Ho deciso poco fa, intanto che portavo il cane a pisciare, che era venuto il momento di scrivere qualcosa sui libri che sto leggendo in questo periodo. E’ una bella iniziativa, se uno legge molto, e può dare dei suggerimenti utili a chi non sa dove indirizzare i suoi momenti d’ozio e magari finisce a sedersi davanti al grande fratello di maria de filippi e in men che non si dica diventa un italiano medio che odia gli stranieri e vota lega, anche se per esempio oggi quindici di quelle merde hanno fatto ricorso contro il nuovo sistema pensionistico per i parlamentari. Quindici su ventisei, e ancora stanno a fare i cori romaladrona. Morissero di pruriti al cazzo.

Ma dicevo dei libri, che c’è un mio amico che tiene una rubrica sul suo blog dove recensisce tutti i libri che legge, e sono parecchi, tanto che li ha raccolti in un e-book scaricabile gratuitamente, che ti dà un sacco di dritte, ma che però ci manca secondo me un indice alfabetico, che una guida così non puoi imparartela a memoria, te la tieni lì e ogni tanto la consulti come l’elenco del telefono, e se non sai più dove hai letto la critica di quel libro là che ti interessava devi scartabellare tutto ogni volta e così finisce che te lo impari a memoria e allora l’indice alfabetico non ti serve più. Volevo dirglielo di persona, ma non ci vediamo da un po’ e faccio prima così, ma tanto lo so che mi risponderà che l’indice non serve perché l’e-reader ha la finestrella di ricerca tipo google, che in effetti non ci avevo pensato, mi è venuto in mente ora, ma magari poi non è neanche vero e me lo dice solo per minchionarmi.

Io una rubrica così non potrei tenerla, perché ogni volta che ho provato a gestire un impegno fisso ho resistito sei mesi e poi è finito tutto a puttane. Qualunque cosa, rubriche, racconti a puntate, la piscina.. Meno male che non sono nato donna o dopo le terze mestruazioni avrei trovato il modo di interrompere anche quelle.
E con questo non voglio affatto pararmi il culo per aver lasciato la mia recensione di Londra ferma alla prima puntata, ma stasera c’ho da scrivere altro, e mi spiace per quei turisti fermi da settimane ai giardini di Kensington. L’avete visto il cazzo di cancello? E i giardinetti di Lady Diana? Beh, trovatevi un cesso e un baretto e aspettatemi, fra un po’ arrivo.

Nonostante le mie letture siano drammaticamente inferiori alla media degli italiani che leggono, sebbene di molto superiori a quelle degli italiani di cui alla terza riga di questo post, ma è come picchiare uno che caga, ho pensato di scrivere due righe su quello che sto leggendo/ho letto/leggerò in questi giorni, perché sono cose che mi provocano sentimenti diversi, e quando la causa è un libro e non i risultati dell’esame istologico vale la pena soffermarcisi un momento.

ZerocalcareIl primo l’ho cominciato e terminato stasera, si chiama La Profezia Dell’Armadillo  e l’autore è Zerocalcare.
E’ una raccolta di fumetti brevi che compongono un racconto che si snoda fra ora e il millenovecento-quando-eravamo-tutti-ragazzini, e parla di tutte quelle cose che oggi ci fanno sentire diversi, “nerd”, diciamo con una certa supponenza, come se fosse una bella cosa; ancora fingiamo di non ricordare che vent’anni fa, quando quel termine esisteva solo in qualche film americano, l’aggettivo che ci veniva appioppato più frequentemente era il suo esatto omologo italiano, “sfigato”.
Ma sarebbe limitativo definirlo un fumetto per appassionati di cinema e fumetti e cartoni animati giapponesi, perché alla base c’è quell’altra cosa che accomunava tutti quanti e su cui sono stati scritti libri e canzoni, l’infatuazione impossibile segreta e non corrisposta verso una ragazza che poi però. Ed è raccontato con un’ironia devastante, e quando si vanno a toccare corde più amare viene fuori una profondità e uno spessore che per esempio nei telefilm de I Ragazzi Del Computer Richie non aveva e Alice sotto sotto secondo me ci stava male. Dei disegni non ne parlo, che raccontata ci può perdere (cit.), vi rimando al suo blog così vi fate un’idea. E andateci, che ne vale la pena.

Il secondo libro lo sto leggendo sul cellulino, ed è la conseguenza di un altro libro che ho letto sul cellulino.

