Pem! Pam! Parapem! Fuochi artificiali! Tricchettracche!

E si perché abbiamo un vincitore! A sorpresa, quando nessuno ormai se l’aspettava più, quando tutte le speranze se n’erano andate giù per la bottiglia, quando anche gli infaticabili Hardla e Secchin mi avevano mandato a dare via il culo, quando anche la mia fidanzata mi aveva minacciato di lasciarmi se non ci dichiaravo lei campionessa assoluta della caccia al tesoro del Pablog, ecco che dalle remote lande di casa sua arriva il vecchio intrepido Matte con la soluzione. Roba da farci un film, davvero, che io una gara così carica di suspan suspens saspenz (quella cosa quando sei lì che trattieni il respiro e non è perché ti sta passando vicino il mio collega coi piedi sudati) io non l’avevo proprio mai vista ma mai. Cioè, prima c’è Hardla che stacca tutti, arriva all’ultimo indizio con anni di distacco sugli altri e poi si pianta; nel frattempo Secchin recupera il tempo perduto a leggere Proust e si fa addosso all’avversario con una caparbietà che neanche una donna davanti ai saldi di Christian Louboutin. Ma si pianta anche lui. E intanto, zitto zitto, il buon vecchio Matte sfrutta gli indizi disseminati qua e là, mette insieme i pezzi mancanti e come un solo uomo, ma più grosso, stravince.

Ora, caro Matte, puoi fregiarti del titolo di Gran Risolvitore Di Cacce Al Tesoro Del Pablog E Altri Enigmi Stracazzutissimi, e non solo, ho in serbo per te una bella sorpresa, il premio esclusivo solo per te! Fanne buon uso!

A tutti gli altri auguro una buona permanenza sul Pablog, ci vediamo al prossimo post, e non disperate, prima o poi la Grande Caccia Al Tesoro tornerà a minacciare i vostri pomeriggi di produttività!

Sveglia alle 5, madonne, zaino in spalla e l’aria fresca di Midtown fino alla sede dell’Onu. Di fronte ci sono le torri di Tudor City, dove Sam Raimi ha fatto svolazzare a profusione il suo Spiderman, dall’altra parte Queens è immerso nella bruma e sembra perfino un bel posto. Recuperiamo la macchina e partenza. Sarà la città che non dorme mai, ma in giro alle sei e mezza c’è davvero poca gente.

Attraversiamo il New Jersey fino in Pennsylvania, ma giusto per lasciare Marzia alle porte di Philadelphia, in un paesino pieno di villette nascoste dagli alberi dove l’unico rumore sono le cicale. Quando esci da Manhattan ti accorgi di quanto sia rumorosa quella città, anche quando sei in casa si sente sempre il ronzio perenne dei condizionatori del palazzo, per strada è una cacofonia di clacson, ci sono quei camion col muso in fuori che hanno delle trombe che abbattono i muri, poi arrivi in un posto dove si sentono le cicale e l’aria è fredda e umida e sa di bosco e pensi che vabbè, però in un casino del genere non ci potresti mai vivere.

Ma bando alle bande, bisogna lasciare il Subcomandante nelle mani della sua amica e partire, che questa è una vacanza da uomini. Via di nuovo verso Washington, che dovrebbe distare due ore, ma capita un piccolo imprevisto. Questo.

Immaginate un’autostrada a tre corsie dritta e piatta invasa da un biscione di harley-davidson che avanzano ai trenta all’ora con sopra barbuti sovrappeso. Milleottocento. Un’armata, un battaglione di ciccioni in bandana che salutano gli automobilisti fermi nella carreggiata opposta, e la cosa incredibile è che gli automobilisti costretti a rallentare rispondono al saluto e sembrano contenti di quello spettacolo improvviso che sta facendo loro perdere più di mezz’ora.

