È il primo maggio e io il primo maggio mi rompo il cazzo. Ma sempre, anche quand’ero bambino ed era giorno di festa da scuola e potevo uscire con gli amici. Io non mi diverto mai il primo maggio, neanche quand’ero ragazzino e c’era il concertone del primo maggio e piazza San Giovanni brulicava di artisti che mi piacevano. Prima che li sostituissero con le mummie, voglio dire. Niente neanche allora, se c’era il gruppo che avrei venduto mia mamma per vederlo cantare succedeva che un membro del gruppo veniva trovato morto in piscina e un altro si sparava in faccia col fucile e il cantante veniva sostituito all’ultimo momento con Mario Tessuto, oppure c’erano tutti e si esibivano, ma non potevo vederli lo stesso perché il tizio che si era comprato mia mamma ci aveva trovato un difetto e mi aveva chiesto di incontrarlo proprio a quell’ora per restituirgli i soldi.

Un anno mi ricordo che ero a casa della mia ragazza e avevamo deciso di guardare non so più quale artista che ci piaceva tantissimo a tutti e due, ma sua mamma si era spiaggiata davanti alla tele per guardarsi la replica di Colombo. Neanche un episodio nuovo trasmesso in quel momento, no, la replica. Come a dire che il destino prima ti si mette di traverso e poi pernacchia.

Ma non è che prima dei concertoni, o dopo quando gli artisti che mi piacevano hanno smesso di andarci e San Giovanni si è riempita di nomi che se entro in un locale e c’è la loro canzone esco di corsa e vado a cercare una tanica di benzina e poi torno con un accendino, non è che il mio primomaggio è ridotto a grossi eventi che qualcuno si ostina a definire musicali, no, non è quello. Il mio primo maggio fa cagare anche se vado sui prati, perché se vado sui prati piove. E se non piove mi ritrovo seduto su un plaid ad ascoltare la depressona della compagnia che ha scelto proprio quel giorno e quel plaid per raccontarmi dei suoi problemi col marito/fidanzato/amante/trombamico/tuttiequattroinsieme che non la capisce e non gliene vuole più dare e lei non si dà pace se almeno capisse perché. E io non è che posso dirle amica mia guardati, somigli alla controfigura di Jabba, e anche cercare di infilarti nelle mutande qualunque belino nel raggio di trenta chilometri non agevola i tuoi rapporti familiari, e per favore smettila di leccarmi il collo.

Quest’anno ho deciso di giocare d’anticipo, non avendo fidanzate con cui abbruttirmi davanti alla tele, e non avendo neanche una tele: mi sono messo su l’ultimo di Fish così anche in fatto di ciccioni insoddisfatti sono a posto, mi sono scaricato un vagone di fumetti da leggere e se mi gira recensire con vertiginose metafore tipo “bello di brutto” o “fa cagare la minchia”, mi sono scaricato un paio di videogiochi da installare far partire vedere piantarsi in tredueuno bestemmiare le scarse capacità del mio pici andare a vedere quanto costa un pici nuovo più potente deprimermi e andare a dormire.

Dopo pochissimo mi sono reso conto che il mio primomaggio non sarebbe stato appagante neanche così, e mi sono chiesto perché, e facendomi domande dirette e rispondendo con parole oneste sono arrivato al nocciolo del problema: è colpa di Umberto Tozzi.

Quando ha detto primo maggio su coraggio ha risvegliato la mia coscienza, mi ha fatto capire una qualche verità che si annidava dentro di me come un gemello fagocitato nell’utero, che io nell’utero avevo già fame, e da allora la festa dei lavoratori è un giorno difficile per me.
Primo maggio su coraggio, ma che rima è? Perché non hai detto primo maggio c’è il formaggio, o primo maggio vado a Reggio? Te lo dico io perché, perché conoscevi il terribile segreto che non fa divertire i primimaggi, e volevi lanciare un messaggio nell’etere prima che gli uomini in nero che da sempre custodiscono gli orribili segreti dell’umanità ti costringessero al silenzio.

Ma io ti ho capito, Umberto Tozzi. Ho messo insieme i pezzi di questo puzzle e adesso so la verità, e la divulgherò all’umanità intera, così la Confraternita dei Malvagi Reazionari che cerca di mantenere lo status quo per tenerci buoni e avvelenarci con le scie chimiche sarà finalmente sconfitta e potremo camminare liberi e felici tenendoci per mano verso un futuro di libertà.

Aspetta un attimo, mi suona il telefono.
Sono gli uomini in nero.
Dicono che se non divulgo il segreto del primomaggio mi regalano un pici nuovo.
E c’è una che mi vuole conoscere che ha letto il mio blog e le piace tanto come scrivo e ama i gatti rossi e loro fra i segreti che custodiscono c’è anche il suo numero di telefono e ci possiamo mettere d’accordo.
E poi quale confratermita malvagia, loro sono solo i gioviali innocui membri di una banda di quartiere che va a suonare le marcette alla festa del patrono e poi tutti all’osteria e il vestito nero è solo la divisa di ordinanza come dimostrato dalla cravatta arancione che sdrammatizza.
Per esempio in quell’astuccio per violino c’è un violino, mica un mitra.
E in quello per contrabbasso non c’è nessun bazooka.
E in quello per pulmini di orchestra non ci hanno nascosto un carroarmato.
Ho colto la sottile allusione.
Tanto io Umberto Tozzi per mano non ce lo volevo tenere, ecco.

