19/08/2010

Instant Carmo
È una nuova mattina nella città di Porto, il sole tarda a mostrarsi, ma non ci preoccupiamo, l’ha fatto anche ieri, lo fa tutti i giorni in questa città vista oceano, poi pensi che pioverà, esci pesante e dopo un quarto d’ora ci sono trentasei gradi e tutte le piastrelle che ci sono appiccicate ai muri ti riflettono il sole negli occhi, e passi il resto della giornata cieco e sudato. Poi verso le tre, tremmezza muori disidratato.

In questa cupa mattina io e il Subcomandante Marzia abbiamoancora da vedere delle robe, così usciamo prestissimo dalla stanza, tipo le novemmezza, e andiamo a fare colazione, poi rompiamo ogni indugio e usciamo. Per fare la seconda colazione.
E si perché con tutte le pastelerie che ci sono in giro non puoi prenderti almeno un krapfen gigante, una roba con la panna, qualcosa..

Alla fine del pranzo, che le calorie assunte con un dolcetto basterebbero a tener su una squadra di calcio, scarpiniamo fino all’Igreja do Carmo, che non è lontana da dove ci troviamo.

La Santa Guida è rimasta affascinata dalle pareti esterne decorate ad azulejos, merita la visita!”, mi dice la fidanzata, stranamente disponibile verso il clero. Non discuto, si vede che la cena della sera precedente le ha abbattuto le difese immunitarie.

Le dura il tempo di arrivarci davanti e scoprire che la chiesa ha una sorella siamese da cui è separata solo per un vicoletto strettissimo: la Igreja dos Carmelitas.

Eccheccazzo, una non gli bastava?”, protesta, ma entriamo lo stesso. La vista degli azulejos ha un effetto rilassante su di lei, devo ricordarmelo quando torneremo a casa, magari ci arredo la cucina, così la smette di strillare se rovino la cena.

La chiesa all’interno è spoglia, tranne l’altare superaccessoriato, pesante come il trucco di una soubrette, e per entrare devi superare la prova tossico.
C’è infatti in strada un tizio chiaramente segnato dagli stupefacenti che fa la guardia ai passanti, ostentando noncuranza come può farlo uno che vive la sua vita in grassetto maiuscolo: sta appoggiato a un palo cercando di fischiettare e butta la testa velocemente di qua e di là per vedere se qualcuno si avvicina alla chiesa. Appena ne becca uno parte come un razzo e si fionda ad aprirgli la porta, mostrandogli contemporaneamente il bicchierino per l’elemosina. L’ingresso della chiesa ha due porte, e per evitare che il potenziale cliente imbocchi quella senza portinaio il nostro amico marcione lo invita bruscamente a passare dalla sua parte.
Se passi di là lo stesso non succede niente, ti aspetta all’uscita e ripete la scena.

Eletrica salsa (ba-ba ba-ba)
Ci allontaniamo ignorandolo e puntiamo verso il fiume, tanto per cambiare, ma stavolta da una via diversa, che dovrebbe portarci più a valle. Abbiamo deciso infatti di andare a visitare il borgo di S
ão Pedro da Afurada, luogo di pescatori che immagino pieno di graziose casette di legno e strade di pietra, con gatti e reti stesi al sole, uomini cui il mare e il sale hanno disegnato la faccia come la mappa di un tesoro, bar tenebrosi da cui senti venir fuori le più truci canzonacce, donne di malaffare, coccodrilli con una sveglia nella pancia, botteghe di protesi a forma di uncino.
Sono tutto eccitato, ho già in programma di comprarmi una pinta di rum e dividerla con quattordici individui in un’impresa di pompe funebri, ma se non dovessero esserci bottiglierie ad Afurada non importa, sono sicuro che almeno un jolly roger riuscirò a portarmelo via, anche a costo di tirarlo giù dal pennone.

