantato il pedalò accanto e si è gettato al mio inseguimento.

Il mio avversario non era un novellino, si vedeva da come prendeva le onde di punta e approfittava della fase discendente per garantirsi una maggiore propulsione, ma non mi aveva ancora preso. Anch’io conoscevo qualche trucchetto, ed era venuto il momento di tirarlo fuori.

“Aiutooo! Bagninooo!!”, mi sono messo a gridare.

Non ha funzionato, chiaramente gli ombrelloni assassini non rispondono alle stesse leggi degli esseri umani, e i bicipiti coperti di tatuaggi tribali degli omaccioni in maglietta non rappresentano alcun deterrente alla loro malvagità. Ha aumentato l’andatura e mi si è accostato, cercando di prendermi di mira con la sua pistola.

“Cos’è quello, uno squalo?”, gli ho gridato, indicando il mare alle sue spalle.

“Ma no, sarà un tonno”, mi ha risposto. “Ce ne sono un sacco da queste parti”.

Era scaltro, e stavo finendo i trucchi. Mi restava solo una cosa da fare, cercare di buttarlo fuoribordo con una manovra disperata. Ho puntato il pedalò verso una di quelle piattaforme dove gli adulti amano rilassarsi a prendere il sole, e i ragazzini fare i tuffi a bomba, ragione per cui sono quasi sempre piene di gente che litiga oppure vuote, e ho preso velocità. Il pedalò si è schiantato contro la piattaforma, e quello del mio inseguitore lo ha tamponato. Siamo stati catapultati entrambi fuori bordo, ma mentre io terminavo la mia corsa in mare, l’ombrellone è finito di testa sui sedili posteriori della mia barca. Ho nuotato agilmente verso la riva, mentre il proprietario dei pedalò sopraggiungeva a bordo di un motoscafo, pronto a consegnare alla giustizia il responsabile di quel macello.

Sono uscito dall’acqua asciutto, con l’abito stirato e i capelli pettinati, perché alla fine questa è pur sempre una storia di 007, e mi sono allontanato, alla ricerca di un barista meno stronzo e di un buon mojito.

Dieci minuti dopo ero di nuovo lo stesso uomo a pezzi dell’inizio di questa storia. Era ora di andarsene.

(continua)

La puntata precedente la potete leggere qui.

2.
Sei sette ore solo per trovare la porta del bagno in una stanza così grande che ti sembra di stare in terrazza, dico, l’appartamento dove vivo è più piccolo; poi un paio d’ore di doccia mi pare il minimo se ti mettono a disposizione l’idromassaggio, la sauna, le cremine purificanti a base di essenza di lacrime di panda, un foro nella parete ad altezza lombare che non ho capito bene a cosa servisse e la tazza autoriscaldante per rilassarti l’intestino con calma mentre giochi a Tetris (incluso in un tablet di ultima generazione lì accanto).

Quando sono sceso nella hall era praticamente ora di cena, le incombenze da agente segreto avrebbero dovuto aspettare.

La signorina alla reception non era la stessa di quando sono arrivato, questa era un po’ meno attraente, ma sempre nei termini della bellezza sfacciata che se mi prometti di venire a rimboccarmi le coperte dormo anche sul pavimento di fronte all’ascensore, e difatti quando, alla mia domanda su un ristorante nei paraggi, lei mi ha sorriso e ha indagato quali fossero le mie preferenze, invece di cucina locale ho risposto etero.

Senza smettere di sorridere, mi ha allungato un appunto, redatto a penna dalle sue dita eleganti. Non si capiva un cazzo. Senza smettere di sorridere mi ha spiegato che qualcuno aveva lasciato un messaggio per me, non riuscendo a raggiungermi al telefono in camera.

Ecco perché stava squillando il telefono! Credevo di avere di nuovo attivato l’allarme quando ho tirato la cordicella accanto al gabinetto.

Era un certo Leslie Chow, che mi invitava a raggiungerlo presso il casinò The Venetian, dove mi avrebbe passato certe informazioni interessanti.

