“Il teatrodanza non è un genere del balletto né una corrente vera e propria, ma si è contraddistinto come un fenomeno alquanto complesso della coreografia del Novecento affermatosi nella Germania occidentale ai principi degli anni settanta, specie ad opera dei cinque antesignani del Tanz Theater tedesco: Pina Bausch (la più nota esponente del gruppo), Reinhild Hoffmann, Susanne Linke, Gerhard Bohner e Hans Kresnik.

Con il termine Tanz Theater si intende principalmente una diramazione nell’ambito della danza moderna dell’espressionismo tedesco degli anni trenta, la cui poetica risale alle teorie di Rudolf Laban e alle danze della sua allieva Mary Wigman.

In esso vengono innestati elementi propri della danza non accademica d’inizio secolo, ovvero della danza moderna, della danza libera e talvolta del mimo e del cabaret. Il riferimento al teatro si rivolge perciò solo in apparenza alla “dimensione teatrale” della danzache è propria del balletto romantico. Si tratta, al contrario, del recupero di una dimensione primordiale del rapporto tra gesto e azione e tra gesto e parola. Il teatrodanza, perciò, è una forma di danza spesso allegorica, che fa uso di simboli, fortemente animata dalla fusione tra teatro e arti figurative, e dove l’elemento narrativo è trattato in modo particolare, antinaturalistico.

Il fenomeno si è subito caratterizzato come un movimento estremamente composito e libero sul piano linguistico, oltre che per un certo intrinseco eclettismo, diffondendosi sia in Europa che in America.

Tra gli altri maestri riconducibili alla poetica del teatrodanza, i nomi di particolare rilievo sono Alwin Nikolais negli Stati Uniti, Carolyn Carlson in Francia, Alain Platel in Belgio, Lindsay Kemp in Inghilterra e Constanza Macras in Germania.”
(Wikipedia)

“Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi e io sto buttato in un angolo, no? Ah no, se si balla non vengo.”
(Nanni Moretti, Ecce Bombo)

cristoni nudi che ballano

Il teatrodanza non mi piace. Uno spettacolo in cui il significato di quello che stai vedendo va decrittato dai gesti degli attori, dal modo in cui interagiscono, mi spaventa, mi mette di fronte alla mia incapacità di comprensione, mi fa sentire limitato. Sono uno che di fronte a testi più complessi di “Otello crede di avere le corna e uccide Desdemona” va in crisi, e anche così mi faccio un sacco di domande su Jago.
Devo dare una forma alle cose, spesso una mia forma personale che non è proprio quella vera, ma sufficiente a sbloccarmi da quella catatonia che mi lascia come il pesce rosso nella boccia. Poi per capire davvero c’è sempre tempo, intanto andiamo avanti.

Ieri sera mi sono lasciato convincere a vedere In Spite Of Wishing And Wanting, uno spettacolo di Wim Vandekeybus, regista/attore/coreografo/ballerino, che al suo debutto nel 1999 ebbe un grande successo, e oggi viene riproposto con altri attori, un po’ come fa Jesus Christ Superstar, per dire.

Se devo spiegare di cosa parla lo spettacolo non scrivo più niente, perciò mi affido alla recensione del Teatro della Tosse di Genova, che lo ospita in questi giorni.

Nel  1999 “In Spite of wishing and wanting” scatenò enorme scalpore.
Per la prima volta, Vandekeybus aveva creato uno spettacolo in cui non si parlava dell’attrazione tra uomini e donne ma della pulsione del desiderio in un modo di soli uomini –impetuoso, selvaggio, ingenuo e giocoso.

Filmati surreali  e sequenze danzate, accompagnate dalle note sensuali della musica di David Byrne, scorrono dando vita a monologhi sulla paura, sul desiderio di sicurezza e sulla magia del sonno.

Nel 2016 un cast tutto nuovo ha raccolto la sfida di riproporre questo grande successo internazionale.

La paura di essere posseduto da qualcosa o da qualcuno ha anche un’altra faccia: il desiderio di cambiare qualcosa o diventare qualcun altro.  La paura e il desiderio sono due lati della stessa medaglia.
Questo desiderio di trasformazione è il tema centrale di “In Spite of wishing and wanting”.

