Va detto che subito non lo voleva mica condividere il cancarone, eh!

Va detto che all’inizio non era proprio tanto disponibile alla condivisione.

Venerdì sono andato a vedere i Pearl Jam a Milano insieme a un’amica che vive lì.
Già arrivare a San Siro in bici mi ha messo di ottimo umore: niente coda, posteggi davanti ai cancelli e in un minuto sei dentro. Sono le settemmezza e riusciamo a metterci in una bella posizione centrale. La mia amica cagacazzi è bassa e non vede una minchia, ma non posso aiutarla, così le pianto una gomitata nei denti che la tramortisce per un paio d’ore: è un gesto di pietà, non ha senso farla soffrire, e oltretutto così sta zitta.

Comincia che è ancora chiaro, il pubblico attacca a gridare e sul palco entrano i musicisti. Non credevo che mi sarei emozionato, ma Eddie Vedder sono vent’anni che vorrei vederlo cantare, certe cose non te le dimentichi. Quando prende il microfono e attacca Release ho la pelle d’oca.

Le tre canzoni che seguono sono i pezzoni lenti che conoscono tutti, che parlano di amori finiti e boh forse ha litigato con la moglie; c’è da chiedersi l’effetto che potrebbero fare su una persona che magari si è appena lasciata ed è in mezzo al pubblico, sono sicuro che almeno uno alla fine di Black sta piangendo.

Poi, in un italiano stentato da traduttore di google, ci dice “Ci siaete tuti? Siaete puoncii? Alloua cominci-iamou”, ed è un treno di un’ora e mezza dei Pearl Jam rocchenrolli, senza soste e con qualche bella svisa. Non le riconosco tutte, Go e Corduroy fanno parte della categoria “Ah quella là che mi piace!”, ma altre faccio la faccia meh, e c’è qualche pezzo in cui me la meno proprio e gioco col cellulare, attirandomi le critiche della mia amica cagacazzi, che nel frattempo ha ripreso conoscenza e ha subito cominciato a lamentarsi. La stendo di nuovo con una mazzata alla nuca e continuo a giocherellare col suo telefono.

La scaletta cambia a ogni data, cosa che me li fa amare a prescindere, e spesso ci piantano dentro qualche cover a loro gusto. Durante questa sfilza di energia l’unica passabile per tale è Setting Forth, che è sempre di Vedder, ma fa parte della colonna sonora di Into The Wild, che è un film bellissimo anche senza la colonna sonora, ma la colonna sonora è pure meglio. E vabbè, mi piaceva di più Guaranteed, checcevoifà.
Il bottiglione da cui tracanna spesso il cantante dev’essere roba buona, lo fa sudare come una bestia e verso la fine gli permette un discorsone volemmosebbene che francamente poteva evitare.

Il palco è minimale, c’è una struttura che lo sovrasta, una specie di nuvola metallica da cui scendono delle lanterne a palla, ma non nel senso che vengono giù fortissimo, che cazzo hai capito. Ai due lati i classici megaschermi su cui viene proiettato il fighissimo film del concerto, in un bianco e nero parecchio stiloso, e con una signora regia, che se ad un certo punto ti stufi di allungare il collo oltre lo spilungone con la maglietta rossa te lo puoi guardare e spassartela lo stesso.

Poi ci sono i bis, che Eddie nostro ha già la sua cinquantina e una bottiglia di cancarone non riesce a smaltirsela saltellando qua e là e roccheggiando duro, deve andare a lavarsi via i litri di sudore e magari mangiarci dietro qualcosa che poi deve guidare per tornare in albergo, e si sa come sono i ghisa.
Attaccano acustici, e il film adesso è a colori. Prima di Just Breathe racconta questa cosa di quando ha conosciuto sua moglie in un brutto periodo e poi si sono sposati e cuoricini, e alza il bottiglione come i migliori Guccini e le fa gli auguri di buon anniversario, e mentre le telecamere ci mostrano in migliaia di pollici questa tizia che sorride un po’ contenuta lui le dice “I am Diabolik and you’re my Eva Kant”, che immagino sarà una frase preparata, magari in Francia le dice “I am a shitty quiche lorraine and you’re my awful vinaigrette”. Da qualche parte c’è Jacques Brel che ride, lo stronzo.

