Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning

Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
El Chapo Guzman – Los Tucanes de Tijuana
Cholo Valderrama – Llanero si soy llanero

La scorsa puntata vi avevo promesso di approfondire la conoscenza con un’altra vincitrice del Grammy Latino, perciò cominciamo senza altri indugi.

Nel 1990 facevo il fotografo per una rivista di non vedenti che si chiamava “Perlomeno il cuore non duole”, e il mio capo mi spedì a Cuba a fotografare Celia Cruz, che tornava in patria dopo trent’anni per un concerto nella base americana di Guantanamo.

“Scusi capo, ma Guantanamo fa cagare, ci sono dei gabbioni e dei tizi in tuta arancione, e i soldati sparano ai cubani per divertimento e poi si fanno coprire da Jack Nicholson che fa il colonnello che poi però in tribunale sbrocca, che foto possono venire fuori?”

“Ma a me che cazzo me ne frega, io li odio i non vedenti, mi toccano tutta la rivista, me la lasciano piena di ditate. Ho provato a spiegarglielo che è carta patinata, ma loro niente, duri proprio.”

Non feci altre domande e partii per assistere a quello che per i cubani era un autentico evento.

Celia Cruz, il cui vero nome era Úrsula Hilaria Celia de la Caridad de la Santísima Trinidad Cruz Alfonso, ma non ci stava sulla carta d’identità, era nata a Cuba nel 1925, e già prima di avere compiuto venticinque anni era una cantante con un discreto successo, aveva inciso delle canzoni e se ne andava in tournèe. Per dire, io a venticinque anni potevo spiegarti grossomodo chi erano i personaggi di un fumetto di Hulk.

A trentacinque lasciò Cuba per una tournèe che toccò Messico e Stati Uniti, e una volta arrivata lì disse Fidel puzzacacca e dichiarò che non sarebbe più tornata, perché Cuba es la alma de mi corazon, ma si sta meglio altrove, e finché ci fosse stato Castro al potere lei gli avrebbe fatto i pernacchi da lontano con due mani. Perché è facile difendere un regime quando non ci stai sotto, il sogno cubano, il comunismo reale, parli con un idealista italiano e Cuba viene fuori come il paradiso terrestre e quelli che scappano sono tutti degli illusi che vogliono la televisione a colori e non hanno capito che fuori si sta peggio che dentro, e sarà anche vero, ma un regime è un regime e un regime non è mai un buon sistema di governo, e allora vaffanculo a Castro, io sto con Celia Cruz. Sono tanti gli esuli dell’isola che aspettano il tiraggio di gambina del lider maximo, ma finora lui li sta seppellendo tutti.

Celia Cruz se n’è andata nel 2003 senza tornare veramente alla sua terra: l’unica rimpatriata fu appunto quella del 1990 alla base americana di Guantanamo, che è un po’ come litigare con tua suocera e passare il pranzo di natale da solo nella trattoria di fronte a casa sua.

Io c’ero quel giorno, e posso raccontare l’emozione della cantante a rivedere la sua terra oltre la recinzione e il filo spinato, e quando raccolse un pugno di terra dicendo che non se ne sarebbe mai più separata, e del tenente che l’accompagnava, che le rispose “Va bene signora, ma allora sarebbe meglio che raccogliesse della terra vera, quello è sterco di asino, vede?”.

“Azùcar!”, esclamò lei, com’era solita fare, sfoggiando il suo sorriso migliore e pulendosi la mano sulla giacca del militare.

Celia Cruz, campione dei pesi massimi categoria drag

Celia Cruz, campione dei pesi massimi categoria drag

Fu un concerto commovente, seppure breve. Celia Cruz indossava un vestito pieno di sbuffi colorati sulle spalle, e i soliti occhialoni che la facevano sembrare un transessuale con dei precedenti nel pugilato semi professionistico. Quando risalì sull’aereo che la portava via per sempre dalla sua terra pianse a lungo, e parecchi la imitarono anche al di qua delle transenne, fra gli uomini in divisa e quelli con la tuta arancione. Non credo che un governo dovrebbe impedire a qualcuno di tornare a casa propria, e voi mi chiederete “e allora i Savoia?” e io vi rispondo che i Savoia sono un discorso un po’ tanto diverso, e comunque in Italia ci sono tornati pure loro e con tanto di inchino, cosa che mi farebbe venir voglia di esiliare anche quelli che si sono prostrati in salamelecchi, ma finirei per contraddire il discorso di cui sopra, e mi pare di avere già scritto una montagna di minchiate, considerato che volevo solo allacciarmi a Celia Cruz per dire che a me il sogno cubano fa cagare il cazzo.

Morì negli Stati Uniti, dove abitava, e la cerimonia funebre venne officiata nella chiesa di San Patrizio, a New York, davanti a una folla oceanica. Per l’occasione il suo amico Victor Manuelle cantò questa canzone qui:

Pensateci quando morirete e al vostro funerale ci saranno solo persone che pregano e piangono.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

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Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan
Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg
El Chapo Guzman – Los Tucanes de Tijuana

Cari viaggiatori delle musichine, ve la siete fatta passare la ciucca di Sanremo? Lo sapete che sono stato costretto a togliere dalla bacheca di facebook qualcosa come quaranta persone, che non ne potevo veramente più di informazioni in tempo reale sulle vicissitudini del festival, mannaggia a loro? A me non piace il festival, non ho neanche la televisione, l’ho regalata per non sapere niente del festival, non accendo neanche la radio in quei giorni, ma se devo anche chiudere il computer diventa difficilissimo!

Poi lo so che gli estimatori salteranno su a dire ma no, guarda che queste ultime edizioni non sono becere come quelle che ricordi tu, ci sono i cantanti bravi, gli ospitoni, e giù a fare nomi ed esempi, e io a scrollare la testa e dire ragazzi, davvero, non è il caso, e loro niente, che la canzonemononòta, e Gazzè, e quell’altra bravissima, e poi c’è sempre quello che giustifica il suo interesse dicendo che va bene, il festival fa cagare, ma nella categoria merda sul marciapiede è il prodotto migliore che ci sia e quindi va visto.

Sarà, io le merde sul marciapiede cerco di evitarle, per esempio domenica ho incontrato un gruppetto di casapau che volantinava e ho attraversato la strada, perciò chiudiamo lì la parentesi nazionalpopolare e torniamo alla rubrica di musica radical-chic che vi piace tanto da restare ad aspettare per settimane sperando che tornasse, pur sapendo che avrebbe tardato un po’.

Grazie, vi sono riconoscente per la pazienza dimostrata, anche se adesso che vi ho rivelato che non state più sulla mia bacheca di feisbuc magari fate gli offesi e mi snobbate.

Dove eravamo rimasti? L’ultima volta che ho scritto era dicembre, avevamo appena lasciato il Messico illegalmente insieme a El Chapo Guzman e avevamo raggiunto la Colombia sul pulmino dei Tucanes De Tijuana, annusando una strana polverina bianca che ci hanno giurato essere bicarbonato.

