Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni
Gary Numan – Unreleased 7Up TV commercial music

Nella scorsa puntata abbiamo parlato di Gary Numan, che ci è servito per introdurre il tema degli artisti che compongono brani per spot pubblicitari. Adesso potrei utilizzare questo gancio per collegarmi praticamente a chiunque, visto che solo fra i nomi più noti compaiono David Bowie che canta una canzone sull’acqua minerale, Sting su una Jaguar e perfino John Lydon si è imburrato il culo senza vergogna per venderlo più facilmente. Ma sarebbe troppo semplice, e le cose troppo semplici non sono divertenti, come finire il videogioco coi trucchi o vincere le elezioni promettendo l’impossibile, quindi ho cercato di rendere tutto un po’ più interessante.

Gary Numan ha tre figlie, Echo, Raven e Persian. Se volete triggerare la ministra Roccella potete fermarvi qui, vi ho fornito un ottimo argomento; per tutti gli altri ho una domanda: cos’hanno in comune queste tre parole, corvo, eco e persiana inteso come abitante della Persia e non come oscurante per la finestra?
Mi è venuto in mente Sandman, il fumetto di Neil Gaiman, che di sicuro le contiene tutte e tre, ma per trovare il momento esatto in cui appaiono insieme bisognerebbe leggersi tutti i ventimila volumi dell’opera, e ho ancora da finire Sniper Elite 5, non posso perdere tempo in futilità.

Il Neilgaimanometro segna alto

Ho deciso di lasciare perdere Echo, e ho scoperto una poesia di un poeta iraniano dedicata a un corvo.
La potete leggere tradotta in inglese qui. Poi magari me la spiegate, che io quando a scuola facevamo l’analisi delle poesie mi leggevo i fumetti sotto il banco perché non avevo tempo da perdere in futilità.

Lui si chiama Nima Yushij, o Yooshij, a seconda di chi lo traduce, ed è stato uno dei più importanti poeti iraniani. Di più, è quello che ha liberato la poesia persiana dalla rigidità della metrica, e l’ha arricchita di temi più attuali della coppia di innamorati che guardano la rosa sbocciare sotto la luna e si struggono di nostalgia. Ha “tolto la poesia dai rituali di corte e l’ha portata per strada”, si è scritto di lui. Era il 1922, non troppo tempo fa, e la sua figura è ancora molto presente nella cultura iraniana, tanto che esiste una band, e qui volevo andare a parare, che si è ispirata alla sua opera, e ha messo in musica un suo componimento.

Si chiamano Radio Tehran, e li potete ascoltare qui sotto.

Prima di salutarci volevo raccontarvi di quella volta che ho provato a usare una poesia per rimorchiare una ragazza ed è finita malissimo.

La premessa obbligatoria è che io e la poesia esistiamo nello stesso universo, ma il rapporto fra di noi non diventa mai più stretto di così. Ho studiato qualcosa a scuola, come tutti, ho apprezzato qualcosa dopo gli studi, come molti, ho un paio di autori che mi sono più simpatici di altri, ma se devo spiegarvi cosa sta dicendo Umberto Saba alla capra mi metto a ruminare con lo sguardo assente.

Possiedo qualche libro, comunque, perché almeno un paio di volte ci ho provato a esplorare quel mondo di frasi che vanno a capo prima del punto, e più o meno li ho letti fino in fondo.
Uno di questi è una raccolta di Edward Estlin Cummings, poeta che ho scoperto grazie a Woody Allen: in Hannah e le sue sorelle, Michael Caine riesce dopo lunghe insistenze a irretire Barbara Hershey con una sua poesia.
Ho pensato che se ha funzionato con un inglese, la cui natura non è certo incline agli slanci passionali, figurati con un italiano, e mi sono comprato il libro e mi sono studiato la poesia, così da poterla citare con disinvoltura quando si fosse presentata l’occasione.

L’occasione si è presentata a Londra, dove lavoravo come portiere di notte e addetto alle colazioni in un piccolo B&B di Paddington, negli ultimi mesi del secolo scorso.
La ragazza si chiamava Elizabeth, era una polacca dai capelli neri con due occhi azzurri che mi ricordavano il cane di un’altra ragazza di cui mi ero perdutamente innamorato, e quindi mi innamorai anche di lei per proprietà transitiva. Solo che il cane della ragazza di prima mi voleva molto bene, mentre lei non mi cagava di pezza. Faceva la cameriera ai piani dell’hotel, e ogni mattina, dopo avere terminato il mio lavoro, andavo a cercarla per i corridoi e le sussurravo rime di cui io stesso faticavo a comprendere il significato.
Lei mi guardava con occhi pieni di deisderio, e mi chiedeva di tornare in cucina e prepararle un tramezzino col cheddar e il bacon, e se per favore potevo metterci anche un uovo sodo.

Un giorno la convinsi a venire con me al parco. Speravo che lontano dall’ambiente di lavoro si sarebbe lasciata un po’ andare, e per mostrarle la mia bontà d’animo le dissi che avevo composto una poesia apposta per lei. Quella volta ero andato sul nostrano, dato che Cummings si era rivelato incomprensibile avevo tradotto in inglese una canzone di Ivano Fossati, e gliel’avevo letta.

Se le avessi letto la formazione dell’Arsenal forse avrebbe avuto una qualche reazione, ma neanche l’arrunchio italiano era riuscito a smuoverla, era un caso senza speranza. La riaccompagnai alla fermata della metro e me ne andai a cercare cd usati a Berwick Street, come al solito. Adesso però avevo dato un senso al verso di Cummings che dice “nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani”. Probabilmente non il senso che gli attribuiva l’autore, ma in quel momento rifletteva benissimo la mia delusione, e alla fine la poesia, come la pittura, credo che dovrebbe essere questo: un traduttore di emozioni. Che siano quelle che provava l’autore o altre non importa, se ci trovi qualcosa di utile ha funzionato.

Alla fine con Elizabeth non ci furono altri sviluppi, tornai dall’esperienza londinese solo com’ero partito, ma la collezione di cd era cresciuta parecchio, e oramai col proprietario di Reckless Records ci davamo del tu.
Che poi se parli in inglese è anche l’unica forma possibile.

(continua)

Stamattina alle tre e mezza ero seduto sul gabinetto e cercavo di capire dove mi trovavo. Mi trovavo sul gabinetto, l’ho già spiegato, ma una parte di me non ne era ancora del tutto cosciente. Stavo aggrappato al telefono come un naufrago per non annegare un’altra volta nel sonno, e la prima cosa che mi è capitato di leggere è stato il messaggio di un’amica che mi scriveva che è morto il mio scrittore preferito.

In quello stato di semi incoscienza mi sono chiesto chi fosse il mio scrittore preferito, e onestamente non saprei rispondere neanche adesso che sono passate due ore e sono già pronto al secondo caffè, ma nella zona grigia in cui mi dibatto a quelle ore non lo avrei saputo indicare neanche se avessi a casa il suo busto in marmo.

Questa è la conversazione che hanno avuto i miei due neuroni funzionanti:
“Ma chi, Saramago?”
“Ma no, è già morto, siamo anche stati sulla sua tomba l’anno scorso”
“Ma che tomba, era un albero”
“Siamo stati sul suo albero l’anno scorso”
“Sì vabbé adesso era un macaco”
“No un ulivo”
“No dico Saramago”
“Nel senso che diventerà come Gandalf?”
“Ma chi?”
“L’ulivo”
“A me l’ulivo fa venire in mente più D’Alema”
“Quindi è morto D’Alema?”
“Ma non è il mio scrittore preferito”
“E allora chi è?”
“Un segretario del PD coi baffetti”
“No, dico lo scrittore”
“Qui non c’è scritto. Aspetta che apro google”

Era Cormac McCarthy, come ormai sanno già tutti, e non è stata una grossa sorpresa perché aveva 89 anni, e dato che aveva appena pubblicato due romanzi avremmo dovuto aspettarci il prossimo fra 15 anni, ma uno a 104 anni che cosa ci deve raccontare ancora, lasciamolo crepare in pace poveretto.

Non so se era il mio scrittore preferito, mi sa che neanche ce l’ho uno scrittore preferito unico al di sopra di tutti gli altri. È stata comunque una botta, più di quella ricevuta due giorni fa per la scomparsa di Francesco Nuti, di cui amo tuttora smodatamente due film, ma che alla fine sentivo vicino come il lontano parente simpatico che racconta le barzellette.

C’è stata un’altra scomparsa eccellente in questi giorni, ma non credo valga la pena di aggiungere contenuti, il carrozzone è già pieno così. Speriamo che non finisca come nel 2016, non gioco al fantamorto e buona parte dei miei eroi hanno raggiunto un’età ragguardevole, vorrei centellinarmi i lutti per quanto possibile.

