Dice “È un po’ che non aggiorni il blog, che stai facendo? Scrivi un altro libro?”

Dire che sono stato risucchiato dal vortice di Tumblr e in pratica passo ogni minuto libero ad aggiornare la dashboard fa brutto, così ho deciso di raccontare alcune delle cose che ho visto, letto o fatto nell’ultimo decennio, fingendo di avere impegnato gli ultimi mesi in qualcosa che se non è produttivo sia almeno socialmente accettabile.

Allora, innanzitutto ho cominciato a pedinare una ragazzina di sedici anni dall’uscita di scuola a casa sua, ma pedinare non è il termine giusto, la tallonavo proprio, le stavo a un metro e le mormoravo parole oscene tipo icsfactor, libridimoccia e rapperitalianotrasgressivodistocazzo, e ogni volta che si voltava a rimproverarmi mi accarezzavo il pacco con lascivia [la-scì-via, se hai letto la-sci-vìa sei una brutta persona]. Poi mi è scaduto l’interinale alle poste e a consegnare la corrispondenza ci hanno messo un altro.

(questa cosa della ragazzina starebbe a sottintendere come la frequentazione di tumblr sia più immorale e deplorevole di un atteggiamento che puzza di pedofilia. Non ha molto senso spiegarlo, mi rendo conto, ma ultimamente su tumblr mi leggono i Bimbiminkia col senso dell’umorismo di un anello di totano, ma manco di quelli fritti, crudo, e allora rischio che la battuta non venga colta. Scusate.)

Pazienza, molto più tempo libero da investire in attività più socialmente accettabili della dashboard di tumblr, (vedi? devo sottolineare come alle elementari) che se non l’avete mai vista lasciate perdere, tutta quella pornografia mescolata a immagini di gattini potrebbe far perdere il senno a chiunque, io stesso oramai mi eccito ogni volta che sento miagolare.

Però non starò qui a raccontarvi delle mie fantasie erotiche, anche perché non tutte vi riguardano, ho scritto questo post per raccontarvi di quello che ho letto e visto, e tanto vi devo.

Quello che ho letto e visto

Comincio dal fondo, da quello che sto ancora leggendo perché è come quando ti invita a cena una che non sa cucinare e ci metti tre ore a finire il secondo perché se lo lasci magari si offende e poi va a finire che ti tocca passare la serata a guardare Men vs Food, che non so cosa sia, ma un amico me l’ha appena citato su facebook, e lui è uno che guarda delle vere porcherie.

Roba che se ad un certo punto compariva Ok Quack il romanzo poteva proseguire a Paperopoli e nessuno ci avrebbe trovato niente di strano.

 Si, ce l’ho con te, Stephen King, che prima mi illudi con tre capitoli piacevoli, poi mi esalti con un quarto che è un capolavoro, e poi mi presenti il conto con un quinto volume, I Lupi Del Calla,  piuttosto calante, un sesto, La Canzone Di Susannah, che bisognerebbe tirartelo dietro, e l’ultimo, La Torre Nera, che se non avevi più voglia di scriverlo bastava dirlo, l’avremmo capito. Guarda, ci parlavo io col tuo editore, una soluzione si trovava, ma metterti a discutere col lettore, diventare tu stesso un personaggio della storia, dai, è veramente la soluzione di chi non ha più niente da dire! Non sei d’accordo con me, lettore di questo blog?

Adesso ho questo romanzo a un quarto scarso, ne leggo due pagine la sera per vedere se migliora, salto le righe, mi dispero perché è di un noioso che non ci si crede, da un momento all’altro potrebbe raccontarmi del benzinaio preferito dai taheen e di quella volta che si è messo a regalare i punti carburante perché aveva avuto una crisi mistica e gli era apparsa Santa Teresa, che però lui non essendo pratico di cristianesimo aveva scambiato per San Pietro (oppure a causa dei baffi, che le Scritture non ne parlano perché non è bello che si sappia, ma Santa Teresa da ragazza la chiamavano Gino Cervi), e gli aveva confidato che il mondo stava per finire e che Marchionne avrebbe trasferito gli stabilimenti in Pakistan, perciò suo nipote avrebbe perso lavoro e sarebbe tornato a drogarsi. Siccome il nipote è quello del benzinaio e non quello di Marchionne capirete anche voi che al nostro amico quel giorno gli giravano le balle, e vi sarete fatti un’idea, cari lettori grandi e piccini, di com’è stato scritto l’ultimo volume di questa saga fantasy postatomica.

Roba che il tuo scrittore preferito dei tuoi anni di ragazzetto protonerd potrebbe perdere anche quel rispetto che gli devi ancora per le forti emozioni che ti ha fatto provare descrivendo un momento di petting fra il protagonista e la sua ragazza cheperòpoimuore ne Le Notti Di Salem, che tu una roba così spinta come lui che “fece scivolare una mano sul suo seno e lei si inarcò per offrirglielo pienamente, soffice e sodo com’era” non l’avevi mai letta e quella sera sei andato a dormire sconvolto.