Meno male che è il momento di Daughter, che mi riporta di corsa agli anni ’90 e agli amici con cui facevamo la radio, e io ce l’ho sempre con me quella canzone lì, e non ci rimango neanche male quando a metà ci infila una canzone di Frozen, il cartone della Disney che piace tanto al mio amico Lorenzo Ciuffolo. Anche perché non me ne accorgo, l’ho letto poco fa sulla scaletta. Poi c’è Jeremy che piaceva a un mio amico che adesso fa il sofisticato che a lui i Pearl Jam fanno cagare. E poi ascolta Dente.
E Better Man, che magari non si era capito che Vitalogy è un gran disco.

I secondi bis a luci accese, tutti a guardarci le facce emozionate, ma poco, che parte subito Alive, che è un po’ il riscatto dei magoni, no? E poi Rockin’ In The Free World, che è la ragione principale per cui vorrei andare a Barolo a vedere Neil Young il prossimo 21 luglio, ma che essendo lunedì mi sa che mi attacco a stoca.

Solo oggi sono andato a leggere le scalette delle date precedenti, che li odio gli spoiler, sono uno che quando compra un cidi live non guarda che canzoni ci sono per non rovinarsi la sorpresa, e credo di avere assistito al concerto migliore, per com’è stato costruito e per l’effetto che ha avuto su di me e anche un po’ sul tizio di cui parlavo prima. Per andare meglio avrebbero potuto fare come a Seattle e suonare Interstellar Overdrive, o perlomeno farmi salire sul palco e aiutare il cantante a finire la bottiglia.
Sono tornato a casa felice, e in bici. E adesso aspettiamo che esca il bootleg sul sito.

I biglietti
Vent’anni fa, più o meno, stavo a Milano al Forum di Assago, che adesso si chiama Qualcosaforum, a seconda di chi paga lo sponsor: è stato Filaforum, Datchforum, Mediolanumforum e Tuamadreforum, quando si era messa a praticare il treperdue sulla tangenziale lì di fronte.

Era l’ultima sera di ottobre (how appropriate!), e su un palco che ricordava un tempio greco c’erano i Cure che portavano in giro il loro ultimo album. Li avevo appena scoperti grazie alle cassette del mio amico Darkillo, e avevamo comprato secchi il biglietto. Il 1992 è stato un anno pazzesco per la mia formazione live, in pochi mesi mi ero già sparato gli U2, i Dire Straits e Gianni Drudi, e la paghetta che mi passavano i genitori era pure bassa! Altri prezzi, signora mia!

Fu un concerto incredibile, ero in prima fila, conoscevo tutte le canzoni a memoria, c’era quella dietro di me che mi piantava continuamente le borchie del braccialetto sulla schiena.. avrei potuto morire lì ed essere appagato lo stesso.

Qualche mese fa sono lì che guardo pornazzi su internet e ad un certo punto viene fuori che i Cure celebreranno il ventennale del tour di Wish riportandolo in giro per l’Europa, e che verranno a suonare all’Heineken Jammin’ Festival il 7 luglio. Le acrobazie della signorina in video smettono di essere interessanti ben prima dei canonici venti secondi, e mi precipito su ticketone a comprare i biglietti, sperando che i maledetti bagarini non li abbiano già comprati tutti. Ci sono! Ne prendo due a scatola chiusa, la mia fidanzata non li ha mai visti i Cure, figurati se non le interessano.

Insomma, non vi sto a raccontare tutto quello che ho fatto da quel momento a ieri, sennò viene lunga, diciamo che alle quattro e mezza ci siamo messi in macchina io, il Subcomandante e Intercontinentillo, che nel frattempo è tornato dall’America per le vacanze e si è aggregato, e siamo partiti alla volta di Rho, dove si teneva l’HJF, che per chi non capisce gli acronimi è il festival che ho citato poche righe fa, ma dovreste stare più attenti.

Terra di nessuno
Viaggiamo bene e veloci, anche la temuta tangenziale la affrontiamo senza incidenti, e alle sei siamo nel posteggio P2 della Fiera di Milano sotto un sole che ammazzerebbe i pitoni. Dov’è il concerto? Di là, ci dice uno, indicando l’orizzonte che balugina lontano.