Boh, vabbè, tanto non avevo nient’altro da fare. Ho chiesto a Ritz Carlton di chiamarmi un taxi e sono andato.

Il Venetian Casino è una pacchianata pazzesca di edifici che ricostruiscono un pezzo di Venezia, compreso il canale con le gondole, il ponte di Rialto e il campanile di San Marco. Enorme.

Un cameriere tiratissimo mi ha accompagnato al tavolo del poker, e mi ha indicato il mio ospite.

Era un asiatico bassetto, sulla quarantina, in pantaloni bianchi e giubbotto di pelle giallo, da cui spuntava una maglietta bianca. Nonostante fossimo al chiuso, sfoggiava un paio di grandi occhiali da sole. Ma chi sono io per giudicare una persona da come si veste, forse aveva appena smontato dal suo lavoro presso il Grissinificio Macao, e più tardi doveva raggiungere la cumpa a una festa a tema anni ’90. Di sicuro doveva farsi un sacco di lampade, perché aveva la stessa abbronzatura di mia sorella quando torna dalle vacanze.

“Mr.Delbruck, o forse dovrei chiamarla agente Pablon? La prego, si unisca a noi, sto giocando la mia partita fortunata, sarebbe un delitto interrompere, non crede?”

Con eleganza mi sono accomodato al tavolo e ho allungato i cinque euri al cameriere perché andasse a cambiarmeli in gettoni.

“Conosce già le regole?”, mi ha chiesto la croupiera. O si dice croupieressa? Croupier donna mi pare un po’ troppo rigido, poi qualcuno si offende ed è un attimo che finisco a fare compagnia a Harvey Weinstein nella lista dei cattivi di qualche organizzazione neofemminista, che di questi tempi il politicamente corretto ha preso il controllo dei centri di comunicazione e devi stare attento anche a dove metti le virgole. Siccome non avevo ancora cenato e mi stava venendo fame ho optato per croupiera, che mi ricorda il formaggio.

“Conosce già le regole?”, mi ha chiesto la croupiera.
“Certo, mi sono allenato per anni giocando a strip poker contro il computer, nella solitudine della mia cameretta”.

“Hahahaha!”, ha riso sonoramente un signore dalla pelle scura che aveva addosso più drappi colorati di un negozio di tendaggi.

“Hahahahahaha!”, ha riso ancora più sonoramente una signora magrissima e bellissima con degli occhi azzurro ghiaccio che l’hanno identificata immediatamente con lo stereotipo della miliardaria russa senz’anima con cui sarei dovuto finire a letto per poi rischiare di essere pugnalato col coltello da caviale durante l’amplesso ma che all’ultimo momento si innamora di me e mi rivela il nome del suo mandante per poi piantarsi il coltello nel cuore, sopraffatta dal dolore della propria gelida esistenza.

“Hahahahahahahaha!”, ha riso più sonoramente di tutti Mr.Chow, come si poteva capire dalla sequenza di haha. “Lei è un tipo simpatico, Mr.Pablon! Vediamo se è altrettanto bravo!”

La croupiera ci ha passato due carte ciascuno, e ne ha stese tre sul tavolo. “Principe T’Challa, è il suo turno”, ha detto al cosplayer di una tappezzeria. Lui ha allungato una manciata di gettoni davanti a sé, senza dire niente. Mr.Chow ha detto “call”, e ha allungato i suoi gettoni. La modella senza cuore ha detto “raise” e ha messo i suoi gettoni. Io visto che tutti mi guardavano ho ritenuto doveroso dire qualcosa, ma non sapevo bene cosa, così ho chiesto se si poteva avere qualcosa da sgranocchiare, e il cameriere che evidentemente stava in agguato alle mie spalle mi ha allungato una ciotola di arachidi. Vabbè, ma che barbonata, neanche due olive mi date? Forse avrei dovuto ordinare anche da mangiare, nei bar di Genova funziona così, se vuoi mangiare ordini da bere e dici “vorrei fare aperitivo”, e il cameriere torna sei sette volte al tavolo e ti porta qualunque cosa, da una cesta di focaccia a un piatto di pastasciutta. Tranne al Bar Fico Frontemare, dove la cameriera ti guarda e non capisce e poi ti porta lo stesso piattino di arachidi che mi sono trovato davanti quella sera. Solo che lei lo toglie dal tavolino di fianco, e devi scegliere solo le arachidi ancora asciutte, perché quelle umidine sono senza sale.