Gli effetti bizzarri del bicarbonato centroamericano (che poi la Colombia sarà centro o sud? Vabbè, cosa sto a cercare, tanto qualcuno che me lo dice lo trovo sicuro)

Scesi dal pullman ci siamo sentiti stranamente leggeri, che il bicarbonato di quei posti ti picchia in testa che è una meraviglia, e ci siamo infilati in una bettola di Bogotà, dove il gruppo che ci ha accompagnato doveva tenere un concerto.

La testa ci gira, forse è l’altitudine, forse qualche virus, pigliamo un’altra nasata di bicarbonato, che magari ci schiarisce le idee, ma le cose peggiorano ancora, e ci schiantiamo a un tavolino, dove ordiniamo una bibita.

Nel frattempo il gruppo attacca a suonare uno dei suoi pezzi forti, El Cholo, e dal tavolo accanto si alza uno con una camicia veramente orrenda, e grida una frase in spagnolo che non capite, perché quando c’era da iscriversi a un corso di lingua avete scelto il portoghese perché faceva più fico e poi fra un’insegnante di venticinque anni brasiliana col culo scolpito e una di cinquantacinque manchega coi baffi come Dalì non avete avuto dubbi.

Per fortuna che la voce narrante non ha problemi di traduzione e può venirvi incontro: il tizio con la camicia orrenda ha detto che “l’unico Cholo è El Cholo Valderrama!”.

Adesso vi spiego di chi si tratta.

Uno dei generi tradizionali di questa parte di mondo è il joropo, una specie di valzer suonato con strumenti a corda e, tuttalpiù maracas. Ochei, aspettate a cambiare pagina, vi giuro che è divertente! Pensate che in Colombia si tiene anche un festival, il Torneo Internacional del Joropo, che non potrà essere più brutto di Sanremo, via! Quantomeno sono sicuro che Mengoni non ci si è mai esibito.

Insomma, il leader indiscusso di questo genere si chiama Orlando “Cholo” Valderrama, ed è a lui che si riferisce il nostro amico al bar. È il suo cantante preferito, e una volta in un ristorante gli ha autografato il chicharron.

Senza la divisa di Bartolini ho stentato a riconoscerlo.

Nel 2008 il nostro Cholo si è pure portato a casa il prestigioso Grammy Latino, che è come quello più famoso, solo che i cantanti indossano la toga e il voto viene espresso mostrando il pollice in su o in giù. Chi vince è portato in corteo su una biga e lo sconfitto viene divorato dai leoni al Colosseo.

Tra i più famosi artisti premiati ricordiamo Christina Aguilera, Ricky Martin e la nostra Laura Pausini, premiata solo perché quell’anno erano finiti i leoni.

Faccio notare che spesso ci riferiamo al Centro e Sud America come a paesi sottosviluppati, ma intanto a casa loro Fabio Fazio in televisione non ce lo fanno andare.

E basta, che devo ancora scrivere la roba

Dai, la settimana prossima vi parlo di una vincitrice del Grammy Latino che non è Laura Pausini.

Per ora ascoltatevi un pezzo del Cholo, che non è quello che avevo scelto, perché su youtube non c’è, e neanche so dirvi se sia bello, che mentre scrivo sto ascoltando della musica vera, mica sta merda, figurati, appena partito il video si sente un muggito, ti pare che vado avanti? Sappiatemi dire se merita, ci vediamo la settimana prossima.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

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Bruno Lauzi – Garibaldi
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Los Cuates de Sinaloa – Negro Y Azul: The Ballad Of Heisenberg

Eccoci di nuovo regolari, dopo la parentesi di sabato che ci stava e non ci stava.

Io ve lo dico, questa cosa del post tutti i mercoledì non può durare, che il 23 parto, e poi ho una grossa novità su cui sto lavorando, e probabilmente finirò per tornare a scrivere ogni tanto.

Chi ha detto “Meno male”?

Per il momento qui sto, e ancora a parlare del Messico. Grazie alla canzone della scorsa puntata posso dedicarmi ai narcocorridos, un genere che ha cominciato a prendere il largo da quelle parti.

C’è tutto un mondo là fuori

Immaginate che un cantautore napoletano scriva una ballata che parla di un boss locale, uno vero, non uno inventato, e racconti di come a Scampia abbiano tutti paura di lui, e di quella volta che ha ammazzato uno spacciatore per occupare la sua zona e mettersi in luce agli occhi dei suoi capi, e di come da lì abbia cominciato la scalata al successo.
Io non lo so se esiste una canzone del genere in Italia, magari si, ma sono sicuro che ce ne sono diverse in Messico, in quella zona che si stende lungo il confine con gli Stati Uniti, il campo di battaglia dei narcotrafficanti.

Pare che la prima canzone dedicata a un boss della droga risalga addirittura al 1930, evoluzione dei corridos, le canzoni che raccontano episodi di vita reale. I primi si ispiravano alla rivoluzione messicana, poi è terminata, ci si è arrangiati con quel che c’era in cronaca, e negli ultimi vent’anni ci sono finiti i narcotrafficanti, figure entrate nell’immaginario collettivo non tanto come dei criminali, quanto come dei ribelli, costretti dallo stato cattivo a infrangere la legge, e sempre pronti a dare una mano ai contadini in difficoltà.

Non è così diverso da quel che succede a Scampia, dopotutto.

Gli interpreti di narcocorridos sono come i cantastorie che ancora puoi incontrare in Sicilia, col loro cartellone che racconta a fumetti le avventure del bandito Giuliano (ecco, vedi che qualcosa del genere lo avevamo anche noi?) e la chitarra ad accompagnare la narrazione. Degli osservatori.

E non posso parlare di osservatori senza citare il più importante di tutti, Uatu, che dal lato oscuro della Luna sta a fissare il nostro pianeta tutto il giorno, annotando mentalmente ogni cambiamento e non intervenendo mai, a causa di un giuramento fatto da quelli della sua specie tanti anni orsono.
Che poi mai è un concetto relativo, visto che s’è mostrato ai Fantastici Quattro un numero si e uno no, ed è anche stato processato per questo, e assolto con la promessa di non farlo più, ma tant’è è sempre lì che mette becco, ormai lo chiamano Uatu l’Intrigante, ritorna sempre, come i peperoni e Berluscone. Reed Richards e i suoi compagni escono di notte dalla porta sul retro del Baxter Building per non farsi beccare, ma non serve a niente, appena si voltano se lo trovano davanti: “Dove andate? Andate a combattere il Dottor Destino? Andate nella Zona Negativa? Sue, ho visto che ti sono venute le mestruazioni.”

Uatu vede tutto, anche i giornaletti porno sotto il letto della Cosa.

Vabbè, ma a noi che ci frega dei fumetti, stavamo parlando dei narcocorridos, testimoni di un mondo violento, che però certe volte li tira dentro e li paga per scrivere canzoni che inneggino (si dice inneggino? Io quando uso parole inconsuete e tempi difficili ho sempre paura di fare casino)

A cos’è che inneggiavano? Non lo so più, ho la testa piena di cose, meglio che la smetto.

Con questa canzone, dedicata a uno dei più grossi trafficanti del Messico, attraversiamo illegalmente la frontiera fino in colombia, dove il protagonista della simpatica canzoncina ha cominciato la sua carriera criminale.

