Quello che segue è un post che ho tenuto in cantina per un anno intero. Avrei voluto farne una puntata di centotre-e-tre, ma lo scrivo talmente di rado che chissà se sarei mai riuscito a collegare Renato Rascel e Laura Nyro, e nel frattempo passa un anno, e di quella bella serata milanese neanche una riga, nonostante ci abbia incontrato una delle persone più belle e preziose che mi sia mai capitato di conoscere. Su quel che è venuto dopo solo un paio di accenni qua e là, perché volevo prima raccontare l’inizio e poi il seguito, solo che il seguito è finito prima di raccontare l’inizio, e allora non aveva più molto senso.

La metto qui, come un saluto da lontano.

Sono a una festa di compleanno in mezzo a persone mai viste prima, e questa sconosciuta mi inciampa addosso, rovesciandomi un cocktail sulle scarpe. Le dico che non fa niente, non mi ha neanche preso, la maggior parte è finita sul tappeto, ma lei si prodiga ancora in scuse, la faccia tutta rossa che s’intona col vestito a fiori, e cercando un tovagliolo per pulire almeno il tavolino, scivola su un cubetto di ghiaccio e finisce in braccio alla festeggiata.

“Guarda, è meglio che ti siedi e ti riprendi”, le suggerisce l’amica e me la deposita accanto.

È molto carina, i suoi occhi chiarissimi mi osservano senza più il minimo imbarazzo:

“Mi chiamo Lisa”, mi dice. E ci stringiamo la mano. Solo che nel porgermi la sua scontra il mio bicchiere e me ne fa cadere mezzo sui pantaloni.

“Oh no!”, esclama, e si butta in avanti per recuperare il tovagliolo di prima, versando il resto del suo cocktail sul divano. Ormai è come stare in piscina, mi sfilo le all star e indosso un paio di comode infradito.

“Forse è meglio se cambiamo posto”, suggerisco.

“Forse è meglio se cambiate bar”, replica il cameriere intervenuto a pulire.

Per rabbonirlo ordiniamo due bibite alla frutta e andiamo a sederci in un posto asciutto, camminando con attenzione e guardando bene dove mettiamo i piedi, soprattutto i suoi.

È piacevole parlare con lei, mi fa sentire subito a mio agio posando il bicchiere lontano dai miei vestiti, e poi mi fa un sacco di domande, e quando rispondo con le mie idiozie non butta neanche occhiate nervose alle amiche sperando che qualcuna venga a salvarla.

Parliamo delle cose che ci piacciono, come fanno di solito le persone che si sono appena incontrate, e mentre si avvolge ciocche di capelli intorno alle dita mi racconta della sua passione per la musica. È preparata, ascolta un mucchio di roba che non conosco, e parte con due gol di vantaggio e l’uomo in più semplicemente dicendo che le piace Tom Waits.

Poi mi racconta di questa cantante, Laura Nyro. Si sente che è la sua cantante preferita, le si sono accesi gli occhi come fari, le dita si sono fatte più veloci, adesso accompagnano le parole volando di qua e di là in gesti ampi, che però vengono frenati dalle ciocche di capelli ancora intrecciate alle dita, e gli strattoni che dà le provocano strilli di dolore.

Riprende il bicchiere con indifferenza, ma si trafigge con lo stecchino. Allora si infila in bocca una fetta d’ananas, che ovviamente le va di traverso, e attacca a tossire. I pezzetti di frutta che espelle dal naso non le tolgono una briciola di fascino, e quando mi rovescia adosso il bicchiere cercando di mettersi una mano davanti alla bocca non cerco neanche più di spostarmi. Mi ha conquistato, lo ammetto. Sarà che da bambino ero innamorato del tenente Crandall, la bella infermiera pasticciona di Operazione Sottoveste, ma non vorrei più alzarmi da quel divano. E neanche credo che potrei, ormai l’alcool e lo zucchero mi hanno avvolto in un bozzolo talmente appiccicoso che per tirarmi via di lì servirà un lanciafiamme.

