Sorridi più che puoi. Non ti stai portando il mondo sulle spalle, te lo puoi permettere. Almeno è ciò che lo Yogi Madonna Di Lorheeto ha dichiarato ieri sera da un palco allestito in economia nell’atrio di Palazzo Ducale, a Genova.

Trattandosi di uno dei maggiori leader religiosi della nostra epoca ci si sarebbe aspettata una maggiore considerazione da parte della città, ma a breve verrà a visitarci il Papa, e si temeva un incidente diplomatico. Per la stessa ragione è stata negata una conferenza al capo del Movimento Adoratori Di Vega, che aveva chiesto di bombardare la città coi minidischi e un paio di mostroni giganti, e di poter scrivere sulle rovine con una bomboletta “La mamma di Goldrake è una zoccola”.

vabbè, facile attirare lettori con ste foto

Mi trovavo fra il pubblico, non tanto in veste di fedele quanto di accompagnatore e autista della mia insegnante di meditazione, la Signorina Jodel. Ne avevo perso le tracce qualche post fa, e la credevo occupata al museo delle rane parlanti, o qualcosa del genere, e invece viene fuori che era in Corea del Nord, ed è tornata apposta per incontrare il suo idolo.

“E che ci facevi in Corea del Nord? Creavi ransomware?”

“Studiavo la felicità artificiale. Vedi le foto di quei posti lì, le poche che il governo lascia circolare, sono tutti felici. Osannanti, quasi. Ma lo sono davvero? Così sono andata a vedere se è solo propaganda o qualcuno riesce a essere felice anche in un posto che sembra un quadro di De Chirico in scala di grigio.”

“Io conosco uno che ha la faccia da Corea del Nord. Ma non che somigli a un qualche coreano, somiglia alle foto dei palazzi, alla gente felice per finta, ai viali deserti, alla rigidità, alla censura, alla tristezza cui hanno spalmato in faccia un dito di colore per venderla all’Occidente.”

“Ma è proprio quello il punto, chi lo dice che questi non lo sono davvero, felici? È facile dire che glielo impongono, ma quando li conosci e ci parli ti accorgi che quelli sono felici davvero di vivere in una prigione, perché non hanno mai conosciuto altro. Per loro quella è la libertà, e gli va bene così. Che diritto ha l’Occidente di imporre il proprio modello? Chi l’ha deciso che la nostra felicità è più autentica della loro?”

“È una gara a chi abita il paradiso artificiale più vero, tipo?”

“Sembra una canzone di Vasco Brondi.”

Sul palco si muove qualcosa. Entra lo Yogi Madonna Di Lorheeto accompagnato dall’interprete. Il primo è il classico santone indiano col sari e i capelli lunghi, bianchi e sporchi. È scalzo, come da copione, e sorride a tutti. L’interprete indossa un cardigan grigio e la stessa camicia azzurrina che vedevi una volta addosso ai controllori del treno. Sembra uno appena arrivato lì dall’ufficio, sono un po’ deluso.

È lui a tenere il microfono in mano, comunica alla folla che adesso Yogi Di Lorheeto risponderà alle domande dei fedeli. Fermento. Qui è dove una processione di esaltati gli chiederà in decine di modi diversi perché non riescono a trovare qualcuno che se li scopi come si deve. Non vedo l’ora.

Il primo è un ragazzo rasato con la barba e la voce da adolescente, maglietta verde militare e cargo shorts. Un po’ di pancetta, anfibi slacciati. Ringrazia il santone dell’opportunità che gli ha concesso e fa un lungo preambolo dove si capisce che non ha niente da dire, ma voleva dirlo davanti a tutti. L’interprete traduce per un po’, poi ringrazia il giovanotto e lo invita a liberare il palco. Yogi Di Lorheeto mantiene il sorriso serafico di quello che è presente col corpo, ma nella fantasia sta girando un porno con tre studentesse di architettura.

