La sveglia è d’obbligo quando stai cercando di raggiungere un paese lontano e poco frequentato, e l’unico treno parte alle nove di mattina, così alle sette si accende il televisore in camera e un’aria di Mozart mi viene a soffiare lieve nell’orecchio, sussurrandomi “Soll ich dich, Teurer, nicht mehr sehn?”. “Vaffanculo” gli rispondo io, ma ha ragione, devo alzarmi o resterò bloccato a Zagabria tutto il giorno, con tutti i posti peggiori dove rimanere piantati sarebbe disagio sprecato.

Scendo a fare colazione e ritrovo il mio nuovo amico della reception, Zagor.
Mi ha accolto all’arrivo, e mentre sbrigava le formalità con piglio poco professionale, come quando capisci di potertelo permettere, che il cliente ti fa simpatia, io gli fissavo il cartellino col nome, e mi ripetevo noncipossocredere noncipossocredere.

Sfatiamo subito il mito: lo Spirito Con La Scure non è alto, moro e muscoloso, è un quarantenne pelato e sovrappeso, con un paio di baffetti e occhiali dalle lenti rotonde. Una specie di Cico, insomma. In italiano sa dire solo grazie e ciao, ma con l’inglese se la cava abbastanza bene. Però è vero che è molto cordiale e se può cerca di risolverti i casini.

Prima di salire in camera gli ho chiesto dove potevo andare a cena, e mi ha indicato qualche posto, poi ha capito che non avevo capito e si è offerto di accompagnarmi, che tanto smontava entro un’ora. E ti pare che rinuncio ad andare a cena con un eroe dei fumetti? Sono andato a farmi la doccia e ridacchiavo pensando che se tanto mi dà tanto prima di tornare in Italia incontro Batman.

Un’ora dopo passeggio per il centro con la mia guida, e mi perdo in riflessioni sulla difficoltà ligure di fare amicizia e sulla mia in particolare di chiedere indicazioni, e forse dipende dal fatto che siamo quasi colleghi, più per la professione alberghiera che per quella di angelo custode degli indiani algonchini.
La strada sale, e finiamo in una piazza dove sorge la chiesa dei lego, con le tegole colorate a comporre due bandiere. Il ristorante è subito dietro, alla fine di un vicolo. Ha una botte davanti alla porta e i tavolini sulla strada, ne occupiamo uno.

“Allora, dove vai?”, mi chiede Zagor, distogliendomi dal grande interrogativo della serata: sono pronto a mangiare le rane col prosciutto?
“Sarajevo”, gli rispondo, mentre scuoto decisamente la testa e mi oriento verso meno ardite frittelle al formaggio.
“Per lavoro?”
“Turismo. Più o meno”. Non gli spiego tutta la faccenda, né lui mi domanda, e torniamo ad argomenti meno spinosi. Gli confido le mie incertezze sul fatto che da quelle parti non ho praticamente organizzato nulla, ho giusto qualche indirizzo di alberghi qua e là, ma pare che non ci sia tanta richiesta, mi hanno detto di andare tranquillo.
“È un peccato che pochi turisti visitino la Bosnia, perché è un paese molto bello. Basta evitare i campi minati e non ci sono praticamente pericoli!”
“Hehe! Che stupidi i turisti!”

La notte passa bene, l’anguilla grigliata se ne resta tranquilla nello stomaco senza agitare la coda, e quando scendo alla reception sono pronto per una buona colazione. Il mio problema all’estero è che voglio sempre mangiare le cose dal nome più esotico, e finisco regolarmente per ordinare cose che conosco già e neanche mi piacciono, come la Rožata, che uh chissà cos’è prendiamola, e poi è una quantità spaventosa di creme caramel, e dopo i primi due cucchiai mi sembra di ingurgitare blob.
Stavolta evito la torta alla crema di Samobor, che sarà anche un bel posto, ma quel dolce lì è troppo simile a quelle robe secchine e sbriciolose piene di crema da cui ho imparato a tenermi lontano. Non sono molto aperto ai dolci, non so se si è capito.