Niente, vado a fare la lavatrice.

Qualche giorno fa ho compiuto gli anni. Mi succede tutti gli anni e dicono che sia una tradizione da mantenere più che si può, perciò cerco di rispettarla anche se a vederli crescere senza rallentare mai un po’ mi girano le balle, lo ammetto. È colpa di quella brutta abitudine che abbiamo di guardarci sempre indietro a vedere dov’eravamo e cosa abbiamo perso per strada, e ripetere con gli occhi bassi che non ci porteremo più la girella a scuola, non vivremo più l’emozione del primo bacio o della prima volta che sullo schermo è apparso il capoccione nero di Darth Fener (si, lo so, Vader, ma sticazzi, ho 42 anni e Fener me lo sono guadagnato. Fener! Fener!). E non che a guardare avanti le cose migliorino, c’è tutto un futuro in sottrazione ed esami della prostata a separarci da quel punto nero laggiù in fondo, che è solo un punto e speriamo che lo rimanga ancora per un bel po’, che quando ti avvicini abbastanza da capire cosa tiene in mano non dormi più.

I miei compleanni, da quando sono entrato negli -anta, hanno sempre fatto cagare. Il primo, quello importante, lo trascorsi a casa di una coppia di amici che si era scoppiata da poco, c’era un clima così triste che se fosse morto il gatto lo avrebbe migliorato. Il tavolo era pieno di patatine della lidl e bottiglie di spuma, mi sentivo alla festa delle medie quando me ne stavo in un angolo a guardare la bambina che mi piaceva circondata dalle sue amichette, e capivo che stava parlando di quanto era bello Sansonedicognome, che aveva gli occhi verdi e giocava da dio a pallone. Ad un certo punto mi sentii troppo al centro dell’attenzione, così mi alzai e spinsi la sedia contro la parete in fondo. La mia fidanzata mi guardò interrogativa per un momento, poi tornò a sfogliare il catalogo ikea, coadiuvata dalla sua amica.
Giurai a me stesso che non avrei permesso a nessuno mai più di rovinarmi un compleanno, piuttosto non lo avrei festeggiato, come d’altronde ho sempre fatto, ma l’anno successivo ci ricascai.

Come un domino, la stessa febbre che aveva scassato la coppia dei nostri amici contagiò noi, poi un’altra coppia, poi un’altra, e insomma che nel gennaio 2013 mi sono trovato a grattarmi la testa e osservare quell’ammasso di lamiera piegata che fino a cinque minuti prima era stato la mia relazione. Facile immaginare che l’umore non fosse proprio quello adatto ai festeggiamenti. Credo di avere passato il mio quarantunesimo compleanno in casa, seduto sul pavimento a piangermi in mano, in pigiama e con la barba di un mese, il sonno arretrato di quindici giorni e almeno un paio di chili sotto il mio peso forma. Non ricordo i dettagli né ci penso volentieri, ma credo che le mie prospettive per il futuro abbiano previsto, ad un certo punto, anche un episodio di Art Attack con Giovanni Mucciaccia che ci insegna a fare un nodo scorsoio alla corda e ad appenderla a un grosso ramo nel bosco.

Un netto miglioramento rispetto al compleanno precedente, comunque.

Adesso sono tornato a percorrere i binari placidi della mia vita di prima, senza grossi scossoni emotivi, faccio le cose che mi piacciono quando ne ho voglia, mi conto i capelli bianchi e li porto con un certo orgoglio, che almeno io i capelli ce li ho.

Qualche sera fa ero a una degustazione di scotch con un vecchio amico, gli raccontavo che il mio quarantaduesimo è stato particolarmente figo, un po’ perché 42 è la risposta alla domanda fondamentale e mica cazzi, è un’età che quelli come me si fanno tatuare su un braccio con una balena e un vaso di fiori accanto, un po’ perché cadeva di martedì, e io il martedì faccio le robe con Rubik Teatro, e la scorsa lezione ho portato il vino e la focaccia, Brodino ha portato la birra e i bicchieri e alle tre e mezza di mattina eravamo ancora tutti lì a raccontarcela.

“Io credo che quando puoi stare in un locale a bere un whisky più vecchio dei tuoi amici dovresti fermarti un momento a riflettere su quanto sei fortunato”, gli ho detto. “Perché trovarsi a proprio agio con persone tanto più giovani di te significa che o tu sei un coglione immaturo o loro sono delle persone molto intelligenti, e credo che nel mio caso la verità stia nel mezzo, che è comunque tanta roba. E inoltre significa che stai bevendo un distillato di qualità, e non la pisciazza che ti danno in certi locali.”

E insomma, ieri sera i miei amici del primo anno al corso di improvvisazione teatrale mi hanno organizzato una festa, coi regali e la pizzeria e il locale dove alla fine ti cacciano, proprio come quando andavo a scuola, ma senza quello stronzo di Sansonedicognome, e stavolta sono stato seduto in mezzo e ci sono stato bene, perché queste persone nuove che frequento sono davvero splendide e mi fanno sentire a casa, e vorrei mettermi lì e raccontare di tutti i momenti in cui da fuori non si capiva, ma dentro c’era Iggy Pop che si dimenava con indosso solo un paio di pantaloni neri, e non lo faccio solo perché sono troppi e poi preferisco tenermeli per me.
Dico solo che grazie, di nuovo, come tutte le settimane, ma un po’ di più, perché ogni volta mi sento sempre di più fra i miei simili.