Buon divertimento!

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

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Neil Young – Cortez The Killer
Banda El Recodo – El Corrido De Matazlan

È uno scherzo, naturalmente. Si tratta di una canzone scritta per un episodio di Breaking Bad, quella serie che parla di un chimico in difficoltà economiche che scopre di avere il cancro, e comincia a produrre metanfetamine per lasciare alla famiglia un po’ di soldi per quando non ci sarà più, e si mette in affari con un piccolo produttore sfigato, e in quattro stagioni e mezza succede qualunque tipo di cosa, e a luglio comincerà l’ultima metà dell’ultima stagione, otto episodi che concluderanno la serie, e ho un macaco sulla spalla che se gli insegno ad andare a fare le commissioni posso passare il resto dell’inverno a casa davanti alla stufa.

Non so se vi è mai capitato di innamorarvi di una serie televisiva. Io ero di quelli che si scoglionavano già dopo due stagioni dei Simpson (si dice I Simpson o I Simpsons o I Simpson’s (avete mai fatto caso che a ripetere più volte la parola Simpson poi perde significato e la si guarda scritta senza riconoscerla più?)? Perché ci sono problemi di traduzione, o perlomeno io ci vedo problemi di traduzione, ma è solo perché ho ripetuto tante volte la parola Simpson e adesso non ci trovo più nessun significato e vedo solo delle lettere a caso) e anche I Griffin dopo un po’ ho smesso di seguirli perché sono pigro (ma sono comunque meglio dei Simpson o Simpsons, e se non siete d’accordo siete Contrarillo, che solo a lui piacciono in modo smodato), così non mi sono mai appassionato a nessuna serie televisiva e ho sempre dedicato il mio tempo a cose più corpose, tipo i film, o molto più brevi, tipo i videi su iutub.

L’occhio di Jack ci ha tormentati per anni.

Poi è arrivato Lost e sono andato via di testa. L’ultima stagione che si chiude su John Locke che apre la botola mi ha reso dipendente: tempo che cominciasse la seconda ero già lì che cercavo altre robe da guardare, sfogliavo forum per sapere quali fossero le migliori in circolazione, e la seconda stagione ce l’avevo sul computer, l’attesa effettiva è stata di trenta secondi! Ero perduto.

Poi anche le puntate scaricate da internet finiscono, e devi aspettare l’uscita americana, e allora il tempo di cercare altre cose lo trovi davvero, e diciamo anche che dopo la terza stagione Lost era diventato una di quelle cose come ripetere la parola, e che alla fine dell’ultima (la sesta? L’ottava? Simpson Simpson Simpson) mi è venuto un nervoso che Damon Lindelof lo picchierei ancora adesso, tanto che per ripicca non ho neanche visto Prometheus.

A proposito di Prometheus, esiste ancora qualcuno che se lo ricorda? Perché mi sembra che siano già passati lustri da quando è stato tolto dalla programmazione nelle sale, non ne senti più parlare, scomparso come se non fosse mai esistito. Roba che ti fa venire il dubbio che fosse solo un grosso spot pubblicitario. Tipo Lo Hobbit.

Volete davvero che mi metta a parlare dello Hobbit?

No, dai, che ero già fuori tema con le serie televisive, e questa rubrica parla di musica, no?

No, si serve della musica come filo conduttore per parlare di tutto quello che mi viene in mente.

Lo Hobbit secondo me sarà una merda.

se la ghigna, lui.

Perchè il romanzo da cui è tratto il film non è Il Signore Degli Anelli, è una favola per bambini, leggibile comodamente in un paio d’ore. Come fai a trasformarlo in TRE film di DUEOREEQUARANTA cadauno? Ma neanche se riprendi un balbuziente che lo legge ad alta voce ci riempi due ore e quaranta, e per coprire tre film devi mostrarmelo che va in libreria, lo cerca nello scaffale, fa la coda alla cassa, perde l’autobus per tornare a casa e se la fa a piedi.

No, no, io lo so cosa ci ha messo dentro: ci ha messo Jar Jar Binks.

Ve lo ricordate? Era quell’alieno simpatico divertente morisseièri che inaugurava la nuova trilogia di Guerre Stellari, quella che poi è venuto fuori che era una porcheria inguardabile piena di effetti speciali e senza un briciolo di caratterizzazione dei personaggi, e che ha gettato alle ortiche la credibilità di George Lucas, senza per questo impedirgli di fare uno svango di miliardi alla facciazza dei vecchi fans come il sottoscritto. In tutto questo Jar Jar Binks riassume egregiamente il concetto di come un’ottima idea possa trasformarsi, nelle mani sbagliate, in una macchina da quattrini senza dignità.

Peter Jackson ha fatto un capolavoro col Signore Degli Anelli, poi ci ha fatto un sacco di soldi, poi ha voluto farne ancora di più e ha deciso di fare Lo Hobbit, poi ha capito che se lo divideva in due film avrebbe fatto ancora più soldi, poi ha detto che due non bastavano più, e non si capisce se a quel punto si riferiva ancora al film.

E ci ha messo dentro Galadriel.

Ochei, nel libro non c’è, ma è plausibile, no? Lo Hobbit è ambientato nello stesso mondo del Signore Degli Anelli, solo diversi anni prima, quindi la regina degli elfi, che esisteva anche a quel tempo, potrebbe avere incontrato i personaggi del romanzo, magari dietro le quinte. Dai.

È che ci ha messo anche Saruman, il mago cattivo che Tolkien ha creato dopo avere scritto Lo Hobbit.

Ochei, ma devi tener conto del Bianco Consiglio, e infatti lo cita anche nel Silmarillion, e poi cazziemazzi. E dai.

Però ad un certo punto compare anche l’elfo Legolas, che cazzo ci fa l’elfo Legolas ne Lo Hobbit?

Vabbè, allora mettici anche Barbalbero.

No, vabbè, devi tener conto che gli elfi vivono molto più degli umani, e visto che il mondo in cui si svolgono entrambe le storie è lo stesso..

Ho capito, ma se fai un film sul romanzo L’Uomo Invisibile di H.G.Wells non puoi infilarci dentro un tizio sulla macchina del tempo sostenendo che tanto l’autore è lo stesso e tutti e due i romanzi sono ambientati a Londra. Che sarebbe anche plausibile, perché se hai una macchina del tempo vai un po’ dove cazzo ti pare, ma no! È una stronzata! Sarebbe come voler riempire lo spazio vuoto fra Ventimila Leghe Sotto I Mari e L’Isola Misteriosa raccontando che il capitano Nemo ha incontrato il dottor Jekyll e Dorian Gray. No, non si fa!

Sono sicuro che Lo Hobbit mi farà incazzare. Tutte e due le volte che lo vedrò.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning
Neil Young – Cortez The Killer

La settimana scorsa eravamo in Canada, più o meno: stavamo a casa di Neil Young che vive negli Stati Uniti, ma è nato a Toronto, e attraverso la sua Cortez The Killer siamo arrivati in Messico.