Sai cosa, amico Stephen King? O mi tiri fuori un altro 22/11/63 o mi leggo tutta la bibliografia di Valerio Massimo Manfredi. NON STO SCHERZANDO!!

Il titolo è fuorviante, in realtà è un libro di ricette per cucinare le melanzane.

Per evitare di morire di noia mi sono procurato una lista di romanzi sui viaggi nel tempo, e poi, grazie al mio amicone Senko che un giorno mi ha detto “ti faccio una cassetta”, che negli anni ’80 indicava una compilation TDK da 90 minuti piena di musichine e adesso invece rappresenta una chiavetta usb da 16 giga piena di qualunque cosa, in questo caso libri, ho spulciato in un archivio grande più o meno come la provincia di Cuneo alla ricerca dei tiroli che mi interessavano.

Al momento sto leggendo Al Di Là Del Tempo di Connie Willis, che non è un romanzo ma un’antologia di racconti, e di viaggi nel tempo ne parla più o meno come ne sto parlando io qui, però finora si lascia leggere, e il primo racconto mi ha preso molto più di quanto mi aspettassi dal genere, che è una roba tipo ricordi di scuola e primi amori, che detta così mi fa un casino casalinga frustrata, ma in realtà è scritto bene davvero. Vedremo gli altri.

Lo so, non sto leggendo molto, direte voi amici colti, che divorate i libri come io divoro i pomodorini dell’orto, a cinque per volta e senza lavarli, che però per i libri è meglio fare così, che sennò poi si sgualciscono le pagine, per non parlare di chi legge col kindle, lascia perdere.

In realtà sto occupando il tempo che voi dedicate ai vostri romanzi preferiti per leggere una quantità disumana di fumetti, tipo tre o quattro, che però escono tutti i mesi!! È come se vi metteste a leggere.. dei fumetti, tipo.. che però escono.. tutti i mesi!! Non so se è chiaro il paragone.

Un momento tipico nella vita di una famiglia, e se a voi non è mai capitato vi compatisco assai.

Una delle serie che ho cominciato dal numero uno e sto portando avanti con soddisfazione è Saga, di Brian K. Vaughan e Fiona Staples, un racconto fantasy (daje) ambientato nello spazio, quindi di fantascienza, si però più fantasy. Adulto nei dialoghi e nelle situazioni (Parlano anche di sesso! Nei fumetti! Tutti i mesi!!), molto ironico, sempre lì che adesso succede qualcosa, ma senza l’ansia di ommioddio un mese senza sapere come va a finireh! L’ha consigliato anche Buoni Presagi, che poi sembra che leggo i fumetti che consiglia lui e non lo cito. In realtà l’avevo già lì da leggere da anni e anni e aspettavo di trovare la voglia, non è che ho cominciato perché me l’ha detto lui, e comunque io ne ho già letto tredici numeri e lui invece è fermo al terzo, gnegnegne.

Allora ci vediamo questa sera? Una serata fra amici, una chitarra e un omicidio.

Garth Ennis lo leggo per principio, mi piace, a volte si ripete un po’, a volte non ne ho voglia e lo pianto lì, a volte vorrei telefonargli a casa e tirarlo giù dal letto e dirgli “Oh Garth! Questa si che è una storia coi coglioni! Ma non i coglioni tipo i protagonisti della Torre Nera!”.
Red Team è appena cominciato, giusto quattro numeri, e sta scorrendo bene, una trama solida, dei protagonisti credibili che non fanno i pazzeschi come Barracuda, che è simpatico, ma tutti così no eh. È la storia di un gruppo di agenti che dopo aver visto com’è andata a finire con Berlusconi, che tre gradi di giudizio ed è ancora lì a rompere i coglioni, decidono di dare una mano alla giustizia e invece di arrestare i criminali li fanno fuori con azioni da commando.
Strega commando colori.
Non c’entra, ma mi faceva ridere.

L’amore. Quello con la a minuscola, ma col tizio che tira le frecce e fa il coglione per Brooklyn.

Mi sono tenuto per ultima la serie che mi ha fatto innamorare, Hawkeye, di Matt Fraction e David Aja, roba che non credevo che una serie regolare Marvel fosse ancora capace di. È il supereroe che abbiamo visto negli Avengers, sai quel film di supereroi fatto bene che ti ha fatto dimenticare le porcherie tirate fuori con Hulk, Spiderman e, lo so che non sarete d’accordo ma mi ha fatto cagare, Iron Man? Quello interpretato da quello che sembra sempre si sia appena svegliato, che ha fatto quel film che ammazzava una bella saga come quella di Bourne.
Insomma, niente a che vedere, queste sono le avventure di Occhio Di Falco (che non è stato tradotto e continua a chiamarsi Hawkeye anche in italiano) quando non indossa il costume pacchianissimo che lo fa somigliare a una versione campy della (orrenda) Catwoman di Halle Berry. Vive in un condominio di Brooklyn, piglia botte da buffi mafiosi russi che vanno in giro con la tuta dell’adidas e dicono Bro, salva un cane, cazzeggia coi condomini e finisce nei casini per delle donne. Adorabile, cialtrone, lontanissimo dallo stereotipo del supereroe, sia dell’antieroe indisciplinato tipo Wolverine che della macchietta fastidiosa che in questo momento non ricordo neanche come si chiama ma avete capito, è tutto rosso, ha due pistole ed è una specie di zombi ninja. Inoltre David Aja ha fatto un lavoro splendido nella costruzione della pagina, e alterna vignette che sembrano scarabocchiate, con pochissimi dettagli, ad altre molto complete. Insomma, si è capito che mi piace, cos’altro devo fare, comprarvelo e portarvelo a casa?

