Andy Warhol ci aveva quasi preso

Io se dovessi scegliere per cosa vorrei essere ricordato mi verrebbe naturale rispondere “per avere esteso i confini del Sacro Romano Impero fin quasi in Cina, ma siccome non sono credente lo avrei chiamato solo Romano Impero, ma siccome non sono neanche romano l’avrei chiamato solo Impero, ma siccome la fama di imperatore si accompagna sempre a un mucchio di sofferenza imposta, e imporre sofferenza non è nel mio carattere, a Impero vorrei sostituire una parola meno impegnativa, tipo Territorio”, ma così non vuol dire un cazzo, perché uno dovrebbe essere ricordato per avere creato del territorio? Il territorio c’era anche senza di lui, e quindi se dovessi essere ricordato per qualcosa mi toccherebbe buttarmi su una cosa banale come la musica.

Ochei, non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, ma se dovessi essere ricordato per qualcosa dopo la mia scomparsa vorrei che fosse per avere avuto un’intensa e talentuosa carriera musicale, fatta di singoli che hanno scalato le classifiche e si sono imposti nella cultura popolare, sia i lenti che centinaia di chitarristi amatoriali hanno suonato smargiassi in spiaggia per rimorchiare le villeggianti, sia quelli più pompati che hanno raccolto il favore dei rocchettari. Vorrei che le mie canzoni fossero diventate la bandiera di una generazione ma che piacessero anche a quella successiva, e che i miei concerti fossero stati pieni di vecchi e ragazzini come in un documentario sui pedofili. Vorrei avere ricevuto l’onore della copertina su Rolling Stone, Buscadero e Cioè, ma anche su Vogue dove ad un certo punto avrei rilasciato un’intervista in cui accennavo alla mia armocromista e triggeravo tutta la politica nazionale, perché in Italia solo due cose scatenano il dibattito collettivo: toccare i soldi ai ricchi e le cazzate.

Vorrei che la mia carriera mi avesse portato a suonare nei più grandi templi della musica internazionale, alla Fenice di Venezia, al Madison Square Garden di New York, a Hyde Park a Londra, e ad un certo punto anche alla sagra della patata di Montoggio, perché una volta sul palco di quella manifestazione così snobbata dal mainstream ci ho visto esibirsi Mario Tessuto così ubriaco che a momenti cade, e per me quello è quando hai raggiunto la consacrazione definitiva e sei così popolare da aver fatto il giro, te ne puoi sbattere il cazzo, ogni posto è lo stesso, sobrio o no è lo stesso, hai vinto, sei immortale.

E a quel punto vorrei che i concerti e i dischi e le interviste e le collaborazioni mi riempissero la vita, e mi appagassero tanto da farmi decidere di prendermi una pausa, e dopo la pubblicazione del mio ultimo album, naturalmente vendutissimo, dichiarerei che non andrò in tour, magari non subito, e mi ritirerei timidamente dalla scena, e all’inizio nessuno ci farebbe caso, ma poi gli anni passerebbero e qualcuno comincerebbe a notare che è da un po’ che non rilascio interviste, e qualche rivista scriverebbe un articolo intitolato “ma dov’è finito?” e comincerebbero a circolare notizie false, tipo che sono morto e sono stato sostituito da un sosia, ma il sosia è Mario Tessuto, oppure che mi sono messo a produrre vino nella mia tenuta di campagna, o che mi ha preso la demenza e sono diventato consigliere comunale della Lega. Tutti si chiederebbero dove sono finito e cosa sto facendo, e ogni tanto qualche curioso verrebbe a cercarmi nella mia casa di campagna in un posto segreto e isolato, ma non così segreto perché non avrei comunque perso l’abitudine di andare a fare la spesa in paese, e la gente si sa, parla, e quindi alla fine qualcuno che sa dove cercare saprebbe trovarmi e verrebbe a chiedermi se gli rilascio un’intervista e io, gentile ma deciso, lo allontanerei dicendo che negli ultimi anni non mi sono dedicato a rilasciare interviste ma mi sono specializzato nel tiro con l’arco e non so se si capisce la vaga minaccia fra le righe, e il giornalista la capirebbe e mi saluterebbe con cortesia e un po’ di timore e non si presenterebbe più e io me ne starei tranquillo per un altro po’ di anni, ma il tarlo dell’artista non mi lascerebbe riposare e continuerebbe a scavare i suoi cunicoli dentro il mio animo tormentato, e alla fine, come un tavolo antico si presenta tutto bello lucidato nel negozio dell’antiquario, anch’io emergerei dal mio esilio con un disco nuovo, uscito un giorno nelle vetrine di quei pochi negozi ancora aperti e su tutte le piattaforme di streaming; un disco tutto intero, senza singoli ad anticiparne la pubblicazione, senza annunci, senza video; un disco che un giorno te lo trovi davanti e magari non lo noti neanche, in mezzo agli altri, ma in copertina c’è il mio nome e sotto il nome c’è la mia faccia con la solita espressione malandrina che tanti cuori ha saputo conquistare, e allora ti fermi e dici “possibile?” e te lo compri oppure lo ascolti su Spotify, fai un po’ come ti pare, ma è vero, sono proprio io, è un disco nuovo, ed è bellissimo.