Cammina cammina arriviamo sulla strada che costeggia il fiume. Siamo un po’ oltre la Ribeira, ma non così vicini a dove vogliamo andare. Davanti a noi si erge massiccio il vecchio deposito dei tram, ora adibito a museo. Qualcuno ci ha detto che è bello, la Santa Guida ne parla bene, ma vuoi mettere un tram con un giro di chiglia? Non esiste, voglio i miei pirati!
C’è una fermata dell’autobus con due controllori che ci spiegano la strada per il borgo di pescatori: dobbiamo prendere il tram fino al ponte da Arràbida e poi cercare un passaggio per attraversare il fiume. S
ão Pedro da Afurada è subito di là.

Un passaggio? Non mi ci vedo proprio a fare il navistop”, protesto.
Ma no, vedrai che ci sarà un traghetto”, mi rassicura Marzia, ma ormai mi sono fatto il mio film sulla pirateria, e sono convinto che qualunque battello diriga su Afurada sia carico di gaglioffi pronti a rapinarci.
Piantala! Non ci sono pirati ad Afurada!”
Essì, stai a vedere che hanno tutti windows originale!”
Nessuno di quelli con la benda sull’occhio, almeno!”
Staremo a vedere..”

Ci sono diversi autobus che portano in quella direzione, ma la cosa che vediamo sferragliarci incontro non appartiene alla categoria dei mezzi su gomma. È giallo, piccolo e panciuto, diresti che la fermata precedente l’abbia fatta dentro un cartone animato, e ogni volta che fa una curva hai l’impressione che debba ribaltarsi sulla schiena come una tartaruga.
È il vecchio tram che abbiamo incontrato sotto la Igreja dos Clerigos, e che adesso ci porterà alla nostra destinazione. Per i portoghesi il tram si chiama o elétrico, come fai a non volergli bene a un popolo che parla così?

Sul tram non c’è molta gente, possiamo sederci vicino al finestrino e scattare qualche foto del paesaggio, ma la vera attrazione sarebbe l’interno, perfettamente conservato, ancora con gli spaghi appesi al soffitto per suonare il campanello della fermata.
Non che fuori ci sia molto da vedere, dall’Atlantico sta venendo su un nebbione da paura, il Douro è immerso in una coltre bianca che ci impedisce di vedere perfino il ponte.
Capiamo di essere arrivati alla nostra fermata quando il tram supera il suo pilone di cemento, e a quel punto scendiamo.
E non c’è niente.
Ochei, c’è un bar su una palafitta che ha l’aria di essere piuttosto fico, oltre che chiuso, e alle nostre spalle dei brutti palazzi aspettano di essere completati, ma a parte l’aspetto di periferia dismessa non c’è altro, solo una banchina con una signora seduta a pulire un pescione e un altro tizio seduto per terra che dondola i piedi sull’acqua.
Nessuno dei due ha la benda sull’occhio.
Nessuno dei due ha la gamba di legno.
Nessuno dei due ha pappagalli sulle spalle.
Maledizione.

Questi posti davanti al mare
Nel nostro portoghese stentato chiediamo notizie del traghetto, e la signora, senza voltarsi, sempre col coltello in mano, ci indica la nebbia.

Vuol dire che il traghetto è stato inghiottito dalla nebbia con tutto l’equipaggio e che presto faremo la stessa fine anche noi. Scappiamo!”
Ma no, idiota, vuol dire che sta arrivando, non lo vedi? Eccolo!”

Infatti il traghetto arriva, col suo borbottio placido attracca e fa scendere i passeggeri. Da qualche parte ne spuntano altri che attendono di salire, un paio sono gli stessi che ho appena visto scendere, si vede che a casa non hanno la televisione e si divertono così, facendo avanti e indietro. Il biglietto costa un euro e c’è solo un canale, alla lunga gli conviene abbonarsi a sky.
Sale anche la signora, che si piazza sul ponte e ricomincia a far andare il coltellaccio. Ma non ce l’ha una cucina dove fare questi lavori? Si vede che qui il traghetto è un po’ come la piazza del paese, ci si ritrovano quelli senza cucina, quelli senza televisione, e a giudicare dai giornali che adocchio in cabina deve svolgere anche le funzioni di edicola.
Sono quotidiani sportivi, cosa che mi fa pizzicare il senso di ragno. Ci trovo un paio di notizie che mi fanno sentire odore di casa, ma niente di più; torno a sedermi sul ponte e scatto qualche foto al nulla.
La traversata dura qualche minuto, ed è il tempo sufficiente perché la nebbia sparisca. Quando arriviamo di là è una bella giornata di sole, i pescherecci stanno rientrando in porto e non c’è nessuna faccia da bandito per strada, nessuno che canti canzonacce, niente di niente.