Ci sono altre cose di cui dovrei parlare, alcune bellissime altre meno, prima di affrontare il discorso cinema, ma qui finisce che arriva l’alba e sono ancora alzato, e poi voi non mi leggete perché ho scritto troppo e ormai siete abituati ai microperiodi di facebook, e se uno scrive più di 160 caratteri senza faccine diventa prolisso.

Io poi prolisso lo sono già, ti lascio immaginare che succede. Facciamo che proseguo un’altra volta, eh?

 

Deadpool! Ecco come si chiama! Simpatico cinque minuti, poi torno a leggermi La Torre Nera.

Aggiornamento dell’ultimo minuto:
All’idea di dovermi sorbire altre pagine della Torre Nera sono andato su wikipedia e mi sono letto la trama. Non ve la racconto per evitarvi spoilers, ma sappiate che dopo aver scoperto cosa succede nelle pagine che mi mancano ho cancellato il file dal telefono, poi dal computer, poi ho buttato via la chiavetta usb di Senko, poi ho strappato il cavo del telefono e me lo sono mangiato.

Ho deciso poco fa, intanto che portavo il cane a pisciare, che era venuto il momento di scrivere qualcosa sui libri che sto leggendo in questo periodo. E’ una bella iniziativa, se uno legge molto, e può dare dei suggerimenti utili a chi non sa dove indirizzare i suoi momenti d’ozio e magari finisce a sedersi davanti al grande fratello di maria de filippi e in men che non si dica diventa un italiano medio che odia gli stranieri e vota lega, anche se per esempio oggi quindici di quelle merde hanno fatto ricorso contro il nuovo sistema pensionistico per i parlamentari. Quindici su ventisei, e ancora stanno a fare i cori romaladrona. Morissero di pruriti al cazzo.

Ma dicevo dei libri, che c’è un mio amico che tiene una rubrica sul suo blog dove recensisce tutti i libri che legge, e sono parecchi, tanto che li ha raccolti in un e-book scaricabile gratuitamente, che ti dà un sacco di dritte, ma che però ci manca secondo me un indice alfabetico, che una guida così non puoi imparartela a memoria, te la tieni lì e ogni tanto la consulti come l’elenco del telefono, e se non sai più dove hai letto la critica di quel libro là che ti interessava devi scartabellare tutto ogni volta e così finisce che te lo impari a memoria e allora l’indice alfabetico non ti serve più. Volevo dirglielo di persona, ma non ci vediamo da un po’ e faccio prima così, ma tanto lo so che mi risponderà che l’indice non serve perché l’e-reader ha la finestrella di ricerca tipo google, che in effetti non ci avevo pensato, mi è venuto in mente ora, ma magari poi non è neanche vero e me lo dice solo per minchionarmi.

Io una rubrica così non potrei tenerla, perché ogni volta che ho provato a gestire un impegno fisso ho resistito sei mesi e poi è finito tutto a puttane. Qualunque cosa, rubriche, racconti a puntate, la piscina.. Meno male che non sono nato donna o dopo le terze mestruazioni avrei trovato il modo di interrompere anche quelle.
E con questo non voglio affatto pararmi il culo per aver lasciato la mia recensione di Londra ferma alla prima puntata, ma stasera c’ho da scrivere altro, e mi spiace per quei turisti fermi da settimane ai giardini di Kensington. L’avete visto il cazzo di cancello? E i giardinetti di Lady Diana? Beh, trovatevi un cesso e un baretto e aspettatemi, fra un po’ arrivo.

Nonostante le mie letture siano drammaticamente inferiori alla media degli italiani che leggono, sebbene di molto superiori a quelle degli italiani di cui alla terza riga di questo post, ma è come picchiare uno che caga, ho pensato di scrivere due righe su quello che sto leggendo/ho letto/leggerò in questi giorni, perché sono cose che mi provocano sentimenti diversi, e quando la causa è un libro e non i risultati dell’esame istologico vale la pena soffermarcisi un momento.

