2.
Mi sveglio molto presto, il fuso orario o il fantasma del cuoco di Picota che mi ha tenuto compagnia per tutta la notte. Vorrei alzarmi, ma i miei compagni di stanza dormono ancora, magari aspetto, dev’essere presto. Passa il tempo e sento l’edificio svegliarsi piano piano, qualcuno va in bagno, qualcuno scende a fare colazione. I miei compagni di stanza no, sono sempre nella stessa posizione. Magari sono morti e io mi sto facendo gonfiare la vescica per una cortesia inutile verso due cadaveri. Spunto con la testa e vedo il mio vicino di letto con la bocca spalancata da cui sale un gorgoglio ritmico, come un geyser che sta lentamente tornando in attività. Immagino che anche la ragazza nell’altra branda sarà in ottima salute. Vabbè, senti, mi alzo. Cerco di fare più piano che posso, ma ogni movimento produce lo stesso frastuono di un ciclo produttivo all’Italsider. Dopo un po’ mi rendo conto che se evito di muovermi con attenzione ci metto la metà del tempo, e forse disturbo meno.

Scendo a fare colazione e non c’è nessuno, solo io e un tizio che legge il telefono. Mi servo un succo di qualche frutto inesistente in natura, dal sapore dev’essere stato estratto dall’albero del polistirolo, e una bella tazza di quella sbobba annacquata che qualcuno si ostina a definire caffè americano. Non è caffè, smettila. Il caffè ha un sapore e un odore e una consistenza ben precisi, questa sostanza non ha ancora trovato una sua collocazione neanche nella tavola degli elementi. Se venisse fuori che la raccolgono da un tubo in una discarica non ci sarebbe niente di strano.

la chiesa dove si adora il signor Morto e i pasticcini pesantoni

Faccio la seconda colazione al Forno dos Clerigos. È quella panetteria dove mi reco in pellegrinaggio ogni volta che torno in città, sotto la chiesa che porta lo stesso nome. Prendo un pastel de nata pesante come solo un dolce portoghese sa essere, e mi racconto per l’ennesima volta che ne mangerei a chili perché è così buono. Non è vero, buono è buono, ma se continuo a trangugiare marmo morirò prima di dover rinnovare la carta d’identità.
Prendo anche una roba tipica di Porto che si rivela un pastel più grosso e pesante. Credevo che le cose più grosse e pesanti del pastel de nata si trovassero solo nei cataloghi di artiglieria.

Mi scrive Marzia, dice che verrà a fare colazione lì, ma che è ancora in albergo. Da quanto ho capito alloggia in una specie di ex carcere fuori città, senza riscaldamento e con la colazione sparata in camera mediante irrigatore a canna. Non ho capito perché non abbia prenotato nel mio stesso ostello, lo conosceva anche lei e come me lo ha adorato da subito. Dice che se ne sono occupate le sue compagne di viaggio, che però non erano mai state a Porto. Boh, rinuncio a capire, certe volte nella testa di Marzia succedono cose misteriose.

Dopo un po’ che non la vedo arrivare mi alzo, o perlomeno ci provo, e vado a fare due passi fino alla chiesetta di Sant’Ildefonso, sulla collina adiacente. È una piccola costruzione barocca in un quartiere che non avevo mai visitato.
Non mi dice granché, ma ho tempo da perdere, magari proseguo verso una direzione sconosciuta. In quel momento ricevo un messaggio di Marzia, è arrivata al forno. Torno indietro.

La trovo al tavolino che sta macinando un panino al prosciutto. Accanto a lei è seduta Vivienne Westwood, o perlomeno spero tanto che lo sia: è tutta viola, i capelli, la montatura degli occhiali, una pelliccia e gli anfibi. Sembra un incrocio fra una bici, Iggy Pop e il Teletubbie Tinky Winky. Mi limito a due saluti due, i gestori ci stanno guardando male e credo di aver visto spuntare da sotto il banco qualcosa di metallico con un percussore e un grilletto. In Portogallo sanno essere molto rudi coi clienti.
Ci diamo appuntamento ad Afurada a mezzogiorno, andremo a pranzo tutti insieme alla Taberna Do São Pedro, un altro di quei posti per cui vale sempre la pena tornare da queste parti.
Le lascio alla loro colazione e me ne vado a vedere la Sé.

La guida della città descrive la Sé come una cattedrale-fortezza; ai tempi della scuola ero un bimbo gracilino e facevo un sacco di assenze, perciò ho saltato sia la lezione in cui spiegavano le cattedrali, sia quella in cui descrivevano le fortezze. Però ho giocato a un sacco di videogiochi a tema fantasy, quindi la Sé la immagino come un edificio altissimo, goticissimo, dalle pareti spesse come tutta casa mia, abitato da creature deformi che mi puntano addosso un’ascia bipenne ed emettono suoni biascicati attraverso le zanne, poi mi vendono una pozione che mi restituisce +10 al mana.

Niente di tutto ciò. Per essere grossa è grossa, e pure massiccia, ma somiglia più a una sobria fortezza medievale che a una cattedrale gotica, anche se i pilastri all’interno sono grossi e nerboruti come le braccia di mia sorella, seppure meno pelosi.