Stringo la mano a Zagor, doviđenja, sretan put, sretan put ce lo dici a tua sorella, e sono di nuovo in viaggio.

Il mio primo incontro con la Bosnia-Herzegovina avviene in un posto che si chiama Dobrljin, che suona molto simile a Du belin, e infatti non è che ci sia altro da dire, spero che si tratti di una triste stazione di frontiera e niente più, che se la media è questa scendo alla prossima e torno a farmi una pinta di Velebitsko insieme a Zagor.

Poi la situazione migliora, già a Novi Grad sembra di stare a Busalla, Prijedor sembra Novi Ligure, e alla stazione di Omarska piove e non trovo nessuna differenza con la piana di Arquata Scrivia. Un fracco di chilometri e sono di nuovo dietro casa mia. I uoddefàcc si sprecano.

A Banja Luka il treno si ferma e non riparte più. Che succede? Ci attaccano i serbi? Il controllore non parla la mia lingua né nessuna che conosco, mi fa solo segno di seguire gli altri passeggeri giù dal treno. C’è una coppia di tedeschi con grossi zaini, capisco la nazionalità inorridendo davanti ai calzini sotto i sandali, prima ancora che dall’idioma, e provo a chiedere a loro. Mi spiegano che c’è stata un’alluvione a maggio, e i binari sono ancora fuori uso. Il treno si ferma qui, bisogna travelen mit coach. Cakkien.

Scendo, e le pensiline sono parecchio austere e sovietiche e hanno i cartelli in cirillico, ed è anche una figata a pensarci, solo che io e il cirillico siamo andati in due scuole diverse, e quando lui imparava ad orientarsi nelle città bosniache io leggevo i fumetti del portiere di Zagabria, e l’aspetto da pensilina ma più grossa che ha la stazione mi inquieta un po’, e forse adesso avrei potuto essere da solo sul prato di Gaia a prendere il sole guardando Porto, ma oramai è tardi per i ripensamenti, voglio arrivare a Sarajevo, e si passa per questo squallodromo.

Peraltro ci sarebbe questa cosa della Bosnia Herzegovina che mi inquieta un po’: nonostante guggolmèps lo mostri come uno stato solo quando vai a vedere da vicino scopri che sono due, ma non due regioni tipo Lazio e Campania, due paesi proprio, con due etnie differenti, religioni diverse, tipo Valloni e Fiamminghi, e si stanno sul cazzo da morire. Dove voglio andare io è Federazione di Bosnia Herzegovina, un distretto a maggioranza croata e musulmana, dove sto adesso è Repubblica Srpska, e sono serbi. Quando dico che si stanno sul cazzo da morire intendo in senso letterale.

Ha un suo fascino, se sei un canarino.

Fuori nel piazzale ci sono dei pullman, e su uno leggo CAPAJEBO, che è il cirillico che cercavo: è vero che siamo andati in scuole diverse, ma durante l’intervallo ci incontravamo nel piazzale a scambiarci le figu, così adesso i caratteri li so leggere, anche se di solito ignoro cosa vogliano dire.
O come si chieda “a che ora parte” all’autista, che sta seduto a fumare e non mi caga di pezza, o “dove si fanno i biglietti”, “quanto costa”, “ma è vero che in questa città sono tutti nazionalisti serbi e i bosniaci li vorrebbero sterminare tutti un’altra volta?”, insomma niente, provo a salire, ma le porte sono chiuse, tabacchini non ce n’è, e anche i due tedeschi di prima sono scomparsi verso la città, che per la cronaca sembra la periferia di Alessandria.
Sto seriamente rivalutando Tortona.

Vado dall’autista e lo fisso in mezzo agli occhi, come mi hanno insegnato a fare al corso di Farsi rispettare dal proprio gatto e dagli autisti serbi, e senza paura gli dico “Sarajevo”. Lui neanche mi guarda, alza una mano e col pollice indica un punto alle sue spalle, che potrebbe essere la direzione in cui si trova la città, la stazione da cui sono arrivato o la biglietteria più vicina. Non mi perdo d’animo e gli dico, sempre duro e cazzuto, “ticket”.
“Odjebi”, mi risponde, e la nostra conversazione finisce nel momento in cui cerco di tradurlo col telefono, che in certi frangenti è meglio usare la diplomazia. “Tua sorella” glielo dico in italiano, e me ne vado.