Dopo il fanatico si presenta Jabba The Hutt coi capelli lunghi e gli occhiali. Non mi azzardo ad assegnargli un sesso, preferisco parlare solo di quello che posso confermare. È prigioniero in un abito da donna a righe colorate orizzontali che gli si gonfia nei posti sbagliati. Proprio al centro della figura, per esempio, le righe colorate famose per il loro potere snellente faticano un casino a nascondere una panza tonda che disegna sulla figura un cerchio quasi perfetto. Sembra che qualcuno abbia messo delle gambette tozze al monoscopio della Rai.

“Maestro”, geme la figura, “Ho passato gli ultimi anni della mia vita a inseguire la carriera, tralasciando l’amore e la famiglia. Adesso però comincio a credere che sia venuto il momento di fermarmi e guardarmi intorno, solo che gli uomini che avvicino mi snobbano, chiaramente intimoriti dalla differenza di ceto sociale. Sono una donna semplice, non mi curo di queste minuzie, per me l’amore non conosce classi. Sono convinta di saper amare anche un uomo molto più umile di me, ma temo che per lui non sarebbe così semplice convivere con una upper class. Potrò trovare qualcuno che mi ami per quella che sono realmente?”

Il santone ascolta la traduzione del suo assistente, poi gli sussurra qualcosa all’orecchio. L’interprete prende il microfono e fa: “Tesò, è buddismo, mica Mandrake”.

La ragazza, azzardo a definirla ragazza dai, scende dal palco, e al suo posto si presenta uno biondo coi capelli arruffati e degli occhiali spessi, che tiene per la coda un gatto morto. Borbottii del pubblico. Le zampe rigide della povera bestia gli sbatacchiano sui pantaloni di una tuta consumata sulle ginocchia e sugli orli. Dice di chiamarsi Giulio. Mostra il cadavere prima al pubblico e poi al santone, come un prestigiatore. Mi aspetto che adesso entri una valletta con una cassa di legno e ce lo infilino dentro, poi si faccia il trucco della sega, tanto anche se non dovesse riuscire il gatto è già morto.

Il tizio spiega che quel povero essere che gli penzola dal braccio è sua madre, mancata all’improvviso quando lui aveva sei anni. Altri borbottii dal pubblico mescolati a grida di stupore.

Dopo la sua dipartita la donna si è reincarnata in un lucherino, che per quelli poco interessati all’ornitologia sarebbe un passeriforme della famiglia Fringillidae.

L’uomo ha voluto così bene a quell’uccellino, gli parlava, ci si confidava, gli chiedeva consigli ai quali il piccolo volatile rispondeva spesso saltellando a destra e a sinistra sul bastoncino di plastica che attraversava in larghezza la piccola gabbia.

Un lucherino vive in media fra i cinque e i sei anni, quello di Giulio è arrivato a otto, ma alla fine anche lui ha lasciato nel cuore del padrone lo stesso vuoto di mamma. Per fortuna la nuova reincarnazione è avvenuta immediatamente, in un cagnolino di nome Charlie, un piccolo terrier bianco su cui l’uomo ha riversato tutto il proprio amore. Quanti anni felici col piccolo Charlie, a correre per la strada, a dormire abbracciati sul divano! A differenza del lucherino Charlie era capace di manifestare il proprio amore quasi come faceva la mamma, non sapeva rimboccare bene il letto, era piuttosto più dotato nel disfarlo, ma quei baci così teneri non li riceveva più da quando mamma era ancora con lui. E in questi c’era pure la lingua, elemento di cui i suoi compagni di scuola parlavano con rispetto reverenziale durante le riunioni sediziose della ricreazione.

Tre anni dopo anche Charlie se ne andava, ucciso da un autobus distratto.

Il finale di questa triste storia lo immaginiamo tutti, ma Giulio ci stupisce, chiedendo a Yogi Di Lorheeto se può interrompere il ciclo eterno della reincarnazione.

