3.
Sceso dalla Sé attraverso il ponte sul suo piano più elevato e mi perdo nella cittadina di Villa Nova De Gaia. Prima di tutto salgo a vedere quel grosso edificio che sovrasta il fiume, dove non sono mai stato. È una caserma, non mi ci fanno entrare e francamente bene così, ci ho già passato un anno di più di quanto fosse necessario, dentro una caserma come quella. Mi va benissimo guardare il panorama dalla spianata sottostante.

Villa Nova De Courmayeur

La ringhiera è piena di lucchetti, a casa prima di partire ho studiato dei tutorial su come aprire un lucchetto senza usare la chiave. Proverei, ma oltre ai lucchetti il piazzale è pieno di anziani militari col cappotto di cammello, e mettermi a scassinare cose davanti a gente che magari sotto Salazar portava i dissidenti a fare quei giri fuori città da cui poi non riesci più a tornare mi pare irrispettoso. Irrispettoso verso la mia salute, voglio dire. Così me ne vado e scendo verso il fiume prendendola lunga, che per chi mi conosce significa finire nel solito buco di quartiere di merda dove non c’è un cazzo di niente da vedere, solo case deserte e strade occupate da carcasse di auto.
È il mio superpotere, dovunque mi porti riesco sempre a trovare la strada più merdosa che ci sia. Fosse anche il quartiere più vivo della città, io riesco a svoltare due volte e finire in mezzo alla morte.

Quando arrivo sulla strada che costeggia il Douro ho addosso tutta la tristezza di una città di alcolisti abbandonati al proprio dolore sul bordo di una strada di periferia, e anche di un paio di tossici, però educati.

Il piccolo borgo di São Pedro Da Afurada dista da Gaia poco più di tre chilometri, percorribili in cinque minuti in auto, sulla strada che costeggia il Douro fino alla sua foce, o un’ora camminando tranquilli sulla passerella di legno accanto alla strada. Ci sono anche delle panchine ogni tanto, dove puoi prenderti la gelida ombra dei mesi invernali o il sole calcificante di quelli estivi, e intanto farti ghermire le articolazioni dalla perenne umidità che sale dal fiume.
Trovi sempre da sederti su quelle panchine, ma stranamente non lo fa mai nessuno.

basta poco

Quando finalmente arrivi è una festa, ti si apre davanti il molo coi pescatori che scaricano cassette di sarde e calamari sotto lo sguardo attento dei gabbiani. È sempre uguale il molo di Afurada, ci sono macchine mollate ovunque, gente che va e viene dai banchi del mercato che sta più avanti, odore di pesce alla griglia dalle trattorie che si affacciano sulla strada. Il traghetto scarica passeggeri che arrivano dall’altra sponda, quella della vecchia Porto e della sua area urbana più recente, ma la maggior parte abita qui, o ci arriva in autobus passando per l’abitato di Villa Nova De Gaia, che tutti conoscono solo per il lungofiume pieno di cantine, ma si estende parecchio all’interno, e fa abbastanza schifo.
Anche Afurada è poco appetibile da un punto di vista architettonico, un reticolato di casette basse tutte uguali, sembra un campo di roulottes rivestite di piastrelle giallo malattia. Però c’è sempre il sole quando ci arrivo io, e il profumo di cibo aiuta un sacco. Vado a cercare il mio ristorante preferito, e lo trovo chiuso. C’è un cartello davanti con esposto il menu del giorno e i prezzi, ma la porta è chiusa, la griglia per cucinare il pesce è spenta, le tende sono abbassate, insomma cazzo è chiuso. E ora?
Chiedo a un signore che fuma e mi guarda, fermo sull’uscio di casa. Mi dice che riaprirà a febbraio. E ora?
Mando un messaggio a Marzia che si potrebbe riassumere in “Il ristorante è chiuso, dove sei, ho fame”, e ne ricevo uno che dice “Come chiuso, ci siamo fermate in un capannone che vende antiquariato”, poi mi si spegne il telefono.