La mia conoscenza di questo paese si articola in tre fasi temporali:

1 – La fase adolescenziale:
il Messico è un paese lontano dove vive un topo velocissimo che ripete in continuazione Arriba Arriba, ci sono i fagioli salterini, ma sono come le scimmie di mare, non ne ho mai visto uno, e il resto dei messicani è composto da tizi con la faccia tonda e i baffetti che passano la giornata dormendo contro i muri;

una roba così, tipo

una roba così, tipo

2 – La fase giovanile:
il Messico è un paese che si trova al di là dell’Oceano Atlantico, popolato da loschi individui che hanno ammazzato Davy Crockett e sono stati ridicolizzati da Zorro. Una volta ci abitavano altri popoli che si chiamavano olmechi che hanno costruito le piramidi, ma invece che farle lisce ci hanno fatto i gradoni, e poi hanno costruito delle grosse teste di pietra che sembrano quelle degli astronauti;

Veracruz, tenemos un problema

3 – La fase adulta:
intanto Zorro era californiano e combatteva contro gli spagnoli, e poi il Messico è quel paese che confina con gli Stati Uniti, dove si celebra il Dia de los Muertos, che è una festa allegrissima dove si va a mangiare nei cimiteri e si appendono dappertutto scheletri decorati. Poi in Messico c’è nata Frida Kahlo, e soprattutto si mangia della roba troppobbuona che quando vado da Mamacita’s me ne faccio delle carrettate.

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Ingredienti per ottenere un Pablo felice.

Questa settimana vado alla scoperta di un aspetto ancora inesplorato: la musica.
Che cosa si ascolta in Messico? Il mio primo contatto con un gruppo di quelle parti risale al 1993, in quel periodo che ha avuto un’importanza cruciale nella mia formazione musicale (sono più o meno gli stessi anni di Radio Studio 93, di cui parlavo la settimana scorsa): una sera un amico mi mostra la copertina di un cidi dei Brujeria dove si vede una mano che tiene per i capelli una testa decapitata. Ho dedotto che il genere non faceva per me e ho cominciato ad ascoltare Roberto Vecchioni, tenendomi alla larga dalla musica messicana per i successivi dieci anni.

Sono il film su Frida Kahlo e la sua colonna sonora che mi riavvicinano a quel mondo, ma non sono ancora convinto: l’impressione è che buona parte della produzione locale somigli tantissimo alla roba che qui ci propinano alla “Sagra del dolce casalingo e della trippa cucinati nella stessa pentola per fare prima”.

Ci vogliono questa rubrica, e soprattutto le influenze della mia fidanzata innamorata del centroamerica, per farmi decidere che qualcuno che valga la pena ascoltare c’è. Eccome se c’è, ma di Lei parlerò un’altra volta, tanto col Messico non me la sbrigo in una puntata e ciao.

Flashback.
Nel 1998 studiavo sax tenore presso il Circolo Musicale Risorgimento di Genova Sampierdarena, e mi pagavo le lezioni partecipando ai servizi in cui la banda era richiesta. Alla fine il sax non ho mica imparato a suonarlo, che la musica richiede una dedizione che io proprio no, però mi sono fatto una cultura sul funzionamento delle processioni religiose e dei loro riti interni, che sono una roba oscura, comprensibile solo dagli adepti, un po’ come le primarie del PD, ma con molto più Tabacci.

La musica richiesta durante una funzione di quel genere dev’essere lenta, per accompagnare il passo sofferente delle vecchiette e dei portatori di cristi, e poi dev’essere tristissima, che il biscione di gente non è mica preceduto da Nostro Signore Sui Pattini A Rotelle E Il Walkman, si sta seguendo uno inchiodato a una croce, vorrai adeguarti?

E poi dev’essere suonata malissimo.
No, quella credo fosse una prerogativa della nostra banda.

Poi c’è il prete, che è quasi sempre un signore bassetto, anziano e pelato con un forte accento meridionale, che scandisce le preghiere che tutti conosciamo con un tono interrogativo, che ti fa vacillare le tue certezze nella divinità.

Perché come puoi restare saldo sulle tue convinzioni quando è lo stesso ministro di Dio a chiedersi “Sia santificato il tuo nome?”, “Sia fatta la tua volontà?”?
Saranno domande trabocchetto, pensi. Che si sa, in processione si infilano degli elementi sediziosi il cui scopo è trasformare una manifestazione pacifica in un’occasione di scontro, e con questi interrogativi li trascini allo scoperto.

Non c’è niente di più pericoloso di una processione che finisce in merda per colpa di questi istigatori, che quando passano davanti alle sedi del PCI si mettono a scomunicare a destra e a sinistra (ovviamente più a sinistra che a destra) e a tirare santini. Poi c’è sempre quello che li giustifica, dicendo che non è vero, erano marxisti-leninisti infiltrati, che lui era in corteo insieme ai focolarini e hanno tutti rispettato la regola del “non accettare provocazioni, porgi l’altra guancia”, anche se si vedeva che morivano dalla voglia di menare le mani, che agnello si, ma pecora col cazzo.

Insomma, i parroci li adottano questi stratagemmi per vedere se in processione ci sono dei pocofedeli, e funziona, devo dire che è fin troppo efficace.

Io per esempio su “Rimetti a noi i nostri debiti?” mi sono sconvolto, ho mollato il Circolo Risorgimento e mi sono buttato sulla politica, che almeno ti fanno le pippe solo da vivo.

L’affetto verso le bande, però, non si è affievolito, ed è per questo che ho rimandato il pezzo sulla mia cantante messicana preferita a un altro momento, e ho preferito farvi ascoltare la Banda El Recodo.

La settimana prossima stiamo ancora in Messico, che questo discorso delle bande mi porta a raccontare di un particolare genere musicale messicano che mi permetterà di proseguire la catena.

A mercoledì!

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp
Joni Mitchell – Chelsea Morning

Eccoci pronti a una nuova tappa del viaggio con la radio in valigia. L’avete lette quelle due righe che ho scritto qualche giorno fa dove dicevo che insomma sarebbe meglio che le leggeste perché non ho nessuna intenzione di riassumerle? Fatemi sapere cosa ne pensate, che c’è molta carne al fuoco, come dicono gli allevatori guardando la stalla distrutta da un incendio.

Questa settimana restiamo in Canada, e restiamo nell’ambito Musicisti che fanno anche altre cose, perché non si può non parlare del re dei tuttofare, lo scienziato pazzo della musica canadese, Neil Young, detto anche “One of you fuckin’ guys comes near me and I’m gonna fuckin’ hit you with my guitar”.

Lui e Joni Mitchell sono legati, oltre che da un’antica amicizia e dall’essersi detti delle cose attraverso le canzoni, anche dall’aver contratto lo stesso ceppo di poliomielite nel 1951. e come facevo a non collegarli?

Joni Mitchell insieme al papà de La Casa Nella Prateria.

Io Neil Young lo conoscevo pochissimo fino a qualche anno fa. Ai tempi gloriosi delle radio libere (siigh!), quando con un gruppo di disperati tenevamo in vita Radio Studio 93, mi era capitato fra le mani l’allora nuovo Harvest Moon, di cui conoscevo il singolo per averlo visto sull’altra grande novità di quei tempi: Mtv.