Due racconti, uno di Julio Cortazar e uno di Paul Bowles, hanno tormentato Wim Vandekeybus  per un po’ di tempo  e lo hanno ispirato mentre girava il cortometraggio che fa parte dello spettacolo. Il centro di entrambi è il flusso che muove ciò che è ci  familiare e ciò’ che ci è estraneo, un movimento che non può trovare pace.

Capito?
Allora me lo potete spiegare?
Perché quello che ho visto io è proprio un’altra cosa, e quando si sono accese le luci e tutti sono saltati in piedi ad applaudire e gridare bravih! ho avuto la netta sensazione di essermi perso qualcosa. Mi sono sentito limitato, ignorante, povero di spirito e di intuito, ho avuto di fronte tutte le mie maestre, da quella delle elementari a quella che ha cercato di spiegarmi la vita, e tutte mi bacchettavano le mani.

Cioè, bello, eh? Attori bellissimi, fisici scolpiti e culi di marmo che ti fanno mettere in discussione la tua eterosessualità, capaci di gesti atletici pazzeschi. Li vedi compiere con naturalezza movimenti che solo ad accennarli finiresti in ortopedia, e quando li fanno tutti insieme capisci la forza di questa forma d’arte: la danza è bellissima, forse adesso l’ho capito.
C’è un momento in cui sono sdraiati sul palco in mezzo alle piume, le braccia spalancate, tengono in mano dei fogli e li sbattono come se fossero ali. Poi si alzano in volo, per davvero. Cioè, sono salti, se li guardi uno per uno li vedi accucciarsi e darsi la spinta, ma la visione d’insieme è quella di uomini uccello che si librano in mezzo al palco, ed è grandioso.

roba da restare così, con la bocca spalancata e gli occhi fuori, e non perché sei la tizia allupata di fianco a me

E quando si spengono tutte le luci e questi cominciano a fare una cosa con delle lampade, e vedi questi fasci di carne poco illuminati che si muovono per il palco, ti viene in mente un presepe molto poco cristiano.
E quelle musiche di David Byrne sono proprio il genere di roba che mi va di ascoltare in questi giorni, e a dirla tutta anche i due cortometraggi che interrompono lo spettacolo sono interessanti e girati molto bene.

È che non ci ho capito niente. Se prendo le singole scene e le inserisco in un contesto diverso, come soluzioni narrative di una storia, funzionano alla grande. Voglio dire, se andassi a vedere uno spettacolo in cui ad un certo punto, per raccontare uno sviluppo della storia, gli attori inscenano uno dei balletti che ho visto ieri, uscirei dal teatro convinto di avere assistito a qualcosa di grandioso.
Così non riesco a dargli una logica, ho visto un sacco di cose molto belle in una lingua che non conosco. Ci sarà stato un nesso fra la storia del venditore di parole del cortometraggio e gli attori che fanno i cavalli, il monologo sui sogni e quello che cerca Annamaria fra il pubblico, solo che non l’ho capito.
Una sessione di ginnastica ritmica a squadre inframezzata da una recita in cinese mi avrebbe trasmesso le stesse sensazioni.

Il resto del pubblico evidentemente era più ricettivo di me, perché sembrava entusiasta. Io e i miei quattro compagni di serata eravamo perplessi. Le donne più allupate che perplesse, ma abbastanza perplesse pure loro.
Ho incontrato un’amica all’uscita, una che ha fatto di questo tipo di spettacoli la sua ragione di vita, e le ho chiesto cosa ne pensava.
“Mi ha fatto cagare”, ha risposto. “Se usi il linguaggio per esprimere un concetto, e addirittura giri un film, questo concetto mi deve arrivare, in qualche modo. Se non mi arriva niente o sono io stupida o hai prodotto una roba pretenziosa che non sta dicendo niente. È piaciuto solo ai ballerini e alle donne in fregola.”
“Fregola è un’espressione antiquata che ti si addice.”
“Mi stai dando della vecchia?”

Adesso mi trovo in quella posizione difficilissima in cui vorrei vedere un altro spettacolo simile per capire se sono io che non apprezzo il genere o era proprio lui che non si lasciava decifrare, col rischio di ritrovarmi qui a scrivere altri mugugni, e aver perso una serata in cui potevo starmene a casa a mangiare biscotti al cioccolato davanti a una serie nuova di cui peraltro dovrò parlarvi, prima o poi.