Del libro di King dirò solo, per chi non lo conosce, che è un incrocio fra Ritorno Al Futuro, Ricomincio Da Capo e JFK. E che è bello, lo ripeto, ma tanto.Quell’altro si chiamava 22/11/63 ed è l’ultima opera di Stephen King. E mi è piaciuto di brutto. Non che fosse il primo libro di King che leggevo, ma da un po’ mi ero scoglionato dei suoi finali con gli psicomostri che sconfiggi solo accettando che fare la pipì  letto quando hai tre anni è normale e nell’armadio ci vive solo il maglione brutto che ti ha fatto la nonna e che ti punge il collo, e l’avevo mollato. Poi è uscito questo, ho letto un paio di recensioni positive, ho letto due righe di trama e ho pensato che i viaggi nel tempo hanno sempre il loro fascino, e ho deciso di provare. E me lo sono scaricato a babbo in inglese per leggerlo sul telefono. E poi anche la sua traduzione in italiano, per le parti che non capivo in originale. E poi si, signora SIAE, me lo sono anche comprato in cartaceo con tanto di ricevuta fiscale, ma è solo per averlo nella libreria. E comunque da quando si è presa le piattole dovrebbe abbassare un po’ il tariffario, lasci che glielo dica sinceramente.

L’altro libro è citato da Stephen King in coda al romanzo e viene definito uno dei migliori romanzi sui viaggi nel tempo, e dato che l’argomento mi intriga sempre, anche e soprattutto dopo la lettura di questa roba qui sopra (ma ammetto che l’essermi svegliato l’anno prossimo cinque minuti fa mi ha influenzato non poco) ho pensato di procurarmelo. Si intitola Indietro Nel Tempo e l’ha scritto Jack Finney, che in Italia non conosciamo soprattutto come l’autore de L’Invasione Degli Ultracorpi, che ricordiamo giusto io, i miei amici e Zerocalcare.

Non posso raccontarvi molto a riguardo perché l’ho appena cominciato e interrotto per divorarmi l’armadillo, e per adesso non è successo niente, ma comincia a New York sulla 54ma strada, e già per questo mi è simpatico. Però mi piace di più come scrive King.

 E passiamo all’ultimo, che non lo sto leggendo anche se ce l’ho lì sul comodino, ma me lo sto ascoltando in macchina.
Si chiama Hanno Tutti Ragione, di quel regista stralunato che è Paolo Sorrentino, e in questo caso va citata anche la straordinaria voce narrante di Toni Servillo.
Non lo so se letto con la voce della propria mente questo libro renderebbe così bene, ma da una settimana, nel tragitto casa-lavoro e ritorno, accendo l’autoradio e stacco il piede dall’acceleratore per godermi qualche minuto in più di quel presuntuoso cialtrone di Tony Pagoda. Il tono è a metà fra l’ironico e il drammatico, un momento ti costruisce la più raffinata delle metafore per spiegarti il vuoto che si porta dentro l’animo il protagonista e in quello successivo ti spara una cazzata talmente cafona e volgare da farti spruzzare sangue dal naso dal ridere. Gioca sugli accostamenti Sorrentino, e lo sa fare bene, la storia scorre piacevole, su toni di grigio interrotti qua e là dalle colorate descrizioni dei personaggi di contorno o dalle strisce bianche che Pagoda si tira di continuo.

Per la verità ce ne sarebbero altri di libri, la biografia di Butch Cassidy che ho interrotto per colpa dei viaggi nel tempo, quello che ho interrotto per colpa di Cassidy e via risalendo, ma non voglio rubare il mestiere a chi i libri li recensisce (e li legge) con maggiore disciplina, e poi ho davvero una guida di Londra da terminare.

cinemaIeri ho passato la giornata a letto, che la sera prima ho mangiato del pesce cotto male e l’ho tenuto nello stomaco giusto il tempo di tornare a casa. L’incidente mi ha lasciato privo di forze e di allegria per tutta la giornata, non so se per aver vomitato o per aver buttato via una cena abbondante. Per passare il pomeriggio mi sono sciroppato un paio di film, e uno era quello di Sorrentino, quello che ha vinto anche i premi, ma si dai, quello che ne parlano tutti.

Per scrivere la recensione di un film come Le Conseguenze Dell’Amore dovrei attenermi allo spirito della pellicola e usare pochissime parole, ma non ne sono in grado, che io pochissime parole non le uso neanche per dire nome e cognome, quindi vado come sono solito andare, a muzzo, e a chi ha voglia di seguirmi ci vediamo in fondo.