Non so se fra voi lettori ci sono anche dei ventenni, ma nel caso credo di dover spiegare di che si tratta. Vent’anni fa in Italia alcune reti private iniziarono a trasmettere il segnale della giovane Mtv Europe per alcune ore ogni giorno, permettendo a noi pischelli che abitavamo in posti dove non si prendeva Videomusic di godere finalmente della visione dei videoclips dei nostri gruppi preferiti.

Fu una rivoluzione, e lo fu anche per quelli che se la tiravano da Io guardo videomusic tutti i giorni, perché Mtv era davvero qualcosa di nuovo. Innanzitutto trasmetteva da Londra, quindi i conduttori parlavano solo inglese, e in quegli anni era l’unico assaggio concreto di Unione Europea che potevamo permetterci senza fare l’interrail; e poi l’impatto visivo era straordinariamente diverso da quanto visto fino ad allora, ti catturava con la sua energia, vinceva a mani basse su qualunque produzione locale. Poi vabbè, c’era la musica. Lo so che a questo punto i miei lettori più giovani mi prenderanno per cretino, ma dovete credermi, una volta Mtv trasmetteva solamente musica: videoclip, documentari, telegiornali riguardanti la musica, trasmissioni dedicate ai vari generi, quella ficata incredibile che era Mtv Unplugged, e Beavis & Butthead, che era un cartone animato, ma comunque parlava di due ragazzetti impallati con l’heavy metal.

Steve Blame, Ray Cokes, Rebecca De Ruvo erano gli animatori dei pomeriggi doposcuola (actually, Ray Cokes andava in onda la sera, ma il concetto è quello), e il fatto che capissi una parola su cinque me li rendeva più simpatici dei loro omologhi attuali, anche se magari dicevano delle castronerie inimmaginabili.

Presentatori impresentabili

Neil Young cominciai ad ascoltarlo allora, quando dopo l’ultimo video degli Edelweiss si ritornava ad atmosfere più morbide, e un uomo che spazzava il porticato sotto la luna dava il tempo al singolo più recente dell’artista canadese.

Della sua produzione artistica non racconto niente, è sconfinata e se non vi interessa il genere diventa anche noiosa, e poi se volevo scrivere una roba uguale a wikipedia mettevo al posto del titolo un banner con Jimmy Wales che vi domanda dei soldi.

Quello che interessa a me è l’altro Neil Young, quello che non suona.

Ce ne sono diversi Neil Young che non suonano, uno è un attivista politico, uno accudisce il figlio, ma il migliore di tutti resta il Neil Young inventore.

Credo di non essere l’unico che da piccolo si metteva più comodo in poltrona quando, sfogliando l’ultimo Topolino, vedeva Paperino prendere la strada verso il laboratorio di Archimede Pitagorico.

“Ora ne vedremo delle belle”, pensavamo, mentre ci tornavano in mente i fantastici frutti dell’ingegno del nostro scienziato preferito: il paracadute ascensionale, le car-can, il lapis bicolore che da una parte taglia i metalli e dall’altra li salda.

Insomma, le invenzioni in casa mia erano di casa, anche se poi non riuscivo mai a rimontarla, quella sveglia, e ci toccava comprarne una nuova; capirete che non potevo non appassionarmi al vecchio canadese (quello senza gli artigli), che spende un pacco di soldi per convertire in auto ibrida (elettrica/biodiesel) la sua vecchia Lincoln e la battezza Lincvolt, si lancia in una campagna a favore del bio-carburante e si fa tutta una tournèe alimentando i suoi camion con l’olio vegetale.

Poi vabbè, ad un certo punto la Lincvolt è andata a fuoco e gli ha bruciato un magazzino pieno di roba costosa, ma pare che non fosse dovuto a errori di fabbricazione.

Una macchina che va a Neil Young? Corro subito a comprarla!

L’ultimo progetto dell’Emmett Brown di Toronto si chiama Pono, uscirà l’anno prossimo e dovrebbe rivoluzionare il mercato della musica digitale.

Da quanto ho capito si tratta di un nuovo formato audio che garantirebbe una qualità che a confronto l’mp3 è uno di quei peti silenziosi, ma letali, tanto che le principali case discografiche si sono dette disponibili a riconvertire il proprio intero catalogo. Staremo a vedere, a me Neil Young piace un casino, ma se mi brucia la casa mentre ascolto l’ultimo disco di Capossela vado a cercarlo col badile.

La canzone che andiamo ad ascoltare si chiama Cortez The Killer, e ci racconta del massacro degli aztechi da parte dei soldati spagnoli, anche se girano parecchie interpretazioni più personali, e lo stesso Young, intervistato a riguardo, ha dichiarato “Ma non mi rompete il cazzo stronzi”, o qualcosa del genere.

Prima di chiudere credo di dovervi spiegare la frase in inglese all’inizio del post:
risale al festival di Woodstock, nel 1969, quando Young si esibì insieme a Crosby, Stills & Nash; ai cameramen che cercavano di filmarlo durante l’esibizione si rivolse col tono affettuoso che da sempre lo ha contraddistinto, minacciandoli di picchiarli con la chitarra.

Neil Young e Grumpy Cat sono parenti? Noi di Voyager crediamo di si.

Il mio eroe.

(continua)

Ero qui che pensavo a questa grossa novità che potrebbe farmi smettere di scrivere centotre-e-tre per dedicarmi completamente a questa grossa novità, se non fosse che questa grossa novità è già saltata, e quindi potrei dedicarmi tranquillamente a scrivere centotre-e-tre, se non fosse che forse non è saltata proprio per niente, insomma, io non lo so se questa grossa novità è ancora valida, perciò non vi racconto niente e vado avanti a parlare di centotre-e-tre, riguardo al quale ho il grosso dubbio di sapere se piace, se non piace, se uno pensa che meriterebbe più spazio o se guarda, gliene stai dedicando già fin troppo.

Potrei preparare un sondaggio a domande multiple, mi pare che wordpress permetta di farlo, ma nel frattempo volevo suggerire una cosa ai miei numerosissimi tre lettori e risolvere così l’annoso enigma delle collaborazioni.

E si perché voi non lo sapete, ma una delle prossime puntate di centotre-e-tre (a naso direi intorno alla decima) vedrà la collaborazione di una blogger/lettrice/amica/una dei numerosissimi tre di cui sopra, grazie alla quale sono riuscito a portare a termine il mio primo racconto o pseudotale a quattro mani. Il primo, giuro, da quando ho iniziato a scrivere per divertimento e non perché me lo chiedeva qualche insegnante, e sono già ventisette anni
(e comunque non è che prima non scrivessi, alle medie facevo i fumetti sul quaderno dei fumetti, e già alle elementari avevo un librettino con la copertina marrone su cui scarabocchiavo le avventure di Sinestro il diavolo maldestro, nome che avevo tirato fuori da qualche cartone animato dell’epoca)
e ci sarebbe da scriverci un post apposta su una cosa così, ma sto divagando, ed è una cosa che mi riporta a centotre-e-tre.
Dicevo, c’è stata una collaborazione, peraltro non ancora conclusa, e lo so che mi leggi e pensi “uh cacchio devo spedirgli anche il resto!”, fai bene a sentirti in colpa, vai a scrivere invece di cazzeggiare sul mio blog!
Dicevo che c’è stata una collaborazione, e un’altra ne ho richiesto a un amico esperto di musica, ma il suo campo specifico non è neanche ancora in scaletta, e chissà quando ci arriverò, e mi spiace farlo aspettare, e così tutte le altre persone a cui vorrei chiedere di partecipare, per conoscere un po’ della loro musica e di come se la vivono, e quindi eccoci al punto.