Il cartello col bersaglio indica il centro città in tutto il mondo, credo, ma mi basta che lo indichi in questa città che dal mio privilegiato punto di vista mi offre tante attrazioni quante la corsia del reparto infettivi, così abbandono il piazzale e seguo la freccia. Il cielo si sta facendo nuvoloso, sfoglio un inventario mentale di quello che sto trasportando, e alla voce poncho sospiro sollevato.

Devo trovare un biglietto, ma anche da mangiare, visto che è l’una e mezza, così mi infilo in un barcone sul fiume, dalle parti del castello, che a Banja Luka c’è un castello, e pure una cattedrale che definirei bizantina se avessi voglia e tempo di entrarci, ma ho fame, voglio il mio biglietto che metta a cuccia l’autista del pullman e voglio mangiare, e fra una cattedrale e un fiume scelgo il fiume, che peraltro è un bel fiume pieno d’acqua che corre, e il barcone mi promette di mangiare seduto davanti al fiume, perciò entro senza preoccuparmi del costo, che ho capito che da queste parti posso scialare.

Ho scelto bene, il cameriere parla inglese e lo stufato è straordinario. Gli chiedo dei biglietti, ma non mi risponde, così lo chiedo al cameriere (haha).
Lui mi spiega che li vendono in fondo alla via dello struscio. Non mi dice via dello struscio, ma c’è una strada analoga in ogni città, è quella dove trovi i negozi di abbigliamento e di telefonia, e se la città è abbastanza grande e importante anche quelli di carabattole per turisti e il kebabbaro; a Banja Luka si chiama Gospodska Ulica, è una strada piuttosto breve, ma non le manca niente, per esempio se siete appassionati di farmacie avete l’imbarazzo della scelta.

Sarà la prospettiva, o la voglia di guidare un robottone, ma a me ricorda Gundam.

Il tabacchino è dentro un grosso centro commerciale di fronte alla cattedrale che se avessi tempo e voglia l’ho già detto prima, e ovviamente la signora dietro il banco non parla nessuna delle lingue che conosco. Le chiedo ticket, ma non so dire corriera, autobus, pullman né nessun altro sinonimo compreso torpedone, così le faccio brum brum con la bocca e mimo di sterzare un grosso volante. Ride. Ride anche quando le dico Sarajevo, e mi dà il biglietto. Si vede che era proprio l’autista ad essere stronzo.

Torno al piazzale della stazione, ma il pullman è già partito. Con la mia poca conoscenza dei caratteri russi riesco a capire che il successivo partirà in un’ora e mezza, ma il centro non è proprio dietro l’angolo, non mi ci vedo a tornare a piedi fin laggiù. Mi siedo su una panchina e provo a leggere qualche pagina di questo romanzo che mi sono portato, sperando che succeda qualcosa: è la storia di questo tizio che va a cena di una e la serata si mette bene, solo che lei muore, e lui non è che può chiamare aiuto, cosa lo chiami a fare se tanto è morta, e poi è meglio se non si viene a sapere che eri lì visto che la donna è pure sposata, cioè, lo era, adesso non lo è più, e allora tiriamoci quattro pagine di considerazioni sulla morte senza troppa punteggiatura, alla Saramago, solo che Saramago lo sapeva fare meglio, e poi a metà libro esce di casa e qualche pagina dopo va al funerale di lei e poi mi è venuta voglia di leggere Saramago. Non è un brutto libro, me l’ha consigliato un’amica del cui giudizio mi fido, ed è la ragione per cui trattengo una serie così lunga di sbadigli che se fossero telefilm avrebbero per protagonista Larry Hagman.

Nella prossima puntata vi racconto di Sarajevo, se ci arrjevo.