Il mio nuovo lavoro verrebbe salutato dai fans con calore, e dalla stampa con un certo scetticismo, e dai miei nuovi colleghi che nel frattempo avrebbero scalato le classifiche con un “ma chi cazzo è questo?”, ma dopo un paio di settimane comincerebbero a uscire recensioni entusiaste perché pochi cazzi, il disco sarebbe un autentico capolavoro, e mi chiederebbero tutti se seguirà un tour, e io direi mm non lo so, farei il vago, ma poi a sorpresa prenderei il mio pulmino e radunerei i vecchi amici della band e faremmo un giro clandestino per locali sgangherati e circoli di pensionati e giardini pubblici di piccoli paesi e varie realtà in cui si pratica il volontariato, senza annunciarci, tipo che tu vai lì una sera a bere una birra con gli amici e ci trovi il concerto di uno degli artisti più celebrati del momento e te lo guardi a babbo perché non farei neanche pagare il biglietto, è ovvio, al limite un’offerta volontaria che comunque devolverei in beneficienza perché non ho certo bisogno di soldi, che una delle cose che si direbbero spesso di me nell’ambiente sarebbe quanto sono generoso.

Poi dopo qualche data così rilascerei finalmente un’intervista, ma solo al mio giornale preferito, perché sarei generoso ma anche parecchio snob, e i giornali che negli anni hanno diffuso notizie non verificate o fatto sensazionalismo o pubblicato articoli che puntavano sullo scandalo o sulla facile emotività e quindi praticamente il 90% della stampa italiana, io quei giornali lì li boicotterei e a loro la mia intervista esclusiva non gliela rilascerei, e andrei invece nella redazione del Post e mi farei intervistare da uno dei giornalisti che lavorano lì, sperando che fosse Luca Misculin invece di Matteo Bordone, perché anche se è più preparato per quel genere di articoli ed è molto simpatico ha quest’atteggiamento un po’ tanto presuntuoso che certe volte lo mena, e poi le vocine che fa mi stanno tutte sul cazzo. L’importante è che non mi intervisti mi chiamo Stefano Nazzi e faccio il giornalista da tanti anni e nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa, perché vorrebbe dire che sono morto male oppure che sono un ultras con dei legami con la camorra.