Il punto.

L’ideona che mi è venuta, e che spero apprezzerete tutti e due, che una ha abbandonato la lettura ed è andata a finire il post che deve ancora spedirmi, è che voi che amate centotre-e-tre e che vorreste tanto partecipare, perché un’idea così pazzesca di unire ricordi personali, aneddoti curiosi, la geografia e la vostra musica preferita non era ancora venuta a nessuno, mi scriviate una puntata in cui partite da un musicista a vostra scelta e arrivate a un altro, mettendoci in mezzo qualcosa che sia interessante da leggere. Se non vi basta una puntata, come nel caso della mia amica di cui sopra, me ne fate due, o tre, o cinquanta, non ci sono problemi di spazio. Una volta che me l’avete spedita io me la leggo, la aggiusto per farla stare nel pablog e cerco di spostare il mio itinerario in quella direzione nel minor numero di passaggi possibile, magari sfruttando altre scalette ricevute da altri amici.

Eh? Che ideona! Ma prima voglio sapere se vi piace la rubrichina musicale, che se non vi piace me ne sbatto le balle perché io mi diverto come un pisquano a scriverla, e poi non è che altrimenti abbia granché da dire, quindi commentatemi e date un’opinione, che mercoledì si avvicina e io devo ancora terminare la puntata numero cinque.

Riassunto delle puntate precedenti:

Bruno Lauzi – Garibaldi
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right?

Tony Bennett & Lady Gaga – The Lady Is A Tramp

Eravamo rimasti a Tony Bennett, che fra una canzone pizzamandolino e l’altra trova il tempo per dipingere ed esporre i propri quadri allo Smithsonian di Washington D.C., ma non quello per comprarsi un paio di occhiali con una montatura di questo secolo, ma quelli sono affari suoi.

Il connubio fra pittura e musica è molto antico, si dice che già i nostri antenati delle caverne amassero intonare dei motivetti orecchiabili mentre lasciavano manate sulle pareti di roccia (anche se esistono altre correnti di pensiero riguardo la nascita stessa della musica), e da allora siamo stati testimoni di innumerevoli casi di musicisti/pittori, o viceversa.

Tutti sappiamo che Leonardo Da Vinci era uno straordinario pittore e anche un ottimo suonatore di lira, e l’amicizia che legava Vasilij Kandinskij ad Arnold Schönberg ci spiega un sacco di cose sul connubio fra queste due forme artistiche, ma per esempio pochi sanno che anche in tempi più remoti era usanza comune per un pittore intraprendere ad un certo punto della propria vita la carriera musicale: verso la fine del XIII secolo il pittore Cimabue, messo ormai all’angolo dal suo allievo Giotto, decise di appendere la tavolozza al chiodo e girare l’Italia cantando stornelli; duecento anni più tardi il Sassetta terminò alla svelta un’Adorazione dei Magi per poter partire in tournèe col suo gruppo hard rock, dove suonava la batteria.

Il Sassetta dietro la batteria del suo gruppo Spingarde’n’Roses

In tempi più recenti i musicisti che si fanno apprezzare anche come pittori sono un esercito: Franco Battiato, Ron Wood, Bob Dylan, il già citato Tony Bennett e la cantante di cui parlerò oggi, Joni Mitchell.

Canadese, un carattere difficile fin da bambina, quando litiga con la maestra di pianoforte perché di suonare i classici non gliene frega niente, lei ha imparato Nella Vecchia Fattoria e vuole fare solo quella. Comincia a dipingere, e dopo il liceo si iscrive a una scuola d’arte, ma anche lì non funziona, le danno da studiare dei quadri che non ritiene adeguati alla propria formazione, e molla tutto.

Nella seconda metà degli anni sessanta è a Toronto che cerca di sfondare come musicista, e incontra, fra gli altri, Leonard Cohen. Non faccio la prossima puntata su di lui perché il suo più fedele seguace, Hardla, non me l’ha ancora chiesto, e quindi vi racconto ancora qualcosa sulla sua biografia, che comincia a farsi interessante quando Joni si trasferisce a New York e comincia a suonare per davvero, e nel 1969 si fidanza con David Crosby, che aveva mollato i Byrds un paio d’anni prima. Altri due anni e la troviamo insieme all’amico e collega di Crosby, Graham Nash.

Questa dev’essere la foto che uno ritrova anni dopo dentro un vecchio libro e mormora fra i denti parolacce irripetibili.

Ho provato a cercare aneddoti su questa storia, ma non ne ho trovato nessuno, immagino sia stato un passaggio abbastanza indolore, visto che poi la collaborazione artistica è proseguita con entrambi, ma è più divertente immaginare che ci sia stata una sera in cui lui è tornato a casa e l’ha trovata seduta a tavola, e quando s’è tolto la giacca lei si sia alzata, l’abbia raggiunto nell’ingresso e gli abbia detto “David, dobbiamo parlare”.

Non credo ci sia bisogno di scendere nel dettaglio, ogni discorso è diverso, ma tutti si reggono sulle stesse fondamenta; di sicuro ad un certo punto c’è stato qualcuno che ha detto “non sei tu, sono io”, e siccome una Joni Mitchell l’abbiamo incontrata tutti nella vita sono sicuro che lei deve avergli fatto un discorso del tipo “siamo troppo diversi, tu sei un pesce e io uno stambecco”, e a nulla sarà valso a quel punto ricordarle che tecnicamente l’animale con le corna era lui, alla fine della conversazione David avrà osservato sgomento la schiena della sua a quel punto ex fidanzata scomparire dietro la porta della camera da letto e si sarà posto la domanda che tutti si sono posti arrivati a quel punto della discussione: “ma se ti chiudi in camera da letto io dove cazzo dormo?”.

