Mizar stava seduta sul letto, la schiena appoggiata al muro. Indossava soltanto un maglione dal collo largo, che le scopriva una spalla. Aveva gambe lunghe e dritte, distese sopra il vecchio piumone a righe. Mi osservava compiaciuta, in attesa che mi occupassi di quei pochi indumenti che ancora non erano finiti sul pavimento.

Io non riuscivo a muovermi, stavo imbambolato a fissarmi l’immagine di lei in testa. Non l’avevo mai vista così bella come in quel momento, i lunghi riccioli sciolti sulle spalle, irradiava sensualità. Avrei voluto correre a prendere la macchina fotografica, ma qualunque gesto avessi compiuto avrebbe spezzato quell’istante di perfezione. Potevo solo stare lì e fissarla.
Era come se sapessi che quello era l’apice della nostra relazione e non si sarebbe ripetuto, e volessi imprimerlo nella memoria.

È andata così. Ho un cassetto pieno di ricordi bellissimi di lei, ma è solo quella la foto che conservo attaccata al muro.

Di poche persone trattengo ricordi così vividi, sono uno che scorda facilmente le facce, gli odori neanche li sento.
Una volta ho scambiato una ragazza che conoscevo pochissimo con una mia compagna di scuola che non vedevo da anni, solo perché stavamo sotto casa sua: ho visto un volto familiare, ho associato il posto e ho pensato che doveva essere lei. Non avevo più idea di che faccia avesse, neanche la più remota immagine, il colore dei capelli, niente. Rimossa. Quando ho finalmente incontrato la mia compagna mi si è riaperto il cassetto delle immagini che custodivo di lei, e mi sono domandato come avessi potuto commettere un errore così madornale, quelle due si somigliavano come un pinguino e un elicottero.
E ci ho fatto pure una figura di merda, perché erano amiche e la prima l’ha subito raccontato alla seconda.

Ho una pessima memoria che conserva ogni informazione in una stanza, e se non riesco a trovare la chiave non entro. Poi non è neanche detto che ci trovi tutto quello che mi serve, spesso la stanza è vuota, c’è un numero di telefono sul pavimento e nessun nome a cui associarlo, ma capita che una volta dentro ogni tassello vada a posto e scopra di sapere tutto quello che mi serve fin nei minimi particolari. Per questo mi affido tanto alle sensazioni, mi si mescola tutto in una nebbia calda, che offusca la realtà e mi fa vivere in un mondo slegato, dove ricordo benissimo la sua voce al telefono mentre sto tornando da lezione, ricordo dov’ero, cosa vedevo dal finestrino, e per niente il volto di lei. Tanto che potrei averla incontrata, i giorni scorsi, senza riconoscerla. Non sono immaturo, sono miope.

Tornare nella città di Mizar mi fa sempre sentire come il barbone sul marciapiede che si copre coi giornali, non mi scalda davvero, ma l’illusione del calore un po’ aiuta.
Mi sono ritrovato a gironzolare senza meta agganciando qualche ricordo, il negozio del cinese dove avevo comprato uno stupido quaderno con la Tour Eiffel in copertina e la scritta London (a cinè, una cosa dovevi fare), la libreria col libro sui cavalli famosi morti correndo (pare che esista una categoria apposita di scommesse che pagano un casino se il cavallo muore durante la gara, tipo uno a un milione e mezzo), l’angolo dove i ragazzini molesti ci avevano sfottuto perché compravamo dei preservativi invece di dedicarci come loro al sano trenino delle seghe, l’arco in mattoni, il portone che si affaccia sul suo giardino, la finestra della camera.
Non c’è più il suo nome sul campanello. Lo sapevo, altrimenti non ci sarei venuto, non mi piace passare per stalker.
E poi non è una ricerca, sto solo riascoltando un vecchio disco: arriverò all’ultima traccia (Mr. P.C.), e lo metterò via.

È il momento di tornare, ho un paio di dibattiti da seguire e le persone col programmino giallo del festival in mano mi spingono ad accelerare il passo.
So già che verrò via con l’impressione di una vita sfiorata, come se stessi fuori da una casa a guardare il me stesso appagato e felice che si gode il risultato di tutte le scelte dove io invece ho preso la via più facile. E piovesse pure.
Lo so, e forse quest’indugiare sui miei passi non è un tentativo di lucidare ricordi che si impolverano, ma qualcosa di più simile al rimpianto.
So anche che è un momento passeggero, ogni strada che prendi ti porta da qualche parte, e dappertutto trovi qualcosa di prezioso da metterti in tasca.

E poi quella ragazza in bicicletta che ho incrociato nella folla non poteva essere Mizar, lei è molto più carina.

Il suo nome non era Ettore Majorana, ma lo diventò quando scomparve.
Oddio, scomparve. Non è che si smaterializzò in un fascio di luce extraterrestre, immagino che abbia continuato a guardarsi nello specchio del bagno come faceva prima; la sparizione è un concetto transitivo che colpisce tutte le persone tranne quella che ne è vittima.

