Preferirei sminare strade nel deserto, in ciabatte, per conto di una ditta che non può permettersi l’attrezzatura e mi manda in giro con un martello, “Se vedi una pietra che ti sembra una mina battici sopra”.
Una ditta che non mi passa neanche la crema solare, dice che nessuno dei suoi dipendenti è mai morto di melanoma.

In prima elementare mi piaceva la mia compagna di banco. Era bionda e bellissima. Ero biondo anch’io, e alla maestra era sembrata un’idea spassosa metterci vicini.
A me no, ogni volta che si girava per sussurrarmi qualcosa mi sentivo bruciare la faccia e dovevo cercare roba importantissima nella cartella sotto il banco.
Un pomeriggio ero al campetto ed è venuto a cercarmi suo fratello grande, doveva dirmi qualcosa da parte sua. Sono scappato per non ascoltarlo.
Mai saputo cosa volesse dirmi, lei a scuola non mi diceva niente, cioè, si girava a sussurrarmi delle cose, ma lo faceva sempre in quei momenti in cui mi veniva la faccia rossa e mi buttavo sotto il banco, chi lo sa. Però se fosse stato importante avrebbe insistito, credo.

Alle medie mi piaceva una ragazzina con le lentiggini che veniva d’estate in villeggiatura da una vecchia zia. Avevamo fatto amicizia e ci vedevamo tutti i giorni. Le avevo riempito una cassetta delle sue canzoni preferite e ci avevo nascosto dentro una lettera cifrata, in cui le chiedevo di diventare la mia ragazza.
Sono riuscito a consegnargliela solo l’ultimo giorno, e ho passato i mesi successivi a transitare per caso sotto casa della zia in attesa di vederla tornare, fantasticando sulla sua risposta.
L’ho incontrata una domenica di ottobre, abbiamo parlato d’altro, ma i miei discorsi continuavano a girare intorno ad argomenti come la musica, i supporti su cui registrarla, le piccole scatolette di plastica e i loro contenuti. Dopo un po’ mi ha detto di avere ascoltato la cassetta e decifrato la mia lettera. Mi ha detto che insomma, sì. Le ho risposto che non sapevo di cosa stesse parlando e sono scappato.

Che palle vivere così, di nascosto alla vita, gemello siamese di me stesso a otto anni. Guardo le persone e mi chiedo quand’è che sono cresciute, e come è successo, se sono state come me fino a un giorno in cui si sono guardate allo specchio e si sono viste diverse, e allora hanno spento la playstation e fatto quella cosa che fino al giorno prima ritenevano impossibile. Ho sempre pensato che ci fosse un’età in cui smetti di comportarti come un ragazzino e ti carichi sulla schiena la tua vita coi suoi casini. Pensavo che bastasse aspettare di raggiungerla. Quando i miei conoscenti hanno iniziato a trovarsi una casa, un lavoro, una moglie ho capito che oramai sarebbe stata solo questione di poco, come quando sei in posta col cinquantacinque in mano e l’impiegata chiama il quarantanove e dato che non arriva nessuno passa subito al cinquanta.

Solo che la vita, come certi uffici postali, distribuisce i biglietti con numerazioni diverse a seconda della tua necessità, e dopo il cinquanta non viene il cinquantuno, si passa alla fila di quelli che devono pagare le bollette, e si serve il ventisette. Poi il settantaquattro di quelli che devono parlare col consulente finanziario. Poi l’otto deve ritirare la pensione. E tu sei lì che invecchi. I tuoi conoscenti hanno già fatto due figli, qualcuno ha divorziato, e tu sei ancora lì ad aspettare il via, ma ti ripeti che quando arriverà quel momento lo riconoscerai, e resti tranquillo a guardare i moduli nel raccoglitore girevole. Non c’è mai niente da leggere in posta.