Che significa? Che ho la batteria scarica. No, intendo il messaggio di Marzia, che significa capannone antiquariato? Devo aspettarle per mangiare? Arriveranno? Non arriveranno? Io ho fame!

Vado a vedere se scende dal traghetto, ma non scende. Aspetto il successivo, ma non scende neanche da quello. Il mio cervello elabora sequenze di immagini catastrofiche, io che muoio di fame lungo la strada e vengo mangiato dai gabbiani, io che mi vedo chiudere davanti tutte le trattorie e finisco per mangiare al ristorante carissimo dove non ho soldi per pagare e mi arresta la polizia col punto dopo il nome, che fa un casino più cattivo della polizia e basta, io che mi scogliono e vado a mangiare da solo da un’altra parte.

Scelgo questa, e mi dirigo al Cafè Vapor, una piccola trattoria sulla strada con un tavolo di legno al sole collocato proprio vicino alla griglia del pesce. Mi piacerebbe prendermi una bronchite mentre i miei vestiti s’impregnano di umori ittici, ma i miei compagni di stanza sono già infastiditi dalla mia presenza così, senza bisogno che li obblighi a passare una notte con le finestre spalancate. Mi siedo a un tavolo all’interno, e ordino delle sarde.

Le sarde portoghesi non vengono pulite prima di cucinarle, te le servono con testa e interiora, e a qualcuno può dare fastidio. A me un po’ ne dà, più che altro la noia di pulirle. Il tavolo accanto al mio riceve una conca di calamari grigliati che se ci penso piango ancora adesso. Dev’essere stato lì che ho deciso di tornare a Porto prima possibile per fare tutto quello che non sono riuscito a fare neanche in questo viaggio, e metto i calamari grigliati in cima alla lista.

Intanto che mangio sento qualcuno chiedere “chegou o circo?” e so già cosa stanno guardando prima di voltarmi. Faccio un cenno e Marzia e la sua amica Iggy Superpop si fanno strada nel locale.

Non ci hai aspettato, che stronzo! Si è spento il telefono e non sapevo più se sareste arrivate. Avevo detto alle dodici e mezza, lo sono adesso. Eh ma io avevo fame da un’ora! Son venuto a piedi! Sei sempre il solito. E qui non c’è posto per sedersi. Potete mettervi sulle panche fuori, si sta bene, a parte l’odore. Sticazzi dell’odore, fra un po’ arrivano tutti gli altri, ci serve un tavolo grande! Se non vi disturba che poi tutti si volteranno a guard.. no, non credo che vi farete problemi.

Finisco di mangiare, prendo anche il caffè, e spendo pochissimo, ma tipo la metà di quello che avevo calcolato di spendere, che era già pochissimo.
Esco dal locale con un sorriso che le due compagne di viaggio di cui sopra interpretano subito male:

L’hai notato anche tu che hanno la Sagres invece della Super Bock, eh? Quante te ne sei bevute? No, sorrido per il prezzo. Vabbè, ti fermi con noi? Stanno arrivando i nostri amici, così li conosci. Arrivano con un pulmino Volkswagen tutto colorato? Saranno tantissimi! No, col traghetto, perché?

Me ne vado piccato, che quando faccio una battuta divertente e non la colgono ci rimango male. E poi sono in uno dei miei momenti sociopatici, mi sento venir su quel vuoto cosmico che mi fa stare come in mezzo alla piazza di Pechino senza un’idea di cosa stia dicendo la gente che mi cammina accanto, senza sapere come fermarli, cosa dirgli, dove andare e perché. Ho bisogno di stare da solo e mugugnare sottovoce, ho paura dell’ignoto, sono annoiato dai soliti schemi che si ripresentano e dalle mille paure diverse che bloccano ogni desiderio. Vorrei andare alla duna di sabbia giù alla foce, vorrei tornare a Gaia ma poi non so cosa fare una volta là, vorrei prendere il traghetto e andare di là, ma poi che me ne faccio, vorrei restare ma conoscere persone in questo momento sarebbe come chiedere a un pugile se sua madre è davvero così brava a fare pompini, e stare da solo non è il massimo quando mi piglia così.