In Italia sarebbero stati ricevuti da una pioggia di sputi e consigli professionali per le loro madri, ma qui no, sono tutti felici di questa banda di scavezzacollo al colesterolo e scendono dalla macchina contenti e fanno loro ciaociao e se li ammirano felici. Che fosse un corteo commemorativo l’ho saputo dopo, e mi sono anche spiegato l’entusiasmo, ma in quel momento è stato uno spettacolo da non credere. E comunque, undici settembre o no, non so quanto siano stati felici quelli che seguivano il corteo a passo d’uomo, e avevano davanti un interminabile viaggio fino a New York.

Una cosa che noti viaggiando in autostrada sono le targhe. Ogni stato ha la sua, con tanto di motto stampato sopra. Quello di New York ricorda essere The Empire State, le macchine del North Carolina hanno scritto dietro First In Flight, con tanto di aereo dei fratelli Wright disegnato sullo sfondo. Sulle targhe del District Of Columbia c’è scritto Taxation Without Representation, che sembra una frase polemica, ma lo è davvero, e rimanda a una questione abbastanza spinosa. In pratica lo stato in cui risiede il governo non è uno stato, ma un distretto federale, creato appositamente per ospitare il governo, e i suoi abitanti non hanno diritto di essere rappresentati al Congresso. La frase riprende uno slogan del 1750 che fu tra le ragioni della Guerra di Indipendenza americana, e che citava “No taxation without representation”: i coloni non volevano essere tassati dal governo inglese senza avere una rappresentanza diretta in parlamento a Londra. Allora imbracciarono le armi, oggi scrivono slogan polemici sulle targhe, come cambiano i tempi..

Ma dicevo delle targhe, che è una faccenda divertente. Tu puoi viaggiare e studiarti la storia americana dagli slogan scritti sui bagagliai. Il Kentucky ricorda di essere “The bluegrass state”, come se ci fosse da vantarsi, il Wyoming non ha mai trovato niente di cui andare fiero e non ha nessuno slogan, ma lo capisco, se fossi lo Stato natale di Dick Cheney farei di tutto anch’io per non farmi notare.

Un’altra caratteristica delle targhe americane sono le personalizzazioni. In autostrada ne vedi a pacchi, soprattutto quando un’orda di motociclisti nell’altra corsia ti obbliga a lunghe code. Lobsta, Boysfan, Gooool sono solo alcune e neanche le più cretine che mi siano capitate.

E poi siamo arrivati a Washington.

Una città costruita per essere capitale, la sede del potere giuridico e legislativo e amministrativo e sticazzi. Uno se pensa alle capitali che ha visitato fin lì si trova spiazzato, che Washington è diversa da tutte quante, e soprattutto quando arrivi da quel gigantesco frullatore che è New York non puoi fare a meno di notare l’enorme differenza di questo posto. Ochei, NY non è l’America, ma neanche questo posto si può dire che le somigli, a meno che l’America non sia un grosso museo.

Tutti gli edifici bassi, nessuno che superi i tre piani, strade larghissime e quasi vuote, un’atmosfera sonnacchiosa che ricorda casa mia, palazzoni austeri con pochi negozi. Molliamo i bagagli e la macchina e ci incamminiamo verso la zona dei musei, ma essendo già le due e non avendo mangiato niente accettiamo l’invito di una cameriera elegante e ci piazziamo sotto l’ombrellone di un ristorante molto fico che però fa solo hamburger e birroni. Un pub ripulito, insomma.

Mentre mangiamo noto che il piano regolatore cittadino prevede anche delle vie di evacuazione, indicate da cartelli appositi. Non ci vuole una grande fantasia per capire che non sono state progettate per scappare da un incendio, ed è il momento in cui realizzo davvero dove mi trovo: nel centro del potere, quello vero, da cui dipendono tutti gli altri. Il cortile della casa di Galactus, il divoratore di mondi.

A conferma del mio ragionamento noto qua e là dei cartelli che indicano come nel tale palazzo sia stato costruito un rifugio antiatomico.