La fiera è grande e l’HJF sta proprio dietro, e per arrivarci bisogna girarci intorno. Lungo il tragitto incontriamo il padre di Branduardi, venuto a comprare un topolino per due soldi:

“Ma non ti sembrano tanti due soldi per un topolino?”
“Posso permettermelo, ho venduto un’opera a Brecht e ne ho ricavati tre, due li investo nel topolino e me ne rimane ancora uno da giocarmi alle macchinette!”

Poi entriamo nel mercato dei napoletani, una selva di bancarelle che vendono tutte la stessa maglietta e tizi che trascinano conche piene di birre ghiacciate.

“Signò, la vuole una birra?”
“Ma secondo te in un posto che si chiama Heineken Festival ne avranno birre?”
“Eh ma l’Aineche sa di piedi, io tengo Labbècs!”

Poi c’è la tizia che ti chiede se vuoi fare la pubblicità al nuovo smartfodellasamsu, ti infila dentro un telefono di cartone e ti fa dire “Samsungalacsi Essetrè, disain foriùma!”. Ti fa leggere un cartello dove c’è scritto proprio così, “foriùma”, e mi verrebbe voglia di partecipare e tirar fuori dalla tasca il mio Samsungalacsi Essedue che si pianta tutti i giorni e dire “samsungalacsi esserròtto!” e tirarglielo contro la telecamera, ma lei non ne può niente poverina.

Poi ci sono i cazzo di bagarini che ti vengono incontro con mazzette di biglietti in mano come le banconote di Krusty, e Marzia li allontana gentilmente dicendo no grazie, quando bisognerebbe buttarli per terra e prenderli a calci e offendere le loro madri per tutte le volte che non hai potuto comprare un biglietto degli U2 perché dopo venti minuti da che sono in vendita se li sono razziati tutti per rivenderseli al triplo fuori dai cancelli. Quando diventerò imperatore del mondo li metterò tutti nella categoria Bastardi Che Devono Morire Male, me lo segno.

Sole e un tappeto sintetico. L’inferno dev’essere pressappoco così.


HJF

Seguendo la scia di cadaveri calcificati dal sole arriviamo alla piana di asfalto in cui si tiene il festival. Il palco è lontanissimo laggiù in fondo, ci arriviamo facendo le soste obbligate secondo importanza, banchetto delle magliette ufficiali, cessi chimici, porchettaro, e ci sistemiamo a ridosso della transenna che ci separa dal Pit, che non è il marito di Angelina Jolie, ma un recinto per cui occorreva pagare dieci euri di più. Oltre quello c’è l’area Vip, un altro recinto che sta davanti al palco, pieno di persone senza reni, cornee e anima.

Il posto che occupiamo non è affatto male: il sole sta calando e la temperatura è accettabile, davanti a noi non c’è una ressa mostruosa a impedirci di respirare e il palco non è neanche lontanissimo, strizzando un po’ gli occhi si riescono a vedere perfino i megaschermi.
Inganniamo l’attesa mangiando panini di un materiale stranissimo, che in bocca ricorda la gommapiuma, ma che una volta ingoiato diventa uguale al marmo. La birra invece la riconosci subito, è proprio come diceva il tizio fuori, sa di calzino di lupetto dopo che si è tolto le scarpe sul locale per Torino alla fine di un’estenuante gita al Monte di Portofino.

Alle nostre spalle dei nazisti con un pitbull al guinzaglio facevano avanti e indietro sfidandoci a scavalcare.

Dopo una mezz’ora cominciano a suonare i New Order, che sarebbero i membri dei Joy Division che non si sono impiccati in cucina, quelli che un giorno hanno inventato la musica dance, poi si sono sciolti, poi si sono rimessi insieme senza dirlo al bassista e dandosi anche di gomito al pub ripensando alla faccia che avrebbe fatto vedendoli su un palco.

La loro esibizione è quella che ti aspetteresti da un gruppo che non ti sei mai cagato quand’erano in cima alle classifiche e li accomunavi ai Pet Shop Boys e agli altri discotecari del cazzo, ma che adesso infili nelle playlist di grooveshark sospirando di nostalgia: una figata elettronica danzereccia e peccato solo che ci sia questa transenna potevo spendere dieci euri di più e stare di là che c’è più largo e guarda come ci sballano quelle due tizie mezze nude la prossima volta non faccio il taccagno, me lo segno anche questo.