Il mito di Orfeo mi ha attraversato la strada tante di quelle volte che o lo investivo o me ne innamoravo. Ho scelto la seconda: un paio di volte l’ho infilato nei miei racconti, e sono molte di più quelle in cui me lo sono cucito addosso facendo quello che canta e soffre. Non che ci voglia molto, la storia si presta a qualunque fallimento sentimentale, e chi non ne ha almeno uno?

Euridice muore, il suo sposo Orfeo soffre come una bestia e scende a cercarla fino agli Inferi, dove fa una testa così a tutti finché Ade si arrende e gliela restituisce. Avrà una seconda possibilità, qualcosa che non a tutti è concesso. L’unica clausola è che torni nel mondo dei vivi camminando davanti a lei, e che non si volti mai a guardarla, neanche una volta, altrimenti la perderà per sempre.
Una prova di fiducia, in un certo senso. Che poi è quello che si chiede a una seconda possibilità; perché se è finita una volta vuol dire che qualcosa non andava, e il mito ci suggerisce proprio quello, se vuoi che vada diversamente devi comportarti diversamente.


Orfeo ci prova, ma alla fine non si fida: si volta a guardare Euridice, e così le butta addosso i suoi dubbi che non è stato mai capace di superare. Lei se ne va, ovvio. Tutte le donne a casa a fare il tifo. Brava! Quello lì non ti merita! Basta fare la balia ai ragazzini e accontentarsi di uomini insicuri, lascialo perdere! Piangerà la tua scomparsa per un po’, poi si troverà un’altra cretina su tinder e si dimenticherà di te, a dimostrazione di quanto fosse sincero. Stronzo!

A metà del secolo scorso ci ha pensato Cesare Pavese a riportare equilibrio (non so se anche lui si sia rifatto a versioni precedenti, scusate): secondo lui Orfeo è sceso nell’Ade, ha convinto gli dei a restituirgli l’amore, ma quando stava risalendo verso la superficie si è reso conto che era una cazzata gigantesca, e si è voltato apposta. Cioè, questa mi ha lasciato e io la rivoglio ancora indietro? Mi ha fatto soffrire come un cane e io mi dichiaro pronto a rifare tutto da capo?
Ma cosa sono, cretino?

Roberto Vecchioni ci ha scritto una canzone bellissima su questa versione del mito, dove fa dire al protagonista “Tutto quello che si piange non è amore”.
È tutto in quella frase lì. Orfeo si volta perché la vita va avanti, ed è ridicolo crocifiggersi a un ricordo, per bello e magico che sia.

E Pavese ci dice anche un paio di cose sull’ego: Euridice se n’è andata, è venuta giù negli Inferi, che francamente sono proprio un bel posto di merda, e adesso questa è casa sua, ed è giusto che stia qui, fra i morti. Vuole stare con Ade il pallidone? E perché dovrei convincerla che sbaglia? Se è contenta così..
E se ne va. Perché chi non mi vuole non mi merita. Alla fine Euridice si merita esattamente quello che ha: buio e freddo. E io ho di meglio da fare lassù, fra i vivi. Ciaone.

Secondo me c’è anche un po’ di risentimento, stiamo parlando di uno che alla fine per una donna si è ammazzato, però il concetto è giusto: Orfeo scende all’inferno perché l’inferno ce l’ha dentro, non ha scelta, sta malissimo; affronta la morte per cercare una felicità effimera, ma capisce che la felicità te la costruisci da solo, e a quel punto lei non gli serve più a niente. Torna alla luce completo, e suggerisce a Bacca di farselo anche lei un viaggetto da quelle parti, che le fa solo bene. Lei non la prende sportivamente, come si vedrà.

Orfeo Rave, lo spettacolo messo in scena dal Teatro della Tosse di Genova, sposa questa versione. E lo fa rivestendo il mito di atmosfere sudamericane, con un protagonista truccato come il dio del vudù haitiano, con un funerale brasiliano che è una gioia per gli occhi, con la capoeira, con uno strumento che non ho capito se è una kora o kosa.
C’è un sacco di altra roba nel capannone della Fiera, Mercurio chirurgo che recita in videoconferenza, morti che ballano all’obitorio, discoteche e chitarristi che svisano sul carrozzone come quello di Mad Max.
La storia è, invero, un po’ frammentata, Orfeo è un pupazzone snodato del tutto inespressivo, soffro più io seduto sul gabinetto, e gli altri intermezzi recitati non veicolano granché a parte sé stessi. Ma il risultato finale ti cattura, vuoi per la scenografia, vuoi per i ballerini, la musica, la suggestione arriva e ti convinci che l’amore fa più paura della morte e tutto ciò che ti muove è solo il tuo maledetto ego. Sticazzi di Euridice, piangevi la perdita del tuo orgoglio, perché qui se c’è uno che se ne va sbattendo la porta quello devo essere io, chiaro?