Alle superiori c’era una di prima che mi piaceva un sacco, si chiamava Lara e tutte le mattine all’intervallo transitava davanti alla mia aula e guardava dentro. Andavo in giro col mio compagno di banco e me la trovavo dietro. Ero al semaforo e lei stava sull’altro marciapiede e mi indicava alla sua amica. Ci sono uscito? Hahaha. Però una volta le ho fregato il diario e c’era il mio nome scritto sopra grosso, e io ci ho scritto una delle mie cazzate e lei da quel giorno non mi ha più parlato.

Non è che parlo sempre delle stesse cose, potrei fare anche degli esempi che riguardano il lavoro, ma parlare di lavoro non mi piace, quindi sì, parlo sempre delle stesse cose oppure scrivo racconti che però non spedisco a nessuno, perché io quel giorno in cui devi metterti lì e diventare una persona responsabile lo sto ancora aspettando.

Nel frattempo ho imparato a mimetizzarmi. A non espormi, a non telefonare per primo. Ho imparato a nascondere la mano prima di tirare il sasso, dico ci vediamo una di queste sere e poi non mi faccio più vedere, e penso ma che stronza, non mi cerca.

Però non si può vivere così, no? I vigliacchi muoiono molte volte prima di morire, diceva coso, e morire è già brutto una volta sola, perciò sii forte, prendi coraggio, manda un messaggio alla tizia, dille una volta per tutte cosa provi per lei e poi corri in stazione all’aeroporto su una nave. Non sarà mica così difficile rifarsi una vita in Siberia.

E invece no, io aspetto domani, quando sarò più coraggioso e le condizioni più favorevoli, e intanto spero che nel frattempo la ragazza si trovi un fidanzato e mi fornisca una scusa per dare la colpa alla sfiga.

Preferirei sminare strade nel deserto in ciabatte, dicevo, che produrre quel gesto così naturale per gli esseri umani, mostrare le mie debolezze a un altro essere umano e chiedergli di condividerne il peso.

Per questo ho sempre salutato il quindici febbraio con un sospiro, rimandando l’ansia di un altr’anno, tanto c’è tempo.

È la giornata mondiale del libro, ieri era quella mondiale di qualcos’altro e domani sarà la giornata mondiale di non lo so ma sono sicuro che prima di stasera si inventeranno qualcosa, perché tutti i giorni dev’essere la giornata mondiale di qualcosa, si vede che sennò ci si annoia a pensare che è lunedì e basta, mentre invece se è la giornata mondiale di quelli che il lunedì ne hanno per le palle di andare a lavorare uno ci va più volentieri secondo la regola del mal comune mezzo gaudio, che poi per me è sempre stata mal comune mal comune, invece di lamentarmi da solo mi lamento guardando qualcuno che si sta lamentando davanti a me, però che bella soddisfazione di merda.

Ma poi chi è che decide che oggi è la giornata di questo e domani di quell’altro? Cosa c’è, un’associazione che si riunisce per deliberare queste cose? Tipo assemblea di condominio? Domani è la giornata mondiale della lotta all’aids, e mercoledì laviamo le scale. La giornata dell’aids l’abbiamo già fatta. Allora facciamo quella dei diritti dei bambini. Fatta pure quella. La giornata mondiale contro le scorregge in ascensore? Quella è ancora libera, facciamo quella. Io però se mercoledì laviamo le scale è un casino, che mi vengono i nipotini e lo sapete com’è, corrono su e giù tutto il giorno, finisce che quando vanno via sono più sporche di prima e abbiamo fatto il lavoro per niente. Se le lavassimo giovedì? Giovedì è la giornata mondiale della musica, andiamo a sentire Fedez che suona gratis. E che c’entra con la musica? Eh, lui è contrario e protesta così. Allora spostiamo la giornata delle scorregge a venerdì e le scale le laviamo domani. Io vorrei approfittare per dire alla Turlizzi del terzo piano che il suo cane abbaia tutta la notte.