Afurada è un paesino di case basse dall’aspetto moderno, parecchio anonimo, disposte in lunghe file ordinate. C’è qualche negozietto, c’è un piccolo mercato, un paio di ristoranti, ma niente di più.
I pescherecci si, quelli sono interessanti, circondati dai curiosi e da uno stormo di gabbiani in preda a un’agitazione frenetica. Stanno scaricando secchi di pesce, prevalentemente sardine, e i pennuti saltellano qua e là in attesa di potersi buttare sugli scarti. Una volta terminato lo scarico i pescatori se ne vanno e i gabbiani assaltano il battello: in mezzo alle reti ammucchiate sul ponte sono rimasti piccoli pesci, qualche granchio, che vengono subito contesi a beccate. Gridano e si pestano e fanno un gran casino: alla fine li ho trovati i miei pirati, non hanno la benda sull’occhio ma in quanto a uncini sono ben accessoriati.
Però che delusione queste strade tutte pulite e piastrellate, dove ritrovare un po’ dell’antico spirito?

Guarda che è un borgo di pescatori, non di pirati. Sei tu che ti fai dei film!”, mi rimprovera la fidanzata.
Perché, forse che i pirati non andavano a pesca?”, replico, seccato.
I pirati abbordavano le navi, che pesca!”
E cosa mangiavano, oro? Pescavano, te lo dico io! In ogni covo di pirati c’erano dei pescatori, quindi per il principio zero della termodinamica in un villaggio di pescatori devono trovarsi anche dei pirati, è lapalissiano!”
Il principio di che?”
Non lo so, vaneggio.”
Ma vaneggi male! Se fosse come dici tu allora i pirati avevano anche bisogno di vestiti, quindi in ogni città in cui ci sia un negozio di abbigliamento dovrebbero esserci dei pirati! Sarebbero ovunque, scusa!”
Mai affermato il contrario.”
E allora perché non consideri anche Genova una città di pirati?”
Certo che lo è, e lo dimostrano i prezzi nelle vetrine. O i ristoranti, vai un po’ a vedere quanto ti mettono una pizza e poi dimmi se Genova non è una città di pirati.”
Però a Genova non cerchi persone con la benda sull’occhio e il pappagallo sulla spalla.”
Perché in un centro così grande lo stereotipo del pirata si è disperso nella folla, è come il succo di arancia concentrato che ti danno all’ostello di Lisbona: se ci aggiungi un po’ d’acqua è buono, se ce ne metti troppa come fanno loro ottieni un liquido torbido dal sapore disgustoso che mai più ti farebbe pensare all’arancia, sebbene sia l’ingrediente principale.”
Hmm..”

Parlando e camminando arriviamo senza accorgerci a un edificio sul limitare dell’abitato, con una selva di bastoni a reggere delle corde: è il lavatoio pubblico, lo dimostrano le tante vasche all’interno, i panni stesi ovunque a sbattere al vento e soprattutto la signora incazzata che sfrega una maglietta sulla pietra e smadonna in portoghese. È un bel quadro da incorniciare questa donna che lavora coi mutandoni appesi dietro di sé e l’oceano sullo sfondo. Peccato per l’audio.