Per me la scomparsa di Majorana avvenne il 2 febbraio, martedì grasso.

Volevamo andare a un ballo mascherato, ma non eravamo riusciti a metterci d’accordo sull’abito, io volevo vestirmi da tassista romano che porta la sua cliente all’ospedale, lei da Napoleone a cavallo che valica il San Bernardo, e pretendeva che io andassi in giro con una fiaschetta di liquore appesa al collo e lei arrampicata addosso. Non ci sarebbe stato niente di male, l’idea di averla appiccicata alla schiena mi faceva sorridere in quel modo scemo che tutti vorremmo durasse per sempre, ma secondo te vado in giro con una fiaschetta piena di alcool e non me la ingoio intera? Era irrealizzabile.

L’unica festa dove potevi entrare senza costume era quella dell’Opus Dei, dove l’unica regola era non divertirsi troppo, se ti beccano sono trenta padrenostri e passare il resto della serata con un limone in bocca.

“Mi faranno entrare vestita così?”

Indossava un maglioncino a collo alto, una gonna che non arrivava al ginocchio e un paio di stivaletti che si fermavano parecchio più in basso. Le sue gambe invitavano al peccato.

“No, ma mi darà un’ottima scusa per trascinarti a casa e far piangere Gesù”

Il suo hmm malizioso mi fiorì la testa di immagini che sono sicuro che ci siamo capiti.

Poi eravamo dentro. La fila per il bagno si incrociava con quella del bar, ma riuscivano a separarsi prima di rovinare la brocca della sangria. I tavolini erano coperti da pizzi a forma di croce, su ognuno era posata una copia del Vangelo e un bel rametto di gigli.

Sul palco in fondo alla sala quattro suore svisavano di brutto le hit di Fra Cionfoli, e proprio non riuscivi a stare seduto: la pista era piena di coppie che si stringevano voluttuosamente la mano, l’aria vibrava di elettricità e voglia di lasciarsi andare, sentivi che sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa.

Dopo due ore non era successo niente. Le hit di Fra Cionfoli avevano lasciato il posto alle consuete nenie, e per sfuggire all’ennesima riproposta di Camminerò mi trascinai al bar a prendere due succhi di frutta, che della sangria continuavo a non fidarmi, e tanto era analcolica pure lei. Nel mio bicchiere feci mettere del ghiaccio per sentirmi trasgressivo.

Quando tornai al tavolo Majorana non c’era più, era sparita la sua giacca e la sua borsetta. Non era sulla pista, non era nel bagno degli uomini. In quello delle donne non mi lasciarono entrare, ma non vedevo ragioni per cui avrebbe dovuto trovarsi lì: le donne e gli alpinisti fanno la pipì in cordata, e lei era entrata alla festa senza accompagnatrici, non raggiungeva il quorum.

Per rendere più enfatico il mio dolore per la scomparsa di Majorana racconterò al rallentatore la scena che seguì.

Salita leeenta di mani che arpionano una faccia.
Bocca che si apre sulla lettera o.
Cielo che si tinge di onde gialle e rosse.
Lettera di diffida dall’avvocato della famiglia Munch.
Messaggi di stima dalla curva della Roma.
“Nnnuoooooohh! Mmuaaaaaiuooooruaaaaaanaaaaaaa!”

Più tardi, a casa, Gesù lo feci piangere da solo.

Nei giorni che seguirono la chiamai al cellulare, le scrissi lettere, spedii messi a cavallo fino al suo villaggio ai confini dell’impero, poi bruciai le sue lettere per inviarle segnali di fumo, pugnalai le sue foto perché dalle ferite che avrebbero dovuto aprirsi sul suo petto potesse ricavare una specie di codice morse, banchettai coi suoi capelli che ancora trovavo sul cuscino, ma quello perché il raffreddore mi costringeva a dormire con la bocca spalancata.
Poi smisi di cercarla.

Ripensavo ai momenti trascorsi insieme e a quelli che li avevano preceduti, quando eravamo solo due che si divertivano a raccontarsi idiozie, e pensai che in fondo saremmo potuti tornare a quell’amicizia disinteressata, non è che due perché finiscono a letto non si devono parlare più. Solo che lei si disinteressava alla mia amicizia disinteressata: si recava a Napoli, saliva su traghetti alla volta di Palermo e scompariva. Chi dice di averla vista in Argentina cavalcare nella pampa, chi ha sentito il suo canto salire dal fondo del Tirreno ma non capiva che canzone fosse neanche usando Shazam, chi la vede tutti i giorni e la sa felice. Ogni tanto vedo la sua faccia spuntare nella rete, mi verrebbe da dire ciao come va, ma so la distanza dalle relazioni finite, va innaffiata tutti i giorni sennò appassisce ed è un attimo ritrovarsele davanti al portone con la mano tesa a chiederti indietro un libro o un po’ di sesso, e hai un bel dire che non sei così e vorresti solo. Cosa? Vorresti solo salutare, sapere come sta, cosa fa. Certo. Solo che volere solo è già volere, Io Voglio. Da una parte ci sei tu che vuoi e dall’altra qualcuno che ha deciso di non vederti più, cui non interessa neanche sapere come stai.