ZerocalcareIl primo l’ho cominciato e terminato stasera, si chiama La Profezia Dell’Armadillo  e l’autore è Zerocalcare.
E’ una raccolta di fumetti brevi che compongono un racconto che si snoda fra ora e il millenovecento-quando-eravamo-tutti-ragazzini, e parla di tutte quelle cose che oggi ci fanno sentire diversi, “nerd”, diciamo con una certa supponenza, come se fosse una bella cosa; ancora fingiamo di non ricordare che vent’anni fa, quando quel termine esisteva solo in qualche film americano, l’aggettivo che ci veniva appioppato più frequentemente era il suo esatto omologo italiano, “sfigato”.
Ma sarebbe limitativo definirlo un fumetto per appassionati di cinema e fumetti e cartoni animati giapponesi, perché alla base c’è quell’altra cosa che accomunava tutti quanti e su cui sono stati scritti libri e canzoni, l’infatuazione impossibile segreta e non corrisposta verso una ragazza che poi però. Ed è raccontato con un’ironia devastante, e quando si vanno a toccare corde più amare viene fuori una profondità e uno spessore che per esempio nei telefilm de I Ragazzi Del Computer Richie non aveva e Alice sotto sotto secondo me ci stava male. Dei disegni non ne parlo, che raccontata ci può perdere (cit.), vi rimando al suo blog così vi fate un’idea. E andateci, che ne vale la pena.

Il secondo libro lo sto leggendo sul cellulino, ed è la conseguenza di un altro libro che ho letto sul cellulino.

Del libro di King dirò solo, per chi non lo conosce, che è un incrocio fra Ritorno Al Futuro, Ricomincio Da Capo e JFK. E che è bello, lo ripeto, ma tanto.Quell’altro si chiamava 22/11/63 ed è l’ultima opera di Stephen King. E mi è piaciuto di brutto. Non che fosse il primo libro di King che leggevo, ma da un po’ mi ero scoglionato dei suoi finali con gli psicomostri che sconfiggi solo accettando che fare la pipì  letto quando hai tre anni è normale e nell’armadio ci vive solo il maglione brutto che ti ha fatto la nonna e che ti punge il collo, e l’avevo mollato. Poi è uscito questo, ho letto un paio di recensioni positive, ho letto due righe di trama e ho pensato che i viaggi nel tempo hanno sempre il loro fascino, e ho deciso di provare. E me lo sono scaricato a babbo in inglese per leggerlo sul telefono. E poi anche la sua traduzione in italiano, per le parti che non capivo in originale. E poi si, signora SIAE, me lo sono anche comprato in cartaceo con tanto di ricevuta fiscale, ma è solo per averlo nella libreria. E comunque da quando si è presa le piattole dovrebbe abbassare un po’ il tariffario, lasci che glielo dica sinceramente.

L’altro libro è citato da Stephen King in coda al romanzo e viene definito uno dei migliori romanzi sui viaggi nel tempo, e dato che l’argomento mi intriga sempre, anche e soprattutto dopo la lettura di questa roba qui sopra (ma ammetto che l’essermi svegliato l’anno prossimo cinque minuti fa mi ha influenzato non poco) ho pensato di procurarmelo. Si intitola Indietro Nel Tempo e l’ha scritto Jack Finney, che in Italia non conosciamo soprattutto come l’autore de L’Invasione Degli Ultracorpi, che ricordiamo giusto io, i miei amici e Zerocalcare.

Non posso raccontarvi molto a riguardo perché l’ho appena cominciato e interrotto per divorarmi l’armadillo, e per adesso non è successo niente, ma comincia a New York sulla 54ma strada, e già per questo mi è simpatico. Però mi piace di più come scrive King.

 E passiamo all’ultimo, che non lo sto leggendo anche se ce l’ho lì sul comodino, ma me lo sto ascoltando in macchina.
Si chiama Hanno Tutti Ragione, di quel regista stralunato che è Paolo Sorrentino, e in questo caso va citata anche la straordinaria voce narrante di Toni Servillo.
Non lo so se letto con la voce della propria mente questo libro renderebbe così bene, ma da una settimana, nel tragitto casa-lavoro e ritorno, accendo l’autoradio e stacco il piede dall’acceleratore per godermi qualche minuto in più di quel presuntuoso cialtrone di Tony Pagoda. Il tono è a metà fra l’ironico e il drammatico, un momento ti costruisce la più raffinata delle metafore per spiegarti il vuoto che si porta dentro l’animo il protagonista e in quello successivo ti spara una cazzata talmente cafona e volgare da farti spruzzare sangue dal naso dal ridere. Gioca sugli accostamenti Sorrentino, e lo sa fare bene, la storia scorre piacevole, su toni di grigio interrotti qua e là dalle colorate descrizioni dei personaggi di contorno o dalle strisce bianche che Pagoda si tira di continuo.

Per la verità ce ne sarebbero altri di libri, la biografia di Butch Cassidy che ho interrotto per colpa dei viaggi nel tempo, quello che ho interrotto per colpa di Cassidy e via risalendo, ma non voglio rubare il mestiere a chi i libri li recensisce (e li legge) con maggiore disciplina, e poi ho davvero una guida di Londra da terminare.