Comunque McCarthy scriveva come uno che ha girato tutto il mondo a raccogliere le parole più adatte e poi si è seduto alla scrivania e le ha provate tutte una per una per trovare quella che ci stava meglio, io quando leggo i suoi libri mi sento come se stessi di fronte a un fantasma, a una di quelle cose che sai che non potrebbero esistere eppure ce l’hai davanti e ti sta dicendo delle cose e insomma ci dev’essere un motivo se le sta dicendo proprio a te, forse sei l’Eletto ed è il caso che lo stai a sentire, e il pensiero che questo privilegio è solo legato all’aver comprato un libro ed è un’esperienza ultraterrena che potrebbe vivere chiunque eppure non c’è la fila davanti alle librerie, a me è una cosa che mette una profonda tristezza.

Sarà che l’opera di uno scrittore richiede una partecipazione attiva da chi ne fruisce, mentre per un film o un disco basta che ti siedi e stai sveglio, ma quando muore un gigante della letteratura non assistiamo a scene di lutto collettivo, cordoglio nazionale, funerali di stato. È più facile che ne goda un pluripregiudicato il cui unico contributo all’arte è stato scorreggiare al G8.

Ciao signor McCarthy, io non porterò il lutto in tuo onore. Oggi tornerò a casa un po’ più triste, mi leggerò qualche altra pagina del tuo libro e berrò un po’ di quel prosecco che ho stappato l’altroieri per festeggiare una bella giornata, e anche questa lo sarà, alla fine.

Grazie per ogni linea di dialogo che mi hai obbligato a rileggere all’indietro per capire chi dei due stesse parlando, per ogni pagina che mi sono ripetuto ad alta voce per ascoltarne la musica, per ogni capitolo che quando finiva era come aver terminato una tappa di montagna, per i cavalli.

E quindi sono stato a Barcellona al Primavera Sound. Erano anni che questo festival lo guardavo da lontano, pensavo a quanto sarebbe stato bello parteciparvi ma senza provarci davvero, dicevo guarda chi ci va, sarebbe fighissimo, e poi lasciavo perdere perché mi sembrava un’impresa superiore alle mie possibilità.
Quest’anno, quando sono usciti gli artisti, l’unica vera differenza dalle altre volte è stata che adesso vivo con una a cui è difficile dire di no, e che lei la maggior parte di quei nomi li conosceva e si sarebbe venduta la madre per vederli, e così un giorno non meglio definito di febbraio ci siamo comprati due biglietti per il Primavera Sound 2023 di Barcellona.

“Quante date facciamo?”
“Fammi vedere il programma… Ok, prendile tutte”

Perché alla fine la differenza di prezzo fra una, due o tre sere non era così alta, se consideri che a Barcellona ci devi comunque andare, e la scaletta era effettivamente pazzesca, sarebbe stato un crimine perdersi qualcosa.

Che poi qualcosa ti perdi comunque, ma ci arrivo.

L’area dove si svolge il festival è quella della fiera, a 6 km dal centro, e la stanza che abbiamo trovato è a 4 km dalla fiera e a 8 dal centro, lontano da tutto, e a pensarci siamo stati un po’ stronzi a non averne preso una più vicino a uno dei due punti che ci interessavano, il centro e la fiera, ma alla fine il quartiere era molto tranquillo e pieno di posti dove mangiare e fare la spesa, i mezzi ci arrivavano comodamente, forse se dovessi tornarci andrei di nuovo lì.

“Ma sto festival che è?” mi hanno chiesto un sacco di persone al lavoro e anche qualcuno fuori. Lo so che voi (tre) che mi leggete siete preparatissimi sull’argomento, ma magari arriva qualcuno per caso e non sa di cosa stiamo parlando perché l’unica musica che ascolta è quella di radio 105 (che poi sono sicuro che anche a Radio 105 passano qualcosa della roba che ho visto esibirsi al Primavera, ma magari sono ascoltatori distratti), quindi lo spiego a loro, abbiate pazienza.

Da Wikipablog, l’enciclopedia per quelli che non hanno voglia di sbattersi:

Il Primavera Sound nasce a Barcellona nel 2001 e fa solo roba elettronica punzapunza ma già dal 2004 comincia ad allargarsi agli artisti che suonano strumenti veri perché gli organizzatori si erano rotti il cazzo di essere additati come “quelli dei rave”, e sul palco di quell’edizione si esibiscono per esempio Primal Scream, Pixies e PJ Harvey.
Nelle edizioni successive gli organizzatori scoprono che si possono invitare anche musicisti che iniziano con lettere diverse dalla P, e le scalette si gonfiano, fino ad arrivare a quella del 2023 che comprende 214 nomi diversi, che si alternano su 12 palchi e certe volte si sovrappongono anche, tipo che tu vorresti vedere i War On Drugs e ti tocca ciucciarti Caroline Polachek che suona dalla parte opposta.
Ad oggi il Primavera Sound è considerato uno dei più importanti festival musicali europei, ma non dagli americani che pensano che il più importante resti Coachella, e se gli fai notare che hai specificato europei loro ti rispondono che l’Europa è comunque parte degli Stati Uniti, e non lo fanno per spocchia ma proprio perché non hanno idea di dove sia l’Europa.

Adesso non starò a raccontarvi giorno per giorno cosa ho fatto, dove ho mangiato e qual è la tessera più conveniente per i mezzi pubblici, sennò i miei tre lettori diventano magicamente nessuno. Diciamo che faccio un riassunto.

Ho visto i Pet Shop Boys la prima sera, concerto gratuito. Neil Tennant ha sempre la stessa voce da uno che si è appena chiuso le balle in un cassetto che aveva quarant’anni fa. Non mi ha dato l’idea di qualcuno appagato dal proprio successo, mi ha dato più l’idea di uno che continua a esibirsi solo perché sennò non saprebbe cos’altro fare, e che neanche lo fa abbastanza: alla fine del concerto ha detto che questa è stata la loro prima uscita del 2023, si vede che il loro cachet è troppo alto per la sagra della polenta. Ha salutato allargando le braccia come ad ammettere di essere ormai fuori dal tempo, ha detto “You know us, we are the Pet Shop Boys” con un tono che sembrava di scuse più che di gioia. Mi sono un po’ commosso perché a quel tempo lì ci appartengo anch’io, Domino Dancing la ascoltava sempre una ragazza sul treno quando tornavamo da scuola, nei primi anni delle superiori.

Ho visto Sudan Archives, che ho scoperto da poco grazie alla newsletter fighissima di Internazionale condotta da Giovanni Ansaldo, ed è stata una gran bella conferma, seppure in un concerto breve. Lei è carica di energia, suona il violino, strilla, salta di qua e di là, armeggia dietro un sintetizzatore, ristrilla. Da rivedere volentieri.

Mentre suonava Sudan Archives sullo schermo alle sue spalle passavano le immagini delle sue enormi tette

Ho visto Rema, un rapper nigeriano che ha imbroccato un singolo insieme a Selena Gomez che lo ha reso famosissimo. Non so se sentiremo ancora parlare di lui o se è stata la solita meteora, ma dal vivo è divertente, fa il provolone con tutte le ragazze delle prime file e parla più che altro di quanto gli piace la figa.

I Turnstile li ho incrociati, ho sentito solo finire un paio di canzoni, sembrano un po’ i Rage Against The Machine. Sono sicuro che avrebbero meritato più attenzione, chi li conosce ne parla come di una delle band che lasceranno il segno. Più di Rema, comunque.

Ci sarebbero stati i New Order, ma li ho già visti quando erano anziani, molti anni fa, adesso sono pensionati in gita e onestamente preferisco dedicare il mio tempo a qualcun altro, e così durante la loro esibizione sono andato a vedere un’altra che ha abbondantemente superato il suo tempo, ma perlomeno non mi era ancora capitata dal vivo: Goldfrapp, anzi, Alison Goldfrapp, visto che si esibisce da solista e Goldfrapp è il nome del suo progetto con la band.
Un’ora di elettropop piacevole, danzereccio senza agitarsi troppo, condito da immagini dai colori pastello e fluo come un meme vaporwave, circondato da tutta la comunità gay europea radunatasi sotto il palco per celebrare una delle sue beniamine. Quando ha fatto Ooh La La e Strict Machine, che sono le uniche due canzoni di Goldfrapp che conosco, mi sono fatto prendere anch’io e ho raggiunto 沙沙 sotto il palco, dove stava già cercando di arrampicarsi su uno della security per superare anche le transenne e zerbinarsi sotto le scarpe della cantante gridandole “fai di me ciò che vuoi”.

Alison Goldfrapp è una Viola Valentino che ce l'ha fatta, perlomeno presso la comunità gay

Goldfrapp finiva all’una, alle due iniziavano i Blur, alle due e mezza ce ne siamo andati perché nella loro esibizione ci stavano mettendo lo stesso entusiasmo di un professore che deve spiegare i fondamenti di idraulica e ci stavamo reggendo in piedi a fatica.