 

Riassunto delle puntate precedenti:
A parte che se volete sapere cos’è successo ve lo leggete, che basta scorrere col mouse verso il basso, non è difficile neanche per dei ritardati come voi, ma ho deciso di mettere un riassunto perché avevo lasciato la storia a metà di un punto in cui era facile perdersi per chiunque, figurarsi per dei decerebrati come i miei lettori. Non vi ci abituate, la prossima volta invece del riassunto capace che ci metto un quiz a domanda multipla, giusto per vedere se siete stati attenti. Siete delle bestie.

Dicevo il riassunto: Preso il porto di Porto andiamo in stazione a vedere due orari, che c’è da partire, e già che ci siamo cerchiamo una bottiglia di roba bevibile, che quella che abbiamo nel sacchetto è una sbobbazza da turisti.

L’imponente edificio si trova dietro Praça da Libertade, in una zona bombardata dalla crisi e da quella misteriosa voglia di scappare che ha contagiato la città: tutti i negozi chiusi, tutti i palazzi vuoti. Di fronte all’ingresso un leone di pietra sbadiglia di noia a dover sorvegliare una facciata piena di finestre sfondate. Un po’ più in là un palazzo suggerisce di recarsi da lui per comprare bene e a poco prezzo, ma sbirciando le vetrine al pianterreno ti accorgi che dentro non c’è nient’altro che polvere e ragnatele.

Il piazzale della stazione è delimitato da un corrimano in pietra, su cui un distinto signore si appoggia per osservare il viavai dei tram. Ha lo sguardo severo, forse giudica frettoloso quest’abbandono del quartiere, ogni tanto si infila in bocca uno spicchio d’arancia per meglio sopportare la solitudine.
Quando gli passo vicino rigurgita una pallina di bolo arancione giù dal muretto e si mette a sputazzare semi e sugo con un rumore liquido. Entro velocemente in stazione.

L’atrio è sontuoso, tutto ricoperto di azulejos, decorazioni liberty, un bell’orologio in ferro battuto, i barboni se lo devono proprio godere un posto così.
Troviamo l’ufficio informazioni e ne chiediamo alcune per il nostro viaggio dell’indomani a Viana Do Castelo, dove si tiene una delle feste più importanti del Paese.
L’impiegato deve aver passato la giornata ripetendo sempre quello, perché appena gli siamo davanti ci mette in mano un foglio con tutti gli orari utili e inutili, prima ancora che apriamo bocca.
Bene! Lodi sperticate all’efficienza portoghese, che non paga sugli autobus ma ci fa prendere il treno! Andiamo a cercare una bottiglieria!

Dalla stazione giriamo di là, poi andiamo in su verso una strada che non conoscevamo, poi di nuovo in là, e di colpo ci troviamo in un viale pedonale pieno di gente, baretti, negozi di marca, ristoranti, cinema.. La via dello struscio! Ecco perché Porto è sempre deserta, vengono tutti qui!

Ormai è ora di chiusura e metà dei negozi hanno le serrande abbassate, ma c’è ancora molto viavai, la strada è lunghissima, ci vuole un po’ perché si svuoti. Maledizione, abbiamo scoperto l’isola del tesoro a libro ormai concluso, questa volta Jim Hawkins dovrà tornare a mani vuote dalla sua povera mamma. Domani andremo via senza aver fatto neanche un giro in questa parte di città così spendereccia. La lista delle cose da fare nella prossima visita in Portogallo si sta allungando.

Prendiamo una via laterale e arriviamo di fronte al Mercado do Bolhão, e proprio lì accanto notiamo una vetrina piena di leccornie, formaggi di capra, prosciutti affumicati e bottiglie di porto.
Il gestore è un signore molto disponibile che ci fa assaggiare un mucchio di roba mentre la commessa impacchetta la bottiglia di Ramos Pinto che cercavamo. Ecco un altro negozio da tornare a visitare in futuro.