Oggi è la giornata mondiale del libro, lo ha deciso l’UNESCO, così sapete anche a chi dare la colpa se non si festeggerà mai una giornata mondiale degli spaghetti aglio olio e peperoncino. Ha deciso che è oggi perché oggi nel 1616 sono morti Miguel de CervantesWilliam Shakespeare e Inca Garcilaso de la Vega.
Tu lo conosci Inca Garcilaso De La Vega? Senza andare a guardare il link, intendo. Sai cos’ha scritto? No, e non lo sa neanche l’UNESCO, voglio prendere il telefono e chiamare a caso un membro dell’UNESCO e chiedergli di citarmi il titolo di un’opera di Inca Garcilaso De La Vega, ma anche solo che mi dica che mestiere faceva, e vedere cosa mi risponde. Probabilmente “Who are you and who the fuck gave you my number?”, ma a parte quello ci scommetto che non lo sa nessuno, l’hanno aggiunto perché è morto lo stesso giorno di quegli altri due. Che poi quegli altri due sono solo l’autore di Don Chisciotte, visto che nel 1616 in Inghilterra stavano ancora al calendario giuliano, perciò il loro 23 aprile non era lo stesso che in Spagna, e se vi sembra poco andate a leggervi Il Pendolo Di Foucault, dove le differenze di calendario provocano più danni di quella volta in cui un inglese diede appuntamento a una francese al porto di Calais e si presentò con dieci giorni di ritardo e la trovò incinta di un marinaio e piena di un odio verso il popolo d’Albione che dura ancora adesso.

Quindi in pratica è la giornata mondiale del libro solo perché quel giorno lì è morto Miguel De Cervantes. Che allora potevate istituirla il giorno in cui è nato, no? Che faceva più allegria. Che infatti ci avevano anche provato a istituirla il 6 febbraio, ma quel giorno lì venivano ad aggiustare la grondaia che perde e la Villorio del quarto piano ha detto che in casa le è uscita tutta la muffa e questo mese si rifiuta di pagare l’amministrazione, e comunque il 6 febbraio non c’è niente da ridere.

E cosa si fa nella giornata del libro? Non lo so, io volevo regalare dei libri, ma questo comporterebbe uscire di casa e parlare con le persone, e poi che libro regalo? Il mio pare brutto, sembra di sfruttare un evento nobile per tornaconto personale, e io non sono un opportunista. Uno bello di quelli che ho letto mi girerebbero le balle, i libri belli mi piace tenermeli vicini e aprirli ogni tanto e ricordarmi di quanto sono belli, come si fa con le fotografie e i ricordi che ti accendono. Uno brutto no, è da stronzi, cosa fai, regali un libro brutto? E poi che altro? Ti soffi il naso a pagina 45 per dare ancora più fastidio? No, non si fa.
Una soluzione sarebbe di regalare un libro bello che mi ha regalato una persona brutta, così il dispiacere di perdere un oggetto caro viene attenuato dal sollievo di essermi liberato di un brutto ricordo, ma liberarsi dei brutti ricordi è come negare i propri errori, che è il modo migliore per commetterli ancora. E poi mi sentirei comunque una merda a regalare qualcosa che mi è stato regalato, anche se me l’avesse regalato il mio peggior nemico, perché quando me l’ha regalato era animato dalle migliori intenzioni, un nemico non ti regala un libro.

Cioè, in realtà sì, se è un nemico con un forte senso dell’umorismo e una discreta dose di faccia tosta ci sono diversi regali perfetti per ferire qualcuno.

    • Alla tua ex che ti ha rimpiazzato con troppa celerità: un elenco del telefono di Roma con la dedica “Non dovesse funzionare neanche con questo ecco alcuni suggerimenti”;
    • Al tuo capo che ti ha rimproverato perché stavi scrivendo i cazzi tuoi: 1984 di George Orwell (specifico nel caso il mio capo legga questo blog, capitemi, non legge molti libri, magari non sa chi l’ha scritto e finisce per procurarsi un almanacco del calcio di quell’anno e mi ringrazia pure);
    • A tuo padre che non ti presta la macchina per uscire sabato sera: il Deserto Dei Tartari, di Buzzati;
    • A tua sorella che è già tanto se sa leggere: niente, che le regali a una così? Se c’è una cosa triste è un libro dimenticato in uno scaffale vuoto.