Washington è una città costruita a tavolino, un po’ come Brasilia, ma a differenza di quest’ultima il piano regolatore non è ispirato a un aeroplano. A giudicare dall’estensione della metropolitana uno potrebbe pensare che sia stata ispirata piuttosto da una grossa minchia: immaginate che la città copra la superficie di un campo da calcio, i treni sotterranei arrivano solo fino alla metà sinistra e la zona dei musei si estende sul cerchio di centrocampo; nella parte destra del campo c’è il resto dell’abitato, che sarà anche interessante, ma ci passano solo gli autobus, e il vostro albergo sta dalla parte di qua, tipo in mezzo alla gradinata, e già così la stazione della metro più vicina è sulla bandierina del calcio d’angolo. Insomma, una scarpinata della madonna.
Dal viale da cui proveniamo arriviamo dritti davanti alla Casa Bianca, di cui però conosciamo meglio il lato posteriore, quello con la facciata rotonda. Ci sono dei tizi accampati sul marciapiede che protestano e pochissima polizia, perlomeno pochissima visibile: sono sicuro che se accennassi a tirar fuori un’arma verrei abbattuto prima di pensare bang.

Dietro il giardino del presidente si estende il prato più ampio che abbia mai visto, su cui sorge, lì davanti, il monumento a George Washington, e laggiù in fondo, ma proprio in fondo, quello ad Abramo Lincoln.

Il primo sorge su una collina ed è uno dei simboli più celebri dell’impero americano; è lungo ed eretto e si vede da tutta la città. Per fortuna il progetto originale di circondarlo da un basso colonnato non è stato mantenuto, che già così le allusioni si sprecano. Chissà cosa ne pensava Freud.

Dando le spalle al memoriale di Lincoln, andando verso il Campidoglio, si arriva al viale dei musei, e lì c’è da ridere. Ne visitiamo tre, due di arte e uno di testosterone, e ci sarebbe da parlarne per ore solo per decidere quale mi sia piaciuto di più. Vi rimando ai siti, molto dettagliati e con tanto di catalogo delle opere esposte, e poi ditemi se esagero.

Comunque Hopper è il mio pittore preferito, non ci sono cazzi, e trovarmi davanti questo è stato uno dei momenti più emozionanti della vacanza, roba che neanche il cowboy nudo, guarda.

Dopo i musei i memoriali, sempre a piedi, figurati, vuoi mica rinunciare a una bella camminata? Che ti fregano, parti per vedere quello a Lincoln e finisci in quello ai caduti in Vietnam, e ti viene subito da guardarti intorno per cercare un veterano che ti regali uno zippo con scritto “Fuck communism”. Poi torni indietro e ti viene voglia di passare a vederne un altro che è di strada, ma a quel punto ce ne sarebbe di strada alla strada anche un altro, e questi memoriali sono come le ciliegie, però alla fine hai i piedi che ne meriterebbero uno per loro.
La metropolitana di Washington è corta, passa subito sotto la strada e ha dei bei soffitti a cassettoni. Però la fermata più vicina all’albergo resta a puttane e mi pare che abbiamo già camminato abbastanza, no?

Il giorno dopo un altro museo d’arte e la stanza dei bambini più grande del mondo, tanto che riesce a contenere un bombardiere, un concorde e uno shuttle. E la mia erezione.

 

(continua)

Insomma che niente, vado a dormire, mi sveglio oggi ma più tardi e scopro che dopodomani prendo la macchina il treno l’aereo la metro l’ascensore e non dormo più per quindici giorni, che nella città che non dorme mai anche schiacciare una pisa in un angolino, così di nascosto, mentre son tutti girati, fa brutto, e se c’è una cosa che in quel posto lì non va mai fatto è far brutto, che in quel posto lì son tutti tirati e fighi anche quando non fanno niente di speciale, che a te sembra che non facciano niente di speciale, ma in realtà loro stanno facendo qualcosa che altrove non si potrebbe mai: stanno facendo niente di speciale in un modo figo, e provaci un po’ a Ronco se ci riesci, che già andare in stazione coi capelli arancioni ti rende argomento di conversazione per una settimana e ancora dopo due c’è gente che ti saluta guardandoti sopra la fronte, si vede che la Pietrina non gli basta a questo paese di tricoconservatori.

