crank – parte 4

Forse non diventai un accattone seriale. Forse lo ero sempre stato, inconsapevolmente.

Sul pianerottolo di casa mia c’è uno scatolone in cui conservo i sacchi di plastica vuoti del pellet. Sono belli grandi, li posso utilizzare comodamente per la differenziata: lì ci metto il vetro, in questo la plastica, in quello la carta e in questo ci butto la sabbia usata dal gatto.
Acanto allo scatolone c’è la scarpiera, l’asse da stiro, la scopa, la paletta, lo spazzolone, scarpe buttate a caso, un secchio. Se arrivi al mio pianerottolo è normale pensare qui ci abita uno di quei matti che si portano a casa ogni pattume possibile perché prima o poi può servire, e chissà come sarà dentro preferisco non scoprirlo mai ciao.

Sono dappertutto, li riconosci per strada dai vestiti a pezzi, tenuti insieme con pezzetti di filo elettrico o stringhe colorate o scotch da pacchi. Hanno sempre qualcosa in mano, una busta di plastica verdina contenente chissà quale tesoro, uno sgabello quasi intero, degli elastici.
Le tasche pendono sull’oblio, attaccate alla giacca per un paio di punti. Sbatacchiano incerte se lasciarsi andare al marciapiede o tornare a casa e rimandare la fine a domani, dopodomani al massimo. E così la loro vita perduta, di cui non si curano granché, prima o poi la rimetteranno a posto, si tratta solo di trovare il tempo e il filo del colore giusto.
Attraversano il giorno come falene, attratti dalla luce di un oggetto abbandonato davanti a un portone, una cicca seminuova, un giornale stropicciato. Non sanno cosa succederà domani, il loro orizzonte arriva alla soglia di casa che non riescono più ad aprire per tutte le scatole colme di promesse che ci hanno accumulato dietro. La loro esistenza è votata a quella ricchezza momentanea in cui infilano nella tasca sfondata una scatoletta di plastica e si sentono padroni del mondo. È facile quando il tuo mondo si è ridotto a un quadrato di strada intorno al bidone della spazzatura.

Il mio primo trofeo è stato un sasso. Un pezzo di granito levigato raccolto nel greto di un torrente, in Trentino. L’ho messo accanto alla tastiera del computer insieme a un pupazzetto di Snoopy che scrive a macchina.
Nessuna utilità, solo un valore sentimentale, come lo scontrino del Balebuste, i biglietti dei concerti, una vecchia maglietta slabbrata che fa sciatto anche come pigiama ma tant’è non ce la fai a buttarla.
Ho videocassette e floppy disk e caricabatterie per cellulari di cui non esiste più neanche l’azienda.
I libri che non leggerò mai mi ricattano con l’immagine di Montag il pompiere, i biglietti nascosti nei libri mi imprigionano a ricordi di cui non voglio sbarazzarmi. In fondo, per diventare un accumulatore seriale, serve solo una scusa plausibile.

“Non è proprio come lo volevo io, ma ne ho urgenza, per adesso me lo faccio andare bene”. E torni a casa con una fidanzata o un comodino senza gambe.
“Arriva l’inverno e il piumone non basta, ho trovato questa coperta ammuffita che basta lasciarla un po’ all’aria per levarle la puzza. E se la rivolti neanche si vede la macchia”. E ti sei trovata un’alternativa ai sabati sera con tua madre.

Dopo due settimane dalla mia svolta collezionistica stazionavo fisso davanti alla discarica comunale, in attesa di bottino, fischiettando con indifferenza. Dopo quattro settimane avevo perso ogni inibizione e mi infilavo in pieno giorno nel bidone dello staccapanni.

Non è vero che gli oggetti ti possiedono, sei tu che hai talmente bisogno di ancorarti a una certezza che quando non hai più nessuno, neanche te stesso, va bene anche la lavatrice:
“Vorrei andarmene da questa casa che odio, ma se smonto la cucina non sarò più capace di rimontarla, e allora è meglio se resto qui”.

Basta un attimo, una curva sbagliata, e non ti riprendi più.
Tre anni fa oggi vivevo in un’altra casa, avevo una fidanzata, un cane e tre gatti. Andavamo in vacanza due volte l’anno, vedevo la mia vita su un binario, dovevo solo preoccuparmi di mettere carbone e il resto del tempo era mio, per farne ciò che volevo.
Ero felice? Ero sereno, mi sembrava un compromesso accettabile.

Tre anni più tardi sono infilato a metà in un bidone buio, mi sto slogando una spalla per raggiungere con la punta delle dita quello che sembra un cappotto da donna in buone condizioni. Non lo indosserò mai, ma magari qualcosa di buono ci ricavo, l’importante è riuscire a pinzarlo fra l’indice e il medio e mantenere la presa mentre riporto il peso sul bacino e mi tiro fuori da questa trappola senza luce né aria.

Il cappotto è troppo pesante, mi sfugge dalle dita. Arraffo al volo qualcosa e mi tiro fuori.

C’è un uomo che mi guarda, a un metro. Ha gli occhi del colore dei miei e i capelli bianchi, è un po’ più alto, un po’ più vecchio, ma da lontano potrei essere io.
Mi ha visto infilato e ha pensato che fossi in pericolo, ma ora che capisce le mie reali intenzioni ha assunto un’espressione preoccupata e delusa. Più delusa che preoccupata, e questo mi mette a disagio.
Attraverso i suoi occhi vedo gli stracci che indosso e quelli che tengo fra le mani sporche, mi specchio nella miseria che sono diventato, mi sento male.
L’ho fatto di nuovo. Ho cercato di adeguarmi all’immagine che vedevo di me, ma è una battaglia persa, a diventare giudici di sé stessi non esiste nessuna clemenza.

È quella la mia vita per sottrazione, una corsa verso il basso a sentirmi adeguato senza riuscirci. Non posso riuscirci, per quanto tiri via dalla mia condizione, per quanto cerchi di semplificarmi le cose, di puntare a qualcosa alla mia altezza, è sempre tutto troppo difficile, troppo in alto. Non sarò mai abbastanza perché non è nella mia vita che non mi trovo, è in questi occhi che adesso mi stanno davanti.

Tutti i rifiuti, tutte le paure, il mostro nell’armadio e l’incapacità di muovermi. È sempre stato lui.

Vorrei dirgli che mi dispiace, chiedergli scusa per non essere stato il figlio che voleva, per averlo deluso. Non immagina quanto sia difficile portarsi sulla schiena un peso del genere.

Mi manca tutti i giorni, vorrei abbracciarlo e confessargli che mi sento solo, ma non capirebbe, e peggio, mi respingerebbe, e questa certezza mi toglie il respiro.

Mi limito a restare fermo davanti a lui senza guardarlo, in silenzio.
No, non in silenzio. Sto singhiozzando, e non me ne sono accorto.

2 commenti

  1. mi è piaciuto davvero molto, al punto che avrei voluto che continuasse ancora un po’ e che questa fosse solo l’introduzione per una trama che si dipanasse in modo più esteso

E dimmelo, dai, lo so che ci tieni

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