No, vabbè, sono idee banali, io non ce l’ho la cattiveria sottile per fare una cosa così, io se voglio dare dello stronzo a qualcuno gli dico che è uno stronzo, non glielo lascio intendere fra le righe, anche perché non lo reputo capace di recepire il sottotesto, per me gli stronzi sono quadrati fuori e vuoti dentro, che poi è la ragione per cui finiscono per essere stronzi. Non esiste nessuno cattivo per dedizione, lo sono tutti più o meno inconsapevolmente, o spinti da ragioni più forti della loro bontà.

Tipo Hitler: credeva davvero che a sterminare tutti gli ebrei e gli omosessuali e gli storpi e i malati di mente e in pratica tutti quelli che non erano lui il mondo sarebbe stato un posto migliore. Mica si svegliava la mattina pensando oggi voglio fare qualcosa di veramente cattivo. Si svegliava e gli giravano così le balle di doversi svegliare che guarda, invado la Cecoslovacchia. E i cecoslovacchi che ne facciamo? Ma che cazzo me ne frega, chi li conosce quelli?
L’indomani si svegliava che ce l’aveva a morte con gli ebrei. Ma poverini, che ti hanno fatto? Mi stanno sul cazzo. Vabbè, ma mica è una buona ragione per ammazzarli. Sei ebreo te? No. E allora fatti i cazzi tuoi e vai ad accendere il forno.
Era un po’ tanto egocentrico, ma sono sicuro che non si sarebbe definito cattivo.
D’altronde neanche quello che oggi vorrebbe sparare sui barconi dei profughi si definirebbe cattivo. La differenza fra lui e il tizio coi baffetti alla Chaplin è che il tizio ha avuto la possibilità di farlo, lui può solo scriverlo su facebook. Ma dagli un popolo così disperatamente bisognoso di un leader forte da seguirlo nei suoi scazzi mattutini, e vediamo come si comporta. Non dimentichiamo che c’è gente che nel 2017 vota Salvini.

Siamo tutti lo stronzo di qualcun altro, a proporre la giornata mondiale contro gli stronzi si otterrebbero milioni di adesioni, ma al momento di tirare giù i nomi di quelli da rinchiudere in un’apposita riserva ci si renderebbe conto che si fa prima a lasciarli dove sono e casomai isolare quei tre o quattro che non sono stati nominati da nessuno, che però non si vogliono isolare perché sono brave persone e a loro gli stronzi non danno fastidio.

No, non fai parte di quei tre o quattro, stai tranquillo. Se pensi di farne parte è perché riesci a identificare gli stronzi, ma i buoni non lo dividono il mondo in buoni e cattivi, trai da te le conclusioni.

Va bene, il mio contributo per la giornata mondiale del libro è stato scrivere una cazzata che facesse venir voglia di andare ad aprire un libro invece di star qui a leggere i miei sproloqui, adesso vado a pisciare il cane e poi scendo in città a vedere un concerto di un tizio che scrive testi pescando a caso parole dal vocabolario e suonandoci sotto gli stessi quattro accordi da anni, ma l’ultimo disco mi è piaciuto e lo vedo volentieri.
Voi intanto andate a cercare una libreria aperta, che gli ultimi dati sulla lettura in Italia sono inquietanti, poi ci credo che uno vota Salvini e invade la Cecoslovacchia.

“Quindi dovremo trascinare via Polonio sui sassi?”, chiede lo Spettro. La domanda se la sono posta tutti appena la Maestra ci ha comunicato la nuova sede in cui porteremo in scena lo spettacolo di fine corso: le rovine dell’anfiteatro romano, ai Giardini Luzzati.