Lasciamo perdere, le cose prive di equilibrio sono destinate a cadere per terra. E poi non è un caso che Ettore Majorana abbia collaborato con Werner Heisenberg, il cui principio di indeterminazione ci ricorda grossomodo che, quando due grandezze fisiche non possono essere misurate entrambe nello stesso momento, sono dette incompatibili.
Resta una manciata di ricordi e una tendenza al magone, più per la freddezza del dopo che per la fine del durante. Restano delle perplessità che sono come tarli annidati nelle vecchie fotografie.

Non resta altro.

Quest'anno mi è successa una cosa strana, forse per l'inquinamento, forse perché sono un cazzaro, fatto sta che il mio compleanno si è spalmato per tutto il mese di gennaio. Gli auguri dagli amici sono arrivati puntuali, sebbene a scaglioni, e c'è anche chi me li ha fatti più volte, forte del motto "è sempre il momento giusto per fare gli auguri a Pablo!".
Ora però capita che il mio compleanno arrivi veramente, e la mia gioiosa fidanzata mi sta tormentando perché scriva una wishlist.
Non ho capito bene cosa dovrebbe farsene, ma mi spiace contraddirla, perciò mi sono sbattuto e ho tirato fuori quella che ritengo essere l'unica lista possibile di Wish, salvo omonimie a me sconosciute.

Wish (track)list:

  1. Open (6:51)
  2. High (3:37)
  3. Apart (6:38)
  4. From the Edge of the Deep Green Sea (7:45)
  5. Wendy Time (5:13)
  6. Doing the Unstuck (4:25)
  7. Friday I'm in Love (3:38)
  8. Trust (5:33)
  9. A Letter to Elise (5:14)
  10. Cut (5:56)
  11. To Wish Impossible Things (4:44)
  12. End (6:47)

Mi ha fattto piacere buttarla giù, anche se ci è voluto solo un pugno di secondi, giusto il tempo di copiaincollare da wikipedia, perché anche se è un po' che non lo ascolto Wish rimane uno dei miei dischi preferiti.
Mi ricordo quando un amico mi fece la cassetta, era la primavera del 1992, Telecittà ospitava sulle proprie frequenze il primo embrione di mtv, pieno di veejay ambigui come Paul King o ambigui e ciccioni come Steve Blame, e le conduttrici bionde, come dimenticare Rebecca De Ruvo? O quell'altra, quella che non mi ricordo il nome..
Per me fu la rivoluzione, passavo i pomeriggi a guardare i video dei miei gruppi preferiti, e scoprivo che c'erano un sacco di gruppi da aggiungere ai miei preferiti, musicisti che non avevo mai sentito nominare e che avrei dimenticato dopo un paio di settimane!

Però capitava anche quella volta in cui il singolo del gruppetto sconosciuto restava in testa un po' più a lungo..

“L'hai visto il video di quel gruppo nuovo su mtv?”, mi chiede Paolo.
“Quale?”
“Non mi ricordo come si chiamano, ma è una figata, c'è il gruppo che suona, le ballerine coi ponpon e la A di anarchia disegnata sul vestito. Picchiano di brutto!”
“No, non mi sembra. Un gruppo nuovo hai detto?”
“Si, un nome tipo.. paradiso..”

La canzone si chiamava Smells Like Teen Spirits, il gruppetto sconosciuto aveva Kurt Cobain alla voce e io avevo tutte le possibilità del mondo in mano e nessuna voglia di sceglierle.

 

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La seconda parte della vacanza comincia alla piazza Charles De Gaulle, quando esci dalla metropolitana e ti trovi di fronte all'Arco di Trionfo.

 

 

È una bella abitudine questa dei parigini, di costruire i monumenti proprio all'uscita delle metro, che arrivi in cima alle scale e ci resti basito, come gli avventori al bar di Amèlie.

Che poi a me l'arcdetrionf neanche piace, così napoleonico, aquile dappertutto foglie fasci edere gentechesinchina, è più fascista dell'architettura fascista, che quella un po' mi piace, così squadrata e priva di gusto da finire per essere la caricatura di uno stile, o forse è perché mi ricorda gli sfondi dei fumetti di Krazy Kat.

Veniamo giù per gli Champs Elysèes con la ferma intenzione di visitare le Galeries Lafayettes prima di entrare al Louvre, che Marzia se non vede due scarpe non quieta.

Eccoci all'Elysèe, non c'è traccia dei grandi magazzini né di Carlà, proviamo ad andare avanti.

Questo è il Grand Palais, dove è allestita la mostra di Monet di cui sono andati esauriti i biglietti appena è cominciata. E i Lafayettes? Saranno dopo.