Ogni volta che perde sua madre, dice l’uomo, è come se un pezzo di lui smettesse di vivere. Sente che se continuerà a subire queste amputazioni si trasformerà in un sasso, incapace di provare alcuna emozione. Una vita senza emozioni non vale la pena di essere vissuta, dice. Preferisce essere un uomo solo e alla deriva, ma capace di sperare che un giorno la sua vita si rimetterà in moto, piuttosto che una creatura apatica che aspetta di morire come si aspetta il proprio turno alle poste.

Yogi Di Lorheeto sembra soppesarlo. Lo guarda in silenzio, lisciandosi la lunga barba.

Poi dice: “Amico mio, guardare sempre al passato non ti permette di vedere il futuro. Ti sei legato al ricordo di tua madre come se solo lei potesse garantirti la felicità, ma l’unico responsabile della tua felicità sei tu. Getta via questo dolore e smetti di delegare la tua vita a qualcun altro.”

“Certa gente la felicità non la sentirebbe neanche se gliela piantassi in testa a martellate”, commenta la Signorina Jodel.

“È un accostamento interessante, la felicità e le martellate. Un po’ mi ci riconosco”, le dico.

“Nah. Tu sei prigioniero dentro schemi più complessi, non ti bastano due formulette per tirartene fuori.”

“Magari è proprio dalla mia vita che dovrei tirarmi fuori”

Mi riferisco alle cose che faccio senza appagamento, ma la frase suona sinistra come una lettera lasciata sul tavolo di una stanza vuota, al settimo piano con la finestra spalancata.

Inizio a calarmi nel solito pozzo nero dell’autocommiserazione, era tutto il giorno che lo aspettavo e nessuno mi aveva ancora fornito una scusa valida. Che se ti ci infili senza scusa poi dicono che ti piangi addosso.

Sono lì che preparo la prima frase d’effetto, “a me nessuno mi ha mai voluto davvero bene”, ma vengo interrotto dalla ragazza che sale sul palco.

Ha un viso scuro, dai tratti che non sembrano europei, e lo ha decorato con punti e linee bianchi e azzurri, che sulla sua pelle risaltano come le lampadine del presepe.

Ogni volta che sorride il bianco dei denti è un faro in faccia.

Non è alta, sotto i larghi pantaloni di tela verde potrebbero nascondersi le mille insidie delle ragazze a forma di pera, ma al posto del camicione copritutto ostenta una fascia di seta grezza che le copre soltanto il seno. I suoi fianchi si stringono intorno alla vita in una curva armoniosa che ti vien voglia di mettere le mani su una bici e percorrerla avanti e indietro. Intorno all’ombelico ha dipinto dei raggi bianchi, così che ora quella curva è illuminata da uno strano sole nero.

Ha delle poppe grandiose.

Invece di fermarsi come hanno fatto gli altri guadagna il centro del palco, si inchina con grazia davanti al santone e poi gli dà le spalle. L’interprete le allunga il microfono e se ne va, dal fondo viene avanti un ragazzo col codino e il sitar, vestito con quello che se non è un copridivano ikea io sono George Harrison.

“Ciao a tutti”, dice lei. “Noi ci chiamiamo Prakaash, che in lingua hindi significa luce. Speriamo di portarvene un po’!”

Attacca a cantare una nenia di due note, accompagnata dal miagolio del sitar, che deforma ogni suono e lo fa sembrare quello di quando provi a suonare un elastico. A me i Kula Shaker piacciono pure, ma se potessi scegliere adesso preferirei Kashmir, dei Led Zeppelin.

“È bellissimo”, commenta la Signorina Jodel, che per queste cose indiane ha un debole. A me fa venire voglia di pizza, non tanto perché c’è qualcosa che me la ricorda, quanto perché quando mi annoio mi viene sempre fame. Però la ragazza sul palco ha unito i palmi delle mani sopra la testa, e agita i fianchi in un modo che qualunque pensiero io riesca a formulare assume di colpo una piega erotica, e così mi ritrovo a sognare mani che pastrugnano mozzarella di bufala e corpi infarinati che si avvinghiano di fronte al forno.