La serata prosegue senza grossi incidenti, portano la torta che finisce, ovviamente, sul pavimento, il cameriere rimedia un paio di ferite lacero-contuse e per l’abbinamento candeline/vodka sulle pareti manca poco che arrivino i pompieri, ma devo essere onesto, non è stata colpa della mia nuova amica, quando il cameriere ha portato la torta era in bagno.

Per la precisione ne stava uscendo, e come faceva a sapere che dietro la porta c’era un tizio con una torta in mano?

Credo che sia stata una serata piacevole anche per lei, perché quando ci hanno cacciato dal locale ha accettato volentieri di continuare altrove.

Peccato che l’abbia investita un taxi mentre attraversava la strada.

Adesso è in ospedale, non è gravissima, e se la legano bene al letto dovrebbe guarire senza altri incidenti.

Nel frattempo ho cominciato ad ascoltare Laura Nyro, di cui vado a raccontare qualcosa, per chi non ha trascorso la serata con la sua fan numero uno in un locale che ha chiuso per restauri e non riaprirà prima del 2017.

New York negli anni ’60 è un calderone di generi musicali, tutti gli artisti che contano sono lì, Joni Mitchell, Diana Ross, Miles Davis. Se ne vanno in giro alle feste, quando si incontrano suonano insieme, salutano tutti.

Laura Nyro invece sta a casa, chiusa in cameretta a guardare dalla finestra le gang del Bronx che imperversano sul marciapiede. Nessuno la invita alle feste, le ragazze del Bronx hanno la fama di dure, e così lei s’incupisce e scrive canzoni tristissime che si canta da sola con quella voce incredibile da cantante gospel, che non ha mai potuto far sentire in chiesa, perché nel suo quartiere la chiesa l’hanno bruciata quelli della gang di Coney Island, li stanno ancora cercando, mi sa che non ci tornano nel loro quartiere.

Quando Laura canta anche le strade del Bronx si addolciscono, gli spacciatori si trovano un lavoro onesto, i mafiosi si costituiscono, le gang si iscrivono alle scuole serali, e i marciapiedi ripuliti si popolano di coniglietti, uccellini e caprioli.

Poi la magia finisce, perché le canzoni che Laura scrive sono davvero tristissime, e i coniglietti si buttano in massa sotto il tram, i caprioli si tagliano le vene e gli uccellini si annegano nell’Hudson.

Davanti a quella carneficina il padre di Laura, Louis, che suona la tromba nei locali, decide che è ora di dare una direzione a tutto quel talento, prima di beccarsi una denuncia da qualche associazione ambientalista, e la mette in contatto con Artie Mogull e Paul Berry, due produttori che conosce lui.

Grazie a loro Laura Nyro vende una canzone a un trio folk che sta andando molto forte: Peter, Paul & Mary, che noi conosciamo grazie a “Datemi Un Martello”, di Rita Pavone, e vabbè, ognuno ha i folk singers che si merita.

È dello stesso periodo la sua prima esibizione da professionista, in un nightclub di San Francisco, l’Hungry I (angri ai, non angri uno, e non chiedetemi perché), dove ha cominciato la sua carriera, fra gli altri, Woody Allen.

La sua seconda esibizione da professionista non è alla pizzeria Moromare, ma al Monterey Pop Festival. Quel giorno sul palco passa gente del calibro di Otis Redding, i Byrds, Janis Joplin con i suoi Big Brother & The Holding Company, e i Mar-Keys, che tutti vi chiederete chi cacchio sono, sono il gruppo in cui militò Donald “Duck” Dunn, il bassista dei Blues Brothers.

La sua esibizione è un successo, ma Laura si è convinta di avere fatto schifo, ha sentito dei fischi, c’è rimasta malissimo e vuole tornare a chiudersi in cameretta.