Avremmo dovuto recitare nel salone di un museo genovese, ma alla fine Teatro ha deciso che lo spazio a disposizione non era adeguato. Non era adeguato neanche il rapporto fra me e lo staff di quel museo, per una serie di ragioni che non ho voglia di raccontare, e proprio oggi festeggiamo un anno di sputi in faccia, perciò figurati se mi lamento. A dirla tutta io ero quello che a ogni lezione chiedeva se dovevamo andare a recitare proprio lì, forse li ho presi per stanchezza. Perché incontrarsi per strada e fingere di non vedersi è triste, ma stare tre giorni a stretto contatto, fra prove e recita, sarebbero stati giorni regalati alla morte. Almeno così non si fa male nessuno.

“Nessuno un cazzo!”, si lamenta Polonio, che proprio non gli va giù di finire scorticato sui sassi davanti a tutti i suoi amici. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che nella scena precedente, quando Amleto lo pugnala, verrà usato un pugnale vero, perché la Maestra insiste sul realismo, perciò in quella scena lui sarà già morto, ma morto sul serio, e i sassi non li sentirà neanche.

“Hai presente Amleto, no? Quello che l’anno scorso mi ha preso a testate alla prova generale. Secondo te riuscirà a ucciderti solo per finta?”

Me ne vado perché vedere un uomo che piange è davvero brutto. E poi devo provare la scena dove abbraccio la regina, e la maestra la vuole più realistica. Ho già cercato di metterle le mani nelle mutande, ma non basta ancora, dice che la regina me la devo limonare duro. Il problema è che le regine sono due, ci sono troppi attori per i pochi personaggi previsti, e alcuni ruoli sono stati divisi: due regine, due Ofelie, un solo becchino ma schizofrenico. E io due regine non le posso sostenere. Una è la mia vecchia conoscenza, Domenico Mugugno, che è come un gatto appeso alle balle ma peggio, come se appeso alle balle avessi un gatto con la katana; l’altra è Gloria, era la mia fidanzata al saggio dell’anno scorso, una storia ricca di passione che però non aveva resistito alla vaghezza dell’estate. Non ci eravamo più visti, lei aveva intrapreso una traversata dell’Australia a piedi da cui era tornata mezza rotta, diceva che l’aveva aggredita una banda di canguri, io ero stato assunto per fare la controfigura di quello che ha vinto Sanremo e per l’occasione mi ero anche fatto i baffetti come i suoi, poi mi hanno spiegato che sul palco avrei dovuto interpretare il gorilla, e che il costume non mi sarebbe servito, andavo già bene così.

La scena non funziona, la Maestra mi accusa di essere poco virile, tutte le donne mi perculano pesante, tranne Gloria, che mi guarda con compassione. Avrei preferito il perculo, è meno umiliante. Quasi quasi mi ritiro e Claudio glielo fate fare a qualcun altro. Oltretutto nel quinto atto sarò io a venire pugnalato da Amleto, e se proprio devo morire in scena vorrei che fosse una morte epica, tipo mentre uccido il crudele tiranno e faccio un discorso di libertà e giustizia che metà pubblico in sala si mette a piangere, non come uno stronzo fratricida ammazzato dal figliastro emo.

Poi vabbè, il pubblico in sala piangerà lo stesso, facciamo cagare a un livello mai visto, la settimana scorsa alle prove sono venuti i bambini della terza elementare, che porteranno in scena la nostra stessa versione della tragedia, e se ne sono andati disgustati.

Ad un certo punto Guildenstern si incazza, butta per terra gli occhiali da sole e si mette a urlare che a lei (sì, anche Guildenstern è una donna, e pure Rosencrantz, e si allude pure a una loro affettuosità particolare, e a me immaginare queste due in atteggiamenti intimi scusate vado un attimo di là) nessuno ha ancora spiegato se Guildenstern alla fine muore o no, e se non lo capisce non riesce a dare sufficiente profondità al suo personaggio e a rivestirlo di quella particolare drammaticità che il destino ineluttabile posa leggero sulle persone segnate dalla sventura. Lo dice proprio così, come a La Vita In Diretta, e tutti ci lasciamo sfuggire un oooh di ammirazione.

“Ragazzi, che roba! È da questa precisione che si riconoscono i professionisti!”, dice Laerte.
Non lo so, ero distratto, le guardavo le tette, scusate.