Monto su un autobus guidato dal più famoso pilota di formula 1 portoghese che però non ha avuto il successo che meritava e si è dato al servizio pubblico, e ci vuole tutta che le sarde rimangano al loro posto nello stomaco.

Torno in centro e mi do alle spese folli, il poster della mia cantina preferita che appenderò in camera appena torno e che invece non ho neanche tirato fuori dal suo tubo di cartone e continuo a raccontarmi che è perché non ho tempo di andare a comprare una cornice, ma quando trovo il tempo non so le misure e intanto mi si accumulano i poster arrotolati, fra un po’ apro una cartoleria;
compro un giubbotto di jeans e una camicia colorata, cioè, io una camicia colorata, non so come farò a metterla nell’armadio senza che tutte le altre camicie grigine e nere saltino fuori inorridite.

E poi vado a vedere il fichissimo Palácio Da Bolsa, che per quelli che non sanno il portoghese sarebbe un ex giocatore del Genoa ceduto all’Inter, celebre per il codino e i gol, e lo si prende in considerazione nel periodo in cui è appartenuto a una signora dall’aspetto stanco ed evidenti problemi di respirazione.
Non so perché certe volte scrivo cose del genere.

(continua)

Sarà che a noi i posti affollati non piacciono granché, o che la luce del Portogallo rende tutto più gradevole, fatto sta che ci siamo messi via due soldini e siamo partiti per un fine settimana nella città più portoghese di tutto il Portogallo, Porto.

Non era la prima volta, già due anni fa passammo una splendida settimana in giro per le strade ripide del suo centro storico, fra il lungofiume della Ribeira e i profumi del Mercado do Bolhão.

Il bagaglio è composto da due trolley, uno di abiti e roba che normalmente ci si porta in viaggio, l’altro contenente aggeggi elettronici e un asciugamano che non si sa mai, come insegna Douglas Adams. Chi dovesse fregarmelo si guadagnerebbe l’equivalente di uno stipendio. Alla Malpensa ci comunicano che dovrà essere caricato nella stiva, perché l’aereo è piccolissimo, tipo un apino con le ali, e il pilota ha già dovuto lasciare a terra il suo secondo per mettersi in cabina la valigia di una signora di Parma. Considerato che non ci penso neanche a mettere un computer, due macchine fotografiche e un lettore mp3 nelle mani dei portabagagli di Milano, finisco per tenere tutto in mano e lascio nella stiva un trolley vuoto. L’asciugamano me lo lego in testa tipo turbante.

L’apino con le ali della Tap Portugal

L’aereo è veramente minuscolo, trentasette posti a sedere, ma è comodo e non ti fanno le menate per il bagaglio a mano, come per esempio un’altra compagnia a caso con un’arpa disegnata sulla coda. E se proprio devo dirla tutta non ti rompono neanche il cazzo ogni cinque minuti per tutto il viaggio con annunci per comprare qualunque cosa,  dai grattaevinci (ma ti pare, i grattaevinci sull’aereo, e allora perché non mi metti anche due slotmachine al posto dei cessi) ai peluscini a forma di aereo con l’arpa disegnata sulla coda, ai biglietti del treno per Catanzaro.

Delle due hostess di bordo una sembra il cavallo di Guernica su cui un vandalo abbia disegnato un rossetto viola con un pennello cinghiale; ha questa macchia viola intorno alla bocca che le conferisce un aspetto da carnefice pop, e quando ti chiede se vuoi qualcosa da mangiare non puoi fare a meno di pensare a Warhol, o a Dalì; l’altra hostess è carina, ma ha uno scazzo cosmico, si vede che nella precedente occupazione faceva la cameriera.