Per fortuna l’ha sentita anche David Geffen, uno che sta cominciando a muovere i primi passi di una carriera che lo porterà abbastanza in alto, tipo sulla luna, con un bambino seduto a cavalcioni che pesca in un laghetto: avete presente la Dreamworks, quella che ha prodotto l’ultimo film che avete visto al cinema, e anche quello prima? L’ha fondata quel David Geffen lì.

Fra il ’68 e il ’71 Laura Nyro pubblica i suoi cinque album migliori, poi si sposa e decide che non ha più voglia di fare la cantante di successo, che quella vita lì non le piace mica.

Cinque anni più tardi è il suo matrimonio a finire, e pubblica un disco nuovo. Si vede che non si era spiegata bene.

Da lì in avanti pubblica altri dischi, ha un figlio, una vita piuttosto intensa e non priva di dolori che termina molto presto, quando ha appena 49 anni.

Ma che genere fa Laura Nyro?

La prima cantante a cui mi viene da accostarla è Joni Mitchell, ma senza quella vena folk che attraversa tutta la sua produzione. Qui siamo più dalle parti di Nick Drake, ma anche Jeff Buckley, tutto messo a macerare in un pentolone di rhythm’n’blues. Sono canzoni intense, di quelle che se stai ad ascoltare finisci per sederti e non fare altro, si prendono tutta la tua attenzione, ma sono anche piuttosto malinconiche: il dolore e la solitudine sono temi ricorrenti nei suoi testi, e l’atmosfera notturna che dà il pianoforte fa il resto. Diciamo che se siete appena stati scaricati dalla fidanzata e tornando a casa vi hanno rapinato e nella cassetta della posta c’è quel referto medico che stavate aspettando e che comincia con “prima di andare avanti a leggere forse è meglio che si sieda”, ecco, magari è meglio se mettete su Jovanotti, tipo.

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning

Eccoci pronti a una nuova tappa del viaggio con la radio in valigia. L’avete lette quelle due righe che ho scritto qualche giorno fa dove dicevo che insomma sarebbe meglio che le leggeste perché non ho nessuna intenzione di riassumerle? Fatemi sapere cosa ne pensate, che c’è molta carne al fuoco, come dicono gli allevatori guardando la stalla distrutta da un incendio.

Questa settimana restiamo in Canada, e restiamo nell’ambito Musicisti che fanno anche altre cose, perché non si può non parlare del re dei tuttofare, lo scienziato pazzo della musica canadese, Neil Young, detto anche “One of you fuckin’ guys comes near me and I’m gonna fuckin’ hit you with my guitar”.

Lui e Joni Mitchell sono legati, oltre che da un’antica amicizia e dall’essersi detti delle cose attraverso le canzoni, anche dall’aver contratto lo stesso ceppo di poliomielite nel 1951. e come facevo a non collegarli?

Joni Mitchell insieme al papà de La Casa Nella Prateria.

Io Neil Young lo conoscevo pochissimo fino a qualche anno fa. Ai tempi gloriosi delle radio libere (siigh!), quando con un gruppo di disperati tenevamo in vita Radio Studio 93, mi era capitato fra le mani l’allora nuovo Harvest Moon, di cui conoscevo il singolo per averlo visto sull’altra grande novità di quei tempi: Mtv.

Non so se fra voi lettori ci sono anche dei ventenni, ma nel caso credo di dover spiegare di che si tratta. Vent’anni fa in Italia alcune reti private iniziarono a trasmettere il segnale della giovane Mtv Europe per alcune ore ogni giorno, permettendo a noi pischelli che abitavamo in posti dove non si prendeva Videomusic di godere finalmente della visione dei videoclips dei nostri gruppi preferiti.