Nel frattempo lo spazio alle nostre spalle è andato riempiendosi, e quando cominciamo a sentire le campane che annunciano l’inizio del gruppo principale abbiamo una marea di corpi alle spalle e non posso fare a meno di pensare a The Walking Dead, e vorrei avere con me un’ascia. No, l’ascia è perché sono un misantropo di merda e odio le persone, anche quelle vive.

La scaletta (for fans only)

Cominciamo! Vent’anni dopo Wish sono di nuovo a un concerto dei Cure!
No, aspetta, veramente ci sono stato altre due volte a un concerto dei Cure, nel 1996 e nel 2000.
Ma stavolta è il tour di Wish! Come vent’anni fa!
No, aspetta, dice Espertillo che in realtà non è il tour di Wish, fanno solo una carrellata di vecchi successi, ma devo aspettarmi un po’ di tutto.
Ma ormai è troppo tardi per richiedere i soldi indietro!

Robert Smith è talmente ciccione che hanno dovuto costruire un megaschermo apposta per contenerlo.

L’apertura è da brividi, o da Disintegration, che è comunque un album da brividi: Plainsong, Pictures Of You e Lullaby, una dietro l’altra, e già pensi che vale la pena di esserci, che un attacco così è quasi meglio di quello del’92, quando al posto di Plainsong fecero Open e High. Quasi meglio, perché Open è un capolavoro e mancherà nel concerto di stasera.

High arriva di seguito, come quarta canzone, e non ho ancora smesso di cantare, meglio che mi facciano riprendere fiato, e infatti fanno The End Of The World, quella nuova che nel video gli va giù la casa e quando l’ho visto ho pensato che i Cure non hanno più niente da dire, ma i video sono ancora carini.

Torniamo indietro con un altro classico da Disintegration, Lovesong, che tutto il pubblico apprezza, e poi mettiamo lì un altro pezzo nuovo che mi cago poco, Sleep When I’m Dead.

La chitarra allegra di Push fa mille giri prima di essere accompagnata dalla voce di Robert Smith, che sembra divertirsi un sacco, si agita come l’orsetto ciccione, si asciuga la faccia con la manica della camicia, riprende a ballare con la chitarra appesa al collo, e da lontano la sua silhouette sul palco è iconografica come quella di Indiana Jones col cappello in testa. E’ una lezione di storia della musica quella a cui stiamo assistendo, una di quelle più divertenti.

Il gruppo ha preparato una scaletta furba, e non ci fa smettere di agitarci: dopo Push è la volta di In Between Days e Just Like Heaven, sempre senza sosta, cominciamo ad avere il fiatone. Anche Ballerillo è provato, che certi ritmi non li regge più neanche lui che è una bestia da concerti. Le uniche che non sembrano sentire la stanchezza sono le due tizie di prima, che continuano a ballare come forsennate. Una è sempre più nuda, si è calata i pantaloncini fino a mostrare la nasella e indossa gli occhiali da sole nonostante il sole sia sparito dietro il palco.

Per fortuna che il telefono ha anche una fotocamera che funziona con la batteria scarica

Finalmente un pezzo di Wish: From The Edge Of The Deep Green Sea. Non so gli altri, ma per me è una delle canzoni più belle che abbiano mai scritto, le chitarre distorte creano un tappeto denso, da affondarci i piedi; chiudo gli occhi e mi dimentico di dove sono, ci vediamo fra sette minuti e quarantaquattro secondi.

Torno alla vita sulle note di un pezzo che non conosco, bello pieno. È nuovo (almeno per me), si chiama The Hungry Ghost, non è male.

Il blocco successivo di canzoni lo associo alla copertina del Greatest Hits, quella col vecchio in bianco e nero, e ai suoni sintetici che riempivano il disco: Play For Today, A Forest, Primary, quasi nello stesso ordine della raccolta, e The Walk, che stava sul lato B.

Da notare che fino a qui il concerto è stato sempre tiratissimo, una canzone dietro l’altra, nessuna sosta, giusto un paio di battute del cantante, peraltro incomprensibili, data la sua passione per il borbottio. E tutte suonate alla grande, belle cariche di suoni, da quel palco si sprigiona un’energia che raramente mi è capitato di percepire ad un concerto. Per dire, a quello di Guccini no.

Effetti bizzarri e pure inutili, ma tanto al buio non è che puoi fare ste gran fote.