E così, tornato a casa, non ho rifatto la punta alle mie ragioni, ma mi sono letto per l’ennesima volta il brano di Pavese, e poi sono andato a dormire, che ne avevo bisogno.

Qualche sera fa ero al Porto Antico con una mano in bocca, a cercare di togliermi dell’angus dai denti, e questa presenza nella mia cavità orale mi faceva riflettere su quanto celiamo di noi agli altri in nome di amicizia, pudore o semplicemente paura di un giudizio, ma prima che arrivassi a una maggiore consapevolezza di me e chiamassi la mia insegnante di teatro per dirle che io Jago non lo voglio fare, che mi fa paura, una bambina vestita da angelo mi ha regalato delle caramelle e un bigliettino.

La guardo confuso, è vestita con una tunica bianca, ha le ali sulla schiena e l’aspetto florido di chi si è appena mangiato un cherubino.
L’anomalia di una bambina che regala caramelle a un vecchio pervertito mi provoca un certo disagio, e le chiedo perché questo gesto.
“Contro Halloween”, mi risponde, così apro il bigliettino e ci trovo un passo della Bibbia, qualcosa su Dio che è gentile con quelli che gli garbano a lui.

Vicino a me Lorenzo ha una reazione schifata, come se nel suo biglietto fosse avvolto uno scorpione, e lo rende alla bambina coi suoi modi garbati:
“Grazie piccina, le caramelle le tengo volentieri, ma col passo della bibbia ti ci puoi fare una supposta”. Lei non capisce, il suo animo innocente ignora l’eterna diatriba fra i baciapile e la progenie dell’inferno, e a me questa cosa che mandino in giro delle bambine a fare il lavoro sporco sembra veramente una vigliaccata, un adulto consapevole di quel che sta facendo se la merita tutta la camionata di perculi che senti arrampicartisi in gola, ma su una bambina non puoi infierire neanche un po’, e quando mi vengono delle battute bellissime e non le posso dire mi viene il nervoso, ed è la ragione per cui sono andato al cinema con lo scazzo. C’era anche il fatto di dovermi mettere una maschera, ma non quella di Pippo, che poi te la levi e ciao, una di quelle invisibili che ti resta appiccicata alla faccia tutto il tempo e ti riesce difficile toglierla e non ti lascia respirare bene. Io non le so indossare le maschere, fingere di essere qualcosa di diverso da me è odioso, e quando mi trovo a dover camuffare il mio atteggiamento in nome della ragion di stato mi girano le balle. C’è gente, e quella sera ce n’era da riempire un taxi, che cambia faccia a piacimento come Big Jim 004. Beati loro che non si fanno problemi, io però di quell’odore di liquame che gli senti addosso quando ti parlano da vicino ne faccio a meno, e se posso mi ci tengo alla larga.

Il film che sono andato a vedere è Guardiani Della Galassia, una pellicola a cui non avrei dato una possibilità che fosse una, dai, ma ti pare che vado a vedere un film con un uomo albero e un procione parlante? Che già il nuovo Spiderman mi sembrava una vaccata, che poi i fumetti dei Guardiani non li ho mai letti, che tutte quelle serie spaziali mi sono sempre state in culo, con buona pace di Jack Kirby, che già i Fantastici Quattro mi pesavano, a parte quando c’era il Dottor Destino, che lui è un figo, e insomma n0, i Guardianidellagalassia ve lo andate a vedere voi, io casomai mi guardo quello con Viggo Mortensen, che c’è una mia amica che mi ha detto che vorrebbe vederlo, e siccome siamo in un momento in cui fra noi si è  accumulata un po’ di tensione ci vorrebbe un bel film distensivo per ritrovare quell’armonia che.

Solo che poi la tensione non si stempera per niente, che a tracciare dei confini a tavolino nascono gli stati quadrati, e non funzionano mai e sono sempre lì a farsi la guerra uno con l’altro; esistono delle frontiere naturali che vanno riconosciute e rispettate, e se è il caso cancellate, ma non devi imporre niente, altrimenti non è amicizia, è il Pakistan.