Fu una rivoluzione, e lo fu anche per quelli che se la tiravano da Io guardo videomusic tutti i giorni, perché Mtv era davvero qualcosa di nuovo. Innanzitutto trasmetteva da Londra, quindi i conduttori parlavano solo inglese, e in quegli anni era l’unico assaggio concreto di Unione Europea che potevamo permetterci senza fare l’interrail; e poi l’impatto visivo era straordinariamente diverso da quanto visto fino ad allora, ti catturava con la sua energia, vinceva a mani basse su qualunque produzione locale. Poi vabbè, c’era la musica. Lo so che a questo punto i miei lettori più giovani mi prenderanno per cretino, ma dovete credermi, una volta Mtv trasmetteva solamente musica: videoclip, documentari, telegiornali riguardanti la musica, trasmissioni dedicate ai vari generi, quella ficata incredibile che era Mtv Unplugged, e Beavis & Butthead, che era un cartone animato, ma comunque parlava di due ragazzetti impallati con l’heavy metal.

Steve Blame, Ray Cokes, Rebecca De Ruvo erano gli animatori dei pomeriggi doposcuola (actually, Ray Cokes andava in onda la sera, ma il concetto è quello), e il fatto che capissi una parola su cinque me li rendeva più simpatici dei loro omologhi attuali, anche se magari dicevano delle castronerie inimmaginabili.

Presentatori impresentabili

Neil Young cominciai ad ascoltarlo allora, quando dopo l’ultimo video degli Edelweiss si ritornava ad atmosfere più morbide, e un uomo che spazzava il porticato sotto la luna dava il tempo al singolo più recente dell’artista canadese.

Della sua produzione artistica non racconto niente, è sconfinata e se non vi interessa il genere diventa anche noiosa, e poi se volevo scrivere una roba uguale a wikipedia mettevo al posto del titolo un banner con Jimmy Wales che vi domanda dei soldi.

Quello che interessa a me è l’altro Neil Young, quello che non suona.

Ce ne sono diversi Neil Young che non suonano, uno è un attivista politico, uno accudisce il figlio, ma il migliore di tutti resta il Neil Young inventore.

Credo di non essere l’unico che da piccolo si metteva più comodo in poltrona quando, sfogliando l’ultimo Topolino, vedeva Paperino prendere la strada verso il laboratorio di Archimede Pitagorico.

“Ora ne vedremo delle belle”, pensavamo, mentre ci tornavano in mente i fantastici frutti dell’ingegno del nostro scienziato preferito: il paracadute ascensionale, le car-can, il lapis bicolore che da una parte taglia i metalli e dall’altra li salda.

Insomma, le invenzioni in casa mia erano di casa, anche se poi non riuscivo mai a rimontarla, quella sveglia, e ci toccava comprarne una nuova; capirete che non potevo non appassionarmi al vecchio canadese (quello senza gli artigli), che spende un pacco di soldi per convertire in auto ibrida (elettrica/biodiesel) la sua vecchia Lincoln e la battezza Lincvolt, si lancia in una campagna a favore del bio-carburante e si fa tutta una tournèe alimentando i suoi camion con l’olio vegetale.

Poi vabbè, ad un certo punto la Lincvolt è andata a fuoco e gli ha bruciato un magazzino pieno di roba costosa, ma pare che non fosse dovuto a errori di fabbricazione.

Una macchina che va a Neil Young? Corro subito a comprarla!

L’ultimo progetto dell’Emmett Brown di Toronto si chiama Pono, uscirà l’anno prossimo e dovrebbe rivoluzionare il mercato della musica digitale.

Da quanto ho capito si tratta di un nuovo formato audio che garantirebbe una qualità che a confronto l’mp3 è uno di quei peti silenziosi, ma letali, tanto che le principali case discografiche si sono dette disponibili a riconvertire il proprio intero catalogo. Staremo a vedere, a me Neil Young piace un casino, ma se mi brucia la casa mentre ascolto l’ultimo disco di Capossela vado a cercarlo col badile.

La canzone che andiamo ad ascoltare si chiama Cortez The Killer, e ci racconta del massacro degli aztechi da parte dei soldati spagnoli, anche se girano parecchie interpretazioni più personali, e lo stesso Young, intervistato a riguardo, ha dichiarato “Ma non mi rompete il cazzo stronzi”, o qualcosa del genere.