Il giorno successivo è stato molto meglio, Japanese Breakfast meh ma lei è carina, Baby Keem visto solo per tenere il posto, perché subito dopo sono partiti i Depeche Mode, e quello sì che è stato un gran concerto. Anche loro sono degli anziani, hanno anche perso un membro per strada, ma continuano a fare dischi che lasciano il segno, e dal vivo non ti fanno smettere un attimo di muoverti. Era la prima volta che li vedevo, ho avuto mille occasioni e ho sempre desistito, e adesso mi prenderei a sberle.
沙沙 prima del concerto mi ha chiesto perché ci fosse ancora tutta quella gente, le ho detto che erano tutti lì per vedere i Depeche Mode, mi ha chiesto chi sono i Depeche Mode, sono andato a cercare un avvocato divorzista, ma in mezzo a quel casino era complicato e sono tornato indietro.
Comunque quando hanno fatto Enjoy The Silence ha scoperto che li conosceva anche lei.

Quell’area del festival vedeva due palchi affiancati dove gli artisti si alternavano senza sosta: hanno cominciato Los Hacheros, una band cubana il cui cantante somiglia a un mio collega, poi Japanese Breakfast, poi Baby Keem che è anche bravo, ma l’hip-hop americano se non sei americano non è interessante, poi i Depeche Mode e poi Kendrick Lamar, a dimostrare che quella faccenda dell’hip hop americano se non sei americano è una cazzata, perché lui è un gigante ed è stato accolto come tale. Io l’hip hop lo seguo pochissimo, e mi sono goduto il suo modo di stare sul palco e tenere il pubblico e lo rivedrei anche domani.

Grandi soddisfazioni con Kendrick Lamar

Dal suo concerto a quello di Yves Tumor sono passate due ore durante le quali credo di essere svenuto perché non mi ricordo niente, sebbene fossi sobrio: ho bevuto un unico bicchiere di vino a pranzo e mi ha provocato un mal di testa che mi ha accompagnato per il resto della giornata, ma anche gli altri giorni una birra era più che sufficiente, perlopiù andavamo ad acqua.
Comunque Yves Tumor è stato la sorpresona dell’anno, mi aspettavo altro pop di quello che ascolta mia moglie, mi sono ritrovato in mezzo a delle svise di chitarra elettrica e una roba che stava fra Hendrix, Bowie e Prince, e non riesco a essere più preciso di così perché erano le due passate e mi stavo ribaltando dal sonno. Io non so cosa si calano quelli che riescono ad arrivare alla chiusura della serata, dopo le cinque.

L’ultima sera siamo arrivati tardi perché quelli che interessavano a me non mi interessavano al punto da rinunciare a farmi le vasche in centro, e il primo concerto è stato quello di Caroline Polachek, una che sembra un po’ Dua Lipa e di cui non ricordo granché, perché di là suonavano i War On Drugs che mi sembravano parecchio più interessanti.

Non è stato neanche il momento peggiore della serata, perché Calvin Harris mi ha starato la bilancia con cui sono solito pesarmi i coglioni. Sarà anche uno dei dj più famosi al mondo, ma per un’ora e mezza ha prodotto sta roba che inizia lenta, con una voce che canta, spesso di donna, e poi parte la cassa dritta che fa punz punz, poi ricomincia – sempre – uguale. Cambiano i suoni, c’è quello che somiglia a un piano e c’è quello che sembra il verso di Qbert, ma la struttura è sempre la stessa, lento – crescendo – cassa dritta – lento – cassa dritta – fine. Un’ora e mezza che avrei trovato più piacevole se fosse andato a fuoco il palco come è successo a Skrillex.

Un'ora e mezza di Calvin Harris è come mettere il cazzo in un pentolino e farselo alla coque

A chiudere il Primavera Sound, perlomeno per me, è stata quella che di questi tempi è considerata la Regina di Barcellona, essendo nata lì e in cima alle classifiche di mezzo mondo: Rosalía.
È pop, niente di pazzesco o che sopravviverà dieci anni, sono abbastanza sicuro che già alla prossima edizione del festival nella sua città la sua popolarità sarà molto ridimensionata, ma per il momento funziona, è divertente, e lei è indiscutibilmente in gamba. Sa tenere il palco, ha un gruppo di ballerini e una troupe di telecamere che la seguono in ogni momento, e trasformano in una coreografia anche quando si prende una pausa per bagnarsi la faccia o bere un sorso d’acqua. Sa ballare, per quanto capisca io di ballo, sa intrattenere il pubblico parlando a braccio (ma quello ci riesce a Barcellona perché è casa sua, non credo che funzionerebbe a Roma) o scendendo ad avvicinare il microfono ai ragazzi emozionati che la seguono abbracciati alle transenne. Il suo concerto si rivela uno dei migliori di questi quattro giorni, e il fatto che sia anche una figa da farti cadere la faccia per terra ogni volta che ancheggia è un elemento del tutto irrilevante nel mio giudizio complessivo.

Del viaggio di ritorno non ho da raccontare niente, per fortuna l’abbiamo fatto in aereo perché se avessimo di nuovo preso il Flixbus per 13 ore le mie rotule mi avrebbero denunciato per violenza domestica.

Adesso sono qui che sto cercando la lineup della prossima edizione; lo so che uscirà verso novembre, ma spero di trovare qualche indiscrezione e intanto mi immagino chi potrebbe partecipare, ma essendo un bel po’ fuori dalle tendenze musicali odierne finisco per crearmi una lista di musicisti che farebbe felicissimi molti miei coetanei, ma risulterebbe un disastro per gli organizzatori.

Di solito la scaletta copre più generazioni e stili, per accontentare più gente possibile: si va da John Cale, che è in giro dagli anni ’60 e ha fondato i Velvet Underground, alle Red Velvet, uno dei gruppi k-pop più famosi al mondo; c’è l’hip-hop, la techno, l’hardcore e anche la musica cubana. Con una scelta così ampia sarebbe un dramma mettere insieme una selezione basata solo sulle competenze musicali limitate dei miei coetanei, anche se per il momento siamo la generazione con più disponibilità economiche.

Però se l’anno prossimo mi fanno suonare Bjork, i Chemical Brothers, i Police e magari mi rimettono insieme apposta gli Oasis mi ci trascino anche sui gomiti, fosse pure che poi non c’è nessun altro.

Scrivo questo post dopo l’ennesima notte passata a dormire poco e male, quindi scusatemi in anticipo se i miei pensieri risulteranno slegati. Anche quando scrivo dopo una bella nottata riposante i miei pensieri risultano slegati, ma in quel caso la scusa è che voglio essere creativo.

Io non lo so come fanno quelli che hanno dei bambini piccoli che li tengono svegli per mesi a non finire nei casellari giudiziari, a me basta un cane e una moglie quando devo fare il turno di mattina per invocare apocalissi, e anche se alla fine trattengo la mia furia omicida mi resta addosso una sete di sangue da film di vampiri, e cerco di sfogarla infilandomi puntualmente in risse verbali con chiunque.

Questa settimana ho già litigato con entrambi i miei genitori, non simultaneamente sennò era troppo facile, e con una decina di sconosciuti pescati a caso su Twitter. Poi un’amica mi ha detto di avere fatto una pazzia dal parrucchiere, l’ho guardata, era identica a prima, le ho chiesto cos’avesse fatto di preciso; mi ha spiegato che dopo averci pensato a lungo ha deciso di tagliarsi i capelli cortissimi. L’ho guardata ancora con più attenzione, ma i suoi capelli erano sempre lunghissimi, tipo oltre le spalle, che per me sono lunghissimi. Le ho chiesto se stesse effettivamente parlando dei propri capelli, quelli che porta in testa e non di altri peli che le crescono altrove, certe volte ci si confonde, specialmente se parli delle lingue in cui tutto l’ambito tricologico di una persona si chiama con lo stesso nome, tipo in inglese peli e capelli si chiamano “hair”, in spagnolo “pelo”; la mia amica non è né inglese né spagnola, ma magari voleva tirarsela di essere poliglotta, ho una collega che dopo lunghi studi è riuscita a prendere il livello base di spagnolo e adesso non perde occasione di usare tutte e 200 le nuove parole che ha imparato.

La mia amica mi ha mostrato che per la prima volta ha tagliato i capelli di 5-6 centimetri, pronunciati con un sacco di punti esclamativi, invece del solito uno, unoemezzo. Una pazzia, ha ripetuto.

Le ho elencato le sole condizioni ammissibili per cui una visita al parrucchiere può essere definita una pazzia:

  1. Un taglio di almeno 20 cm;
  2. Una vistosa rasatura sulle tempie tipo Natalie Dormer in Hunger Games o un autista di Bartolini;
  3. Un tatuaggio sulla faccia come Tyson. Lo fanno anche i cantanti di trap, ma per me trap è un allenatore di calcio, e il trapper un cacciatore di pellicce americano, e tutte le volte mi confondo;
  4. Un taglio qualsiasi che paghi più di 40 euro.

Ne è nata una discussione alla quale ho più che altro fatto presenza perché stavo ancora pensando a Natalie Dormer. Perché non ha fatto più film? Perché non ha fatto più film in cui compare nuda?

Per questa ragione non so se l’ultimo episodio possa essere effettivamente omologato come scontro dovuto alla carenza di sonno, ma la giornata è lunga e le persone con cui devo avere a che fare oggi sono molte.

