La faccenda della newsletter di cui parlavo la volta scorsa ha smosso il gotha dell’editoria italiana a un livello che non mi aspettavo. Cioè, avevo messo in conto di ricevere email da qualche redazione di giornale, in cui direttori piccati mi accusano di poca sportività, e infatti mi ha scritto il direttore di un quotidiano sbarcato in edicola da una settimana, chiedendomi di rinunciare all’idea della newsletter, o almeno di rimandarla di qualche settimana, per dare il tempo alla sua rivista di crearsi un solido bacino di lettori.

Quello che non mi aspettavo era che la mia proposta mi ponesse sotto la lente d’ingrandimento di un anziano direttore col vizio della bottiglia. Non me l’aspettavo perché io e questo signore di solito frequentiamo persone diverse, leggiamo giornali diversi e soprattutto ci facciamo leggere da persone che difficilmente riuscirebbero a stare nella stessa stanza senza mettersi le mani in faccia. Ciononostante, questo pomeriggio il signore in questione mi ha telefonato. Ho capito che era lui prima ancora di vedere il numero, perché la suoneria del cellulare, invece della solita sigla di Drive-In, ha fatto partire Faccetta Nera interpretata dal Coro degli Ultras della Lazio, live dai sedili posteriori del pullman di ritorno dalla trasferta a Udine dove hanno strappato un pareggio all’ultimo minuto.

(una volta non so più quale compagnia telefonica aveva attivato questo servizio, che ti permetteva di scegliere una suoneria personalizzata da fare ascoltare a chi ti chiamava, mentre aspettava che accettassi la chiamata. In tutta Italia avevamo sottoscritto il servizio solo io e il mio amico Panzon, e tutti e due ci siamo rotti le palle dopo meno di un mese perché il catalogo comprendeva solo tre canzoni e due erano tormentoni estivi)

Il vecchio direttore di giornale si è lagnato con me che già la sua testata la leggono in quattro, se mi metto a rubargli lettori anch’io cosa gli resta da fare se non spendere al bar anche quelle poche ore che finora dedicava alla stesura di editoriali che per essere letti dovevano contenere la parola negri nel titolo? Mi ha chiesto di lasciar perdere, oppure di prenderlo a lavorare con noi in redazione, che oramai a Milano si vive male e non gli dispiacerebbe trasferirsi in un ufficio vista mare col bar sotto che prepara degli spritz decenti.

Ho rifiutato, naturalmente. La redazione si sta formando lentamente, di ogni candidato valutiamo il curriculum perché ce lo mandano e pare brutto non leggerlo, ma soprattutto il casellario giudiziale: se ha subito condanne per avere scritto parolacce sul muro dell’arcivescovado lo facciamo direttore, ma se è già stato direttore non ci interessa, perché a lavorare con quelli bravi ci vengono i complessi di inferiorità e poi finiremmo a misurarci il cazzo, e perderemmo anche lì.

È brutto perdere a chi ce l’ha più lungo con qualcuno che è anche più bravo di te nel lavoro.

Il vecchio direttore astioso si è congedato con cortesia, ma se domani in edicola ci sarà un editoriale che parla male di Renzi sappiate che non si riferisce al segretario di Italia Viva.

Nel frattempo il nostro progetto va avanti con calma. Nessuno ha fretta di cominciare, e ci scambiamo pigri messaggi domandando di cosa dovremmo parlare e chi avrebbe voglia di scrivere il primo pezzo. Ma non ce l’abbiamo una linea editoriale? Ci si chiede. E il titolo della newsletter? E che giorno la facciamo uscire?
La cassetta degli articoli da cui pescare il materiale settimana dopo settimana è ancora vuoto, ogni tanto mi metto al computer per scrivere il primo pezzo, e sistematicamente finisco a giocare a un gioco in cui interpreto un cecchino in Siberia che spara a mercenari appostati tre schermi più in là, perciò il mio primo pezzo finirà per essere La giornata tipica di un cecchino superaccessoriato nella Siberia degli anni ’20, e inizierà così:

Ore 6.30 – La sveglia mi tira giù dal letto che fuori è ancora buio. Per non attirare curiosi ho impostato la suoneria col canto di accoppiamento del lupo siberiano, ma così ogni mattina trovo fuori dalla tenda cinque esemplari maschi ingrifatissimi, e venti minuti se ne vanno a cercare di allontanarli senza fare rumore. Non so se avete presente la difficoltà di convincere un branco di lupi incazzati ad andarsene facendogli pssh pssh.