Senza la nebbia possiamo vedere bene l’orizzonte che credevamo già atlantico, e provare disappunto nello scoprire che non è affatto così. Una diga foranea imbriglia la foce del Douro, impedendo al mare di entrare a fare casino, ma anche a noi di inebriarci di infinito, e a Marzia questa cosa proprio non va giù. Dice che lei ha nuotato nel Pacifico, ma l’Atlantico lo ha sempre solo visto in televisione, e prima di tornare a casa vuole pucciarci i piedi dentro, anche a costo di andare fino al bagnasciuga a piedi.

In che direzione è questo maledetto oceano?”

Le indico una lingua di sabbia che emerge in fondo alla strada. Con tutta probabilità oltre le dune c’è l’Atlantico. O un posteggio.

E allora andiamo! O hai fame?”
No no, è ancora presto, andiamo pure a vedere l’oceano”

In realtà sono le undici e mezza e ho una fame che mangerei una tonnara. Girando per il paese abbiamo comprato un pezzo di pane locale dall’aspetto invitante, ma pesa come se fosse impastato col granito, ogni boccone che mando giù precipita nello stomaco con rumore di ghiaiaio.

La cantina
Dal prato di Gaia il profilo di Porto è una delle cose più belle che vorresti avere davanti, tranne forse trentasette centimetri di simpatia. Un labirinto colorato che si arrampica per il pendio, edifici appoggiati uno sull’altro come i gradini di un anfiteatro e tu, sul palco, a sentirti protagonista e spettatore insieme. Ricorda un po’ il centro storico di Genova, ma da noi per godere di una prospettiva simile devi imbarcarti su un traghetto.
La facciata di un palazzo è coperta da secoli dal pannello giallo della Sandeman, la più famosa marca di vino della città, ma non disturba affatto. L’uomo intabarrato col bicchiere in mano è una figura onnipresente, ti ammicca dalle vetrine, dai barconi sul Douro, dal tetto degli edifici, dai tram, è come Belen Rodriguez, ma recita meglio.
Altro discorso vale per la gigantesca insegna rossa della Seat che copre la facciata di un palazzo proprio davanti alla sé. Quella è veramente un pugno nell’occhio, non puoi non vederla, rovina le foto, è brutta.
Non che la cosa mi impedisca di portarmi via altre duecento immagini con la scusa che la luce è migliore.

La luce è un’altra cosa di cui bisogna parlare se si racconta del Portogallo, perché è un altro dei suoi elementi essenziali. Se potessi scattare una foto che riassuma questo Paese sarebbe l’insegna di una pasteleria a metà di una salita ripidissima, con una chiesa tutta arabescata in cima, un tram che viene giù, una casa decorata ad azulejos e una Madonna che piange. E sarebbe una foto sovraesposta. Perché la luce in Portogallo, come racconta Alessandro nel suo diario parallelo, “è del 46% più luce della luce che c’è da altre parti”. Roba da farti suicidare l’esposimetro.

La digestione del pesce ci prende un paio d’ore, ma quando ci alziamo siamo di nuovo tonici e pronti all’ennesima sfida, specialmente gastronomica. L’unico impegno che abbiamo è vederci con Lucilla e Alessandro, che sono arrivati in città da qualche ora, si sono accampati da qualche parte e stanno facendo i turisti chissà dove, ma abbiamo in programma di cenare insieme, quindi per un po’ siamo ancora liberi.

Vila Nova De Gaia è la zona delle cantine, allineate una accanto all’altra alle nostre spalle vivono del commercio di bottiglie, ma hanno trovato un lucroso mercato organizzando visite guidate per i turisti. Per quest’attività così redditizia si servono di individui senza scrupoli, i bagarini. Sono inarrestabili, riconoscono il turista al volo e ci si avventano contro con quella finta cortesia che è quasi insolenza, gli si piantano davanti e gli decantano la magnificenza della cantina, l’accuratezza della spiegazione multilingua di cui potrà godere e soprattutto la quantità di assaggi gratuiti compresa nel prezzo d’ingresso. Nel mio caso è facile, ho la macchina fotografica perennemente appesa al collo e l’espressione estatica del bambino in gita, mi basta transitare dall’altra parte del marciapiede e i bagarini mi sciamano addosso come testimoni di geova su un campanello. Per fortuna ho Marzia a tenerli lontani, non ama essere importunata dai passanti e li scaccia roteando i suoi sguardi minacciosi.