Non è bello che succedano queste cose, possono anche avere effetti deleteri sulla vita delle persone, almeno quanto il consumo di sigarette o votare Lega. Credo che bisognerebbe considerare l’aver dormito poco come un valido motivo per mettersi in mutua, e nello stesso decreto per favore aggiungiamoci l’obbligo di erogare un caffè degno di questo nome dalle macchinette, che se volevo che la mia bocca sapesse di bitume mi sarei fermato in autostrada a dare una bella leccata all’asfalto.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
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Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
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Incubus – Megalomaniac
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Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit
Kassav’ – Zouk-la sé sel médikaman nou ni

L’ultima volta che ci siamo visti abbiamo parlato dei Kassav’, e non sto a ripetervi chi sono stati perché se ascolto un altro pezzo di zouk finisce che mi iscrivo a un corso di danza caraibica. Avevo un amico che frequentava questi corsi, ogni volta che eravamo in giro, ovunque fossimo, se sentiva un ritmo familiare iniziava a sculettare e fare i passetti, ci faceva fare certe figure, le ragazze si allontanavano. Abbiamo dovuto smettere di portarcelo dietro perché la nostra vita sessuale si stava azzerando. Poi abbiamo scoperto che non era mica colpa sua se non rimorchiavamo, ma oramai era troppo tardi per riprendercelo, il bastardo si era sposato con una modella brasiliana conosciuta in un salsodromo.

Nel 1984, mentre nell’omonimo romanzo Winston e Julia consumavano la loro storia d’amore segreta in una stanza del Prolet, i Kassav’ pubblicavano il loro ottavo album Ayé. Non furono gli unici a pubblicare un album, sennò il 1984 ce lo ricorderemmo per la sua aridità musicale invece che per un romanzo distopico, e non furono gli unici a pubblicare l’ottavo disco, dato che nello stesso anno uscirono sia Note’n notes di Michel Petrucciani che Berserker di Gary Numan.

Se dovessi scrivere una puntata dedicata al pianista francese la chiuderei con Caravan, un brano di Duke Ellington che Petrucciani incise nell’unico album live che possiedo, così potrei raccontarvi che quando mettevo il suo disco in macchina nelle serate con gli amici ce n’era uno che mi chiedeva sempre di saltarla. Il fatto è che si era lasciato da poco con una ragazza, e proprio quel pezzo lo faceva soffrire, non so perché, cose loro, forse lo usavano come colonna sonora dei loro incontri sessuali. Forse vi interesserà sapere che anni dopo si sono rimessi insieme, poi si sono sposati e poi hanno anche divorziato, e spero che Caravan sia stato un brano fondamentale anche in quelle occasioni, così perlomeno adesso non chiederà ai suoi amici di saltare altri brani di altri dischi.

Invece vi parlo di Gary Numan, che si collega un po’ a quella vicenda anche lui, ma non vi posso spiegare perché, è troppo personale. Fidatevi.

Fidatevi è anche il titolo di un album dei Ministri, ma ho già detto che parlerò di Gary Numan.

Gary Numan probabilmente lo conoscete già se avete fra i 50 e i 60 anni e possedete tutti i dischi dei Depeche Mode, altrimenti potreste non averlo mai sentito nominare. È stato tuttavia un pilastro del synth pop, autore di uno dei suoi brani più conosciuti, Cars, con cui rubò la vetta delle classifiche dei singoli inglesi al più popolare cantante del Regno Unito, Sir Cliff Richard. Durò una sola settimana, e quella dopo anche lui dovette cedere il passo a dei cazzo di fenomeni che seppero dominare il decennio successivo e un po’ anche i successivi, ma dei Police casomai parliamo un’altra volta.

Cars è anche il suo unico pezzo ad avere avuto un certo successo oltreoceano, tanto che è finito anche nella colonna sonora di un videogioco Marvel, insieme ad altri brani dell’epoca.

E con questa informazione credo di avere esaurito quello che avevo da raccontarvi su Gary Numan. Anche su wikipedia non c’è molto, dice che dopo quei 15 minuti di celebrità si è spento come la candela del motorino e da allora spinge. Continua a buttar fuori dischi, ma il trionfo di allora non è più tornato. Un po’ come quando lei ti dice che vuole prendersi una pausa ma che non c’è bisogno che cancelliate la prenotazione della vacanza a Praga.

Però c’è una storia su Gary Numan che è fighissima, e riguarda le bibite gassate.

Nel 1982 la 7-Up, la bevanda che qui da noi è conosciuta come “la gazzosa in lattina che non è la Sprite”, contattò il nostro musicista per fargli comporre tre jingle da utilizzare in altrettanti spot pubblicitari. La cifra pattuita fu di 10.000 sterline, e il testo ce l’avrebbero messo loro. Numan si mise al lavoro e compose una roba molto orecchiabile, di quelle che ti rimangono in testa, ma non riuscì a convincere i suoi committenti.

La cosa assurda fu che loro quella musica non la ascoltarono neanche, perché il giorno dell’incontro negli Stati Uniti l’artista non si fece vedere. I dirigenti della 7-Up se la presero tantissimo e decisero che non avrebbero più lavorato con Numan in futuro, guarda te sto stronzo chi si crede di essere.

Numan, dal canto suo, ci aveva anche provato ad arrivare in tempo all’appuntamento, ma il suo aereo era rimasto senza carburante e dovette effettuare un atterraggio di emergenza prima di lasciare l’Europa.

Poi uno dice vabbè, gli è caduto l’aeroplano, rimandi l’incontro, la prodduzione slitta di una settimana e va tutto a posto, che ci vuole? Oggi basterebbe un messaggio di whatsapp, “Buongiorno, scusate ma non potrò essere presente all’appuntamento di domani perché sono precipitato su un’isola deserta e adesso devo schiacciare in sequenza una serie di tasti altrimenti il fumo nero distruggerà il mondo”, ma allora le cose erano molto più complicate, i produttori di bevande gassate erano parecchio permalosi e per una cazzata come rischiare di morire ti toglievano anche il saluto.

Per esempio mi ricordo di una nota azienda che nei primi anni 2000 era finita sotto processo perché alcuni suoi operai che lavoravano in filiali sudamericane erano stati uccisi dopo avere chiesto salari più umani. Non dico che li avesse uccisi lei, la nota azienda, anche perché alla fine era stata assolta, però a quei tempi si sentivano spesso queste storie di sindacalisti spariti, operai picchiati alle manifestazioni, studenti caricati dalla polizia, e c’era stato un momento in cui l’indignazione per questi abusi aveva cominciato a incanalarsi in un movimento uniforme; in molte città nascevano comitati che raccoglievano studenti e lavoratori che avevano in comune il fatto di essere incazzati. Non c’era incontro fra capi di stato che non vedesse un suo doppio popolare a manifestare poco distante, c’era tensione e stava crescendo. Poi c’è stato l’11 settembre e il mondo ha svoltato in un’altra direzione, e di queste tensioni non si è saputo più niente.

Certo, anche oggi ci sono persone che si riuniscono per protestare, ma è tutto più scollegato, l’opinione pubblica non li segue, e in genere chi ha il potere non si sente granché minacciato da chi quel potere lo subisce, e fa un po’ il cazzo che gli pare senza più doverne rendere conto. Le bibite gassate hanno ancora il potere di fare e disfare, e possono aumentare il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera per avere la materia prima a basso costo da infilare nelle bollicine, e ancora oggi decidono se a capo del più grande impero moderno ci starà Ratzinger o Francesco (questa mi hanno detto di scriverla così, non la capisco neanch’io), ma sopra di loro oggi ci sono poteri più forti, venuti fuori dopo il 2001 e di cui anche i più attenti fra di noi, tipo i cazzo di nazisti simpatici sciroccati di Byoblu, sono del tutto ignari. Oggi perfino i grandi leader mondiali delle bibite gassate sono costretti a piegare la testa di fronte a giganti più grossi di loro, e se non sapete di chi sto parlando mettetevi seduti perché sto per fare un nome grosso e del tutto inaspettato.

Le macchinette distributrici. Sono loro le vere depositarie del potere occulto, coloro che oggi hanno in mano il destino del mondo, e da dietro il loro accogliente vetro ci osservano e imparano e decidono. Sono in tutti gli edifici dove si amministra il potere, hanno contatti quotidiani con tutti i principali leader mondiali, ma di più, danno letteralmente loro da mangiare. E sono sempre loro a decidere l’umore di chi comanda, e a influenzare così le loro decisioni; sono sempre loro, infatti, a decidere se la lattina te la vogliono erogare o magari te la incastrano a metà del binario, e per quel giorno ti devi accontentare della barretta ai cereali. Per noi potrebbe esseere un inconveniente da poco, ma immagina se proprio quel giorno devi presiedere a un incontro con un altro capo di stato con cui sei ai ferri corti per questioni noiose e complesse come il passaggio di un tubo che porta olio raffinato indispensabile per il sostentamento di un’etnia minoritaria che ti sta pure sul cazzo perché ha inventato il tormentone estivo con cui tua figlia ti ha ammorbato i timpani per tutte le ferie, e invece di presentarti con la bocca rinfrescata dalle bolle zuccherose di una bevanda lievemente aromatizzata al limone ci vai con la bocca asciutta e impastata di crusca, una sete che ti berresti l’Adda e le balle girate, e quello che poteva essere il primo importante cenno di distensione su una situazione che sta tenendo il mondo in apprensione si rivela l’ulteriore passo verso una crisi che potrebbe avere conseguenze drammatiche per milioni di persone.