Vai a comprare le cipolle e intanto che sei al supermercato a girare per gli scaffali pieni di confezioni colorate e cartellini segnaprezzo che dovrebbero stare in gioielleria e non certo sul banco del macellaio ti viene in mente di comprare anche un po’ di macinato, che magari domani fai le polpette col coriandolo, e questo ti ricorda che sei rimasto senza peperoncino, e da un po’ non ti fai una bella aglio olio torrida, tipo quelle che improvvisavi con gli amici il sabato sera tardi, un po’ alticci dalle serate nei locali, più per fame di spirito che di stomaco. Nello scaffale delle spezie ci sono un sacco di bottiglini dai nomi sconosciuti, sembra il laboratorio dell’alchimista, vorresti comprarli tutti per sentire che sapore hanno, ma farebbero la fine del dragoncello nella credenza, ancora fasciato nel cellophane, non dico la pietra filosofale, ma un pesce magari ce lo potevi anche condire da quando l’hai comprato l’anno scorso. Alla fine esci dal supermercato con una borsa piena di roba, verdure, pane, merendine, cose di cui non avevi veramente bisogno finché non ci sei capitato davanti, ma è solo a casa che realizzerai che alla fine le cipolle non le hai mica comprate.

Dimenticare.

Il cervello è più evoluto di un computer, può fare miliardi di calcoli in un tempo così breve che neanche ci accorgiamo di averli fatti, può collegare il profumo di una donna che ti incrocia nel parcheggio con quello del glicine in fiore sulla strada che percorrevi per andare a scuola in terza elementare, in un paesino di campagna perso centinaia di chilometri di anni fa, ti sveglia in piena notte col ritornello della canzone più stupida e odiosa di quest’estate troppo calda e breve, e poi non ti avvisa che stai uscendo dal negozio senza la cosa che eri partito per comprare. Non ti dice che è il compleanno della tua ragazza fino a cinque minuti dopo l’orario di chiusura dei negozi. Ti confonde il nome della persona che ti ferma per strada con un sorriso da qui a lì e che ti grida “Ma che sorpreeesaaa! Da quanto teeempooo!” con quello di una vecchia conoscente morta sei sette anni prima, e resti lì a chiederti se sia il caso di spararle in testa prima che ti divori, ma no, gli zombi non parlano, soprattutto non così tanto, ma non ci sta mai zitta questa? Forse sarebbe il caso di spararle comunque. È totalmente inaffidabile il cervello, non puoi assegnargli neanche il compito più semplice quando non ha voglia di lavorare, non c’è verso.
E poi una sera sei in giro e ti fermi a guardare un paio di scarpe in una vetrina, un paio di scarpe talmente assurde che è difficile immaginarci i piedi di qualcuno dentro, e ai margini del tuo occhio una figura di donna ti scivola accanto, sbucata all’improvviso dal vicolo, e si allontana, e non devi neanche alzare gli occhi da quelle suole verde acido per sapere chi era, la macchina perfetta che ti si annida fra le orecchie ti ricorda in un attimo il suo nome, i suoi occhi curiosi, e poi la voce incazzata che aveva l’ultima volta che ti ha parlato, saranno otto anni fa, quando ti ha sbattuto il telefono in faccia ed è uscita una volta per tutte dalla tua vita. O così credevi, una volta per tutte è un periodo di tempo troppo breve, a quanto pare. Oppure non era lei, la storia che si era trasferita in America e aveva cambiato sesso e si era candidata coi repubblicani ed era diventata governatore della California poteva anche essere vera, un’occhiata fugace è poco per riconoscere qualcuno, chissà chi hai visto passare, magari era una che le somigliava soltanto. E poi questa portava gli occhiali, lei mica li ha mai messi. Si, è vero che non ci vedeva un cazzo e ne avrebbe avuto bisogno, ma con quella montatura così pesante? Beh che c’è? Sono di moda, fanno hipster. Cos’è che fanno? Hipster. Si, vabbò, e le scarpe di plastica color anniottanta fanno schifo, cosa dobbiamo, accamparci davanti a questa vetrina? Metti che passa qualcuno che ci conosce e pensa che ce le vogliamo comprare.
Metti che qualcuno che conosciamo sia già passato.