Se comunque dovessi usare poche parole una di queste sarebbe “minimalista”, è un film visivamente ridotto all’osso, le inquadrature sono pieni di spigoli, linee rette, spazi vuoti, cerchi, che alimentano l’atmosfera rarefatta del film, e ti danno l’impressione di essere davanti a una foto-hardla, che però adesso non sto a spiegarvi che cos’è, dovete andarvela a cercare da voi.

I dialoghi sono essenziali, fra tutti i personaggi non credo ce ne sia uno che recita di seguito più di due pagine di copione, e quando arriva il chiacchierone col maglione colorato è proprio per accentuare la stagnazione in cui galleggia la storia. Copione, maglione, chiacchierone, stagnazione, va bene scrivere a muzzo, ma così un po’ mi vergogno.

Mi è piaciuta tantissimo la regia, ho scoperto che Paolo Sorrentino è un regista originale, fresco e intelligente, e in Italia sono in pochi a potersi fregiare di questi tre aggettivi, soprattutto se detti da me. Giusto io, ma non ho ancora diretto niente, perciò andrebbero applicati a quello che scrivo, e si finisce fuori tema. Mi è anche piaciuto molto Il Divo, anche più di questo, ma non dico quanto di più perché non voglio lasciar trapelare fino alla fine se sono rimasto soddisfatto o no. È una recensione che se avesse anche il fumo nero sarebbe Lost.

Mi è piaciuta la scarna colonna sonora, ho notato che Sorrentino ama l’elettronica, spero che prima o poi ci metta i Port Royal, che non sto a spiegarvi chi sono che già gli ho fatto sto bel marchettone, anche all’indecenza c’è un limite.

Ma veniamo alla storia, che è la nota dolente della pellicola.

C’è questo tizio dal nome che sembra un personaggio delle mie storie, Titta Di Girolamo, un cinquantenne silenzioso dagli hobby discutibili, che vive in una stanza d’albergo in una città svizzera che non mi ricordo, una di quelle al confine con l’Italia, non più bauscia ma non abbastanza heidi, e non fa una beata minchia. Ogni tanto telefona alla moglie e la tiene delle ore al telefono senza dirle niente, si fa passare i figli e non dice niente neanche a loro, poi scende al bar e guarda la barista, che è una bellissima ragazza, con gli occhi da husky e la stessa recitazione. Ad un certo punto prende la macchina, gira un’ora per andare in banca e rompe le palle a cinque impiegati per farsi contare a mano una tavolata di dollari.

Non sto a raccontare oltre per non rovinare la sorpresa (?) a chi non l’ha visto, ma il film è pieno di situazioni improbabili come questa, anzi, direi che con tutti i suoi dialoghi eterei, le frasi ad effetto come un libro di Baricco, le situazioni accennate, le occhiate lunghe finisce per dipingere un quadro tanto elegante e complesso, che però quando ti avvicini ti accorgi che non mostra niente. Non c’è una storia sensata, dei bei dialoghi, ma andrebbero bene anche dei dialoghi brutti, basta che si dica qualcosa di concreto ogni tanto! Quando finalmente succede qualcosa sei già a tre quarti di film, e Servillo, peraltro bravissimo, fa l’unica cosa che non ti aspetti in un personaggio come il suo, ammazzando la già scarsa credibilità che si era costruito.

Insomma, a me sto film qui non mi è mica piaciuto, è presuntuoso, finto, freddo, distaccato, troppo mascherato da film intellettuale, troppo preso a celebrarsi per raccontare una storia coinvolgente.

E quando è finito mi giravano anche un po’ le balle oltre che lo stomaco, perché avrei potuto passarle meglio quelle due ore, magari dormendo, e ho realizzato che le conseguenze dell’amore non ho mica capito quali siano, che su di me sono state parecchio diverse, tutte le volte che le ho provate. Ma magari dovrei andare a innamorarmi in Svizzera, si sa che quelli sono un popolo strano, evidentemente loro quando si innamorano lo fanno così, con gli spigoli, le rette, le banche, le macchine di lusso e le belle bariste che non sanno recitare; e magari sono freddi e autocelebrativi anche loro, ma si vede che alle svizzere piace.
Domani vado dal macellaio e ne compro un paio, vi farò sapere.


cinemaIeri ho passato la giornata a letto, che la sera prima ho mangiato del pesce cotto male e l’ho tenuto nello stomaco giusto il tempo di tornare a casa. L’incidente mi ha lasciato privo di forze e di allegria per tutta la giornata, non so se per aver vomitato o per aver buttato via una cena abbondante. Per passare il pomeriggio mi sono sciroppato un paio di film, e uno era quello di Sorrentino, quello che ha vinto anche i premi, ma si dai, quello che ne parlano tutti.