E non è che la risolvi chiamando il servizio clienti e chiedendo un rimborso, perché se ci provi ti risponde una segreteria che ti chiede di scegliere in un labirinto di risposte multiple col chiaro intento di farti rinunciare, e anche nella rara ipotesi in cui riuscissi a mantenere la rotta e farti passare un operatore finiresti nelle mani ostili di Adelina dall’Ungheria, che ti legge delle risposte standard dal manuale che ha in dotazione e di cui ignora il significato, e quando riattacchi sei più insoddisfatto di prima e nutri un odio viscerale verso i curdi.

Che poi, riattacchi, anche lì ci sarebbe da dire. Una volta, coi telefoni a cornetta si diceva riagganci, o riattacchi, perché per interrompere il collegamento dovevi riappendere la cornetta dentro a cui parlavi all’apposito sostegno, ma oggi cosa riattacchi, al limite schiacci, sfreghi, scrolli, e dato che il cellulare ti permette di fare un sacco di altre cose questi verbi non sono più legati esclusivamente a chiudere una conversazione, puoi in effetti schiacciare e sfregare per ogni possibile utilizzo dell’apparecchio. Ci serve un verbo apposta per quando chiudi la conversazione, bisognerebbe parlarne a Gary Numan, che magari ci scrive una canzone apposta, diventa una hit internazionale e ottiene finalmente quel riscatto che gli manca dai tempi della 7Up, e questo lancia un segnale occulto ai grandi vecchi che governano il mondo, che si rendono conto che da questa parte qualcuno ha capito come stanno le cose e sta cominciando una controffensiva, e magari anche i distributori di lattine rimettono la testa a posto e perlomeno sostituiscono Adelina con qualcuno che capisce cosa cazzo gli stai dicendo.

(continua)

Io se dovessi scegliere per cosa vorrei essere ricordato mi verrebbe naturale rispondere “per avere esteso i confini del Sacro Romano Impero fin quasi in Cina, ma siccome non sono credente lo avrei chiamato solo Romano Impero, ma siccome non sono neanche romano l’avrei chiamato solo Impero, ma siccome la fama di imperatore si accompagna sempre a un mucchio di sofferenza imposta, e imporre sofferenza non è nel mio carattere, a Impero vorrei sostituire una parola meno impegnativa, tipo Territorio”, ma così non vuol dire un cazzo, perché uno dovrebbe essere ricordato per avere creato del territorio? Il territorio c’era anche senza di lui, e quindi se dovessi essere ricordato per qualcosa mi toccherebbe buttarmi su una cosa banale come la musica.

Ochei, non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, ma se dovessi essere ricordato per qualcosa dopo la mia scomparsa vorrei che fosse per avere avuto un’intensa e talentuosa carriera musicale, fatta di singoli che hanno scalato le classifiche e si sono imposti nella cultura popolare, sia i lenti che centinaia di chitarristi amatoriali hanno suonato smargiassi in spiaggia per rimorchiare le villeggianti, sia quelli più pompati che hanno raccolto il favore dei rocchettari. Vorrei che le mie canzoni fossero diventate la bandiera di una generazione ma che piacessero anche a quella successiva, e che i miei concerti fossero stati pieni di vecchi e ragazzini come in un documentario sui pedofili. Vorrei avere ricevuto l’onore della copertina su Rolling Stone, Buscadero e Cioè, ma anche su Vogue dove ad un certo punto avrei rilasciato un’intervista in cui accennavo alla mia armocromista e triggeravo tutta la politica nazionale, perché in Italia solo due cose scatenano il dibattito collettivo: toccare i soldi ai ricchi e le cazzate.

Vorrei che la mia carriera mi avesse portato a suonare nei più grandi templi della musica internazionale, alla Fenice di Venezia, al Madison Square Garden di New York, a Hyde Park a Londra, e ad un certo punto anche alla sagra della patata di Montoggio, perché una volta sul palco di quella manifestazione così snobbata dal mainstream ci ho visto esibirsi Mario Tessuto così ubriaco che a momenti cade, e per me quello è quando hai raggiunto la consacrazione definitiva e sei così popolare da aver fatto il giro, te ne puoi sbattere il cazzo, ogni posto è lo stesso, sobrio o no è lo stesso, hai vinto, sei immortale.

E a quel punto vorrei che i concerti e i dischi e le interviste e le collaborazioni mi riempissero la vita, e mi appagassero tanto da farmi decidere di prendermi una pausa, e dopo la pubblicazione del mio ultimo album, naturalmente vendutissimo, dichiarerei che non andrò in tour, magari non subito, e mi ritirerei timidamente dalla scena, e all’inizio nessuno ci farebbe caso, ma poi gli anni passerebbero e qualcuno comincerebbe a notare che è da un po’ che non rilascio interviste, e qualche rivista scriverebbe un articolo intitolato “ma dov’è finito?” e comincerebbero a circolare notizie false, tipo che sono morto e sono stato sostituito da un sosia, ma il sosia è Mario Tessuto, oppure che mi sono messo a produrre vino nella mia tenuta di campagna, o che mi ha preso la demenza e sono diventato consigliere comunale della Lega. Tutti si chiederebbero dove sono finito e cosa sto facendo, e ogni tanto qualche curioso verrebbe a cercarmi nella mia casa di campagna in un posto segreto e isolato, ma non così segreto perché non avrei comunque perso l’abitudine di andare a fare la spesa in paese, e la gente si sa, parla, e quindi alla fine qualcuno che sa dove cercare saprebbe trovarmi e verrebbe a chiedermi se gli rilascio un’intervista e io, gentile ma deciso, lo allontanerei dicendo che negli ultimi anni non mi sono dedicato a rilasciare interviste ma mi sono specializzato nel tiro con l’arco e non so se si capisce la vaga minaccia fra le righe, e il giornalista la capirebbe e mi saluterebbe con cortesia e un po’ di timore e non si presenterebbe più e io me ne starei tranquillo per un altro po’ di anni, ma il tarlo dell’artista non mi lascerebbe riposare e continuerebbe a scavare i suoi cunicoli dentro il mio animo tormentato, e alla fine, come un tavolo antico si presenta tutto bello lucidato nel negozio dell’antiquario, anch’io emergerei dal mio esilio con un disco nuovo, uscito un giorno nelle vetrine di quei pochi negozi ancora aperti e su tutte le piattaforme di streaming; un disco tutto intero, senza singoli ad anticiparne la pubblicazione, senza annunci, senza video; un disco che un giorno te lo trovi davanti e magari non lo noti neanche, in mezzo agli altri, ma in copertina c’è il mio nome e sotto il nome c’è la mia faccia con la solita espressione malandrina che tanti cuori ha saputo conquistare, e allora ti fermi e dici “possibile?” e te lo compri oppure lo ascolti su Spotify, fai un po’ come ti pare, ma è vero, sono proprio io, è un disco nuovo, ed è bellissimo.

Il mio nuovo lavoro verrebbe salutato dai fans con calore, e dalla stampa con un certo scetticismo, e dai miei nuovi colleghi che nel frattempo avrebbero scalato le classifiche con un “ma chi cazzo è questo?”, ma dopo un paio di settimane comincerebbero a uscire recensioni entusiaste perché pochi cazzi, il disco sarebbe un autentico capolavoro, e mi chiederebbero tutti se seguirà un tour, e io direi mm non lo so, farei il vago, ma poi a sorpresa prenderei il mio pulmino e radunerei i vecchi amici della band e faremmo un giro clandestino per locali sgangherati e circoli di pensionati e giardini pubblici di piccoli paesi e varie realtà in cui si pratica il volontariato, senza annunciarci, tipo che tu vai lì una sera a bere una birra con gli amici e ci trovi il concerto di uno degli artisti più celebrati del momento e te lo guardi a babbo perché non farei neanche pagare il biglietto, è ovvio, al limite un’offerta volontaria che comunque devolverei in beneficienza perché non ho certo bisogno di soldi, che una delle cose che si direbbero spesso di me nell’ambiente sarebbe quanto sono generoso.