Nonostante tutta la caparbietà che ha contraddistinto la sua carriera artistica, o forse proprio per quello, che la caparbietà è solo una delle caratteristiche che le contraddistinguono, io credo che Joni Mitchell appartenga alla categoria di Quelle Che Si Cercano. È una specie molto vasta di donne che comprende le tizie coi problemi mentali e quelle che all’apparenza sono normali, ma che poi si iscrivono ai corsi di buddismo tantrico e massaggio tibetano e quando le rivedi dopo dieci anni ti raccontano che la loro vita è cambiata e pace e amicizia ed è meglio che a quel punto corri via veloce, che se commetti l’errore di invitarle a cena ti accorgi che sono esattamente le stesse stronze di dieci anni fa, solo che ora portano i sandali. Non hanno una casa, non hanno un lavoro, si circondano di amici misteriosi che le ospitano in giro per il mondo e le coprono di regali, e si rapportano a voi nello stesso modo in cui voi vi rapportate al vostro medico: vi considerano indispensabile, ma cercano di frequentarvi il meno possibile. Cercare di tirar fuori qualcosa di costruttivo dalle Tizie Che Si Cercano è inutile e alla lunga dannoso, un po’ come mettersi con una persona tossicodipendente convinti di poterla aiutare. Le Tizie Che Si Cercano non sono dei teneri orsetti pacioccosi a rischio estinzione, sono degli squali perennemente in cerca di preda, sempre in movimento coi loro occhietti inespressivi e i denti affilati, quando se ne avvista una è meglio correre a chiamare il bagnino e far mangiare lui.

L’ho già scritto che Joni Mitchell è anche un’ottima pittrice?

Mi sarebbe tanto piaciuto proseguire la mia catena musicale con Graham Nash, visto che anni dopo ha suonato con David Gilmour nel suo meraviglioso tour acustico, ma abbiamo detto che dev’essere un viaggio di scoperta, no? Joni Mitchell la scopro oggi, e devo continuare in questa direzione; i Pink Floyd che scoperta sono, che li ascoltavo in terza media?

Del gruppo, all’epoca del tumultuoso ingresso di Joni Mitchell, ha fatto parte anche Stephen Stills, che immagino nella scomoda veste dell’amico confidente che poi alla fine non scopa mai, svergliato nel cuore della notte da David che non sa dove andare a dormire, da Joni che vorrebbe un consiglio disinteressato e infine da Graham, divorato dai sensi di colpa. Non parlerò neanche di lui nella prossima puntata, ma del quarto elemento, arrivato dopo e scampato al tumultuoso giro di telefonate notturne.

Per il momento ascoltatevi uno dei successi di Joni Mitchell, tenendo presente che prima o poi la figlia di Bill Clinton deciderà di buttarsi in politica, e se un giorno il primo presidente donna degli Stati Uniti si chiamerà come una squadra di calcio londinese sarà tutta colpa di questa canzone.

(continua)

Riassunto delle puntate precedenti:

Introduzione
Bruno Lauzi – Garibaldi Blues
Peggy Lee – Why Don’t You Do Right

Ci eravamo lasciati la settimana scorsa con Peggy Lee che aveva prestato la propria voce ad alcuni personaggi del film Lady And The Tramp (Lilli E Il Vagabondo), e avevo accennato a un collegamento che a questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti.

La canzone a cui mi riferisco è stata scritta nel 1937, per un musical dal titolo Babies In Arms, ed era cantata da un’attrice molto giovane e molto famosa all’epoca, di nome Mitzi Green, che andava un casino a quei tempi, e che poi si è ritirata dalle scene senza ai né bai.

Fra l’altro vorrei sapere cosa gli fa il successo a questi bambini ultrafamosi, che poi non riescono più a tirarsene fuori e fanno quasi tutti delle fini bruttissime. Shirley Temple, che è stata la più famosa attrice bambina della storia del cinema, non ha più imbroccato un film e ad un certo punto si è ritirata. E le è andata ancora bene, non sono tanti i suoi seguaci che possono dire di essersela cavata, la maggior parte delle volte finiscono in storie di droga, abusi sessuali, diventano ciccioni, gliene capitano di tutti i colori. Lo sapete tutti che fine ha fatto Gary Coleman, l’attore che interpretava Arnold, ma cosa sapete dirmi di Macaulay Culkin, quello che ha perso l’aereo? Lo sapete che è diventato un mutante? No? L’ immaginavo.

Ma il peggiore di tutti, quello finito veramente che di più non si poteva è il povero Kirk Cameron, che dopo avere conosciuto il successo con la sitcom “Genitori In Blue Jeans” è finito a difendere il creazionismo e a condannare l’omosessualità in televisione. Se invece che negli Stati Uniti vivesse in Italia, di sicuro lo troveremmo a Pontida a berciare contro i bingobongo.

La canzone di cui stavo parlando qui sopra, prima di perdermi nelle mie solite divagazioni, è naturalmente The Lady Is A Tramp, un testo ironico sull’alta società newyorkese, che avrete sentito mille volte cantato da Frank Sinatra.

“Eccheppalle, ce lo vuoi far sentire di nuovo?”

Si, non lo nego, in questa puntata di centotre-e-tre ci manteniamo sul classico, ma d’altra parte siamo arrivati negli Stati Uniti nel periodo in cui nascevano i più famosi standards, dobbiamo starcene. Però il vecchio Frank lo lasciamo al suo posto nello scaffale, e ci buttiamo su una versione più recente del classico, visto che è stato reinterpretato, senti senti, da Tony Bennett insieme all’onnipresente Lady Gaga.

La Bella E La Bestia.. No, aspetta.. La Bestia e.. La Bestia.. Il Bestio.. Vabbè, due tizi.

Ho deciso di ammorbarvi con questo clone di Madonna per poter raccontare un aneddoto curioso che la riguarda. No, non proprio un aneddoto curioso, è più un aneddoto WTF, una di quelle cose che ti fanno spalancare gli occhi e dire “eeh?”.

Dopo aver inciso la cover di The Lady Is A Tramp i nostri due beniamini hanno ovviamente girato un videoclip, che potete gustarvi qui sotto, e poi hanno organizzato un’asta benefica in cui si liberavano di cianfrusaglie, tipo una gondola in edizione limitata appartenuta al crooner, un suo disco, abiti di scena della cantante, ma soprattutto un ritratto a carboncino di Lady Gaga nuda, firmato Benedetto. Dove Benedetto è il nome d’arte con cui il vecchio Tony, appassionato pittore, firma i suoi quadri.

E comunque Madonna è più bella.

Ora, Tony Bennett sarà anche bravo, non dico di no, ma è proprio che i cantanti italo-americani li considero tutti delle baracconate; a parte Sinatra che ha saputo smarcarsene in tempo, la macchietta del cantante che fa il verso alla musica popolare della sua terra d’origine non è commovente, è come il gondoliere che per intrattenere il turista gli canta O Sole Mio, è l’Effetto Lou Monte.
Poi lo capisco che sessant’anni fa gli Stati Uniti erano ancora pieni di immigrati di prima generazione che soffrivano di una nostalgia di casa pazzesca, e un cantante di successo che li rappresentava era una specie di rivincita verso una società che li bollava spesso (e neanche proprio a torto) come dei criminali, però l’Effetto Lou Monte persiste.

Di Lady Gaga ho già detto cosa penso, e quindi potete comprendere perché un duetto fra di loro mi sembra l’accostamento di due personaggi da barzelletta, e se poi ci aggiungi l’immagine di lei che posa nuda per lui diventa proprio “Ci sono Tony Bennett, Lady Gaga e Mc Hammer nudi in una stanza, ad un certo punto si spalanca la porta ed entra Renato Zero”.