Ecco il Petit Palais, che i marinai considerano molto più importante del fratello maggiore perché una delle stelle che lo compongono indica sempre il nord. Ma i grandi magazzini non ci sono. E si vede che sono più avanti.

Ed eccoci in Place De La Concorde, e di gallerie lafaiette neanche l'ombra,nè di Carlà, né delle sue scarpe. Marzia è inferocita, ha appena scoperto sulla mappa che si trovano tutti in Boulevard Haussmann, a due passi dall'Opèra, c'eravamo ieri, stronzo!Vorrebbe farmi ripercorrere gli Sciampi di Elisa a calci in culo fino all'Etoile, ma ha male a un piede e c'è da visitare il Louvre.

Il Louvre in breve è impossibile, ma ci si prova. Intanto salti la coda facendo il biglietto alla FNAC, ed è più di un'ora risparmiata. Poi decidi che non vedrai alcune sezioni, fa male ma è necessario. Ho visto uomini più forti di me smarrire la ragione e aggirarsi per la Grande Galerie alla ricerca di un tabacchino, un altro ha aspettato tanto di trovarsi al cospetto della Gioconda che per sopravvivere si è mangiato i figli e poi si è venduto i loro iPod, e voi state ancora al Conte Ugolino.

Del Louvre mi è piaciuto:

  • la risata della signorina al ristorante quando mi ha elencato i contorni: “riz, frites..” e le ho risposto preparatissimo: “Oui, riz frite est parfait!”;

  • l'emozione di trovarmi da solo di fronte a un capolavoro assoluto: Fulmine Divino Contro Il Terribile Uomo Talpa;

  • le scale per accedere ai piani superiori, da cui un tempo scendevano donne dalle gonne ampie e la pelle d'oca, che riscaldare un palazzo di quelle dimensioni non era impresa da poco;

  • la ressa pazzesca davanti alla Gioconda non mi è piaciuta, ma mi ha permesso di godermi un paio di quadri nella stessa stanza senza turisti a sgomitarsi la prima fila, quindi alla fine mi è piaciuta anche lei;

  • le due tele di Gericault e Delacroix, la Zattera della Medusa e soprattutto La Libertà Che Guida Il Popolo, una accanto all'altra per ragioni che la mia professoressa di arte saprebbe spiegare meglio di me, io mi limito a starci davanti e sospirare;

  • la competenza della mia guida, di fronte alla quale ho saputo solo mostrare le mie doti di cazzaro descrivendo “Gesù Alza Le Mani Su Un Tizio”, che fra l'altro non è neanche mia;

  • la vetrina con le armature dei gladiatori, che mi hanno riportato ai fumetti di Asterix, e voi tenetevi pure Bisteccone Rasselcrò;

  • la cortesia della signora che mi ha ricordato che per usare il cavalletto occorre un'autorizzazione apposita. Ochei, però erano già due ore che me lo portavo appresso per le sale e almeno dieci minuti che stavo lì a misurare le distanze fra me e la Venere di Milo, avrei avuto tutto il tempo di andare là e staccarle la testa, mi pare che il Louvre in quanto a misure di sicurezza lasci un po' a desiderare.
    Ti controllano all'ingresso, neanche troppo, giusto lo zaino nello scanner come all'aeroporto, ma se hai dell'acquaragia nella bottiglia d'acqua non gli frega, e intanto dentro l'unica opera davvero sorvegliata è la Gioconda, se volessi buttare giù a spallate il Codice di Hammurabi non so se riuscirebbero ad impedirmelo. Si vede che i vandali di solito ambiscono solo all'eccellenza.

Del Louvre non mi è piaciuto:

  • la gente che fa le foto col flash sbattendosene dei divieti. Le tele si deteriorano, e siccome le tele esposte sono di tutti sono un po' anche mie, ed è quindi normale che ogni volta mi venga voglia di ficcarla in gola al proprietario, la macchina fotografica;

  • quelli che si mettono in posa davanti alle opere. Li schifo in generale, ma specialmente le donne, che si mettono di tre quarti e fanno la faccia maliziosa, sfoggiano sorrisi sornioni come se ti mostrassero il completino sexy appena comprato a Pigalle, mentre alle loro spalle accade di tutto: Giuditta decapita Oloferne, eserciti si sbudellano, crollano imperi, si versano fiumi di sangue, si compiono tragedie inenarrabili, e loro sempre lì, con l'espressione più ambigua che sanno inventare.
    Sono dappertutto, al cimitero appoggiate alla tomba di Baudelaire, al museo davanti a Marat assassinato nella vasca, agli Invalides sotto il sarcofago di Napoleone, sono sempre presenti e cercano sempre di sedurre il fotografo. Si vede che lui si eccita solo così.