Però il porto di Cristiano Ronaldo non era granché, vuoi rinunciare a un assaggio di qualcosa di meglio? Andiamo da Ramos Pinto, di cui non sappiamo nulla, ma che non si serve di buttadentro e la cosa ci fa già simpatia.

Il primo impatto è ottimo, appesi alle pareti ci sono manifesti pubblicitari liberty firmati Rossotti, Capiello e Metlicovitz, tre autori che mi scatenano un’emozione fortissima quando mi rendo conto di non averne mai sentito nominare neanche uno. Ma è perché sono un ignorante, si tratta di tre importantissimi illustratori italiani dei primi del Novecento, autori di quei manifesti che oggi pullulano le bancarelle vintage che fanno tanto elegante a metterli in salotto e che strapaghi per realizzare poi che sono tutte riproduzioni sgranate che se le vedessero Rossotti, Capiello e Metlicovitz ti sputerebbero in faccia.

Con sei euri ci facciamo la degustazione per principianti, cinque bicchieri dal bianco più giovane a un rosso di dieci anni, un breve manuale “assaggiatori di vino for dummies” con l’omino dalla faccia triangolare in copertina che punta il dito, le schedine per annotare le sensazioni provate, una matitina.

Agitiamo il bicchiere come veri sommeliers, notando come l’alcool resti appiccicato al vetro, ma non a quello della finestra, cazzo fai, pulisci che ci vedono; diamo una prima annusata veloce e poi una seconda più lunga e intensa, per riconoscere ogni elemento che impreziosisce il bouquet, financo lo strutto e i chiodi arrugginiti tirati via dalla botte dopo quarant’anni di stagionatura, assaggiamo a piccoli sorsi, passandoci il gustoso nettare su tutta la superficie della lingua, così da permettere alle papille gustative che stanno in fondo di guadagnarsi la paga anche loro, che non fanno mai un cazzo e non le posso neanche lasciare a casa perché sono raccomandate dall’alto.

Annotiamo scrupolosi quello che abbiamo colto dall’esame del primo bicchiere, ci dedichiamo con diligenza a studiare il secondo, proviamo il terzo, tracanniamo il quarto e facciamo ampi gesti di approvazione fischiando rumorosamente e dandoci grosse pacche sulle spalle dopo esserci spazzolati il quinto. È il migliore, non ci sono dubbi! Ha un retrogusto di noce così persistente che ndevi mandarlo via a parolacce, Non lo compriamo solo per non doverci portare dietro la bottiglia, ma prima di abbandonare la città torneremo senz’altro.

In realtà Marzia ha letto sulla Santa Guida Lonely Planet che esiste una piccola cantina indipendente chiamata Càlem, e il suo spirito ribelle la spingerebbe ancora una volta a sostenere le minoranze, anche quando sono proprietarie di un capannone grande come un campo da calcio. Non ci andiamo subito perché se beviamo ancora qualcosa di più forte dell’acqua distillata andiamo in coma etilico, ma le prometto che non mi butterò in nessun incauto acquisto prima di aver visitato i suoi amici “rivoluzionari”.

Tempo libero
L’ennesimo bagarino ci arpiona col suo blocchetto di vouchers: questo propone una gita in battello della durata di 50 minuti per la modica cifra di dieci euri, più una visita guidata alle cantine Offley’s. Accettiamo, forse l’aria del fiume ci rischiarerà le idee, e io già sbavo all’idea di fotografare il ponte da una nuova prospettiva.