Comunque ad un certo punto dell’intervista mi chiederebbero come ho fatto a diventare un musicista così celebrato, considerato che non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, e io davvero non saprei cosa rispondere, e tutta la mia carriera finirebbe in quel momento, perché di fronte a una domanda così personale tutti si risveglierebbero da quella specie di sogno collettivo in cui erano finiti, e riascolterebbero i miei dischi e si renderebbero conto che sono suonati male e cantati peggio, che i testi sono imbarazzanti, che non c’è un virtuosismo, non c’è un’idea originale e che tutte le canzoni sono fatte sullo stesso giro di accordi sol, mi minore e re, che non è neanche un giro giusto, ma sono gli unici che mi vengono decentemente, e in un attimo tutta la mia discografia comprese le edizioni limitate con la copertina metallizzata speciale Lucca Comics finirebbero in piazza Banchi nella cassetta dei dischi a 2 euro, e nessuno verrebbe più ai miei concerti, nessuno vorrebbe ammettere di essere stato mio amico, di avere suonato con me, neanche Peter Gabriel vorrebbe ricordare di avermi arrangiato un pezzo, la mia casa discografica mi straccerebbe il contratto, e perfino i giornali di destra che fino a ieri mi demonizzavano volentieri mi ignorerebbero, perché di me come artista non fregherebbe più niente a nessuno, e sull’indifferenza non attacca neanche l’odio.

Passerei altri vent’anni nel più totale anonimato, ma comunque ricchissimo perché i dischi me li avevano comunque pagati coi soldi veri, mica con delle cambiali, a girare il mondo e grattarmi la pancia, finché un giorno un sito di musica piuttosto conosciuto che oggi non esiste ancora ma che potrebbe essere Pitchfork pubblicherebbe un articolo che parla di me, dove verrei definito il più grande troll della storia della musica.

L’articolo accenderebbe un dibattito, i lettori si dividerebbero fra chi mi considera un genio troppo in anticipo sulle mode del tempo per essere compreso, un prodotto non tanto diverso da certi artisti indie, e chi mi liquida come un truffatore incapace inascoltabile e comunque a me non è mai piaciuto perché io ascolto solo i King Crimson. Altri giornalisti comincerebbero a occuparsi di me al di fuori dell’ambito musicale, prenderebbero in considerazione la mia indiscutibile capacità comunicativa, che mi ha reso capace di prevalere su colleghi ben più talentuosi, e la fama di truffatore verrebbe ripulita della sua patina negativa, come spesso succede a chi si rende famoso per qualche colpo milionario.

I truffatori sono sempre accettati dall’opinione pubblica, per la loro abilità di guadagnare alle spalle degli ingenui. Siamo sempre portati a stare dalla loro parte perché a nessuno piace schierarsi con chi si fa fregare; oltretutto, spesso, le vittime di una truffa ci sono cascate pensando di guadagnare giocando sporco, infrangendo a loro volta le regole, quindi il truffatore diventa, ai nostri occhi, una specie di Robin Hood.

Sarebbe quella la trasformazione che il mio personaggio subirebbe agli occhi del pubblico, da viscido manipolatore a simpatico eroe popolare, e dopo un po’ arriverebbero i produttori di Netflix a chiedermi il permesso di girare un documentario sulla mia storia. I miei dischi tornerebbero a vendere, non più per la loro qualità, ma come oggetto di culto, come succede oggi ai film di Ed Wood e ai film con Bombolo, ma lentamente quelle canzoni sgangherate verrebbero ascoltate con una consapevolezza diversa, e apprezzate per ciò che sono realmente, e finirebbero per lanciare una tendenza. Comincerebbero a nascere artisti che si ispirano al mio stile e, come Anna Slezáková è ricordata per avere inventato la polka, finirei per essere ricordato come il creatore di un genere musicale, che chiamerei pabloni sbagliato perché è buffo, ma che col tempo tutti definirebbero col nome che gli avrebbero appioppato gli americani, l’awful.

È così che vorrei essere ricordato, come il più grande troll della storia e l’inventore di un genere musicale. Mi sembra una richiesta tutto sommato umile, ma se neanche questa piccola soddisfazione mi è dovuta allora permettetemi almeno di sparare a un presidente. Me ne basta uno qualsiasi, anche piccolo. Non serve che sia un capo di stato, mi va bene anche il presidente di una proloco, basta che mi garantisca la fama sempiterna a cui ambisco. In un mondo in cui essere famosi per 15 minuti è diventata una condanna, volerlo essere per sempre diventa la sua naturale conseguenza.

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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