Poi dopo qualche data così rilascerei finalmente un’intervista, ma solo al mio giornale preferito, perché sarei generoso ma anche parecchio snob, e i giornali che negli anni hanno diffuso notizie non verificate o fatto sensazionalismo o pubblicato articoli che puntavano sullo scandalo o sulla facile emotività e quindi praticamente il 90% della stampa italiana, io quei giornali lì li boicotterei e a loro la mia intervista esclusiva non gliela rilascerei, e andrei invece nella redazione del Post e mi farei intervistare da uno dei giornalisti che lavorano lì, sperando che fosse Luca Misculin invece di Matteo Bordone, perché anche se è più preparato per quel genere di articoli ed è molto simpatico ha quest’atteggiamento un po’ tanto presuntuoso che certe volte lo mena, e poi le vocine che fa mi stanno tutte sul cazzo. L’importante è che non mi intervisti mi chiamo Stefano Nazzi e faccio il giornalista da tanti anni e nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa, perché vorrebbe dire che sono morto male oppure che sono un ultras con dei legami con la camorra.

Comunque ad un certo punto dell’intervista mi chiederebbero come ho fatto a diventare un musicista così celebrato, considerato che non so suonare nessuno strumento e canto come il bardo di Asterix, e io davvero non saprei cosa rispondere, e tutta la mia carriera finirebbe in quel momento, perché di fronte a una domanda così personale tutti si risveglierebbero da quella specie di sogno collettivo in cui erano finiti, e riascolterebbero i miei dischi e si renderebbero conto che sono suonati male e cantati peggio, che i testi sono imbarazzanti, che non c’è un virtuosismo, non c’è un’idea originale e che tutte le canzoni sono fatte sullo stesso giro di accordi sol, mi minore e re, che non è neanche un giro giusto, ma sono gli unici che mi vengono decentemente, e in un attimo tutta la mia discografia comprese le edizioni limitate con la copertina metallizzata speciale Lucca Comics finirebbero in piazza Banchi nella cassetta dei dischi a 2 euro, e nessuno verrebbe più ai miei concerti, nessuno vorrebbe ammettere di essere stato mio amico, di avere suonato con me, neanche Peter Gabriel vorrebbe ricordare di avermi arrangiato un pezzo, la mia casa discografica mi straccerebbe il contratto, e perfino i giornali di destra che fino a ieri mi demonizzavano volentieri mi ignorerebbero, perché di me come artista non fregherebbe più niente a nessuno, e sull’indifferenza non attacca neanche l’odio.

Passerei altri vent’anni nel più totale anonimato, ma comunque ricchissimo perché i dischi me li avevano comunque pagati coi soldi veri, mica con delle cambiali, a girare il mondo e grattarmi la pancia, finché un giorno un sito di musica piuttosto conosciuto che oggi non esiste ancora ma che potrebbe essere Pitchfork pubblicherebbe un articolo che parla di me, dove verrei definito il più grande troll della storia della musica.

L’articolo accenderebbe un dibattito, i lettori si dividerebbero fra chi mi considera un genio troppo in anticipo sulle mode del tempo per essere compreso, un prodotto non tanto diverso da certi artisti indie, e chi mi liquida come un truffatore incapace inascoltabile e comunque a me non è mai piaciuto perché io ascolto solo i King Crimson. Altri giornalisti comincerebbero a occuparsi di me al di fuori dell’ambito musicale, prenderebbero in considerazione la mia indiscutibile capacità comunicativa, che mi ha reso capace di prevalere su colleghi ben più talentuosi, e la fama di truffatore verrebbe ripulita della sua patina negativa, come spesso succede a chi si rende famoso per qualche colpo milionario.

I truffatori sono sempre accettati dall’opinione pubblica, per la loro abilità di guadagnare alle spalle degli ingenui. Siamo sempre portati a stare dalla loro parte perché a nessuno piace schierarsi con chi si fa fregare; oltretutto, spesso, le vittime di una truffa ci sono cascate pensando di guadagnare giocando sporco, infrangendo a loro volta le regole, quindi il truffatore diventa, ai nostri occhi, una specie di Robin Hood.

Sarebbe quella la trasformazione che il mio personaggio subirebbe agli occhi del pubblico, da viscido manipolatore a simpatico eroe popolare, e dopo un po’ arriverebbero i produttori di Netflix a chiedermi il permesso di girare un documentario sulla mia storia. I miei dischi tornerebbero a vendere, non più per la loro qualità, ma come oggetto di culto, come succede oggi ai film di Ed Wood e ai film con Bombolo, ma lentamente quelle canzoni sgangherate verrebbero ascoltate con una consapevolezza diversa, e apprezzate per ciò che sono realmente, e finirebbero per lanciare una tendenza. Comincerebbero a nascere artisti che si ispirano al mio stile e, come Anna Slezáková è ricordata per avere inventato la polka, finirei per essere ricordato come il creatore di un genere musicale, che chiamerei pabloni sbagliato perché è buffo, ma che col tempo tutti definirebbero col nome che gli avrebbero appioppato gli americani, l’awful.

È così che vorrei essere ricordato, come il più grande troll della storia e l’inventore di un genere musicale. Mi sembra una richiesta tutto sommato umile, ma se neanche questa piccola soddisfazione mi è dovuta allora permettetemi almeno di sparare a un presidente. Me ne basta uno qualsiasi, anche piccolo. Non serve che sia un capo di stato, mi va bene anche il presidente di una proloco, basta che mi garantisca la fama sempiterna a cui ambisco. In un mondo in cui essere famosi per 15 minuti è diventata una condanna, volerlo essere per sempre diventa la sua naturale conseguenza.

Che poi se lo chiedi a qualcuno con dei figli piccoli che ieri magari ha passato la notte a tenergli la fronte perché vomitavano a turno che sembrava una scena tagliata dell’Esorcista e stamattina ha dovuto alzarsi due ore prima per prepararli e portarli all’asilo prima di andare a lavorare, ti sentirai rispondere che due mesi a casa da solo sono un dono del cielo e che certe volte si ritrova a progettare di sterminare la famiglia a colpi d’ascia e poi andare a costituirsi così trent’anni di tranquillità in una cella non glieli leva nessuno, ma a me che figli non ne ho questi due mesi in cui l’altra metà della famiglia dovrà trascorrere dall’altra parte del mondo non sono sembrati tanto un dono quanto un impegno da prendermi con quelle piccole cose di cui di solito si occupa chi passa più tempo a casa, che di solito non sono io.

Tipo dare la pastiglia alla gatta, che abbiamo una gatta epilettica, cioè, non l’abbiamo presa così, ci è diventata dopo, vai a sapere perché, ma adesso due volte al giorno dobbiamo darle dei barbiturici per evitare che le vengano delle crisi e abbia una vita normale. Grazie a questa cura quotidiana sta bene, piccina, tranne quelle due volte al giorno in cui devo cacciarle un dito in gola, ma l’alternativa era accompagnarla alla chitarra e fondare i Joy Division. Devo averla già usata questa battuta, ma mi fa sempre ridere.

Oppure tipo prendermi cura di João, per cui la fetta più grossa dell’impegno richiesto viene via a cercare di non ucciderlo per tutta una serie di ragioni che non sto a elencare perché magari qualcuno mi sta leggendo durante i pasti.

O sostituire le cose che decidono di rompersi appena mi ritrovo da solo in casa e provo a sedermi sul divano, o rimettere in ordine, insomma, quella roba che conoscete bene se non abitate su un marciapiede.

Non avendo una vita particolarmente complicata, ritrovarmi da solo mi ha esposto a quella parte di doveri a cui riuscivo a sottrarmi, negandomi nel contempo il piacere di avere qualcuno accanto, che da sempre mi rende più sopportabile adempiere a tali doveri. Questo viaggio in Cina di 沙沙 non mi sembrava un affarone, era più uno schema Ponzi in cui io dovevo sbolognare tutti i miei impegni a qualcun altro per recuperare del tempo libero, tipo il cane a mio padre, pranzi e cene da mia madre, le pulizie di casa a un esorcista e la pastiglia della gatta a mia sorella. E io non lo conosco un esorcista, e mia madre cucina di merda.

Per fortuna, dopo due settimane, gli impegni casalinghi si sono rivelati più lievi del previsto. Quando torno a casa dal lavoro non c’è nessuno che mi dice che dobbiamo assolutamente andare a fare la spesa a diecimila chilometri di distanza perché è finito il concentrato di yak che vendono solo al supermercato di Lhasa e senza quello stasera salta la cena e ci tocca ordinare di nuovo la pizza di gomma, e il sabato posso passarlo finalmente a casa e non in giro perché mentre io uscivo tutti i giorni per andare a lavorare c’era qualcuno che aspettava proprio quel giorno per prendersi una boccata d’aria.

Adesso quando torno a casa ho un giardino di opportunità che mi sbocciano davanti, e devo solo decidere quale cogliere, e sono tutte così promettenti, così gonfie di divertimento per non essere state adeguatamente sfruttate nei mesi passati, da riempirmi non solo la giornata in corso, ma in prospettiva tutte le altre che dovrò ancora trascorrere a casa da solo.

Insomma, 沙沙 non mi manca affatto, se mi dicesse che deve fermarsi altri sei mesi perché quel coglione del suo presidente con la faccia da meme ha deciso di impedire a tutti i cinesi di espatriare per raddrizzare il PIL, le risponderei che mi dispiace, ma sotto sotto mi farei una risata, pensando a tutti i giochi e ai libri e ai film e ai fumetti che potrò consumare in pace in quel tempo regalato.