La prima cosa che devo fare una volta di là è alzarmi a un’ora decente e incontrare i miei cognati mia cognata e il cognato della mia fidanzata tutta la cognateria sotto l’arco dove Harry capisce che non può vivere senza Sally che poi torna indietro di corsa e si fa tipo due tre boroughs che è una cosa che da noi fa strillare la milza solo a pensarci, come se io andassi a lavorare correndo, ma te l’immagini, un’infortunio sul lavoro al giorno sempre che riesca a raggiungere il cancello della ditta. Comunque ci si dovrebbe vedere là, e spero che tardino un po’, così vado a farmi subito la foto davanti a casa di Martin Mystère e poi me ne faccio anche una nella via di Bob Dylan abbracciato alla fidanzata che però sarà difficile che sia disponibile dato che è morta, vorrà dire che mi porterò la mia da casa, vedi che a viaggiare con del bagaglio extra alla fine torna utile.

Sto scrivendo in modalità fullscreen, che è una cosa che sembra di scrivere su un foglio, è anche bello da vedere, senza margini e colori di sfondo, tutto bianco, come battere a macchina una nuvola, chissà quando piove le macchie d’inchiostro che lascia sulle lenzuola stese.

(continua)

Ochei, ho pagato l’Esta, che sarebbe quella tassa che devi pagare se vuoi andare negli Stati Uniti per turismo, e insieme ho compilato il breve questionario che serve ai funzionari della dogana per inquadrarti meglio: “Vuoi venire negli Stati Uniti per commettere genocidi?”, “Sei appestato?”, “Hai intenzione di restare qui a fare un cazzo a spese dello stato?”, se rispondi no a tutte le domande puoi pagare quattordici dollari, ma ti avvisano che una volta arrivato là potranno decidere comunque di rispedirti a casa tua, metti che ti presenti alla dogana dell’aeroporto con una maglietta raffigurante la mamma del doganiere con un grosso vibratore fucsia infilato in gola. Non lo so dove l’hai comprata, ma hai l’aspetto di uno che potrebbe avercela una maglietta così, e metti che la stai indossando proprio il giorno del tuo arrivo al JFK. Potresti incorrere in fastidiosi grattacapi.

Io una maglietta così non ce l’ho, credo che ti lascerò sbrigare tutte quelle noiose formalità che richiedono le braghe calate e un guanto in lattice, e mi fionderò nella caotica vita della metropoli.

A New York voglio vedere:
* Il Flatiron Building * La casa di Martin Mystère * Il Palazzo della Marvel * Quello della DC * La panchina di Manhattan * Il ristorante dove pranza sempre Kingpin * La caserma dei vigili del fuoco di Ghostbusters * Il MOMA * La Statua Della Libertà * Il museo di Ellis Island * Il luna park fantasma di Coney Island * La portaerei, che va bene contro la guerra, ma un bestione così chi l’ha mai visto * Il graffito di Joe Strummer * La sede di Tumblr * Il Palazzo Di Vetro * Il Metropolitan Museum * Il più grande negozio di fumetti della città..

Insomma, per me New York è prima di tutto cinema, fumetti e cazzate, perciò voglio dedicare la mia visita a queste tre cose prima di tutto il resto. Poi certo, i musei, Les Demoiselles d’Avignon, dev’esserci anche un grosso Renoir in giro per la città, se non ricordo male. E a dirla tutta una sera suona pure B.B. King, e vuoi saltarti il re del blues? Però voglio fare il turista nerd nella città più nerd che conosco.
Accetto anche suggerimenti.