È in quel momento che va via la luce e da qualche parte sale un urlo acuto.

(continua)

Mi sono fatto il mese gratuito di abbonamento premium su Spotify, volevo capire se c’è una differenza fra ascoltare la musica a babbo gratis e ascoltarla a babbo a dieci euro al mese. E poi volevo capire un po’ come funziona il suo servizio di messaggistica, che una volta ho ricevuto un messaggio e ho risposto, ma quando ho provato a scriverne uno io è rimasto lettera morta, come si dice in questi casi, che però non lo so se si dice anche in questi casi, tecnicamente non è neanche una lettera, forse dovrei chiedere all’Accademia della Crusca, se solo riuscissi a trovare il tasto invio.

seh magari

Che sarebbe anche una bella idea, se si capisse come funzionano queste robe di messaggistica musicale, io non l’ho mica capito, uno penserebbe a qualcosa di fighissimo tipo una radio personalizzata col servizio dediche come ai tempi delle radio private che di solito erano private della professionalità e sentivi certi speaker, che allora si chiamavano speaker, mica digèi, che parlavano come se avessero appena scoperto che quel signore all’ospedale che gli ha detto cancro non era un astrologo, e invece qui funziona che scrivi una roba a una persona e ti compare subito la scritta che l’utente in questione non ha ancora ascoltato quel brano che gli hai spedito, e quella scritta rimane tipo per sempre, forse è una scritta standard che compare appena pigi invio e non se ne va più perché quelli che hanno programmato questo servizio di messaggistica si sono dimenticati di scrivere anche il messaggio di conferma, magari erano stagisti, li pagavano in consigli, ed essendo una piattaforma di musica i consigli erano tutti sul genere oh tipo ascoltati questo gruppo cioè troppo figo, che bella soddisfazione, oramai i direttori sulla piattaforma hanno tutti venticinque anni laureati in dodici università prestigiosissime e hanno passato l’adolescenza a sbranare i concorrenti per poter arrivare dove sono adesso, e gli stagisti sono dei poveracci quarantenni riciclati dall’azienda che li ha messi in cassa integrazione, e a quarant’anni ne hai per il cazzo di farti consigliare musica da un ragazzino che ascolta roba che ai tuoi tempi quelli che ascoltavano quella roba lì li emarginavi in una grossa scatola di cemento persa da qualche parte nella nebbia bassopiemontese, e loro erano ben contenti di farcisi emarginare, c’era tutto il mondo lì dentro, si beccava un sacco di figa, mentre fuori, fra quelli che se ne capiscono, c’erano i soliti quattro tizi seduti su una panchina a menarselo con l’ultimo dei Nirvana.

Eppure io mi considero abbastanza al passo con la tecnologia, voglio dire, ho diversi lettori mp3 di cui solo la settimana scorsa ho scoperto la funzione di ricerca per cartella, cosa che ha migliorato enormemente il mio viaggio al lavoro; ho un tablet comprato su amazon per poterci leggere i fumetti scaricati, che è così lento, ma così lento, che quando sei riuscito ad aprire il fumetto che ti interessa è già uscito il numero successivo; ho una chitarra analogica, con le corde vere, il manico di legno e infatti non la so suonare, mi scappa il plettro dalle dita, ci cade dentro, smadonno ore per farlo uscire. Sono figlio di questi tempi digitali, e stamattina ho comprato la mia prima inserzione su facebook per promuovere il pablog.