Quando ci mostra le vie d’uscita lo fa di fretta, come se la cosa non la riguardasse e fosse solo lì a sostituire un’amica che è andata un momento in bagno. Il messaggio che trasmette non è “prestami attenzione se ti preme la vita”, è più “mi hanno detto che dovrebbe esserci un’uscita anche da quella parte”. In realtà non gliene frega niente, è stanca di vivere e ci odia tutti; probabilmente sta meditando di sabotare uno dei prossimi voli e schiantarsi sui Pirenei.

Sui voli Tap si mangia bene, il pranzo a bordo consiste di una ciotola di riso con pollo e pancetta, un panino, una porzione di burro salato e mezza mela a pezzetti, più una bevanda a scelta. Grazie al coraggioso sacrificio della mia amorevole fidanzata riesco a barattare un’altra porzione di riso con qualche pezzetto di mela, e innaffio tutto con una lattina di sagres. Avevo espresso il desiderio di celebrare il mio compleanno bevendone una, ma questa non vale, dal finestrino non si vede il Douro.

Dal finestrino non si vede niente, per la verità, giusto un po’ di azzurro in alto se strizzi gli occhi.

Poi all’improvviso le nuvole si diradano e sotto c’è il Portogallo. Scendiamo rapidi e riconosciamo i primi ponti, la Ribeira, il Dom Luis I. È un’emozione che francamente non mi aspettavo. Sono felicissimo di essere di nuovo qui.

Il meglio di Porto al finestrino: la Ribeira, la Sè, il ponte.

Atterriamo, recuperiamo il bagaglio in un momento e usciamo a prendere un taxi. L’aeroporto è piccolo e quasi deserto, perlomeno quando arriviamo noi. Il taxi è già lì che ci aspetta, gli spiego l’indirizzo e si parte. La periferia è squallida come tutte le periferie del mondo, ma già a Trindade si capisce che sta per succedere qualcosa. Girato l’angolo ci troviamo giù per la piazza di Aliados e i miei compagni di viaggio non trattengono un gemito di gioia. Io sono quasi commosso. È pazzesco quanto questa città mi sia rimasta nel cuore, davvero.

Davanti all’ostello ci congiungiamo agli altri due membri del gruppo, arrivati in mattinata, Paola e Antonio; sbrighiamo le formalità di reception e molliamo i bagagli. La camera è un buco di merda peggio di quella di Lisbona, ma dal terrazzino ti affacci su Rua das Flores, che è un bel vedere, con le sue case ricoperte di piastrelle. E poi sono solo due notti, chi se ne frega! Il tempo di posare le valigie e siamo di nuovo per strada ad affrontare la prima di innumerevoli salite.

Prima tappa alla Livraria Lello, che conosciamo per avere visto le foto su internet: è tutta di legno, un capolavoro di liberty, con una vetrata sul soffitto che noti solo se alzi gli occhi e poi ti chiedi perché non l’hai notata prima, e gli scaffali decorati e pieni di libri antichi, ma soprattutto una scala pazzesca che sale fino a metà, si raddoppia, torna indietro, si riunisce e risale, coi gradini arrotondati colorati di rosso, come un ruscello che venga giù da chissà dove in mezzo al negozio. Le foto sono proibite, e quasi è un sollievo, che non mi sento in grado di fermare tanta meraviglia nello spazio limitato di una cornice. Per compensare ciò che non potrò portarmi via tocco tutto, i corrimano, la balaustra, il corpo sinuoso della scala, ma non basta mica. Dovrei comprarmi un libro fotografico dedicato al negozio, solo che costano una fortuna, un semplice segnalibro te lo danno per due euri e mezzo, capace che per una pubblicazione di venti pagine ti partano quindici venti euri come niente. Senti Lello, hai un bel negozio, ma sei un avido, vaffanculo.