  • Ma anche quelli che non ci si mettono, in posa, e stanno così, amorfi, le braccia lungo i fianchi e la faccia inespressiva, e ricordano certi pescioni tenuti per la branchia dal pescatore sorridente davanti all'obiettivo.
    Anche loro sono stati pescati, in un certo senso. Il quadro è il pescatore col cappello verde pieno di ami, che sorride al fotografo, e loro non possono che starsene appesi a bocca aperta e occhio vitreo, al limite domandare alla fine “com'è venuta?”.


Il simbolo di Parigi ce lo siamo tenuto per ultimo.

Spassky consiglia di scendere al Trocadero e svoltare l'angolo per trovarsela di fronte tutta in una volta, bellissima e orribile e bellissima.

Anche la prima volta mio padre mi fece fare lo stesso percorso, e anche allora era una mattina appena dopo la pioggia. Ho svoltato l'angolo e sono piombato in un ricordo vecchio venticinque anni, solo che stavolta da Dante sono diventato Virgilio.

Spassky consiglia anche di portarsi in vacanza una compagna di viaggio che non soffra di vertigini, perché se per salire in ascensore bisogna farsi ore di coda è possibile affrontare le scale a chiocciola senza alcuna attesa, ma solo con qualcuno che non tema le altezze.
Già che ci siete ricordatevi di portare con voi antiinfiammatori e analgesici, che a camminare tanto si rischia la tendinite, ma non mi lamento, abbiamo fatto più strada dei fanti in Russia, un'altra avrebbe ceduto e sarebbe tornata in albergo.

L'Hotel des Invalides da solo non vale il biglietto d'ingresso, che se Napoleone aveva manie di grandezza mica da ridere Luigi XIV ne aveva il doppio, e se non ti interessa visitare il Musèe de l'Armèe (notevole, peraltro) finisci per pagare il biglietto solo per la tomba di Napoleone, un grosso muffin pettinato come il cugino fortunato di Paperino, o la testa di Betty Boop, e una volta che sei entrato e l'hai vista e hai notato la ragazza che ci sta in posa davanti con l'espressione sorniona non c'è più molto da fare. Resti lì dieci minuti, ti guardi il plastico dell'edificio, scendi nella cripta per riguardarla da sotto, noti un'altra ragazza in posa languida, al limite ti siedi e ascolti quel continuo rimbombo che arriva da qualche parte lì intorno e ti chiedi cosa sia. Booom! Booom! Sembrano salve di cannone, sarà mezzogiorno? Booom! Booom! Continuano, irregolari, forse è una sezione del museo lì accanto che proietta dei filmati, o qualcosa del genere.

Quando stai per uscire fermati un attimo all'ingresso e svelerai il mistero: è la porta a molla, quando si chiude sbatte, e il rimbombo viene amplificato dalla cupola della cappella. Suggestivo.

Da lì alla Gare d'Orsay non ci vuole molto, si fa tranquillamente a piedi, e si arriva al museo degli impressionisti dal retro, dove si trova un chiosco di giornali. Vende anche i biglietti d'ingresso senza sovrapprezzo, solo che non lo sa nessuno, ma non nessuno tipo che ci trovi una decina di turisti, nessuno tipo nessuno, tipo che arrivi e c'è lui che sbadiglia, e tu ti paghi i tuoi otto euri ed entri davanti al guardaroba, saltando la biscia chilometrica di persone che aspettano fuori al freddo.

Dal museo degli impressionisti usciamo scarsamente impressionati, tutto Monet è stato spostato al Grand Palais per una mostra di cui non si trovano biglietti da due anni prima dell'apertura, e anche gli altri capolavori sono sparsi per tutto il mondo. Vale comunque una visita, ma è un museo zoppo, ce lo giriamo in un'ora e mezza e abbiamo ancora il tempo di andare a fare shopping nei dintorni dell'hotel.

Due tre recensioni che neanche la Lonliplène:

HOTEL DU MOULIN: Piccolo albergo gestito da una famiglia di coreani, serve essenzialmente clienti di quella parte di mondo, tanto che le indicazioni nelle camere sono scritte in francese e in ideogrammi. Se siete di poche pretese il posto è molto pulito e il personale gentile, e Rue des Abbesses è una base fantastica per girare la città, con due fermate della metro a disposizione, o per rilassarsi fra brasseries e negozietti. È una strada frequentata più che altro da parigini, senza l'invasione di turisti e botteghe di souvenirs che trovate appena più in alto, nei pressi della Basilique du Sacre Coeur, o di sexy shop e locali ambigui che stanno appena sotto, in Boulevard de Clichy, in piena Pigalle.

L'unico neo dell'hotel è la temperatura delle camere, sempre che non vi disturbi svegliarvi di notte con le lenzuola che fumano.

Dopo alcuni giorni realizziamo che i servizi offerti dall'albergo non si discostano dall'essenziale: il personale non ha adattatori per la corrente (le prese francesi non hanno il terzo foro centrale), se ti senti male non hanno termometri per misurarti la febbre, non puoi mangiare in camera a meno che tu non stia morendo e non puoi mangiare nella saletta colazioni perché disturbi i clienti coreani che hanno pagato per la pensione completa.
Dovessi tornare a Parigi sceglierei sicuramente la stessa via, ma forse mi orienterei verso un altra sistemazione, tanto c'è abbondanza.