Ma è arrivato il momento di collegarci alla prossima puntata, e qui ci serviamo di Tony Bennett pittore di talento, una cui opera è addirittura esposta allo Smithsonian American Art Museum di Washington, D.C.

Lo sapete quale altro cantante si è reinventato pittore di successo?

(continua)

Nella puntata precedente abbiamo parlato di Bruno Lauzi, e una sua canzone ci ha permesso di arrivare alla persona di cui parliamo oggi.

Zuccannella mi suggerisce di lasciar perdere l’America, che ci vanno tutti, e prendere come collegamento la figura di Garibaldi e quella di sua moglie, Anita. Da lì ci si attacca per omonimia ad Anita Lane, un’artista australiana degli anni ’80.

Vabbè, potreste obiettare, quante Anite ci si possono attaccare allora? Anche Anita Baker canta, e lo faceva anche Anita Harris prima di finire per strada.

Ochei, non avrà la camicia rossa, ma è un gran figo.

Si, ma nessuna delle altre due Anite ha a che fare col dio personale di Zuccannella, Nick Cave, né col gruppo dal nome impronunciabile con cui Anita Lane ha collaborato, gli Einstürzende Neubauten, che dall’Australia ci trasporterebbero in Germania. Lì, grazie al bassista del gruppo faremmo conoscenza con la sua prima fidanzata, Christiane F., proprio quella dello zoo di Berlino dall’adolescenza così travagliata, e nonostante anche lei abbia inciso delle canzoni potremmo fingere che ciò non sia mai avvenuto (Gott sei dank!) e affidarci al semisconosciuto musicista che curò la colonna sonora del film sulla vita della giovane scapestrata: forse ne avete sentito parlare, si chiama David Bowie.

Eccoci quindi in Inghilterra, dove la carriera del White Duke mi obbligherebbe a fermarmi per almeno tre o quattro puntate (e non vi dico la fatica che farei a riascoltare per la miliardesima volta la sua discografia) prima di ripartire per praticamente ogni posto del mondo.

Invece di pescare dalla biografia di Bowie sceglierei una frase di Watch That Man, un pezzo di Aladdin Sane, che dice “A Benny Goodman fan painted holes in his hands”, e tornerei sulla strada che ho lasciato qualche riga fa per infilarmi in questa deviazione.

Perché Benny Goodman è un elemento importante nella carriera dell’artista di cui volevo parlarvi in questa puntata, ma è meglio se ricominciamo da capo.

Il pezzo che abbiamo ascoltato la settimana scorsa, Garibaldi Blues di Bruno Lauzi, è la cover di un pezzo del 1956 rifatto praticamente da chiunque, compresa Madonna, che si intitola Fever.

Ne esiste una bella versione, molto jazzata, firmata da Ella Fitzgerald, una dei Cramps, calda e umida come una cantina in Florida, e anche Elvis Presley ci si è dedicato, trattenendosi, quasi in punta di piedi. Per esempio Nina Hagen non si è fatta grossi problemi, e potrei andare avanti per ore, che gli interpreti sono davvero tanti e diversi, ma quella di cui voglio parlarvi è la prima, quella che ne ha fatto una canzone di successo: si chiama Peggy Lee, e ha attraversato il panorama musicale dagli anni ’40 alla fine del secolo.

Se avesse mantenuto il nome Norma Deloris Egstrom sarebbe diventata famosa lo stesso?

È grazie a lei che arriviamo negli Stati Uniti, su una nave, come fecero i suoi nonni diversi anni prima. Suo padre era svedese, sua madre norvegese, entrambi discendevano dai primi colonizzatori americani, giunti su quelle terre ancora disabitate a bordo di vascelli con la testa di drago intagliata sulla prua. Certo, i coloni scandinavi approdarono sul territorio americano nel decimo secolo, ma gli antenati di Peggy Lee furono costretti a partire molto più tardi perché la nonna aveva preso appuntamento dalla parrucchiera e non c’era verso di convincerla a partire senza essersi fatta acconciare i capelli secondo quella che per lei era la moda di New York.

“Ma guarda che non ci andiamo a New York, andiamo in Groenlandia!”, le ripeteva il marito per convincerla a lasciar perdere, ma lei niente, testarda come una renna si rifiutava di imbarcarsi sul drakkar senza una pettinatura adeguata.

“Vuoi farmi passare per una selvaggia? Cosa penseranno gli americani vedendomi?”

“E cosa vuoi che pensino?”, le ripeteva lui, “Che siamo venuti a prenderci la loro terra, e ci tireranno le frecce, come al solito. Sono ottocento anni che ci tirano le frecce, e si che oramai dovrebbero conoscerci! Mio cugino dice che un’indigena sua vicina di casa gli ha bussato alla porta per chiedergli un po’ di latte, che l’aveva finito, e quando gliel’ha dato questa ha tirato fuori l’arco e gli ha piantato una freccia in un ginocchio.”

Alla fine riuscirono a prendere al volo l’ultimo imbarco per il Nuovo Mondo, ma oramai in Groenlandia non c’era più posto, e la coppia finì a vivere più a sud, a Jamestown nel North Dakota, dove il 26 maggio 1920 nacque Peggy.

Prima di tre fratelli, Peggy Lee crebbe in una famiglia piena di talenti: suo fratello Stan, di due anni più giovane, tentò di seguirla nella carriera musicale, ma non era portato per il canto, e cercò consolazione nei suoi amati fumetti, inventando i Fantastici Quattro e tutto quel che ne seguì; il terzo fratello, Christopher, si capiva fin da subito che era un personaggio particolare. Per esempio era il terzogenito nonostante fosse nato prima del secondo, e poi aveva questa passione per i vecchi film di vampiri, diceva che i suoi preferiti erano quelli della Hammer, e a chi gli faceva notare che non esisteva nessuna casa di produzione con quel nome rispondeva “Impossibile, ci dev’essere per forza!”. Non c’era davvero, ma alla fine ebbe comunque ragione lui.

Anche le generazioni seguenti sfornarono personaggi di valore, basti pensare al nipote di Peggy, Bruce, che seppe sfondare nel cinema di Hong Kong, o a Spike, il più giovane della famiglia, che è diventato un regista di successo.

Tutti i parenti di Peggy Lee

Nonostante il talento inciso nel dna Peggy Lee non riuscì mai ad avere successo nel nostro paese, e probabilmente la causa fu il suo cognome: la gente si riferiva a lei chiamandola Quella Lee, e non le prestava l’attenzione che avrebbe meritato.

Peccato, perché oltre ad essere una cantante straordinaria, Peggy Lee recitò in alcuni film, e si esibì come doppiatrice nel film Lady And The Tramp (conosciuto da noi come Lilli E Il Vagabondo), dove prestava la sua voce alla coppia di gatti siamesi e alla padrona di Lady, Darling.

Anche il brano che ho scelto ci riporta in qualche modo ai cartoni animati Disney, visto che una sua versione è stata cantata nientemeno che da Jessica Rabbit, nel lungometraggio in cui recita suo marito Roger, ma non divaghiamo e manteniamoci su Lady And The Tramp, per favore.

Perché il collegamento è immediato, no?

(continua)