E insomma, piano B, si va a vedere i Guardiani insieme a un pulmino di individui fra il facepalm e il WTF, e se ci aggiungi il discorso di cui sopra capirai che le premesse non erano le migliori.

E invece.
Invece l’ultimo film Marvel si rivela una commedia spaziale, non nel senso di divertente a livello interplanetario, ma proprio come ambientazione, insomma, quel Della Galassia avrebbe dovuto mettervi sulla buona strada.. E comunque una commedia dai tempi perfetti, senza sbavature o pretese di serietà. Il procione e l’uomo albero sarebbero la spalla comica, se non fosse che nessuno lì in mezzo si prende davvero sul serio, sono Stanlio e Ollio che finiscono in un film con Vianello e Tognazzi, se mi passate l’accostamento. Una commedia molto divertente dove non te l’aspetti. E noi riempiamo le sale con Paolo Ruffini, che a confronto Christian De Sica è un attore. Ma diocristo.

E comunque per me il migliore è Drax Il Distruttore.

Uno dei migliori coglioni visti sullo schermo, se volete il mio parere.

Neanche il tempo di dire “Io sono Groot” che sono di nuovo seduto su una poltrona, ma stavolta gli attori sono veri, sono lì e se ti levi una scarpa e gliela tiri puoi colpirli in testa. Poi ti cacciano dal teatro, e non è detto che la scarpa la ritrovi, ma era per farvi capire che sono andato a vedere uno spettacolo al Teatro Della Tosse, che se non sei di Genova magari pensi a un posto dove organizzano recite per gente con l’enfisema, e invece è roba di qualità, e in sala stavano tutti bene. Tranne giusto l’attore protagonista, ma lui pare sia disturbato di suo.

Era in scena Caligola, di Albert Camus. Ecco, adesso mi piacerebbe scrivere una recensione del testo, più ancora che della sua versione teatrale, perché non mi ritengo competente abbastanza delle robe di palcoscenico da poter dire cosa sì e cosa meh, mentre il testo me lo sono letto prima di vedere lo spettacolo ed è stata una di quelle letture che ti portano via. Il problema è che quel testo mi ha lasciato della roba dentro con cui devo ancora fare i conti, e raccontarlo mi sembra un po’ come mostrarvi le mie mutande. Come quando ho letto La Moglie Dell’Uomo Che Viaggiava Nel Tempo, un romanzo che mi ha fatto a pezzi e di cui non ho scritto neanche una riga. Non ve lo racconterò neanche stavolta, accontentatevi del procione parlante. Magari se vado a vedere Viggomortense vi racconto quello, dai.

“Vorresti trascorrere un fine settimana in un antico borgo medievale, assistere a un suggestivo spettacolo teatrale, gustare le prelibatezze della cucina ligure e finire la giornata su una meravigliosa spiaggia? Con Izzy Travel puoi! Con soli otto euro potrai aggiudicarti il nostro fantastico pacchetto Ceccere Cecce e trascorrere un weekend indimenticabile!”

È così che immaginavo di ricevere l’invito, in una busta rossa col mio nome scritto in caratteri dorati pieni di ghirigori, recata da un messo in calzamaglia bicolore con un buffo cappello, che scende da un cocchio trainato da quattro cavalli, due bianchi e due neri, e si fa accompagnare da un paggio col tamburo che sottolinea ogni puntoacapo con un rullo, tipo annunciaziò annunciaziò. In realtà il messaggio è più sul genere “Domani vieni ad Apricale con me, Matteo e Roberto. Non rompere il cazzo e fatti lo zaino, ci vediamo alle quattro e mezza davanti al Saturn”, perché con Giulia le cose sono sempre piuttosto dirette. Potrei rifiutare, ma non ho niente di meglio in programma, poche cose sono migliori di un fine settimana in un antico borgo medievale eccetera eccetera, e poi mi fa piacere conoscere persone nuove. Matteo e Roberto li ho visti recitare in una webserie insieme alla mia amica, ma non ci conosciamo peddavvero, quindi è come se.