Poi ci sono le difficoltà di carattere logistico, che nel mio caso significano gli elementi ambientali che mi rendono difficile scrivere: mia moglie e i gatti, principalmente. Che decidono tutti insieme di avere bisogno di me, e mi obbligano a interrompere la stesura del mio pezzo e attraversare ciabattando le grandi stanze del castello in cui ci siamo trasferiti da poco, mugugnando lungo tutto il percorso, per arrivare a scoprire che la prima ha scoperto che i secondi le hanno pisciato sulle ciabatte, e che io devo risolvere il problema. In quel caso mi si presentano due opzioni: buttare le ciabatte o buttare i gatti, ma non posso scegliere nessuna delle due, perché né io né mia moglie siamo disposti a liberarci di ciò che ci appartiene. Quindi io mi tengo il gatto piscione e lei le ciabatte pisciate.

Insomma, far uscire una newsletter oggi, in Italia, è più difficile di quanto si possa pensare. Tenetene conto quando guarderete ogni giorno la vostra casella di posta e ci troverete soltanto la pubblicità dell’allungapeni, e vi verrà voglia di imprecare nella mia direzione, e in quel moto di rabbia vi sarà sfuggito che finora neanche vi ho dato un indirizzo a cui registrare la vostra casella di posta, anche se mi fossi messo a pubblicare come credete che avrei fatto a recapitarvela?
Tutto vi devo spiegare. Tutto.

Regnò dal 1385 al 1433, pur essendo il frutto illegittimo di un re e della figlia di un mercante, ma a quel tempo la situazione del trono era piuttosto complicata, ovunque ti girassi saltavano fuori fratellastri e brutte storie di corna, e insomma, quando mancano i cavalli corrono gli asini, come si dice.
Fu un sovrano istruito e amante delle arti, e i suoi figli non gli furono inferiori: Enrico Il Navigatore fu il promotore delle esplorazioni marittime che portarono alla colonizzazione delle Azzorre, sua figlia Eleonora scoprì il bosone di Higgs prima ancora che Higgs nascesse, e fu solo perché non aveva altri nomi da dargli che accantonò la scoperta e si fece monaca di clausura. E che dire di Beatrice D’Aviz, nata da una relazione extraconiugale con la figlia di un calzolaio? A diciannove anni si sposò e a ventinove restò vedova, ma si risposò a trenta, e poi di nuovo a 47 e, prima di morire di peste nera come tutta la sua fortunata famiglia, riuscì a scrivere una serie di fortunati romanzi rosa che vennero poi trasposti in un telefilm di incredibile successo dal titolo O Sexo E A Cidade.

João I è il nome della strada ripida che ti porta giù diritto alla Ribeira, proprio in mezzo ai tavolini del Chez Lapin, quando ti si stavano seccando gli occhi e avevi bisogno di posarli subito su un fiume, e sei sceso a passo svelto e in un attimo correvi, per l’eccitazione e per non cadere giù da quella scarpata di porfido, ed eccolo ai tuoi piedi, il Douro, i barconi carichi di botti, il gigante di ferro che ti guarda e sembra soddisfatto di rivederti, era sicuro che saresti tornato, la luce di quella città ti ha reso la sua falena, trovati un tavolino e facciamo due chiacchiere, ma il cameriere te lo chiamo io, lo sai come sono diffidenti verso gli stranieri.

Da un paio di giorni João è anche il nome di un affarino rosso, neanche due etti di pelo, un motorino sempre acceso che mi staziona sul braccio mentre scrivo, sulla tastiera quando cerco di leggere, sul cuscino quando dormo, e lo osservo passare con le sue zampe così grandi e la coda dritta, diretto all’esplorazione di qualche angolo della cucina. È regale nella postura, seduto sulla spalliera del divano o su una pila di libri, e quando si fa le unghie sui fumetti mi accende la stessa urgenza che sento quando penso a quella strada nel centro di Porto, e gli corro incontro in un florilegio di madonne che rappresenta un matrimonio laico con quel paese dove ho parcheggiato il cuore.

João I detto O Preguiçoso

Mi fa sorridere quando siamo tutti e tre sul divano, insieme a One Eyed Jack, tre mammiferi maschi ipertricotici, e nessuno ha voglia di alzarsi a mettere su il caffè, e allora ci guardiamo un film e dopo dieci minuti dormiamo abbracciati e non ci turba nè la pioggia nè l’inverno dietro la porta.

È un equilibrio pericoloso, perché si appoggia su una base larga come il divano, e non si muove neanche se la scrolli forte; è quella comfort zone che gli esperti ti dicono di non frequentare troppo, una bolla di plastica dove entra poca luce, ma anche pochi fastidi, dove è troppo facile chiudersi e non voler più uscire e dimenticarsi che la vita è fuori.

Forse scriverò un libro, forse compirò la definitiva trasformazione nel disadattato in tuta che spegne e riaccende la luce tredici volte di fila sennò finisce il mondo, forse i vicini verranno a vedere cos’è quella puzza che si sente fin dalla strada e l’indomani saremo tutti e tre sul giornale. Comunque andrà a finire, la strada passa da questo scricciolo lungo un palmo, capace di dormire in posizioni che farebbero sbiancare una contorsionista cinese. E da voi stronzi, che il sabato sera avete sempre qualcos’altro da fare.