Friday I’m In Love viene accolta da un boato, credo che la conoscano anche i tizi della sicurezza che vigilano affinché nessuno scavalchi dall’area zozzoni micragnosi dove stiamo noi a quella zozzoni e basta, detta anche Pit.
Ogni tanto qualcuno ci prova a scavalcare, e si fa malissimo sbattendo sulle transenne, che dal nostro lato sono delle lastre di metallo piuttosto semplici, ma dietro hanno un sacco di paletti inclinati e sgabelli e uncini e credo che fossero un progetto scartato da Aegon Il Conquistatore quando disegnò il Trono di Spade.

I pochi che sopravvivono all’impresa si perdono immediatamente nella folla, ma c’è qualcuno che non ce la fa e viene catturato dal temibile guardiano. Quando questo accade cominciano le atrocità (sconsiglio la lettura del paragrafo che segue alle persone sensibili):

Il guardiano si mette davanti all’immigrato clandestino e gli fa: “Hai scavalcato?”
L’immigrato si fa piccolo piccolo, che il guardiano è veramente un bestione, e mormora con un filo di voce “ssi”, non cercando neanche di vendergli una scusa, che potrebbe farlo imbestialire ancora di più.
Il guardiano lo fissa con gli occhi dell’orco e dalla sua bocca grondante sangue gli fa: “Vabbè, stai lì.”, e se ne va.
L’immigrato resta un po’ stordito dalla sorpresa di avere ancora tutti gli arti al proprio posto, poi aspetta che il guardiano si volti e scappa tra la folla.

Nel frattempo Friday I’m in Love è finita, ma il momento Wish continua con Doing The Unstuck e Trust. La prima è un po’ meno gioiosa che nel disco, la seconda me lo mena uguale preciso.

Ma è proprio l’atmosfera del concerto che si è fatta più cupa con l’approssimarsi delle tenebre, sta cominciando il Momento Pipponi.

Il gruppo ha lasciato indietro le canzoncine pop, e adesso vira sul dark pesante: Want, Wrong Number, One Hundred Years e Disintegration. Alla fine Robert Smith abbandona il palco in lacrime (sic, che per chi oltre gli acronimi non sa neanche il latino vuol dire “per davèro!”), che si vede che si è depresso anche lui. Le due tizie nel Pit continuano a ballare anche dopo che la musica è finita, mi sa che c’è qualcosa che non va.

Momento Pippone

La pausa è breve, neanche il tempo di gridare fuorifuor e sono di nuovo tutti lì, allegri come se niente fosse successo, e sfornano tre reperti: Shake Dog Shake, Bananafishbones e The Top, che il cantante introduce dicendo che è solo la seconda volta che la fa dal vivo; in realtà è la quarantunesima, ma si vede che le altre 39 volte l’ha fatta in playback.

Stavolta la canta davvero, e benissimo pure, e quando grida “Please come back” alla fine si allontana dal microfono e la voce arriva flebile e pensi che questa qui è proprio una stronza ad averlo lasciato da solo laggiù in fondo e fai come ti dice, non lo senti che ti chiede di tornare? Tutta intera, specifica, che a pezzi con ‘sto caldo vai subito a male.

Escono di nuovo, neanche il tempo di dire fuorif che sono di nuovo lì, allegri come se il concerto stesse per finire, e ti sparano l’ultima raffica di pezzoni per chiudere in allegria, tutti amici, ciao è stato bello, ci rivediamo presto: Dressing Up, The Lovecats, The Caterpillar, Close to Me, Just One Kiss, Let’s Go to Bed, Why Can’t I Be You? e Boys Don’t Cry.

Abbandoniamo il terreno lasciandoci alle spalle una distesa di bicchieri di plastica e cartacce e due tizie mezze nude che ballano ormai sfinite, sbattendo i loro corpi imbottiti di acido contro i passanti che sfollano. Ieri sera suonavano i Prodigy, secondo me sono lì da allora.

Quando è partita The Lovecats abbiamo ballato un casino. Cioè, un casino di più del casino di prima.

Stamattina ho visto un’intervista dove Robert Smith dice che si è divertito tantissimo, è stato uno dei concerti più belli che ha fatto in Italia, ma col cazzo che ci torna, e se Katia non è venuta a vederlo peggio per lei, la prossima volta al matrimonio si dà malata.