Per scrivere la recensione di un film come Le Conseguenze Dell’Amore dovrei attenermi allo spirito della pellicola e usare pochissime parole, ma non ne sono in grado, che io pochissime parole non le uso neanche per dire nome e cognome, quindi vado come sono solito andare, a muzzo, e a chi ha voglia di seguirmi ci vediamo in fondo.

Se comunque dovessi usare poche parole una di queste sarebbe “minimalista”, è un film visivamente ridotto all’osso, le inquadrature sono pieni di spigoli, linee rette, spazi vuoti, cerchi, che alimentano l’atmosfera rarefatta del film, e ti danno l’impressione di essere davanti a una foto-hardla, che però adesso non sto a spiegarvi che cos’è, dovete andarvela a cercare da voi.

I dialoghi sono essenziali, fra tutti i personaggi non credo ce ne sia uno che recita di seguito più di due pagine di copione, e quando arriva il chiacchierone col maglione colorato è proprio per accentuare la stagnazione in cui galleggia la storia. Copione, maglione, chiacchierone, stagnazione, va bene scrivere a muzzo, ma così un po’ mi vergogno.

Mi è piaciuta tantissimo la regia, ho scoperto che Paolo Sorrentino è un regista originale, fresco e intelligente, e in Italia sono in pochi a potersi fregiare di questi tre aggettivi, soprattutto se detti da me. Giusto io, ma non ho ancora diretto niente, perciò andrebbero applicati a quello che scrivo, e si finisce fuori tema. Mi è anche piaciuto molto Il Divo, anche più di questo, ma non dico quanto di più perché non voglio lasciar trapelare fino alla fine se sono rimasto soddisfatto o no. È una recensione che se avesse anche il fumo nero sarebbe Lost.

Mi è piaciuta la scarna colonna sonora, ho notato che Sorrentino ama l’elettronica, spero che prima o poi ci metta i Port Royal, che non sto a spiegarvi chi sono che già gli ho fatto sto bel marchettone, anche all’indecenza c’è un limite.

Ma veniamo alla storia, che è la nota dolente della pellicola.

C’è questo tizio dal nome che sembra un personaggio delle mie storie, Titta Di Girolamo, un cinquantenne silenzioso dagli hobby discutibili, che vive in una stanza d’albergo in una città svizzera che non mi ricordo, una di quelle al confine con l’Italia, non più bauscia ma non abbastanza heidi, e non fa una beata minchia. Ogni tanto telefona alla moglie e la tiene delle ore al telefono senza dirle niente, si fa passare i figli e non dice niente neanche a loro, poi scende al bar e guarda la barista, che è una bellissima ragazza, con gli occhi da husky e la stessa recitazione. Ad un certo punto prende la macchina, gira un’ora per andare in banca e rompe le palle a cinque impiegati per farsi contare a mano una tavolata di dollari.

Non sto a raccontare oltre per non rovinare la sorpresa (?) a chi non l’ha visto, ma il film è pieno di situazioni improbabili come questa, anzi, direi che con tutti i suoi dialoghi eterei, le frasi ad effetto come un libro di Baricco, le situazioni accennate, le occhiate lunghe finisce per dipingere un quadro tanto elegante e complesso, che però quando ti avvicini ti accorgi che non mostra niente. Non c’è una storia sensata, dei bei dialoghi, ma andrebbero bene anche dei dialoghi brutti, basta che si dica qualcosa di concreto ogni tanto! Quando finalmente succede qualcosa sei già a tre quarti di film, e Servillo, peraltro bravissimo, fa l’unica cosa che non ti aspetti in un personaggio come il suo, ammazzando la già scarsa credibilità che si era costruito.

Insomma, a me sto film qui non mi è mica piaciuto, è presuntuoso, finto, freddo, distaccato, troppo mascherato da film intellettuale, troppo preso a celebrarsi per raccontare una storia coinvolgente.

E quando è finito mi giravano anche un po’ le balle oltre che lo stomaco, perché avrei potuto passarle meglio quelle due ore, magari dormendo, e ho realizzato che le conseguenze dell’amore non ho mica capito quali siano, che su di me sono state parecchio diverse, tutte le volte che le ho provate. Ma magari dovrei andare a innamorarmi in Svizzera, si sa che quelli sono un popolo strano, evidentemente loro quando si innamorano lo fanno così, con gli spigoli, le rette, le banche, le macchine di lusso e le belle bariste che non sanno recitare; e magari sono freddi e autocelebrativi anche loro, ma si vede che alle svizzere piace.
Domani vado dal macellaio e ne compro un paio, vi farò sapere.