E sì perché il pablog ha una pagina facebook che si chiama Pablog, da cui ricevo praticamente tutte le visite e su cui qualcuno mi commenta pure, mica come qua che i commenti non sai mai se funzionano, se ti devi iscrivere, se voglio anche dei soldi, e chi sei e chi ti ci ha mandato, ma abbiate pazienza, non è che sono diffidente, è che ricevevo un centinaio di messaggi al giorno da sovrani kenioti che mi volevano fare offerte pazzesche e ragazze russe che volevano comprarsi una stufa e aziende all’avanguardia nel prolungamento dei peni e farmaceutiche disposte a cedermi la loro produzione annuale di pastiglie azzurre, ho dovuto mettere un filtro, se non riuscite a dirmi quanto vi piaccio e se per favore vi mando delle mie foto nudo potete farlo su facebook, alla pagina del pablog. Però magari chiedetemelo in privato, se si scopre che diffondo mie foto nudo poi devo mettere un filtro anche lì e non so come si fa, ho scoperto di aver bloccato mia mamma per sbaglio una volta che ho cercato di nascondere un suo post di quelli che lo sapete, quelli che postano le mamme su facebook.

l’annosa piaga delle mamme su facebook

Tutte le mamme su facebook postano tutte le stesse cose, forse le trovano su Reddit alla pagina r/mammedifacebook, c’è un megagigantesco database pieno di cazzate che non fanno né ridere né indignare né commuovere a meno che tu non sia un tredicenne o una mamma, e le poche cose divertenti che ogni tanto si trovano sono roba che girava dieci anni fa.

Oh, scherzo eh? Non è vero che mia mamma l’ho bloccata per sbaglio.

Così ho creato quest’inserzione, non ne avevo mai fatte, non ci ho messo neanche una foto, dico una foto ce la vorrai mettere? No, c’è una descrizione breve, il link messo lì, è più triste di quella pubblicità dell’ascensore per anziani che non riescono a fare le scale, quello dove c’è la vecchietta che sorride felice perché finalmente potrà tornare al piano di sopra, dove saranno dieci anni che non riesce più ad andare, da quando le è venuta l’artrite, chissà se il gatto è ancora chiuso in camera.
Vabbè, è il primo, per il prossimo chiamo Oliviero Toscani e mi faccio fotografare mentre bacio una suora, ci vuole un bel coraggio a baciare una suora, metti che ci sta, come vi vedete poi? Devi farti frate? Devi fingerti l’idraulico che va a riparare lo scarico del convento per introdurti di soppiatto nella sua cameretta? E se voleste rendere pubblica la vostra relazione come funziona? Esiste un servizio di desuorizzazione? Il Papa di queste cose non ne parla mai, tranne il caso dell’arcivescovo di Costantinopoli su cui si è scritto molto non credo neanche che esista una manualistica adeguata. Forse dovrei smettere di scrivere racconti e mettermi a produrre guide pratiche per riempire i buchi informativi come questo: Capire le canzoni di Vasco Brondi in 24 ore, Tecniche per saltare la fila in posta, guide turistiche di posti dove vanno tutti per altre ragioni, tipo per lavoro o a fare la spesa.

Comunque via, l’inserzione è online, la pagina facebook è disponibile, ogni tanto ci scrivo qualcosa che poi non metto qui, perciò se siete alla ricerca di materiale inedito da far diventare preziosissimo quando non ci sarò più perché quel tizio che mi ha parlato all’ospedale ho scoperto che non era mica un astrologo, cominciate a seguirla e fatevi un sacco di screenshot col telefono, voi che sapete come si fa, che io l’ultima volta che ci ho provato ho bloccato mia mamma.

È che non dormo. Almeno non quando dovrei. Resto sdraiato sulla schiena con gli occhi chiusi ad osservare l’incessante lavorìo dei miei pensieri, a commentare che non è così che si comporta un cervello, ai miei tempi le cose le facevamo funzionare altroché.