Prima di chiudere credo di dovervi spiegare la frase in inglese all’inizio del post:
risale al festival di Woodstock, nel 1969, quando Young si esibì insieme a Crosby, Stills & Nash; ai cameramen che cercavano di filmarlo durante l’esibizione si rivolse col tono affettuoso che da sempre lo ha contraddistinto, minacciandoli di picchiarli con la chitarra.

Neil Young e Grumpy Cat sono parenti? Noi di Voyager crediamo di si.

Il mio eroe.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp

Eravamo rimasti a Tony Bennett, che fra una canzone pizzamandolino e l’altra trova il tempo per dipingere ed esporre i propri quadri allo Smithsonian di Washington D.C., ma non quello per comprarsi un paio di occhiali con una montatura di questo secolo, ma quelli sono affari suoi.

Il connubio fra pittura e musica è molto antico, si dice che già i nostri antenati delle caverne amassero intonare dei motivetti orecchiabili mentre lasciavano manate sulle pareti di roccia (anche se esistono altre correnti di pensiero riguardo la nascita stessa della musica), e da allora siamo stati testimoni di innumerevoli casi di musicisti/pittori, o viceversa.

Tutti sappiamo che Leonardo Da Vinci era uno straordinario pittore e anche un ottimo suonatore di lira, e l’amicizia che legava Vasilij Kandinskij ad Arnold Schönberg ci spiega un sacco di cose sul connubio fra queste due forme artistiche, ma per esempio pochi sanno che anche in tempi più remoti era usanza comune per un pittore intraprendere ad un certo punto della propria vita la carriera musicale: verso la fine del XIII secolo il pittore Cimabue, messo ormai all’angolo dal suo allievo Giotto, decise di appendere la tavolozza al chiodo e girare l’Italia cantando stornelli; duecento anni più tardi il Sassetta terminò alla svelta un’Adorazione dei Magi per poter partire in tournèe col suo gruppo hard rock, dove suonava la batteria.

Il Sassetta dietro la batteria del suo gruppo Spingarde’n’Roses

In tempi più recenti i musicisti che si fanno apprezzare anche come pittori sono un esercito: Franco Battiato, Ron Wood, Bob Dylan, il già citato Tony Bennett e la cantante di cui parlerò oggi, Joni Mitchell.

Canadese, un carattere difficile fin da bambina, quando litiga con la maestra di pianoforte perché di suonare i classici non gliene frega niente, lei ha imparato Nella Vecchia Fattoria e vuole fare solo quella. Comincia a dipingere, e dopo il liceo si iscrive a una scuola d’arte, ma anche lì non funziona, le danno da studiare dei quadri che non ritiene adeguati alla propria formazione, e molla tutto.

Nella seconda metà degli anni sessanta è a Toronto che cerca di sfondare come musicista, e incontra, fra gli altri, Leonard Cohen. Non faccio la prossima puntata su di lui perché il suo più fedele seguace, Hardla, non me l’ha ancora chiesto, e quindi vi racconto ancora qualcosa sulla sua biografia, che comincia a farsi interessante quando Joni si trasferisce a New York e comincia a suonare per davvero, e nel 1969 si fidanza con David Crosby, che aveva mollato i Byrds un paio d’anni prima. Altri due anni e la troviamo insieme all’amico e collega di Crosby, Graham Nash.

Questa dev’essere la foto che uno ritrova anni dopo dentro un vecchio libro e mormora fra i denti parolacce irripetibili.

Ho provato a cercare aneddoti su questa storia, ma non ne ho trovato nessuno, immagino sia stato un passaggio abbastanza indolore, visto che poi la collaborazione artistica è proseguita con entrambi, ma è più divertente immaginare che ci sia stata una sera in cui lui è tornato a casa e l’ha trovata seduta a tavola, e quando s’è tolto la giacca lei si sia alzata, l’abbia raggiunto nell’ingresso e gli abbia detto “David, dobbiamo parlare”.