Si è fatta l’ora di cena, contattiamo i nostri amici per darci appuntamento in piazza e andiamo prepararci.
Poco dopo siamo di fronte al McDonalds Imperial di Porto a guardare Alessandro con facce interrogative.

Come sarebbe che sta male? Cosa le è successo?”
Abbiamo passato la giornata a visitare cantine, ci saremo scolati tre bottiglie di porto in due. La poverina non regge l’alcool.”
Ha vomitato?”
Tantissimo. E faceva dei versi orrendi tipo BUAARGH! SBLEEEEUGH!”
Ma che schifo!”
E questo è niente! Quando ha cercato di tenere la bocca chiusa per limitare il rumore sono venuti fuori dei sibili gorgoglianti che mi hanno fatto temere di essermi fidanzato con una creatura inventata da Lovecraft, roba tipo HSSGLGLGLSSSRRRGHSSSGLGLRGH! Senza contare che per la pressione ha spruzzato tutto attraverso i denti, imbrattando le pareti del bagno in un modo che solo a pensarci mi viene voglia di andare a dormire da un’altra parte! Persino il barbone che dorme con noi si è lamentato, ed è uno abituato a vivere duramente.”
Ma se sapeva di non reggere l’alcool perché ha bevuto così tanto?”
Ma ha bevuto pochissimo, giusto mezzo bicchiere, il resto me lo sono calato io. Eppure è bastato quello per farla uscire di testa, prima si è messa a ridere e a cantare stornelli in romanesco in mezzo alla cantina, non vi dico la figura, poi ha insultato il cameriere perché insieme al vino ci voleva anche i popcorn. Figuratevi questo, nella cantina più esclusiva della città una romana ubriaca gli chiede i popcorn, come pensate che possa aver reagito?”
Le ha ricordato chi è il suo presidente del consiglio, suppongo.”
No, ha fatto finta di non vederla. Si è messo a fissare un punto del locale e ci ha ignorati per il resto della degustazione.”
Tipico dei camerieri portoghesi. E poi?”
E poi basta, quando sono riuscito a schiodarla da lì l’ho trascinata fuori.”
Ha dato ancora in ecandescenze?”
No, poi le è venuta la ciucca triste e si è messa a piangere, ha detto che nessuno la capisce, che non ha più l’età per fare la scema, che vuole adottare un gattino e Lazio merda.”
Scusa ancora una cosa, Alessandro..”
Dimmi pure”
Perché sei tutto sporco di sangue?”

Dopo un paio di giri a vuoto optiamo per un ristorante dietro la piazza, un posto mediocre che sta accanto a uno superlussuoso e a una bettola ignobile. Il cameriere è fin troppo gentile, quasi servile nei suoi modi, probabilmente ci odia, anche perché Alessandro gli sta gocciolando sangue sul pavimento da quando siamo entrati.

20/8

Dacci oggi la nostra agonia quotidiana

È il giorno della gita fuori porta, appuntamento in stazione per andare a Viana Do Castelo, dove si tiene la festa annuale di Nossa Senhora De Agonia. Si tratta di una processione, un pellegrinaggio o romaria, come lo chiamano qui. Ci sono donne col foulard in testa e la vetrina dell’orefice appesa al collo, ci sono dei tizi mascherati da giganti, ci sono le bancarelle che vendono prosciutto affumicato, ma soprattutto ci sono i tamburi. A decine, a centinaia, i tamburi sono ovunque, e li senti da lontano col loro incalzare minaccioso, come un battaglione di Uruk-Hai.

La nostra mattina invece comincia col suono più amichevole della macchinetta del caffè del bar in faccia alla stazione. È buono il caffè in Portogallo, non so se l’ho già detto. Il mio preferito è il Delta. Il barista è organizzatissimo, ha coperto il banco di tazzine, ognuna col suo cucchiaino e la sua bustina di zucchero, solo che Marzia vuole due bustine, e ne prende una da un piattino vuoto. A quel punto il barista, che nota l’incongruenza nel programma, si gratta la testa perplesso, quindi sposta una bustina da un altro piatto, ma non risolve il problema. Ne prende una da un terzo piattino e la pone al posto di quella che ha tolto, ma ancora non va. Non si capacita di come possano esserci tanti piattini, tante tazzine, tanti cucchiaini e una bustina di zucchero in meno. Alla fine decide di tirar via tutto dal banco e ricominciare da capo, ma a quel punto noi siamo già andati via.