“Quindi?”, mi ha chiesto la croupiera.

“Si può avere un mojito?”, ho chiesto, e il cameriere appollaiato allo schienale della mia sedia mi ha detto che la menta era finita, spiacente. Ma se volevo poteva portarmi un vodka martini agitato e non mescolato, ne avevano appena ordinato uno al tavolo vicino, ma il cliente era appena stato freddato da un colpo di pistola col silenziatore.

“No vabbè, un succo di frutta all’ananas, per favore”.

Il resto del tavolo stava mostrando segni di impazienza, ho messo sul tavolo l’unico gettone che avevo e ho detto “all in”, come si dice in questi casi. Allora anche gli altri giocatori hanno messo i loro gettoni, e il centro del tavolo si è riempito con un gran mucchio di gettoni colorati che facevano allegria, ed erano così tanti che la croupiera ha dovuto spostare da una parte il centrino di pizzo della nonna e il vaso di fiori.

A turno abbiamo scoperto le carte, ed è venuto fuori che la combinazione migliore ce l’avevo io, anche se a me sembrava di no, perché che combinazione vuoi che ci esca con un re e una donna di cuori? Oltretutto nove, dieci e jack dello stesso seme le aveva la croupiera, avrebbe dovuto vincere lei, no?

Mi hanno dato un mucchio di pezzi di plastica, non ho detto niente per non metterli in imbarazzo, e me ne sono andato alla cassa a cambiarli.

“Solo un momento”, mi ha detto Mr.Chow, seguendomi.

Ah già, dovevo parlare con questo tizio. Se voleva offrirmi di comprare dei bitcoin gli avrei lasciato la mia email e gli avrei detto di parlare col mio filtro antispam, non avevo voglia di pipponi su investimenti sicuri prima di cena.

“Immagino che avrà fame”, mi ha detto, leggendomi nel pensiero. “Ho la macchina qui fuori, venga, l’accompagno nel migliore ristorante di Macao”.

Siamo entrati in una macchina sportiva così bassa che per raggiungere il sedile del passeggero ho sceso un paio di scalini, e siamo scappati via rombando.

“Carina, ne ho anch’io una simile”, ho mentito, per tirarmela.

Il ristorante doveva essere davvero esclusivo, perché siamo usciti dalla città e abbiamo preso uno sterrato.

“Ah è un agriturismo?”, ho chiesto.

“Hahahahahahahahahaha”, ha riso il signor Chow, poi ha fermato la macchina e mi ha puntato addosso una pistola.

“Perché la polizia inglese vuole Blofeld?”, mi ha chiesto.

“Scusa, non parlo cinese. Cos’è un blofeld? Dovrò cercarlo su google.”

“Muori, dannata spia!”, ha detto il signor Chow, ma l’ha detto in cinese e non l’ho capito, e poi proprio in quel momento mi sono ricordato di avere lasciato il cellulare in camera, e mi sono portato la mano alla fronte per far capire al mio ospite quanto sono distratto, nel linguaggio universale dei gesti che ha reso gli italiani così popolari nel mondo.

Gli ho urtato la mano che reggeva la pistola, e il parabrezza è esploso all’improvviso, entrambi gli airbag si sono gonfiati, il signor Chow ha perso la presa della pistola, e nel tentativo di riacchiapparla al volo se l’è fatta saltare fra le dita, finendo col premere il grilletto mentre la canna era rivolta verso la sua faccia.