Non credo ci sia bisogno di scendere nel dettaglio, ogni discorso è diverso, ma tutti si reggono sulle stesse fondamenta; di sicuro ad un certo punto c’è stato qualcuno che ha detto “non sei tu, sono io”, e siccome una Joni Mitchell l’abbiamo incontrata tutti nella vita sono sicuro che lei deve avergli fatto un discorso del tipo “siamo troppo diversi, tu sei un pesce e io uno stambecco”, e a nulla sarà valso a quel punto ricordarle che tecnicamente l’animale con le corna era lui, alla fine della conversazione David avrà osservato sgomento la schiena della sua a quel punto ex fidanzata scomparire dietro la porta della camera da letto e si sarà posto la domanda che tutti si sono posti arrivati a quel punto della discussione: “ma se ti chiudi in camera da letto io dove cazzo dormo?”.

Nonostante tutta la caparbietà che ha contraddistinto la sua carriera artistica, o forse proprio per quello, che la caparbietà è solo una delle caratteristiche che le contraddistinguono, io credo che Joni Mitchell appartenga alla categoria di Quelle Che Si Cercano. È una specie molto vasta di donne che comprende le tizie coi problemi mentali e quelle che all’apparenza sono normali, ma che poi si iscrivono ai corsi di buddismo tantrico e massaggio tibetano e quando le rivedi dopo dieci anni ti raccontano che la loro vita è cambiata e pace e amicizia ed è meglio che a quel punto corri via veloce, che se commetti l’errore di invitarle a cena ti accorgi che sono esattamente le stesse stronze di dieci anni fa, solo che ora portano i sandali. Non hanno una casa, non hanno un lavoro, si circondano di amici misteriosi che le ospitano in giro per il mondo e le coprono di regali, e si rapportano a voi nello stesso modo in cui voi vi rapportate al vostro medico: vi considerano indispensabile, ma cercano di frequentarvi il meno possibile. Cercare di tirar fuori qualcosa di costruttivo dalle Tizie Che Si Cercano è inutile e alla lunga dannoso, un po’ come mettersi con una persona tossicodipendente convinti di poterla aiutare. Le Tizie Che Si Cercano non sono dei teneri orsetti pacioccosi a rischio estinzione, sono degli squali perennemente in cerca di preda, sempre in movimento coi loro occhietti inespressivi e i denti affilati, quando se ne avvista una è meglio correre a chiamare il bagnino e far mangiare lui.

L’ho già scritto che Joni Mitchell è anche un’ottima pittrice?

Mi sarebbe tanto piaciuto proseguire la mia catena musicale con Graham Nash, visto che anni dopo ha suonato con David Gilmour nel suo meraviglioso tour acustico, ma abbiamo detto che dev’essere un viaggio di scoperta, no? Joni Mitchell la scopro oggi, e devo continuare in questa direzione; i Pink Floyd che scoperta sono, che li ascoltavo in terza media?

Del gruppo, all’epoca del tumultuoso ingresso di Joni Mitchell, ha fatto parte anche Stephen Stills, che immagino nella scomoda veste dell’amico confidente che poi alla fine non scopa mai, svergliato nel cuore della notte da David che non sa dove andare a dormire, da Joni che vorrebbe un consiglio disinteressato e infine da Graham, divorato dai sensi di colpa. Non parlerò neanche di lui nella prossima puntata, ma del quarto elemento, arrivato dopo e scampato al tumultuoso giro di telefonate notturne.

Per il momento ascoltatevi uno dei successi di Joni Mitchell, tenendo presente che prima o poi la figlia di Bill Clinton deciderà di buttarsi in politica, e se un giorno il primo presidente donna degli Stati Uniti si chiamerà come una squadra di calcio londinese sarà tutta colpa di questa canzone.

(continua)