La Maestra le spiega che alla fine muore proprio come nella tragedia, ma muore fuori scena, mentre accompagna Amleto in Inghilterra. Lei però non ci sta, vuole morire in scena, davanti a tutti, anche a costo di spostare la recita in Inghilterra.
Rosencrantz, che è sempre molto gentile e cerca di riportare armonia, si offre volontaria per spaccarle la testa con un sasso appena terminata la loro parte. Così la vedranno tutti, e poi pensa che immagine suggestiva, su quel fondale bianco, il rosso del tuo sangue che schizza addosso agli spettatori. La convince. Avrebbe convinto anche me, Rosencrantz è una che parla poco, ma quando lo fa lascia il segno. Perché sputazza.

Tutto sembra sistemato e le prove possono riprendere. Entra Ofelia, quella pazza del quarto atto, non quella depressa dei primi tre, e mette tutti a sedere con un’interpretazione che neanche Al Pacino, guarda.
L’unica perplessa è l’altra Ofelia, gelosa di essere stata messa da parte, che fa sentire la sua voce querula: “Al Pacino non ha mai recitato nell’Amleto!”
“E infatti mi riferivo alla sua interpretazione di Ofelia nel Riccardo III!”, le risponde la voce fuori campo, che poi sono sempre io, che sono una primadonna e il ruolo dell’antagonista non mi bastava. Oppure è che spero in un ruolo secondario che mi eviti di finire ammazzato male.

“Ragazzi, io ve lo devo dire, fate cagare”, commenta la Maestra. E tutti ci demoralizziamo. Poi aggiunge: “Non tutti però”, e ci risolleviamo, perché dentro di sé ognuno è convinto di essere l’eccezione. “Voi due per esempio fate molto peggio che cagare, siete così imbarazzanti che la settimana scorsa dopo le prove mi ha telefonato Shakespeare per insultarmi”. Parla ovviamente di me e di Domenico Mugugno, che se non la tengo le tira gli stivali. Io non mi offendo, la Maestra può dire quello che vuole, e poi ha ragione, ma il teatro per me non è che una copertura, il lunedì sera prima di lezione vado a spacciare crack in un vicolo dietro la sala prove. Per Domenico è diverso, lei è una donna sensibile. Sì, donna, si chiama Domenico perché i suoi genitori volevano un maschietto ma ahimè è nata lei, nella culla le han messo un fioretto, lady dal fiocco blei.
Si chiude in un mutismo che non le ho mai visto, sembra davvero ferita, tanto che mi viene da cercare di consolarla. Le dico qualcosa di gentile, tipo che ha delle belle scarpe, ma lei mi ferma subito con la sua voce da aquila strozzata “Non me ne frega un cazzo delle scarpe! Io voglio sapere se sono brava a recitare!”

Le dico che ha anche una bella giacca.

Alla fine della lezione metà degli attori ha deciso che non proseguirà, ma la Maestra non si arrende così facilmente, è una tosta lei. Ognuno dei superstiti farà quattro personaggi, per quelli che si troveranno a interpretare più di un ruolo nella stessa scena verrà studiato un abito mezzo in un modo e mezzo in un altro, così basterà mostrare al pubblico il profilo giusto. Come un cattivo di Mazinga. Capocomico si ritrova a dover fare tutta una scena da solo, interpretando a giro Ofelia, Laerte e Polonio. Fra l’altro in quella scena Ofelia dovrebbe stare in braccio a Laerte e i due venire interrotti nel loro chiacchiericcio fraterno dall’arrivo di Polonio. Però è una brava attrice, Capocomico, e ci mostra come si fa a portarsi in braccio da soli e poi rientrare come terzo personaggio: è un trucco che ha imparato a un workshop con uno che aveva studiato da Franco Basaglia.

Ovviamente cade e si spezza un femore in tre punti. Nessuno dice niente, se l’è andata a cercare, però adesso qualcuno dovrà caricarsi sulla schiena anche la sua parte.