Dopo la cultura è il momento di riempirsi la pancia: il bar panificio pasticceria davanti alla Igreja dos Clerigos è ricolmo di meraviglie proprio come lo ricordavo. Due pasteis de nata e un bicchiere di succo d’arancia per me, quattro frittelline di carne per la fidanzata, una roba gigantesca e inquietante per gli ultimi aggregati, che sinceramente non so dove trovino il coraggio di mangiarla, io neanche ci avvicinerei le mani a una roba così, metti che mi morde.

È sufficiente un’immagine per convincere la BCE a cancellare il debito portoghese? In questo caso credo di si.

Ormai tra l’arrivo, la sosta in ostello e quel minimo di nutrimento non è più ora di fare i turisti, la giornata è praticamente agli sgoccioli, e poi Porto l’abbiamo già girata tutta nella visita precedente; molto meglio, perciò, dedicarsi subito allo shopping, e mi ricordo che c’era un bel negozietto appena fuori dal Mercado do Bolhao dove due anni fa comprammo la nostra bottiglia di porto.

C’è ancora, si chiama Comer E Chorar Por Mais, che è un modo di dire portoghese che sono sicuro che saprete tradurre anche da soli (me lo auguro, almeno, che io non ne sono capace). È un negozio fondato addirittura nel 1912, ma nel frattempo ha cambiato proprietario, e quello che ci offre assaggi di tutto quello che c’è in vendita non è una riproduzione locale della mummia di Tutankhamon, ma un simpatico signore sui sessanta. Cerchiamo di ripagare la sua gentilezza uscendo con una borsa di salami e formaggi da nutrirci per qualche mese, ma ci ho lasciato le pere secche, ne soffro un po’.

Ultima meta la Ribeira, che poi è la ragione principale per cui siamo tornati a Porto. Non esiste una sensazione altrettanto magica di guardare la zona del lungofiume dalla sponda di Gaia, con quelle case colorate ammassate una sull’altra e il ponte come un mostro di metallo pronto a mangiarsele.

Vabbè, si, quando ti portano il conto mentre stai riverso sul tavolo del ristorante a cercare di digerire la quantità spaventosa di pesce che ti sei cacciato in bocca, e scopri che hai speso poco più di dieci euri provi qualcosa che ci si avvicina molto.

Però è qui che desideravo bermi la mia sagres, seduto al tavolino di un baretto sovrastante il lungofiume, a guardare le barche, e il ponte, e Gaia dall’altra parte del fiume, e la gente che passeggia sotto di me, e ancora il ponte, e Gaia, ammazza se è brutta Gaia, e il ponte, che belin, è proprio imponente, e il cameriere che si fa i cazzi suoi e io intanto vorrei un’altra birra.
Non ci andiamo adesso a bere la sagres, che è quasi ora di cena: stiamo un po’ a ciondolare davanti al Douro, poi attraversiamo il ponte giusto in tempo per goderci il tramonto sulla città vecchia, e andiamo a cena da Casa Adao.

Il proprietario è un signore piccoletto con dei grossi occhiali e il fare un po’ burbero, molto disponibile e piuttosto divertente quando si mette a insegnare a Marzia la pronuncia corretta di não, per dire no invece di nave. Dopo averci servito un polpo grigliato da sfamarci una portaerei ci annega nella ginja e poi torna un’altra volta a servirci le ciliegie sciroppate da mangiarci insieme, solo che fa casino e le rovescia tutte addosso a Paola.

Usciamo gonfi come bibini, ma la notte è giovane, c’è ancora tempo per un caipirão, il liquore tipico portoghese, ci spiega il cameriere, e c’è da chiedersi come abbia fatto un popolo capace di eleggere a bevanda nazionale una roba che sa di fluimucil a non essersi ancora estinto.

(continua e finisce nel prossimo numero, come Martin Mystère)