Litigare col proprio cervello è una cosa che nessuno dovrebbe mettersi a fare per strada, gesticolare da soli è già bizzarro quando hai un auricolare all’orecchio. E poi non riesci mai ad aver ragione quando litighi col tuo cervello, ce l’ha sempre vinta lui, ma per forza, noi siamo il nostro cervello, tutta questa struttura di ossa e muscoli e occhi e capelli e denti e odori è solo un abito che indossiamo per portarci in giro, perciò alla fine è il cervello che ci dice cosa dobbiamo rispondere alle sue insinuazioni, e così ci frega. Bel bastardo il cervello, ci credo che tanti alla fine scelgono di dar retta al cuore.
Non è che voglio dar loro torto, ma ci sono momenti e momenti, c’è la volta che devi lasciarti andare e agire d’istinto fregandotene di tutto e c’è il caso in cui è meglio riflettere un momento, magari lasciar sbollire la rabbia, ingoiarla se è il caso, perché non è che puoi andare dal tuo capo e sputargli in faccia e dirgli che è un omino e pretendere di non perdere neanche il posto, mentre è consigliabile non stare a ragionarci troppo quando la ragazza che tampini da mesi ti sussurra nell’orecchio di accompagnarla a casa, anche se puzza di alcool da far lacrimare gli occhi.
Una via di mezzo sarebbe l’ideale, ma non sembra essere stata mai presa seriamente in considerazione, sennò lo avresti sentito dire almeno una volta nella vita, segui il polmone, e cos’è, una campagna contro il fumo? Ascolta il tuo rene, e pigliati ‘sto diuretico.

No, dai, veramente, voglio una terza via che metta d’accordo la testa e il cuore, che ragioni il tempo necessario e poi prenda la decisione più istintiva fra quelle che il tecnico del piano superiore ha tenuto dopo il primo setaccio, non importa che sia quella giusta, basta che non mi lasci dopo a rosicchiarmi le dita e sperare che qualcuno inventi la macchina del tempo nei prossimi cinque minuti. Che potrebbero essere anche i prossimi cinquecento anni per quel che me ne frega, montata su una DeLorean o su una vasca da bagno liberty, l’importante è che compaia qui ora e mi permetta di riparare il casino che ho appena combinato. Sarà possibile abbordare una macchina del tempo?
Tipo che compare all’improvviso un cronoturista, magari uno che voleva visitare l’Egitto dei faraoni e ha sbagliato a digitare le coordinate, immagino che sia un casino guidare una macchina del tempo, o magari voleva proprio venire qui, che nel futuro sarò rivalutato dopo la mia morte atroce in un incidente stradale fra un pullman di malati terminali e uno di leghisti, e non voglio sapere su quale dei due mi trovavo, e il cronoturista voleva conoscermi per sapere chi era Pablo Renzi per davvero, che le biografie nel futuro le scriverà tutte Pansa. Cosa faccio, gli mollo una gomitata nei denti, gli frego la cronovespetta e via? Non fa fico da fare a un fan in fieri, meglio considerarlo un turista farai-da-te.
Lo sradico dal sedile, rimetto in moto prima che abbia il tempo di dire macheccacchio e via, indietro il tempo necessario a fare quel che devo fare, la soluzione perfetta che ti viene solo dopo, quando il cervello ha potuto elaborare tutte le soluzioni possibili anche se ormai non c’era più niente da fare, solo per far passare il tempo e tenersi impegnato in azioni diverse dall’implodere, che il cervello o elabora o implode, non ha altre funzioni, se potesse anche giocare a tetris mi vedreste appoggiato a un muro con lo sguardo perso nel vuoto a canticchiare una musichetta di ispirazione sovietica, inerte al mondo, forse è meglio così; poi il cervello ha passato al cuore le strategie più valide, con una nota allegata che diceva “vedi un po’ tu cosa ne pensi, le altre facevano tutte schifo o avevano come conseguenza diversi anni di carcere” e anche lui si è messo lì, ha tirato un sospirone e ha detto vabbè, andiamo avanti, le ha vagliate tutte e ha scelto l’unica possibile, la soluzione che mette d’accordo il cuore e la mente.
Solo con la cronovespa puoi farlo, ti è stata data la possibilità unica di cambiare il corso della tua vita, hai quell’unica finestra temporale per tornare indietro e modificare il passato, rimettere d’accordo il te stesso di ieri con quello di oggi, una cosa che tutti sognano e nessuno sa.

E allora torno indietro a quella sera davanti a quella vetrina, parcheggio sul marciapiede, che voglio vederli i vigili a risalire al proprietario del veicolo, e stavolta entro nel negozio e vado dritto dal commesso e mi ci piazzo davanti e glielo dico cazzo, glielo dico, gli dico ma chi le compra delle scarpe di plastica rosa con la suola verde acido, eh? Le tue scarpe fanno cagarissimo! E poi me ne vado, risalgo sul cronomotorino e torno da dove sono venuto, mi scuso col turista che è ancora lì a massaggiarsi la bocca e gli offro il caffè e l’ammazzamedesimo, e poi riprendo a vivere la mia vita, padrone di un nuovo equilibrio interiore che mi fa vedere le giornate sotto un altro aspetto.
Fine, titoli di coda, si accendono le luci in sala e il pubblico esce sollevando il mento e spingendo le labbra all’infuori, nel gesto internazionale della perplessità. L’avranno anche candidato a Cannes, ma secondo me era meglio se andavamo a vedere l’uomoragno.