La Maestra continua a dire che va bene, ma adesso qualche dubbio è venuto anche a me. Il 13 maggio si avvicina, e rischiamo di non arrivarci preparati a dovere.

Per fortuna che ai Giardini Luzzati c’è un bar: il grosso vantaggio di presentarsi ubriachi spolpi al proprio spettacolo è che senza dubbio darai spettacolo. E non sarai neanche lì ad assistere!

 

 

Questa cosa delle barbe me la dovete spiegare.

Perché fino a ieri un uomo con la barba lunga era considerato alla stregua di un mugik afgano o, al limite, di un pastore amish, insomma, due categorie non propriamente appetibili per l’immaginario femminile, e all’improvviso lo stesso individuo vi scatena un arrunchio da groupies?

Perché proprio adesso che mi sono comprato i pantaloni da punk rocker e il mio sex appeal è passato da zero a centotrenta voi avete deciso che va di moda l’eremita squilibrato innamorato della propria pecora, annullando le mie possibilità di rimorchio?

Mi sono posto queste domande alla fine di Macbeth, quando si sono accese le luci in sala e tutte le donne presenti stavano sbavando con gli occhi a girandola.

forse dovrei andare in giro anch’io con le righe in faccia

Cioè, io e Muffin avevamo lo stesso sguardo, ma per ragioni diverse dall’ormone, nonostante la presenza di Marion Cotillard facesse supporre il contrario: intanto la presenza di Magneto sullo schermo, che non può lasciare indifferenti gli appassionati del cattivone col pitale in testa. È curioso il legame fra il thane di Glamis e i mutanti: Fassbender è il quarto attore ad aver interpretato sia Macbeth che un personaggio della saga degli X Men, dopo i due Professori X e l’altro Magneto.

Al di là del protagonista, Macbeth è un filmone, ha una regia impeccabile e il direttore della fotografia è quel signore che ci ha regalato True Detective, non so se avete presente, sarebbe quella serie tv dove il protagonista senza barba faceva muggire le donne che stavano con voi sul divano. No, mi spiace, non era il vostro deodorante.

Ma perché le bambine che compaiono dal nulla nella nebbia insieme a tre streghe devono risultare sempre così inquietanti, mannaggia a loro?

La colonna sonora rientra nella categoria “colonne sonore di film successivi a Inception”, ci sono diverse variazioni, ma il tema principale è quasi sempre POOOOOHHHH. Qui lo fanno dei violini, ma l’idea è quella, e comunque funziona. O forse è la gratitudine di non avere utilizzato delle maledette cornamuse, benché la storia sia ambientata in Scozia.

La storia è ambientata in Scozia, ed è quella raccontata nella tragedia di Shakespeare, con le tre streghe che predicono il futuro al
nobile Macbeth e lui il destino se lo crea da solo come pare che alla fine facciamo tutti, alla faccia di Rob Brezny.

Anche i dialoghi sono gli stessi della tragedia, quindi se vi piacciono i film con le frasi a effetto tipo “Nessuno mette Baby in un angolo” forse dovreste vedere qualcos’altro.

Visivamente il film deve molto a certe pellicole giapponesi, prima di tutto Kurosawa. Questa parte l’ho letta, io di Kurosawa ho visto solo un film con Richard Gere tanti anni fa al cinema di Ronco, e per una svista le bobine erano state proiettate invertite. Non so se vedere prima il secondo tempo del primo sia stata la causa della mia avversione verso questo regista, ma da allora mi sono tenuto distante dalle produzioni giapponesi, per sicurezza. Giusto una volta ho provato a forzare il blocco leggendo Kitchen, di Banana Yoshimoto, ma l’edizione di cui entrai in possesso era stata impaginata a rovescio e non ci capii nulla.

È per quello che quando mi proponete un film di Miyazaki vi rispondo che devo andare a trovare mia nonna, anche se è morta dieci anni fa.

Insomma, Macbeth miglior film del 2016, seguito da A Perfect Day. Ma adesso escono i pezzi grossi, la situazione potrebbe cambiare.