Poi però mi appare la sua faccia nel telefono che mi dice che le manco, e mi sorride perché è felice di vedermi, e io mi ricordo all’improvviso perché un giorno ho accettato di rinunciare a tutto il mio tempo libero per dedicarlo a una ragazza cinese con la faccia rotonda e gli occhi piatti, e quando chiudiamo la chiamata e lo schermo si ferma un secondo sul suo viso immobile e sorridente, io immagino il me stesso ventenne che se gli avessero mostrato quella faccia lì e gli avessero detto che un giorno del futuro quella faccia lì sarebbe stata sua moglie e lo avrebbe reso felice, io credo che il me stesso ventenne avrebbe trascorso gli anni successivi a sbattersene le balle di tutte le storie del cazzo che gli si sarebbero presentate davanti, avrebbe sorriso fino a farsi venire i crampi alla mascella e avrebbe dormito meglio, quindi oggi avrebbe meno rughe e meno capelli bianchi, e forse quella ragazza cinese lo amerebbe anche un po’ di più. Ma forse non esiste un di più, e questo è un bel pensiero con cui far passare due mesi, anche meglio di Fifa 23.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?
Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
Los Tucanes de Tijuana – El Chapo Guzman
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero
Celia Cruz – La Vida Es Un Carnaval
Duke Ellington – The Mooche
Renato Rascel – Romantica
Igor Stravinskij – Pulcinella Orchestral Suite – Part I/III
David Bowie – Pablo Picasso
Prince – Cream
Wu-Tang Clan – C.R.E.A.M.
Frances Yip – Green Is The Mountain
VIXX – Error
Ili Ili Tulong Anay – Mvibe
Mahani Teave & Viviana Guzman – Flight Of The Bumblebee
Martina Trchová – U Baru
ZAZ – Qué Vendrá
Incubus – Megalomaniac
Cartola – Alvorada
Yes – The Revealing Science of God (Dance of the Dawn)
No – Meet Me After Dark
Moby – My Weakness
Waka Flocka Flame feat. Drake – Round Of Applause
Sugarcubes – Hit

Avevo chiuso la scorsa puntata promettendovi che di qui in avanti la mia rubrica di musica giramondo si sarebbe dedicata solo al mio grande e perduto amore Bjork, tanto oramai le visite al Pablog si sono attestate sulle tre alla settimana, non rischio certo un’emorragia di lettori. Solo che per scegliere quali canzoni proporre avrei dovuto ascoltare un sacco di roba di Bjork, e a casa quando metto Bjork troppo a lungo rischio il divorzio, quindi la scelta è diventata fra la mia arte e il mio matrimonio, quindi fra scrivere roba mediamente divertente a scrivere roba nera e incazzata. È per questo che oggi parlerò di un’altra band, collegata agli Sugarcubes per avere partecipato entrambi al Roskilde Festival, in Danimarca, nel 1988.

Del Roskilde Festival devo dire qualcosa. Intanto che è considerato il più vecchio festival musicale europeo: dal 1971 ha offerto un palco a una straordinaria lista di musicisti, dai nomi che conosci solo se sei un grande appassionato di jazz scandinavo fino a quelli che spaccano le classifiche ogni volta che fanno uscire un singolo. Per dire, l’edizione del 2022 ha visto sfilare Robert Plant e Alison Krauss, ma anche Dua Lipa e i Fontaines D.C., attirando nella fangazza in cui è solito sguazzare il pubblico sia i trentenni sia i sessantenni.
E poi devo dire che ci sono i nudisti. Lungo il perimetro dell’area campeggio si corre ogni anno la Roskilde Naked Run, una maratona che, come dice il titolo, punta più sull’aerodinamicità dei concorrenti che sulla loro preparazione atletica, si corre tutti nudi, giovani, anziani, sporchi di fango e non. Io credevo che in Danimarca facesse freddino d’estate, ma evidentemente mi sbagliavo.

L’edizione del 1988 vide esibirsi, fra i nomi più popolari, i Toto, Leonard Cohen, Sting e i Pogues. Al festival però, non alla maratona dei nudisti, ed è un peccato, perché esiste uno studio che dimostra come le orecchie di Shane Macgowan quando corre producano un suono che si avvicina molto al frullare di ali del dodo, un uccellone ormai estinto. C’era anche Ali Farka Touré, a cui ero tentato di dedicare questa puntata, ma alla fine ho deciso di buttarmi su suoni più caraibici, per cui oggi vi parlerò dei Kassav’.

Shane MacGowan of The Pogues, 1980s | The pogues, Irish punk, Irish music
Non una delle foto migliori di Shane Macgowan, oppure sì

C’è un apostrofo dopo la v, ma non è un errore di battitura. La band prende il nome dalla cassava, la pianta che noi conosciamo come manioca, e più precisamente da un piatto tipico delle Antille, l’area dell’America Centrale che comprende Cuba, la Giamaica, Haiti e parecchie isole minori. Nel 1979 sull’isola di Guadalupa, azzarderei intorno a mezzogiorno, è nata la band Kassav’, formata dal bassista Pierre-Edouard Décimus e dal cantante e chitarrista Jacob Desvarieux, un personaggio cresciuto fra la Francia, il Senegal e Guadalupa, dove si è caricato di ritmi che poi ha dovuto convogliare da qualche parte sennò non riusciva a tenere i piedi fermi e la gente lo trovava oltremodo molesto. A Parigi suonava l’heavy metal, e quando i due artisti si incontrarono, e Décimus chiese a Desvarieux se voleva aiutarlo a mettere su una band, quest’ultimo pensò che si trattasse di un altro progetto di roba che picchia, e accettò con gioia.

La prima volta che si ritrovarono in sala prove, Desvarieux arrivò con la maglietta degli Scorpions, perché nel ’79 gli Iron Maiden avevano pubblicato solo un EP, e anche Eddie, lo zombi protagonista di tutte le loro copertine, sarebbe arrivato solo l’anno seguente. Décimus, che veniva da un mondo jazz, funk e sale da ballo, si presentò con un abito bianco, papillon nero e gilet dorato. I due si guardarono e si domandarono entrambi se per caso non stessero facendo una cazzata.

Non la stavano facendo: quell’incontro li portò a creare un nuovo genere musicale, lo zouk, un mischione di diversi ritmi locali, che in breve ottenne un successo pazzesco fra gli espatriati creoli in Europa, e non li fece diventare una band popolare, di più, li trasformò in un simbolo identitario. Se eri creolo e vivevi fuori dal tuo paese ascoltavi lo zouk, e se ascoltavi lo zouk ascoltavi i Kassav’.

Successe un po’ la stessa cosa negli Stati Uniti fra gli immigrati italiani: ai matrimoni napoletani suonavano la tarantella, e a quelli lombardi oh quant’è bella l’uva fogarina, e dopo un po’ ai matrimoni lombardi non ci andava più nessuno perché ci si rompeva il cazzo, si ritrovavano gli sposi coi loro parenti in questi saloni vuoti, e intanto nel palazzo di fronte era tutta una festa, casino, gente che gridava, petardi. Era di un triste che le coppie lombarde smisero di sposarsi fra di loro, e iniziarono a cercarsi i coniugi fra le famiglie del meridione per potersi imbucare alle loro feste. Fu proprio dall’unione delle tradizioni lombarde con quelle napoletane che, fra le altre cose, nacque la pizza col gorgonzola.

Nel 1983 i Kassav’ pubblicarono il singolo Zouk La Se Sel Medikamen Non Ni (Zouk è la sola medicina che abbiamo), fu il primo disco antillano a vendere 100.000 copie, impresa resa ancora più memorabile dal fatto che allora non esistevano i no-vax ad appropriarsi del brano per una delle loro assurde campagne.

Con gli anni produssero più di 50 album, e nel 2019 celebrarono il loro quarantesimo compleanno.
Oggi Pierre-Edouard Décimus è ancora in giro e continua a produrre musica, mentre il suo compagno Jacob Desvarieux se l’è portato via il covid l’anno scorso, celebrato da tutto il mondo musicale come uno dei grandi.

Personalmente ho un rapporto conflittuale con la musica da ballo, vorrei muovermi a tempo e somigliare a una sinuosa baiadera, emettere energia come una lampadina e ispirare le persone intorno a me ad alzarsi dalle loro sedie e abbandonarsi al ritmo, fino a generare tutti insieme un unico grande organismo gioioso che farà finire tutte le guerre e porterà il genere umano verso una nuova era fatta di amore e rispetto, ma quando comincio a muovermi qualcuno pensa che abbia le convulsioni o un attacco cardiaco e chiama aiuto, poi scoprono che stavo solo ballando e mi accusano di avere creato un falso allarme e qualcuno mi mena pure.