Ad andare in giro con degli attori non ti annoi mai

L’indomani sono puntuale davanti al Saturn, ma lei no, così entro e scopro che il tablet Nexus 7 di cui i miei amici hanno tessuto lodi te lo tirano dietro per tutto agosto grazie a una clamorosa offerta e a un raid notturno in un magazzino dalle parti di Alessandria. Sono lì che penso che in fondo posso vivere ancora un po’ senza libreria e materasso, e anche il bollo della macchina ma chi lo paga, dai, se vado avanti a crackers per tutto agosto e settembre rientro nelle spese in un attimo, e ho sentito dire che con un solo rene si vive benissimo, ma in quel momento mi arriva un messaggio della donna di pietra: “sono fuori, sbrigati”. Il mio conto corrente è salvo per un pelo.

È lì con le sue borse come se dovessimo partire per l’Alaska, indossa un paio di stivali borchiati e un vestito leggero senza maniche. Sembra un incrocio fra una commedia italiana estiva degli anni ’70 e un video dei Metallica. Sta benissimo, ma è lei a fare la differenza, potrebbe indossare scorpioni e non perderebbe un colpo.

Dopo poco arriva Matteo, che conosco anche per averlo visto recitare in uno spettacolo orrendo, e lui conosce me, ma non si spiega la ragione, e io mica posso dirgli che il suo spettacolo era orrendo, così traccheggio.

“Com’è che ti conosco, io?”
“Perché quando provavi per lo spettacolo dello Strehler de noatri io ero allo stage di improvvisazione cantata e ci incontravamo fuori.”
“No, non mi ricorderei di te così bene.”
“Boh, tu mi ricordi uno che però non posso dirti di più perché c’è un fascicolo secretato fino al 2047.”
“Eh?”
“Il tuo spettacolo era orrendo.”

Potremmo approfondire la questione, ma non sappiamo dove andare a sbattere, e Giulia non riesce ad aiutarci, perlopiù confonde le cose: “No, loro provavano la domenica, tu il martedì, impossibile che vi siate visti!” oppure “Avete entrambi dei sosia che si sono conosciuti in un’altra vita sotto ipnosi”, che è una scusa fighissima e la prendiamo tutti per buona.

Roberto, che dovrebbe essere il terzo, e che conosco anche per averlo incontrato poco tempo prima alla Fiera del Cappello Buffo non c’è, è stato quello che ha lanciato l’idea della trasferta e poi si è tirato misteriosamente indietro e nessuno sa la ragione, si nega al telefono, se gli suoni il campanello non risponde, se lo incontri per strada si butta per terra e fa il morto. Essendo un noto beccione tutti sospettano una qualche avventura a sfondo sessuale, ma Giulia suggerisce che possa essere stato catturato da un branco di pinguini e costretto a nutrirsi di torte a base di pesce. ancora una volta la spiegazione più assurda è la migliore, e ce ne stiamo.
In realtà deve avere letto il bollettino del traffico e si è tirato indietro per non dover subire la coda più lunga dall’invenzione della macchina, ma lo capiamo soltanto all’ingresso in autostrada..

Il viaggio è interminabile, stiamo imbottigliati da Voltri a Bordighera, poi dal casello di Bordighera alla provinciale per Apricale ci mettiamo tanto quanto arrivare a Barcellona in bici. Il tempo scorre impietoso come addosso a quelle che con me non ci sono volute stare,  c’è il rischio di perdere lo spettacolo, che non puoi entrare in ritardo, non si fa, e ad Apricale c’è questa tradizione di gettare i ritardatari giù dalla rupe nel torrente Merdanzo, che veramente, come fai a chiamare così un corso d’acqua, e poi magari ti aspetti che la gente ci faccia il bagno dentro, “andiamo a tuffarci nel Merdanzo!”, ma seriamente, dai.. Per recuperare il tempo perduto sperimentiamo varie tecniche, dal leggere Proust al costruire una macchina del tempo dentro una DeLorean, ma alla fine il metodo migliore risulta essere quello di Matteo, che si arrampica su per la montagna con uno sprint da rallista. All’arrivo il parabrezza non ha le mosche spiaccicate, ha i daini.

Però lo spettacolo lo vediamo tutto, e ne vale la pena: è un itinerario nel centro storico del borgo, a farsi raccontare storie dai pezzi di una scacchiera, che detta così fa ridere la minchia, ma vi giuro che è bello: c’è il re costretto a sposare una donna che non ama, l’alfiere maneggione, la torre insicura e il pedone dietro lo specchio. C’è la Morte e l’Autore, e soprattutto c’è il chiosco dei panini col salame che mi salva da un destino orribile, perché quando è stata l’ora di fermarsi all’autogrill qualcuno ha suggerito di non comprare da mangiare, che avremmo avuto tutto il tempo per farci l’aperitivo in piazza, e io ho nello stomaco solo un’insalata.