Arriva della musica dalla stazione, e che sarà? È anche venerdì mattina, non il momento migliore per mettersi ad ascoltare la radio a quel volume che distorce tutto.
Avvicinandoci realizziamo che non viene dalla stazione, ma da un pulmino parcheggiato davanti pieno di bandiere rosse al vento: sono i comunisti portoghesi che distribuiscono volantini. Nella mia vita ho già avuto a che fare coi socialisti di Velletri, ora mi mancano solo i democristiani del Punjab.

Alessandro e Lucilla ci aspettano davanti alla biglietteria, anche loro col volantino rosso in mano. Non c’è niente da fare, per un italiano incontrare un comunista è come trovarsi di fronte un panda nano, lo tratta con ogni riguardo per paura che gli si estingua davanti.

C’è ancora un po’ di tempo prima del treno, giusto quello che occorre per una bella colazione a base di.. “quel tortino lì che mi sembra tanto gustoso”.
Gustoso lo è, niente da dire, ma la carne tritata alle sette e mezza è un ostacolo un po’ difficile da superare.

Il treno portoghese è diverso da quelli italiani, intanto per cominciare funziona, tutto, non una carrozza si e due no, e poi ha le porte che si aprono, i sedili interi, e nonostante questi bonus riesce anche a rispettare gli orari.

Durante il viaggio, che dura un’ora e mezza, si riempie all’inverosimile, tanto che ad un certo punto il controllore deve aprire uno spazio extra in testa al convoglio, dove di solito si tengono le merci ingombranti, tipo le biciclette, o le bare, nel caso di funerale in treno locale, che ultimamente va un casino, ne hanno parlato anche su una di quelle riviste di trend, che è il termine con cui si definisce una moda legata alle ferrovie, trend.

Fra i vari personaggi che vanno alla romaria di Viana notiamo una signora col testone vestita da materasso e la ragazza di Pippo, che è una che conosco io che sta con uno del mio paese, perciò la cosa andrebbe classificata come gossip locale, ma trovandoci su un treno che fa tutte le fermate ci sta.

“Senti un po’..”, mi dice Marzia ad un certo punto, distogliendomi dall’osservazione dei passeggeri,
“Non ti sembra che Lucilla abbia qualcosa di strano?”

La guardo perplesso, poi guardo Lucilla, che è seduta un po’ più in là e dorme col cappuccio della felpa tirato su, poi riguardo Marzia.

“Si, ora che me lo fai notare quel cappuccio la fa sembrare uno degli avvoltoi di guardia al castello del Principe Giovanni, nel Robin Hood della Disney.”
“Ma no, guarda meglio!”

Riguardo meglio, ma continuo a non vedere niente di strano.

“Ha il push-up?”, azzardo.
“Secondo me non è lei.”
“Come non è lei? E chi dovrebbe essere?”
“Ieri sera Alessandro è venuto al ristorante da solo, dicendo che lei stava male, ed era tutto sporco di sangue.”
“Si, ha detto che si è ferito radendosi.”
“Ma non si era fatto la barba! Non ti sembra una cosa strana?”
“No, anch’io di solito mi ferisco radendomi e poi non mi faccio la barba, perdo tanto tempo a ricucirmi le ferite che non me ne resta più per fare altro.”
“Io credo invece che l’abbia uccisa e poi sostituita con un sosia!”
“Quando torniamo a casa ti tolgo la televisione, vedi troppo Chilavisto!”

Al momento di scendere passiamo per il compartimento extra di cui sopra, che alla fine del viaggio ospitava fra le settanta e le ottocentoventi persone, ha raggiunto una temperatura e un tasso di umidità che neanche in India e quando si aprono le porte ed entra l’aria più fredda dell’esterno comincia a piovere.