E la tizia di prima, mi chiederete? Vedete, il fatto è che il nostro cervello è una macchina straordinaria che può riportare alla luce volti e profumi lontani ere geologiche come se fossero stati lasciati lì un minuto prima, e certe volte quando succede riceviamo delle sberle da farci traballare, ma alla fine lo sa anche lui come funziona il tempo, e si adegua. Gli orologi vanno sempre avanti, e se non lo fanno sono da riparare, e questa che sembra una banalità è invece una regola fondamentale per vivere serenamente. Perché anche noi siamo creature unidirezionali, non possiamo saltare avanti e indietro come ci pare, dobbiamo essere coerenti col nostro destino e lasciare i ricordi ad ammuffire dove meritano, in qualche angolo del cuore, sui vecchi diari, in una foto spiegazzata o per la strada. È anche una forma di rispetto verso la via che abbiamo percorso, che a cambiarla continuamente finisci per non arrivare mai da nessuna parte. Ed è una dimostrazione di maturità, che non ce l’hai più vent’anni, prendi una direzione e che sia quella, cristodiundio. Insomma, va bene sgranare gli occhi e smettere un secondo di respirare, ma a meno che non ti sia venuto un ictus poi devi ricominciare e fare come se, e non è fingere che sia come se, è proprio così, per il discorso di prima, e tutto il resto sai cosa? Meh.

Ultimo giorno di punti, quindi torno all’Inail a perdere mezza mattinata nelle sadiche mani del professor Mengele. Ho appuntamento fra le dieci e mezza e le undici e mezza, ma siccome il dottor Morte mi ha chiesto di essere lì un po’ prima per non ritardargli la pausa pranzo faccio in modo di palesarmi in sala d’aspetto verso le undici meno dieci. Faccio anche bene, che tanto prima di mezzogiorno e mezzo non mi riceve.
Probabilmente sono io che non capisco e immagino i medici chiusi nei loro stanzini a chiacchierare di calcio e bere caffè, col Secolo XIX davanti, in quei venti-quaranta minuti che passano fra l’ingresso di un paziente e il successivo. È che mi sembra inverosimile che ci voglia tutto quel tempo, se io stesso per farmi togliere quattro punti ci perdo meno di cinque minuti a botta.
Ma è certo il frutto della mia mente abituata a pensar male, la verità è che questi poveri schiavi del lavoro passano tutte le quattro ore giornaliere a ricucire sistemi nervosi spezzati, si sfiancano in delicati interventi a cuore aperto e i miei cinque minuti di scucitura sono l’unico svago che riescono a concedersi. Un monumento ci vorrebbe, altroché.

Esco che c’è il sole. Mi compro un panino merlino e uno alla salsiccia di cinghiale al Gran Ristoro di Sottoripa e me li vado a mangiare sugli scalini di Matteotti, ma è una sosta breve.

Nonostante il bel caldo e la posizione invidiabile sui passanti fra il figo e il bizzarro che escono dall’androne del palazzo preferisco dirigermi subito in stazione invece di provare il wifi gratuito del centro. È che non mi riesce di fermarmi a godere del presente, sono sempre proiettato verso qualcosa che deve arrivare, un posto diverso, qualcuno che non c’è. E poi dicono che viaggiare nel tempo sia impossibile. Come me lo chiamano allora questo muoversi sempre al di fuori del presente? Stamattina leggevo un articolo serio sui viaggi nel tempo, in cui si sosteneva che spostarsi all’interno della quarta dimensione crea una curva chiusa con delle sue regole precise, tipo che non puoi uccidere tuo nonno e sperare di non nascere più, o non spostare niente altrimenti Homer si troverà a vivere in una realtà paradossale che non ricordo bene, che quella puntata l’ho vista tanti anni fa. Il discorso è da ampliare, io ne sono la prova.

Sul binario di Brignole ci sono due tizie che hanno deciso di condividere il mio spazio sulla panchina, e si sono messe una sulla mia e una su quella di fronte, per potermi disturbare meglio col loro chiacchericcio. Una si chiama Celestina come non so più quale papa, ed è nata il 18 maggio come lui. L’altra raccoglie l’assist dell’amica e le racconta di aver voluto chiamare sua figlia Celeste, ma suo marito insisteva nel volerla chiamare Bianca. E lei si impuntava, Celeste! E lui Bianca! Alla fine è nato un maschio, e l’hanno chiamato..

Avrei voluto intervenire e dire “Cartazucchero!”, ma rischiavo di farmi coinvolgere in una conversazione, e non avrei più potuto raccontare questo simpatico aneddoto. E poi era una battuta un po’ stantia.

Comunque l’hanno chiamato Andrea, perciò alla fine Cartazucchero sarebbe stato anche meglio come nome.