La gita è tranquilla, la parte a monte fino al Ponte Maria Pia è piuttosto anonima, quella zona della città è troppo moderna, si vedono le spiagge che abbiamo notato arrivando in treno. L’unica cosa degna di rilievo sono due pescatori seduti coi piedi in acqua a leggersi i libri di Pedro Gambadilenho a turno, a voce alta. Quando ritengono di avere letto abbastanza buttano i libri nel Douro e si baciano voluttuosamente facendo un sacco di spruzzi. Chiedo a Marzia cosa ne pensi di quel bizzarro teatrino, ma dice che non ha visto niente e che mi sono inventato tutto e che dovrei farmi visitare da un medico appena torniamo in Italia. Certe volte quella ragazza mi preoccupa, è talmente apprensiva..

Il viaggio in battello prosegue verso la foce, fino al borgo di Afurada, un villaggio di pescatori che abbiamo in mente di visitare il giorno dopo. C’è una fitta nebbia che ci impedisce di vedere l’oceano, ma è anche meglio, possiamo immaginare che sia proprio lì a due passi, come direbbe Cristo.

Dopo la gita non andiamo a vedere le cantine perché sono già chiuse, ma anche perché non ce la facciamo più neanche a tornare a piedi fino all’ostello. Ci sediamo sul prato e aspettiamo che i nostri amici ci trovino.

“Allora, avete alloggiato nel nostro ostello superfigo?”, chiedo a Lucilla.
“No”, mi risponde, “Non c’era posto, così abbiamo cercato lì vicino.”
“E dove avete trovato?”, domanda Marzia.
“Stiamo nel grosso palazzo abbandonato su Avenida dos Aliados”, rivela Alessandro, mortificato.
“Però costa poco!”, cerca di giustificare Lucilla. “Abbiamo una camera molto spaziosa!”
“Si, la dividiamo con solo quattro barboni!”, interviene Alessandro.
“Ma nel nostro c’è la colazione compresa!”, dico.
“Nel nostro sono compresi gli scarafaggi!”, replica.
“Nel nostro ci sono i film!”, insisto.
“Nel nostro gli ubriaconi che si accoltellano!”, insiste. “E c’è anche la connessione remota!”
“Davvero?”
“Si, nel senso che uno dei barboni che dormono con noi una volta si collegò a internet”.

Lasciamo che i nostri amici vadano a prenotare al ristorante buonissimo segnalato da un’amica di Marzia che va in Portogallo tutti i giorni, un posto dove cucinano il polpo alla brace come lo mangiavamo in Puglia, dove ti servono pezzi di tentacolo lunghi un metro e passa. Noi strisciamo sul primo autobus che ci riporti in centro per una doccia ricostituente.

Il Rivoli Cinema Hostel è sempre lì, con le sue serrature elettroniche a custodire ogni sorta di meraviglia. Appena varcata la soglia c’è una bacheca di prodotti locali, fra cui due bottiglie di porto, alcuni gadgets di Star Wars che mi fanno venir voglia di inoltrare domanda di assunzione e..

“Aaahhh!!”, strilla Marzia come se avesse visto il più grosso scarafaggio della sua vita.
“Cosa! Dove!”, faccio io.
“Guardaaaa!”, e indica la bacheca, solo che non ci sono scarafaggi, ma delle assurde scarpette di plastica. Ho capito tutto. È incredibile come uno strillo di gioia femminile somigli così tanto a un urlo di terrore, dopo tutto questo tempo non ho ancora imparato a riconoscerli, come l’impercettibile differenza di tono che distingue un “non ho niente (sono assolutamente serena e in pace col mondo)” da un “non ho niente (ti odio con tutte le mie forze e sto seriamente pensando di ucciderti nel sonno)”.

Insomma che ha visto delle scarpe che pare siano l’ultima novità in fatto di abbigliamento alternativo, quelle robe di moda fra chi non vuole essere di moda, che in Italia costano come le ciabatte orrende di Prada e invece qui te le porti via con quindici euri. Evidentemente i portoghesi sono meno stupidi degli italiani.

“Devo scoprire dove le vendono! Devo averle a tutti i costi! Devono essere mieee!”