 

Sad king is the best king

Sad king is the best king

Si, ma dove avete dormito? Che Apricale ha degli alberghi, ma costano come l’Angst di Bordighera, dove per passarci la notte devi chiamarti Ghella e avere uno specchio in camera.
Avremmo dormito a casa di Alessandro, che recitava nello spettacolo ed è una persona squisita, se avessimo dormito, ma prima si è tirato tardissimo a fare discorsi di Cartesio e calciatori fuoriclasse e musica dodecafonica (giuro) e castelli austriaci e nessuno che divagasse su quale sia il miglior cortometraggio di Tex Avery, tutti dritti sui propri binari, anche un altro Roberto che ho conosciuto lì e viene aggregato al gruppo per sostituire quello tiraculi, che se non ti chiami Roberto non puoi dormire in casa, si vede che c’è una prenotazione e il nostro ospite è molto fiscale, che ne so. Poi molto fiscale non mi sembra, nella serie di cui sopra indossa buffi occhiali e circuisce uno che gli ha portato la pizza, ha più l’aria del cazzarone.

Verso le tre andiamo a dormire, ma c’è una tele che trasmette solo finali di film, e ci facciamo irretire dal fascino del fuori orario. Alle cinque siamo ancora tutti svegli che improvvisiamo doppiaggi su vecchie pellicole in bianco e nero: Bande à Part diventa la storia di un pistolero francese che spara a uno zombi in una stranissima pellicola con una coppia che corre avanti e indietro e una tizia che viene chiusa in un armadio e poi non si sa più come riaccenderla; Mastroianni balla ceccere cecce e poi litiga al bar con un amico innamorato di Milly D’Abbraccio; una tizia si spoglia, si fa cospargere di budino e invita tutti i presenti a pasteggiare su di lei, poi ci ripensa ed esce dalla finestra su una moto, ridendo come una cretina. Quest’ultimo era già assurdo così, l’abbiamo lasciato intatto.

….

Della parte in cui ci si sveglia e si torna presentabili al mondo preferisco non parlare, cinque persone adulte che passano la notte nella stessa stanza proiettano un’immagine dagli effetti devastanti in soggetti sensibili: perdita della fiducia nella vita, abbandono dei progetti, inappetenza, atarassia, desiderio di accoppiarsi coi leghisti. Non voglio essere responsabile se una donna porterà in grembo il figlio di Borghezio, lasciamo perdere.
Diciamo che siamo usciti di casa e scesi in piazza a fare colazione in mezzo ai tedeschi che si scofanavano torte salate e pastasciutte.

“Guarda che mangiano veramente male i nordici eh? Pastasciutta per colazione, ma come si fa!”
“No, siamo noi in ritardo, è l’una e un quarto.”
“Ah.. Comunque il tuo spettacolo era orrendo.”

Ho visto cose otto quegli ombrelloni che voi umani non potreste immaginare, tedeschi da combattimento in fiamme al largo dei Bastioni del Merdanzo..

È un’atmosfera eccitante quella che si respira nella piazza di Apricale, e non solo per gli sguardi appiccicosi che Roberto indirizza al tavolo delle ragazze scosciate, lì accanto. Sono in sei, un dannato hipster con la barba lunga, che adesso va di moda la barba da naufrago, e cinque ragazze che coprono tutta la scala estetica da Apparizione Mistica ad Arbanella di Sottaceti. E poi ci sono gli artisti della compagnia, quello che è sceso in pigiama, quello che indossa tre paia di occhiali alla volta, quello che somiglia a Walter White. Non è più una piazza di paese, è un crogiuolo di lingue e idee, senti versioni alternative di un monologo e un’idea innovativa di abbigliamento, che però così innovativa non è, sono sessant’anni che i tedeschi indossano i calzini sotto i sandali, smettila. C’è l’attrice che gioca a carte col suonatore di tromba, la cameriera che somiglia a Moana Pozzi porta un bicchiere di bianco gelato, lo vedi da lontano il bicchiere appannato, e la lingua ti schiocca in gola, e ti chiedi se sia presto passare dal cappuccino alla pizza solo per poterti gustare un calice di poesia, ma non è il caso, un alcolizzato a weekend è una regola alla quale non si deve mai trasgredire, e questo fine settimana ne hai già incontrato uno sulla via, stava all’autogrill e biascicava qualcosa sul bufalino senza mozzarella, è un po’ come la statistica che dice che non ci potrà mai essere più di un dinamitardo per aeroplano, perciò se giri con una bomba in valigia puoi stare tranquillo, vatti a pigliare un estatè.