Prima di pranzo sono passato ai Grandi Magazzini Le Predon e ho finalmente venduto il mio libro a Lucilla, dopo settimane che mi tampinava con messaggi sul cellulare, telefonate a qualunque ora del giorno e della notte, email lunghissime e alla fine anche qualche minaccia. Mi sono sentito una puttana a farmi dare i 10 euri del prezzo di copertina, nonostante sia una gran scassacazzi è pur sempre un’amica, e non mi piace prendere soldi dagli amici; oramai dovrei averci fatto l’abitudine, li ho chiesti anche a mia nonna quando gliel’ho portato all’ospedale, il giorno prima che morisse. Poverina, le tremavano le mani mentre frugava nel portafoglio, raccoglieva le monete, le sparpagliava sulle coperte cercando di contarle. E come mi guardava quando si è resa conto che mancava un euro e settanta! Le ho detto che non importava, che sarei passato il giorno dopo a prenderli, e il libro gliel’ho lasciato lo stesso.

Aver saputo che sarebbe morta il giorno dopo mi sarei portato via almeno la bottiglietta di acqua minerale.

Coi dieci euri di Lucilla invece mi sono ubriacato come un poeta maledetto, ma non trovando bar che vendono l’assenzio a due euri a bicchiere li ho spesi tutti in boeri. Non so se alla fine stavo più male per il rum del ripieno o per la cioccolata nauseante. Che vuoi farci? Non si è mai sentito di poeti maledetti che si bruciavano l’esistenza in gelati al pistacchio, ho dovuto adattarmi, e poi si sa che la strada verso il successo è irta di ostacoli come i 4000 siepi.

A casa ho aspettato l’idraulico, che doveva controllarmi la vaschetta del bagno, ma ha detto che sarebbe arrivato tardi, lasciandomi il tempo di andare a comprare per la cena.

Ho preparato una suprème di pollo, che ha un nome parecchio ridondante per essere della carne bollita con la maionese, ma in fondo è colpa mia, devo smetterla di cercare le ricette su “In cucina con Ronald McDonald”.

Per non subire gli strali della cuoca di casa ho preparato in fretta un piatto di riserva, nel caso il primo non fosse andato a buon fine, e in quel momento è arrivato l’idraulico, tutto sporco di calce. Sta costruendo l’acquedotto appena fuori del paese, un’opera colossale visibile anche dallo spazio, con ponti a sei piani di arcate, statue raffiguranti Giove Pluvio e tutte le divinità minori, che lo spazio è tanto e solo con le maggiori non lo riempiva. Dice che vuole entrare nel guinness dei primati come l’idraulico che ha costruito l’acquedotto romano più grande del mondo, ma secondo me non glielo omologano, lui mica è romano, è calabrese.

10/01/2010 Ancora per poco, e francamente dovrei andare a dormire prima che diventi l’undicizerouno, che domani si lavora, ma ho aperto un vecchio file e mi sono perso a leggerlo, da solo in cucina, davanti alla stufa accesa, in balìa dei ricordi.

È una raccolta di lettere che scrivevo a un amico anni fa, quando avevo venduto l’anima a una tizia, per raccontargli come andavano le cose. Lo tenevo aggiornato, che scrivere mi faceva bene, perciò è raccontato quasi in tempo reale. Quando la faccenda è arrivata a una conclusione ho ripreso tutto e l’ho trasformato in una specie di racconto/diario che a rileggerlo è molto divertente. È anche molto patetico, perché ad un certo punto, quando sembra che ne sia uscito, faccio come i tossici e ho una ricaduta pesante e mi do via come a un’asta di fallimento. Ed è anche istruttivo, perché riletto a distanza di sicurezza vedo tutto con occhi diversi e mi rendo conto di quante inutili seghe mentali mi sono fatto e di come ribaltavo le cose che mi diceva per trovarci un filo di speranza a cui attaccarmi. Alla fine aveva quasi ragione lei. Quasi eh, che certe cose successe dopo non sono giustificabili neanche ora che riconosco i miei errori, e neanche certe cose successe prima, o durante, o certe altre che ora posso dirlo sapevo benissimo e fingevo di ignorare, attaccato a quel filo bavoso di cui sopra.

È un racconto, questo che ho passato la serata a leggere, che finisce di colpo e pure male, non perché il finale sia triste, quanto perché la storia è andata avanti ancora a lungo, in un crescendo di paranoie, chiacchiere e cadute di stile. C’è ancora rancore e vergogna nel seguito della storia, riportato fedelmente sulle pagine del vecchio blog, e ironia, per fortuna, che sennò avrei già indossato la cravatta che va all’insù, e il finale vero, quello definitivo, è solo accennato, non dà soddisfazione, come tutte le storie vere arriva e basta, senza esplosioni e voci fuori campo e dolby surround. Il finale è una telefonata breve in un giorno freddo, per dire scusa ma basta. Non attira pubblico al botteghino, ma stasera, seduto davanti alla stufa accesa, quando anche Jack si è arreso e se n’è andato a dormire, è il ricordo più appagante che ho.

“Dovrei pubblicarlo”, mi dico ogni volta che lo leggo, solo che ora che sarebbe solo un racconto divertente patetico istruttivo e incompleto è soprattutto irrilevante, e quindi anche stavolta rimarrà lì.