Per fortuna l’airbag mi stava schiacciando contro il sedile, sennò mi sarei tutto impiastrato di sangue di signor Chow. C’era anche della roba nera che non voglio sapere cosa fosse perché mi viene già da vomitare così. Mi sono arrampicato fuori dalla macchina, ma dove vuoi andare, stavo in Cina in mezzo a una strada sterrata fuori dal centro abitato insieme a un morto seduto senza faccia dentro una macchina sportiva che prima di essere guidata di nuovo avrebbe avuto bisogno di una bella ripulita. E non avevo il cellulare.

Aspetta, lui magari ce l’aveva, mi sono detto. Ho girato intorno alla macchina e ho aperto la portiera del guidatore. Il corpo incastrato fra il sedile e l’airbag era così pieno di sangue e roba nera (non pensare al cervello sennò vomiti) che se anche avessi avuto il coraggio di tirarlo fuori (ma scherzi è tutto sporco di sangue cervello cervello oddio è cervello quello) mi sarebbe sgusciato dalle dita (cervello sulle maniii!!).

Mi sono appoggiato alla portiera aperta e mi sono vomitato le noccioline sulle scarpe. Per fortuna me ne avevano portate poche, magari sarebbe bastato sciacquarle.

Dopo mi sentivo meglio, ho tirato il giubbotto del signor Chow, che per fortuna era aperto, e ho infilato una mano nel taschino interno. C’era il suo cellulare, che per fortuna era dotato di sblocco tramite impronta, perché il riconoscimento facciale era da escludere.

Ho aperto il motore di ricerca Baidu e ho digitato “Salvatore Aranzulla come impostare lingua italiana su un telefono cinese”, poi ho chiamato un taxi e mi sono fatto recuperare un centinaio di metri più indietro dalla macchina.

Risolve davvero qualsiasi problema!

Già che mi trovavo in un Paese dove si paga tutto col cellulare ne ho approfittato e mi sono fatto portare al miglior ristorante della città, poi sono andato in un negozio di abbigliamento e mi sono rifatto il guardaroba, scegliendo solo gli abiti che costavano di più. Le scarpe le hanno buttate via, pare che non sarebbe bastato sciacquarle.

Più tardi sono tornato in hotel, e c’era ancora la signorina un po’ meno bellissima dell’altra, e stava ancora sorridendo. Ho cominciato a pensare che avesse una paresi.

Si è stupita di vedermi arrivare, ed è corsa al telefono, ma anch’io mi sarei stupito a vedere uno che qualche ora prima è uscito dal mio hotel vestito con la maglietta degli Snorky e adesso ritorna tirato come il più figo degli attori di Hollywood, sprizzando testosterone come la fontana di De Ferrari. Di certo si è precipitata a chiamare la sua migliore amica per dirle che nell’albergo dove lavora è appena entrato George Clooney, e quella le ha chiesto chi? E lei ha detto Qiáozhì Kèlǔní, e l’altra ha detto aah, George Clooney, che è il motivo per cui quando mia moglie mi nomina qualche attore americano io non ho mai idea di chi stia parlando.

In camera mi sono messo a studiare il telefono del fu signor Chow, per vedere se trovavo qualche giochino per passare la serata, dato che la tele trasmetteva solo canali cinesi e il mio telefono in Cina non aveva l’accesso a internet.

Non c’era niente, e nelle foto neanche qualche immagine di ragazze nude. Però ce n’era una del signor Chow insieme al tizio con la cicatrice sull’occhio. Erano su una spiaggia e si facevano un selfie davanti alle palme. Il signor Chow indossava una maglietta con scritto My super evil boss went to Nassau and all I got was this lousy t-shirt. Si vedeva sullo sfondo la prua di una barca che aveva scritto sulla chiglia Bagni Miramare – Salvataggio.

Ho telefonato alla signorina della reception e le ho chiesto di chiamarmi un taxi, dovevo prendere il primo volo per Nassau. Mi ha risposto sorridendo.

(continua)