LES DIX VINS: Piccolissimo ristorante nella via che corre fra Rue des Abbesses e Boulevard de Clichy, di cui però non ricordo il nome. Lo staff è simpaticissimo, ed è composto dal cuoco, dal cameriere, dal barista e dal maitre di sala, tutti in un unico signore rotondetto che ride sempre. Il menu è identico tutte le sere, con 17.50 euri puoi scegliere fra quattro cinque entrèes, quattro cinque pietanze e altrettanti dolci, niente di elaborato, ma molto gustosi e ben presentati. L'esiguità del personale limita il numero dei clienti ammessi, se ci sono solo due persone entrate pure, se ce n'è una a un tavolo più un gruppo di dieci seduto un po' più in là lasciate perdere perché vi manda via, anche se gli altri tavoli sono tutti liberi.

LE RELAIS GASCON: Le insalate giganti piene di roba non sono un piatto che ordino spesso, in genere ti riempiono subito ma dopo un quarto d'ora hai più fame di prima, ma in questo ristorante specializzato in cucina del sud-ovest ne preparano certe veramente sostanziose, traboccanti di ingredienti e coperte da uno strato di patatine fritte tagliate à la Lucilla (a rondelle invece che a bastoncino). Se non amate la verdura potete provare uno dei numerosi piatti di carne, non so dirvi, ma a vederli passare sembravano ottimi.

IMPORTANTISSIMO! Non ordinate il gateau basque!

Può capitare che vi venga voglia di assaggiare quello che ritenete essere un dolce tipico della cucina basca, non ne sapete nulla e avete già mangiato parecchio, ma la curiosità è più grande dello stomaco. Può capitare che mentre aspettate vediate passare dolci carichi di panna montata, quelle fettazze che quando ti scendono nell'esofago sono letali come slavine, e vi sentiate male all'idea di doverne affrontare una.
Può capitare, però, che la cameriera vi metta davanti un dolce composto solo da fette di mela cotta, e che la sua vista vi rincuori e lo attacchiate subito con vigorose cucchiaiate.
A questo punto può capitare che l'altro cameriere, quello indiano, si accorga che vi è stata servita la tarte tatin al posto del dolce basco, e cerchi di rimediare togliendovi il piatto da sotto, ma il gateau basque è una di quelle cose micidiali di prima, e non volete mica morire in un ristorante parigino, e poi avete già cominciato a mangiarlo e giurate al cameriere che va benissimo così.

Il cameriere, come detto, è indiano, ma in lui batte un cuore indipendentista, e accoglie il vostro rifiuto come un'oltraggio alla causa dei suoi fratelli baschi.
Oltretutto la tarte tatin costa 50 centesimi più dell'altra, stai a vedere che la differenza ce la deve mettere lui.
L'incidente diplomatico è evitato quando accettate di pagare voi il sovrapprezzo, ma ormai vi siete fatti un nemico in sala: vi butta davanti il conto senza chiedervi se vi vada un caffè, e dopo aver preso i soldi quasi il resto ve lo tira addosso.
Per fortuna dopo il dolce non vi rimane che uscire, se foste stati al primo rischiavate di farvi sputare nel piatto per tutta la cena.

LES DEUX MOULINS: Questo bistrot in Rue Lepic è meta di pellegrinaggio dall'uscita del film Il Meraviglioso Mondo Di Amèlie, girato in buona parte lì dentro, ma nonostante l'afflusso continuo di persone un posto a sedere si trova sempre.
La cucina è sufficiente, niente di memorabile, il cameriere è distratto e sbaglia quasi tutte le ordinazioni.

La vera delusione però è la crème brulèe, che traccia un solco profondo fra l'illusione della pellicola e la brutalità della realtà. Per appassionati.

E qui le foto:
 

Paris 2011

10/01/2010 Ancora per poco, e francamente dovrei andare a dormire prima che diventi l’undicizerouno, che domani si lavora, ma ho aperto un vecchio file e mi sono perso a leggerlo, da solo in cucina, davanti alla stufa accesa, in balìa dei ricordi.

È una raccolta di lettere che scrivevo a un amico anni fa, quando avevo venduto l’anima a una tizia, per raccontargli come andavano le cose. Lo tenevo aggiornato, che scrivere mi faceva bene, perciò è raccontato quasi in tempo reale. Quando la faccenda è arrivata a una conclusione ho ripreso tutto e l’ho trasformato in una specie di racconto/diario che a rileggerlo è molto divertente. È anche molto patetico, perché ad un certo punto, quando sembra che ne sia uscito, faccio come i tossici e ho una ricaduta pesante e mi do via come a un’asta di fallimento. Ed è anche istruttivo, perché riletto a distanza di sicurezza vedo tutto con occhi diversi e mi rendo conto di quante inutili seghe mentali mi sono fatto e di come ribaltavo le cose che mi diceva per trovarci un filo di speranza a cui attaccarmi. Alla fine aveva quasi ragione lei. Quasi eh, che certe cose successe dopo non sono giustificabili neanche ora che riconosco i miei errori, e neanche certe cose successe prima, o durante, o certe altre che ora posso dirlo sapevo benissimo e fingevo di ignorare, attaccato a quel filo bavoso di cui sopra.