Il sangue rallenta, le mani si fanno piombo. Gambe, spalle, tutto inizia a gemere, mi obbliga a cambiare posizione senza trovarne mai una. Il cuscino è troppo basso, quell’altro troppo alto, senza è troppo senza. Ho tolto la coperta e la maglietta, ho tutte le finestre spalancate, ma non entra un refolo d’aria ad asciugarmi la patina umida sulla pelle. Rumore, quello sì. Di camion, di treni, un antifurto, un fanatico della discoteca che rientra tardi da chissà quale rave e non si arrende al fatto che anche la techno ad un certo punto finisce.

Un borbottio si fa strada nella stanza, e il cervello lo registra quando è già molto forte. È un merci che sta transitando sui binari dietro casa. Il rumore basso è quasi piacevole, potrebbe accompagnarmi verso il sonno. Mi sintonizzo sulla sua frequenza cercando di lasciarmi dietro i mille pensieri che strepitano e mi si aggrappano alle caviglie. Ci riesco.
Poi frena. È un fischio interminabile, il grido di agonia di una bestia gigante, e sono di nuovo nella stanza. Il cervello si batte dei cinque da solo e riprende a raccontarmi cose di cui non voglio più sentire parlare.

Prendo il telefono, provo a leggere qualcosa, ma lo schermo luminoso ricaccia la mia stanchezza ancora più indietro, la sento rannicchiarsi in fondo, come la convincerò a tornare qui? Meglio lasciar perdere il telefono, ho già abbastanza pensieri autoprodotti senza bisogno di farmene regalare di nuovi. Richiudo gli occhi e rilasso i muscoli.
La campana della chiesa mi ricorda che sono già passate due ore dal mio primo tentativo di concludere questo giorno. E il cervello è svelto a calcolare quante ne mancano alla sveglia domattina. Poche, troppo poche. Il pensiero mi procura altra ansia, il sonno si divincola e torna a nascondersi nel suo cantuccio.

Penso ai racconti che sto scrivendo. Per lavorarci non occorre tenere i sensi vigili, si immagina meglio con gli occhi chiusi, e mi distoglie dal circuito ozioso in cui sta correndo il mio ipotalamo.
Solo che per inventare serve concentrazione, la concentrazione mi tiene sveglio, e appena mollo il guinzaglio la testa si rimette a proiettare le solite repliche.

Restare a letto non serve a niente, mi arrendo e vado a farmi un panino, magari il torpore post-prandiale mi aiuterà.

Il frigo è vuoto e gelido, e se guardo dentro di me non vedo altra differenza che un barattolo di senape.
Lo spalmo su un pacchetto di crackers, il modo più veloce per riempirmi la pancia alla svelta senza accendere fornelli. Se riesco ad addormentarmi ora avrò gli incubi, ma non è che i pensieri della veglia siano più rassicuranti.

Torno a girarmi nel letto, ma i pensieri sono sassi sotto la schiena, è come cercare di dormire sul greto di un torrente, e intanto suonano le tre.

Vabbè, mi alzo, tanto ormai a che mi serve dormire tre ore. Dice un importante studio condotto da scienziati che di sicuro riposano più di me che se non dormi almeno otto ore è come se non avessi dormito affatto, si spappolano le cellule, si spengono le sinapsi, i testi di Vasco Brondi cominciano ad avere un senso.

Imbraccio la chitarra e provo per l’ennesima volta a tirar fuori un barré decente, mi arrendo al terzo tentativo. Accendo il computer e provo a scrivere due righe. Mi arriva una notifica dal social nulla: un tizio che non ho mai sentito nominare vuole essere mio amico, un bot porno mi segue su tumblr, dieci indirizzi palesemente falsi si sono iscritti al mio blog. Elimino ogni segnetto rosso dalle icone dello schermo e apro il primo dei racconti abbozzati che tengo a portata di ispirazione, ma non è l’ora giusta, o lo spirito giusto, o il flusso ininterrotto di pensieri sbagliati mi ha annacquato l’immaginazione, sto a guardare lo schermo come lo guarderebbe una mucca.

Il cane viene a chiamarmi, già che sono in piedi perché non andiamo a fare due passi, mi chiede. Già, perché no?