Salta fuori un mazzo di carte, è il momento della cirulla. Io non ci so giocare a carte, ho una specie di rifiuto genetico, non lo so, vado alle fiere nerz e imparo a giocare agli scacchi quantici, che sono una roba che se non ci hai mai giocato non puoi capire, i pedoni che se li osservi spariscono, l’alfiere di Schrödinger, il re che è contemporaneamente regina e cavallo (ma questo essere donna ed equino ha precedenti illustri anche fuori dalle fiere, basti pensare a Sarah Jessica Parker), poi mi metti in mano un mazzo di carte classiche e mi spieghi le regole della briscola e la testa mi parte per destinazione ignota. Mi succede coi giochi di carte, coi discorsi di mio cugino e col mio capo che mi spiega cosa devo fare oggi, per il resto sono sempre piuttosto presente.

Lascio i miei amici alla loro partita, che si preannuncia lunghissima, e vado a fare due passi. Apricale è una casbah di pietra a vista, scalette che si incrociano come in un quadro di Escher, vicoli e tetti e angoli ovunque. Mi stupisce che nessuno ci abbia mai ambientato un episodio di Assassin’s Creed, si vede che la Regione Toscana pagava meglio, oppure era poco credibile un Enzo Auditore che piglia il cavallo e scende a Ospedaletti e si spiaggia fino alle sei, poi mojito al bar con gli amici, un’orata alla ligure per cena, discoteca in Costa Azzurra e ti saluto templari. Io ci avrei giocato a un gioco così? Non lo so, la discoteca me lo mena, e anche il livello del mare, non so se l’avrei finito. Però con le orate vado forte.

Ritorno a partita finita.

“Che si fa? Andiamo a pranzo?”
“Si, ma a casa, che il ristorante non apprezza quelli che si presentano a tavola alle tre e mezza, li buttano giù dalla rupe.”
“Anche loro? E come si distinguono quelli che arrivano tardi agli spettacoli da quelli che vogliono pranzare a cucina chiusa?”
“Dalla rupe. Apricale ne ha molte, grazie alla sua disposizione geografica può giustiziare un sacco di categorie senza fare confusione.  Per esempio qui dietro cacciano giù quelli che barano a carte”, dice Alessandro, gettando un’occhiataccia a Matteo. Lui si infila una mano in tasca e fischietta un tormentone estivo che somiglia molto a quello che ballava Mastroianni la sera precedente.

A casa ci facciamo una pastasciutta e due bottiglie di ottimo bianco, e come succede sempre quando si contano i morti sul tavolo la conversazione prende pieghe più interessanti, tipo chi va con chi, chi è stato con chi, chi si vuol fare chi, e poi c’è Roberto che ci racconta un episodio talmente orribile che corriamo tutti fuori a vomitare, ma sono cose che uniscono gli uomini in un’amicizia virile, e Giulia non fa eccezione, che su queste cose è più uoma di tutti quanti, e se la ride soddisfatta e anche un po’ misogina.

Bene, è ora di ripartire, la strada è sgombra, la testa pure. Ci lasciamo con la promessa di rivederci in città, ma sappiamo già che certe promesse sono fatte per essere disilluse, i nostri destini ci portano su strade diverse, Alessandro deve partire per una tournèe col Circo di Brema dove interpreta la donna barbuta, Matteo ha da soddisfare tutte le donne d’Italia suddivise per regione, e la settimana prossima comincia col Veneto, Roberto vuole farsi una tedesca prima della fine delle ferie, anche a costo di fidanzarsi con una schuko, e Giulia sta per partire per la Scozia, da dove tornerà sposata con un cornamusiere con la stessa barba da hipster che hanno i ragazzini da queste parti, ma anche con un kilt che la giustifichi.

Io, di mio, ho un piano molto preciso per scalpellarmi il cuore, e intendo portarlo a termine prima possibile, che questa vita serena sicura e inappagante mi ha già rotto le palle, sono nato per soffrire. Ha ragione Bacca:

“Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.”