È un racconto, questo che ho passato la serata a leggere, che finisce di colpo e pure male, non perché il finale sia triste, quanto perché la storia è andata avanti ancora a lungo, in un crescendo di paranoie, chiacchiere e cadute di stile. C’è ancora rancore e vergogna nel seguito della storia, riportato fedelmente sulle pagine del vecchio blog, e ironia, per fortuna, che sennò avrei già indossato la cravatta che va all’insù, e il finale vero, quello definitivo, è solo accennato, non dà soddisfazione, come tutte le storie vere arriva e basta, senza esplosioni e voci fuori campo e dolby surround. Il finale è una telefonata breve in un giorno freddo, per dire scusa ma basta. Non attira pubblico al botteghino, ma stasera, seduto davanti alla stufa accesa, quando anche Jack si è arreso e se n’è andato a dormire, è il ricordo più appagante che ho.

“Dovrei pubblicarlo”, mi dico ogni volta che lo leggo, solo che ora che sarebbe solo un racconto divertente patetico istruttivo e incompleto è soprattutto irrilevante, e quindi anche stavolta rimarrà lì.

Io su feisbuc ci vado poco, che è già troppo considerato che mi ero cancellato; poi mi sono reiscritto perché gli amici, e i contatti, e insomma che son di nuovo lì, ma ci vado poco, così quando Alberto mi spedisce una di quelle catene stronze che di solito butto via non mi viene voglia di condividerla lì, dove finirei per alimentare una di quelle cose che detesto, ma si accende una lampadina nella mia stanza preferita, e finisco per tornare a scrivere sul blog, anche solo per stilare l’ennesimo piccolo elenco.
Stavolta si tratta di dischi, o come dice Alberto nella sua nota:

non necessariamente i più belli, non necessariamente i più amati, non necessariamente niente.
ma quelli che ci sono stati e che sono parti integranti di parti della mia vita, quelli che li senti e scattano odori, sapori, sensazioni. quelli che bastano anche solo poche note e va in moto la macchina del tempo. quelli che senza non sarebbe stata la stessa cosa, e dopo niente è più stato come prima.
non sono nemmeno tutti. sono i primi 25 che mi son venuti in mente, in ordine rigorosamente sparso, dettato dalle mie personalissime contorsioni sinaptiche.

In rigoroso ordine sparso non potrei non mettere l’album che comprai in Grecia, durante le mie prime vacanze da solo, in compagnia di un pope dark, in un piccolo negozio nel mercato delle pulci di Atene. Ogni volta che lo ascolto mi rendo conto che il tempo è passato veloce, e il pope dark ha una moglie e due bambini e non si veste più come un cretino. Ma soprattutto ha abbandonato quella ridicola pettinatura da Scialpi..

1. Jeff Buckley – Grace

Poi ci sono i bei tempi della radio, Salviamo Il Salvabile coi tre lassativi, che eravamo io, Andrea e Matteo, e qualche volta capitava anche Umbe in anticipo per la sua trasmissione metal e si spacciava per il signore con le noci in bocca. Ci sono tantissimi dischi che mi rimandano a quel periodo, fra quelli che mi compravo, quelli che trovavo lì e quelli che portavano gli altri. Quello che ho scelto è stato particolare, sono andato anche a vedermelo dal vivo in un concerto stupendo..

2. The Cure – Wish

 


Altri tempi e altri amici, sebbene questo particolare amico fosse anche un occasionale visitatore della radio. Il gruppo che segue me l’ha praticamente presentato lui, ed è diventato uno dei pilastri, anche e soprattutto nei momenti difficili. Glielo dedico volentieri, come gliel’ho dedicato senza dirglielo mille volte, durante gli anni in cui ci siamo persi di vista.

3. CSI – In Quiete

L’ultimo (che credevate, che ne avrei davvero pubblicati 25?) è per la persona che da quattro anni e passa sacrifica il proprio equilibrio interiore per riparare al casino che ogni giorno le lascio in casa, che raccoglie i miei vestiti dal divano, che mangia le porcherie che le preparo, che sopporta i miei ritardi costanti, le mie distrazioni eterne, che ogni giorno penso che prima o poi mi caccerà di casa, ma che ogni sera prima di addormentarsi mi cerca la mano, e di cui non saprei più fare a meno. Questa è per il suo compleanno, che ormai è arrivato.