Dieci minuti più tardi siamo per la strada, nel silenzio rotto solo dal gracidio che arriva dal fiume. Abbiamo un sacco di tempo, prendiamo la strada che sale al monte. Lui corre avanti, incredulo di questa passeggiata regalata, io resto indietro a farmi compagnia coi soliti pensieri.

Quando incontriamo l’alba ci fermiamo a guardarla tutti e due.

Riassunto della puntata precedente:
Per dimenticare un canarino vado in un posto che si chiama Palazzo Fava.
Giù in strada c’è Freud che mi suona con insistenza il campanello perché ha delle cose importanti da dirmi.

2.
Drusilla la rivedo una settimana più tardi. Sono ai Giardini Dimarzo col mio amico Beonio a bere pisciazza seduti dietro quell’uomo che grida gelati.
In effetti non lo so perché continuiamo a frequentare questo posto, la birra fa schifo e c’è pieno di ambulanti rumorosi.
Gli sto spiegando come il testo dell’omonima canzone di Battisti sia uno specchio dell’ontologia heideggeriana, in totale disaccordo, ad esempio, col superuomo di Nietsche, il quale verrà definitivamente estromesso dalla cultura musicale nel 1992, con l’avvento di Max Pezzali.

A Beonio questi discorsi non interessano. Lui vuole parlare di figa.
Mi indica tutte le ragazze carine che ci transitano davanti, di quelle brutte commenta “Eh però, due colpi..”

“Guarda quella con la maglietta a righe! Secondo te sta con quello lì che sembra un cattivo di Dragonball?”

È Drusilla, naturalmente. Il tizio che l’accompagna lo conosco di fama, canta in un gruppo di quelli coi testi complicati che non vogliono dire niente. Me ne ha parlato qualche volta, non sapevo che si frequentassero.
La birra che ho in mano fa schifo, abbandono il bicchiere e raggiungo la mia amica, subito tallonato da Beonio cui non sembra vero di poter avvicinare un esemplare privo di pisello.

“Ma tu solo magliette a righe quest’anno?”, le domando mentre mi impiglia alla barba un bacio leggero.
Mi presenta il cattivo di Dragonball, si chiama Piergigi e di persona sembra molto meno carismatico di quanto appare su youtube.

“Ciao, ho visto il video di Amore Lepidottero. Mi è piaciuta l’idea degli orsetti di peluche che invadono il pianeta, molto efficace.”

In realtà non me ne frega un cazzo, ma devo apparire gentile con gli amici di Drusilla, so che a lei fa piacere.

“È stata un’idea del regista. Noi volevamo mostrare gli occhi di un bambino che muore stritolato da un trattore guidato da centotrenta congolesi sotto il sole del Salento.”
“Eh, non credo che ve l’avrebbero passato su mtv”

Drusilla è parecchio su di giri, gli chiede se al concerto di stasera le dedicherà una canzone, lui dice Ogni Pesce Cerca Un Verme Dentro La Bottiglia, lei vorrebbe I Tuoi Capelli Distribuiscono Sigarette Automatiche, lui fa un sorriso pirata, lei si scioglie. Beonio ha capito che lì non ce n’è e dice che va a prendersi un’altra birra. Lo accompagno, troppi feromoni nell’aria mi fanno prudere il naso.

“Carina la tua amica. Perché non glielo butti?”
“Perché Clint Barton non glielo butta a Kate Bishop, tutto l’equilibrio della serie si basa su quello”
“Non ho capito”
“Non occorre che tu lo faccia”