Anni fa andavo a ballare in un locale genovese che si chiamava Milk Club e faceva girare solo pezzi rock e pop, una roba divertentissima. Eravamo sempre io, il Dottor Hardla e Panzon, che sono altri due bloggers di cui potreste aver sentito parlare, dato che ogni tanto vengono invitati in televisione a parlare della loro prostata.
Ci andavamo perché eravamo tutti e tre singles, e in quel posto bazzicavano parecchie studentesse universitarie, e sognavamo di finire la serata avvinghiati a qualche poetessa venticinquenne fuoricorso tedesca in cerca di emozioni. In realtà ci sarebbe andata bene anche una cassiera di supermercato bresciana annoiata dalla vita, ma se devi sognare tanto vale sognare in grande.

Arrivavamo al locale sul tardi, dopo una serata di vizi come i veri bohemiens, scotch e sigaro e seghe mentali, e quando prendevamo possesso della pista la gente si scostava per lasciarci passare. Perché Panzon era alto uno e ottanta, era grosso e pesante e a quell’ora la sua postura era già pesantemente minata da tutto l’Oban che si era trangugiato, e beccheggiava come una portacontainer in mezzo alla bufera. Avevamo i nostri pezzi preferiti, che cantavamo forte credendoci di più, e per qualche strana associazione mentale ci eravamo convinti che il modo migliore per esprimere la carica sessuale di cui eravamo colmi fosse roteare sul posto come dei dervisci fuori forma. Inutile dire che né poetesse tedesche né cassiere bresciane furono mai irretite dal nostro fascino, piuttosto quando arrivavamo noi il dj capiva che la serata era finita, metteva gli ultimi pezzi e ci mandava a dormire.

(continua)

Oggi sono stato al funerale di Silvio.

Era un caro amico, Silvio, anche se forse amico per una persona che non vedevo da dieci anni non è la parola giusta. Ma è stato un pezzo della mia famiglia per un bel po’ di anni, e per diversi pranzi di Natale è stato il salvagente che mi ha impedito di precipitare nel gorgo nero delle cazzate che producevano sua cugina e il di lei fidanzato.

Coraggioso, testardo, convinto di stare andando nella direzione giusta anche quando si ostinava a tifare per la Sampdoria. Nonostante questa devozione a un falso dio era una persona divertente, ed era una persona divertita nonostante la malattia che si portava dietro, che gli tagliava il respiro e il calendario. Ma lui restava positivo, andava avanti convivendo con questo fantasma, e quando l’hanno operato e gli hanno regalato una seconda vita, lui l’ha riempita con una moglie e una bambina e un sacco di attività, e la sua risata si è fatta più piena, ci ha creduto, ci si è buttato con la caparbietà di sempre.

Poi si è ammalato di nuovo, e in poco tempo se n’è andato, ma ancora aveva la forza di raccontare le sue disgrazie con un tono leggero. Io leggevo i suoi aggiornamenti dall’ospedale e vedevo ancora quel sorriso lì, e cazzo se lo stimavo quel suo coraggio. Pensavo che Silvio non lo ammazza nessuno, che gliel’avrebbe fatta vedere anche stavolta. Pensavo che prima o poi l’avrei incontrato di nuovo, con la barba lunga e la sfrontatezza di chi li ha fregati tutti.

Pensavo davvero che ce l’avrebbe fatta, e quando ho ricevuto quel messaggio mi sono sentito come se mi avessero messo un aspirapolvere sulla pancia e mi avessero succhiato via tutta la forza vitale. E non riesco a raccontare come mi sono sentito, perché anche solo dire che ero triste sarebbe una mancanza di rispetto a un uomo come lui, che si è preso ogni tegola senza lamentarsi e senza perdere la voglia di migliorare e di aiutare gli altri. Perché era anche un cazzo di cuore d’oro, Silvio, faceva volontariato, si sbatteva per gli altri quando persone più fortunate di lui si sarebbero sedute reclamando attenzioni e si sarebbero chiuse nel loro egoismo.

Stamattina al funerale c’erano i vigili a dirigere quel fiume di gente arrivato in piazza per salutarlo. C’era la sua famiglia, c’erano i tifosi della sua squadra di calcio, c’erano gli amici. C’era chiunque, ed erano tutti lì per ringraziarlo di avere reso la loro vita, la vita di tutto quel mare di persone, un po’ migliore.

Vorrei dire che sono triste, ma non ce la faccio a parlare di me di fronte a una persona così. Tuttalpiù posso dire che prenderò esempio e cercherò di essere migliore, di lamentarmi meno, di pensare di più al prossimo. Credo che sarebbe il modo migliore per onorare la sua memoria.

Oltre naturalmente a bestemmiare fortissimo Dio, cosa che lui ha sempre fatto con grande senso del dovere, perché se Dio esiste deve sentirsi responsabile per tutti i casini in cui l’ha sempre messo.

Io qui sopra non scrivo più perché mi sono creato un altro blog da un’altra parte, perciò quello che vedete non lo state vedendo davvero, non state leggendo, è una voce nella vostra testa che vi dice delle cose e secondo me fareste meglio a farvi visitare perché uno comincia a sentire le voci e finisce a mangiarsi i parenti, che certe volte non sarebbe neanche un’attività così disdicevole, ho visto dei parenti che andrebbero fatti mangiare ai maiali, ma ognuno ha i parenti che si merita, e in fondo anche noi siamo i parenti orrendi di qualcun altro, tranne quello che è rimasto solo come un cane e per non disturbare il prossimo è andato a vivere in un posto sperduto lontano da tutti, e ci andrei anch’io, ma non mi ci vuole, e comunque non ha neanche una connessione internet, dimmi te cosa si è isolato a fare.

No, non è vero che ho creato un altro blog, ci vuole già tutta che scriva su questo, cosa me ne farei di un altro, ma è che avevo iniziato a scrivere queste righe sul vecchio blog, così, tanto per sentirmi meno condizionato, io ho questa cosa che se scrivo su un foglio su cui non sento il peso dell’ufficialità dello scrivere, che è una frase che capisco solo io, ma tanto sono anche solo io quello che poi si legge queste robe che scrivo, ecco, io se non sento quella responsabilità di dover essere letto mi sento più leggero e riesco a scrivere meglio. Che poi meglio è un concetto molto personale, ma per me che poi sono quello che legge fa una certa differenza scrivere per forza e scrivere senza pensarci troppo. Questo, per dire, è uno di quei post là, scritti senza pensarci troppo.

Mi hanno buttato fuori da instagram, non ci posso più rientrare, adesso mi chede un codice di conferma che non ho mai ricevuto, come faccio a dartelo, ma non mi devo preoccupare perché il servizio di assistenza di instagram mi ha spiegato che se non riesco a entrare mi basta contattarli e mi fanno entrare loro, devo solo cliccare sulla richiesta di assistenza che si trova all’interno del menu utente, accessibile solo dall’interno dell’applicazione. Vabbé, ma ci sarà un numero di telefono da chiamare, un indirizzo email a cui scrivere, un cane che ti caghi se hai un problema, no? No. Sei abbandonato a te stesso mentre quel figlio di una cagna di Zuckerberg accumula pile di banconote che non riesce neanche a contarle.
Io adesso ho una gran voglia di cancellare il mio account e tutto il suo contenuto e mandare a cagare Meta, Zuckerberg e tutta la sua banda di stronzi, ma l’unico problema è che per cancellare il mio account devo prima entrarci, quindi anche quella soddisfazione autolesionista mi viene negata.

Sto mettendo su peso e il dolore che mi dà non essere capace a mettermi a dieta è lenito solo dai quintali di cibo che sono costretto a ingerire per non stare male, solo che poi mi viene la nausea da tanto ho mangiato. Forse dovrei provare con la bulimia anoressia, uno di quei disturbi alimentari che ti fanno mangiare e vomitare senza sosta, così appago entrambe le mie necessità e per un po’ sto a posto. Poi se proprio non riesco a tirarmene fuori mi dà anche un’ottima scusa per mettermi in analisi, che ho ancora un bel po’ di questioni che vorrei sottoporre a uno psicoterapeuta.

Fra l’altro sono un paio di giorni che ripenso a quel periodo della mia vita in cui stavo benissimo e malissimo insieme, e mi sentivo così vivo nonostante gli sbalzi assurdi a cui ero sottoposto che oggi che la mia esistenza ha preso una piega più regolare, positiva e senza problemi, un po’ quel periodo là mi manca. Mi mancano le lettere lunghissime scritte per non farmi soffocare dal flusso di emozioni che producevo, i viaggi fisici e quelli da fermo, la totale mancanza di appigli in quel precipitare, senza capire se stavo andando su o giù. Stavo andando giù, e difatti il mio ripensare si ferma sempre prima del finale, perché le ossa sbriciolate non mi mancano per niente, ho lasciato la mia sagoma sulla roccia come il coyote dei cartoni animati, non lo vorrei più rivivere un periodo così. Poi l’ho anche rivissuto dopo poco, ma era più che altro autoimposto, non c’era motivo, è stata una specie di catarsi per tutto quello che avevo passato prima, a riguardarlo ora non ne valeva davvero la pena.

Ma più di tutto vorrei sapere cosa voglio davvero, che ho compiuto cinquant’anni e ancora non ho capito davvero cosa vorrei essere da grande.