4. Los Fabulosos Cadillacs – Fabulosos Calavera 
 

E’ sabato, fa troppo freddo per uscire a piedi, ma di stare in casa non mi va, così prendo la macchina e vado a guardare qualche faccia. Non esco mai così, senza meta, e forse è per questo che la realtà mi appare diversa da quella che vedo ogni giorno andando al lavoro. In qualche modo mi sembra più reale, ma non per questo migliore: dal mio punti di vista privilegiato scivolo accanto alle desolazioni delle persone, e ne conto i segni che lasciano sulle loro facce.

Ecco Carmine, ballonzola la pancia giù per la strada delle cascine, giacca aperta e sguardo di chi non sa dove si trovi; da quando ha perso suo fratello passa le giornate così, camminando per strada. Chi non lo conosce non ci crederebbe che una volta è stato un campione di biliardo. Quando entravi nella sala che gestiva in paese ti saltavano agli occhi le coppe nella bacheca, le sue foto accanto a qualche attore di teatro che si spingeva fin lì dopo lo spettacolo per fare due tiri.
La disperazione l’ha investito con una forza tale da strappargli di dosso perfino l’andatura elegante.

Qualche metro più in là incrocio la pazza. Non conosco il suo vero nome, ma per come la vedo strepitare di tanto in tanto, lanciando maledizioni contro gli automobilisti, credo che il nome che ho scelto per lei sia buono quanto il suo. Lei gira tutto il giorno col cane, non parla con nessuno, se le rivolgi la parola ti risponde un po’ brusca, ma educata. L’importante è che non la contraddici mai, altrimenti attacca a strillare e ti insulta. Non importa di cosa stiate discutendo, qualunque cosa sia ha ragione lei e basta. E basta! Come sia diventata così non lo so, sono diversi anni che la conosco, e già da subito mi ha fatto capire che era meglio starle alla larga.
Una mattina tornavo da scuola con mio cugino, facevamo le medie, e lei era davanti a noi, l’aspetto di una qualunque studentessa del liceo, forse un po’ più grande, ma con qualcosa di indefinito che ci faceva pensare che fosse meglio starle alla larga. Eppure non indossava il cappello di Napoleone, nè parlava da sola; certo, gli occhiali da sole sotto quel cielo scuro non la facevano passare inosservata, o il modo in cui strattonava il cane, ma probabilmente sono particolari di cui mi accorgo solo ora che so quel che accadde.
Accadde che a un certo punto questa si voltò e cominciò a gridare che la stavamo seguendo, e che ridevamo di lei, e lei non si faceva prendere per il culo da nessuno, e adesso ce l’avrebbe fatta pagare.
Accadde che io e mio cugino non vedevamo l’ora di farci una bella litigata con una sconosciuta paranoica, quando sei un ragazzino delle medie impari molti più insulti di quanti ti riesca di usare, e ogni occasione di sfoggiarli è sempre accolta con gioia.
Accadde che questa si mise a fare voci, e che da chissà dove saltò fuori una sua amica grossa e brutta, che oggi assocerei all’istante col Mickey Rourke di The Wrestler, ma allora non potevo, e ciò mi confuse, e con la confusione addosso e le manone di Mickey Rourke che si avvicinavano strette a pugno decisi che era ora di pranzo e mia mamma si sarebbe arrabbiata se fossi arrivato in ritardo, e si vede che mia zia doveva avere lo stesso pessimo carattere, perché anche mio cugino desistette dallo scontro e tutti e due ci avviammo sulla via di casa a passo svelto. Le due isteriche non si arresero, e ci scortarono fin sotto casa mia aggiornando il nostro vocabolario di parolacce con termini che, ripetuti a scuola, ci avrebbero fatto guadagnare la stima dei compagni.
Oggi la incontro spesso, lei non sa di avere di fronte il ragazzino di allora, o forse se ne frega, ha la faccia sempre incazzata, indossa ancora degli occhiali da sole e strattona sempre il suo povero vecchissimo cane. Sempre che sia un altro cane, altrimenti avrebbe le sue ottime ragioni per non voler camminare. A lei è morto un fidanzato, diversi anni fa, l’unico al mondo in grado di starle vicino. Da allora non l’ho mai più vista insieme a nessuno.

Poi c’è una signora, completamente rincoglionita, che una volta si è sposata lo scemo del paese, che le ha dato due bambine prima di farsi venire un infarto e lasciarla da sola. Lei almeno non mostra di essersi arresa alla disperazione, sembrava la testimonial della legge Basaglia anche prima.

Scendo dalla macchina e guardo la mia faccia nel vetro. Coi capelli così corti somiglio a un militare in licenza. Ho ancora in testa le vittime di poco prima, penso che tutti riceviamo la nostra dose di disperazione, e che qualcuno ne resta travolto, ma gli altri tornano a casa e ne fanno tesoro.
"No, nessuna licenza", penso tornando alla mia vita fin troppo tranquilla, "preferisco considerarmi in congedo".