Le bevande al bar dei giardini sono una peggio dell’altra, la birra è un’offesa al luppolo e i cocktails sono ghiaccioli privi di sapore. C’è gente che per riuscire a trangugiare qualcosa di decente è costretta a farsi servire l’amaro del carabiniere. Però la musica è ottima, tutte le sere suona qualche artista sconosciuto, ed è sempre qualcosa che ti cattura. Mentre aspettiamo che la ragazza al banco ci riempia il bicchiere di plastica con un’altra dose di urina osserviamo un trio parecchio gasato interpretare un vecchio successo di Zappa. Il chitarrista avrà sessant’anni, oppure trentacinque e una dipendenza pericolosa dagli stupefacenti, la maglietta sbiadita mostra ancora la scritta “Da vicino nessuno è normale”, che gli conferisce una certa rispettabilità fra noi amici di Basaglia. Gli altri due sono più canonici, uno mostra delle braccia toniche che gli invidio, oltre a una batteria che francamente non saprei dove mettere nella casa piccola in cui vivo, per cui mi limito ad ammirargli il fisico; l’altro è una ragazza bassa, capelli rossi e occhi azzurri, e suona la tromba, il sax, il clarinetto e il trombone slide. Ha l’aria di una che non si fa problemi a ottenere qualcosa, se lo vuole, e sembra di quelle che qualcosa lo vogliono sempre. Mi domando come si possa mantenere un equilibrio in gruppo con una bella donna inquieta, forse i due uomini sono una coppia, o lei è un androide. Forse sono io che mi faccio troppe domande inutili.

Ancora una volta è Drusilla che mi riporta alla realtà, entrando nel bar col suo amico e venendo diretta a ficcarmi le dita nelle costole.

“Mi hai lasciata sola!”
“Non mi sembrava che ti seccasse”

Se fossi un bravo attore le mie parole avrebbero sempre l’intonazione giusta, si farebbero capire sempre da tutti compresi quelli in ultima fila, e nessuno sgranerebbe occhi color laghetto estivo trovandole ostili. Sono gli allievi di poche speranze come me che devono giustificarsi di fronte al sopracciglio interrogativo delle ventisettenni perplesse, e fare free solo come Alain Robert sul Burj Khalifa, senza neanche i guantini appiccicosi del film.

“Secondo te la rossa sta con uno dei due?”, le chiedo per disinnescare l’imbarazzo.
“Perché dev’esserci sempre un’implicazione sentimentale? Non potrebbero essere semplicemente tre amici che amano suonare insieme?”
“Perché è più divertente”
“Mescolare il lavoro e il letto non è mai divertente”, commenta Cattivodidragonball, “E finisce sempre male.”

Drusilla gli si appende a un braccio: “Storie di vita vera! Racconta!”, ma Piergigi non vuole dire altro, gli è bastato dare un colpo di matita al tratteggio che vende di sé. Se si lasciasse avvicinare di più mostrerebbe le macchie di sugo sul colletto della camicia.
Decido in quel momento che mi sta sul cazzo, lui e tutti i personaggi bidimensionali dei cartoni animati come lui. E la birra dei Giardinidimarzo mi ha rotto i coglioni, contiene esterasi leucocitaria, che denota una possibile infezione batterica del barista, e io di prendermi i suoi malanni grazie ma mi bastano già i miei, che stasera mi pesano particolarmente, meglio se me ne vado a casa.

“Ma no, dove vai?”, dice Beonio.
“Ma no, dove vai?”, dice anche Drusilla.
“Mi piace Bologna mi piace la Spagna mi piace uno sguardo mi piace un abbaglio”, dice il poeta maledetto a una biondina, accendendo fastidi diffusi.

Vado a casa a piangere perché non c’è più Chico Buarque a proteggermi dagli stronzi che si prendono la scena e non rispettano il pubblico, né a capirmi quando ho una cosa che non riesco a far uscire se non dagli occhi e ormai ci sono più impagliatori di sedie ciabattini maniscalchi che lettori di occhi, né a regalarmi i suoi la sera in macchina quando nessuno parla per non disturbare il ticchettio della pioggia e perché non si parla mentre si legge.
Dove ritroverò quella sintonia? Di certo non qui, e allora cosa ci resto a fare.

(continua)