La trascino via di peso, e per fortuna che alla reception c’è un tizio che non parla né inglese né spagnolo, perché se avessimo avuto una minima speranza di comunicare avrei potuto scordarmi la cena.
Torniamo invece a Gaia e occupiamo il nostro tavolo al ristorante Casa Adão, dove lavora la cuoca assassina.

Ancora È costei una grossa signora con la cuffia e la voce imponente, che lavora segregata nel suo spazio tra i fornelli dalla mattina alle sette fino a notte inoltrata, tanto che capita spesso che debba fermarsi a dormire lì. Per questa ragione si è organizzata tenendo una coperta e un cuscino dentro il forno, che non usa. Tutti i piatti della Casa Adão sono bolliti.
I ritmi di lavoro massacranti hanno segnato profondamente il carattere della signora, che col passare degli anni ha raggiunto un tale livello di misantropia da minacciare col coltellaccio chiunque le rivolga la parola. È evidente che nella cucina di un ristorante sia inevitabile rivolgersi alla cuoca, e questo genera dei conflitti che spesso sfociano in gesti violenti, come quello cui siamo testimoni quella sera, quando la cameriera riporta in cucina un piatto di riso lasciato intatto e la cuoca lo prende come uno sgarbo personale.

Il dialogo esatto fra le due non lo posso riportare per ovvie difficoltà linguistiche, ma cercherò di essere il più fedele possibile al concetto, e mi scuso fin d’ora per le libertà narrative che mi concederò.

CAMERIERA – Il tavolo quindici non ha neanche toccato il riso.
CUOCASSASSINA – E io cosa ci devo fare?
CAMERIERA – E io che ne so? Mangiatelo!
CUOCASSASSINA – Io me lo devo mangiare? Io? Loro se lo devono mangiare! Quei bastardi! Lo sanno quanta cura ci ho messo a prepararlo?
CAMERIERA – Beh, magari non avevano più fame.. Hanno preso parecchi antipasti..
CUOCASSASSINA – Lo sai dove glieli infilo gli antipasti? Fammeli vedere, voglio vederli in faccia quei figli di puttana!
CAMERIERA – Sono.. sono andati via..
CUOCASSASSINA – Sono andati viaa? Li hai mandati viaaah?!?
CAMERIERA – Hanno pagato e se ne sono andati, cosa dovevo fare, sequestrarli?
CUOCASSASSINA – Aargh! Li ammazzo! Giuro che li ammazzo! Bastardi! Mi fanno fare una vita da schiava e poi non mangiano! Figli di puttana! Gliela faccio vedere io gliela faccio!

Ciò che segue non è molto chiaro, gli altri camerieri ad un certo punto si sono frapposti tra il nostro tavolo e la finestrella della cucina, e non abbiamo più potuto vedere com’è andata a finire, ma pare che la cuoca abbia brandito un’ascia e abbia cercato di correre in strada per inseguire i clienti; la cameriera ha cercato di impedirglielo, che c’era da preparare un bacalhao per il tavolo otto che stavano aspettando già da un po’, ma la cuoca pazza di rabbia ha tentato di divincolarsi e si è ferita.

Tutto ciò ha ritardato di parecchio la nostra ordinazione, ma abbiamo ingannato l’attesa bevendo vinho verde e pregando per la nostra incolumità.

Il polpo arriva, effettivamente è tagliato in pezzi così grandi che fra i tentacoli si trovano ancora dei frammenti di chiglia, ma non è gustoso come quello di Mola Di Bari. Non credo dipenda dalla cuoca, ma anche se fosse mi guardo bene dal protestare, e così i miei compagni. Mangiamo tutto in silenzio, non ci lamentiamo nemmeno quando nel piatto troviamo un dito mozzato ancora sanguinante. Ci limitiamo a ripulirlo col tovagliolo e a lasciarlo nel piattino delle mance al momento di alzarci.

Il conto ormai è un’abitudine, quando va male come stasera sono quindici a testa, ma abbiamo mangiato come struzzi e Alessandro ha bevuto tanto vino che quando se ne va canta La Montanara Uè.