Pilone Tupparello

Le creature deformi ci sono, ne incontro due. Indossano palandrane e invece dell’ascia bipenne mi puntano addosso un volantino e mi chiedono se voglio fare una foto per beneficienza. Accetto volentieri, una foto insieme a una creatura deforme starebbe benissimo nel mio album di Facebook.
Di certo meglio delle vostre con la bocca a culo di cane e la fronte in avanti per nascondere il risultato della dieta. Del fatto che non ne state seguendo nessuna, intendo.

La giovane baffuta volontaria dell’Ente Turistico Ecclesiastico Della Madonna Del Cerchione o di qualche associazione analoga mi spiega a grugniti che sarà lei a fare la foto, io devo solo mettermi là davanti a quella parete di azulejos e fare la faccia da uno che non vedeva l’ora di farsi fotografare.

Cioè come se me la facessi da solo? Eh ma te la faccio io. E se me la faccio da solo? Noi te la stampiamo su carta fotografica e la mettiamo in questo libretto interessantissimo che mostra tutte le meraviglie della cattedrale, non so se hai afferrato il sottinteso, se non l’hai afferrato guarda l’occhiolino che ti sto strizzando da mò. Credevo fosse l’orifizio da cui respiri, con voi creature deformi che abitate le cattedrali-fortezza è sempre difficile capire. Allora, ti metti davanti alla parete o devo tirare fuori i tentacoli? Non c’è niente che possa fare, sono al massimo della potenza. Dovrò spegnere tutto. Ma dovrete faticare per prendermi. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi.

Mi metto in posa e faccio tutte le smorfie del mondo, da quella triste a quella scoglionata, ma la tizia è abile e riesce a prendermi proprio nel momento in cui rido. Mi lascia andare senza sacrificarmi al suo dio sanguinario e riprendo il giro.

Il chiostro della cattedrale è insignificante, le tombe di San Carralho e San Colombão Certenholi sono anonime, la stanza piena di roba barocca è carina, ma evitabile. L’unica cosa che attira la mia attenzione sono i gabbiani. Hanno tutti l’elmo e una piccola alabarda.

Torno all’uscita e mi ferma la creatura di prima, il cui approccio non è diventato più gentile neanche adesso che ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso tanti momenti felici. Cara mia, se speri che adesso ti libererò dall’incantesimo che ti ha gettato addosso la strega cattiva devi proprio cambiare atteggiamento. Piuttosto bacio il parroco.
E anche la foto che cerca di rifilarmi, ma cos’è? Va bene, rido, ma sembro un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è, dai. E te la devo pure pagare? Ma vai, vai.

Mentre scendo verso il ponte Dom Luís mi specchio in una vetrina. Vedo un ultraquarantenne sciupato e malvestito che cerca di sembrare meno depresso di quel che è. Vado a cercare un’altra vetrina, questa è rotta.

(continua)

 

“Cioè? Una vacanza di un giorno e mezzo e ci dovevi scrivere sopra due post?”

“C’ero anch’io in vacanza e non mi hai neanche nominato!”

“Lascia scrivere di viaggi a chi ne è preposto!”

“Ma si chiama Porto o Oporto?”

“Ganancioso você mesmo!”

“Non sono Paul McCartney!”

Le reazioni alla prima parte di questo viaggio sono state innumerevoli, chi mi ha ringraziato di avere raccontato ancora di quel paese meraviglioso che è il Portogallo, chi si è lamentato perché deve ancora finire di leggere il racconto del viaggio precedente, mai concluso, e vuol sapere se alla fine Lucilla è Paul McCartney oppure no, chi è capitato per sbaglio su queste pagine cercando pornazzi di Holly Michaels e ha subito cliccato altrove.

Quella che segue è la seconda e ultima parte del mio recente viaggio portoghese, dove racconterò delle cantine, della funicolare e della coscia di maiale.

29/9

La prima colazione la faccio in solitaria in un baretto di Rua das Flores, attratto più dal vecchietto al tavolino che dalle delizie servite, che peraltro non ci sono, ma non fa niente, peggio della sbobbazza servita in ostello credo sia impossibile. Mi siedo al banco e ordino un caffè e un pastel de nata: il barista con lo scazzo mi serve un buon primo e una roba tutta spiegazzata e fredda che dovrebbe essere il secondo. E per radio ci sono i Take That. Vabbè, ci ho provato, la prossima volta scelgo un bar senza vecchietti davanti.

L’alternativa non era un bar senza vecchietti, comunque, ma uno bloccato da una folla di ragazzetti con birra e ghettoblasta, evidentemente ancora in giro dalla sera precedente, che io la colazione a birra l’ho vista fare solo a gente con grossi problemi di alcolismo, e allora lo vedi anche tu che quello col vecchietto è ancora la scelta migliore.

La seconda colazione la prendo col gruppo, che nel frattempo si è alzato e riunito nella sontuosa hall dell’ostello.
Ci infiliamo in una pasteleria in fondo a Rua Das Flores, che sfoggia una ragnatela di crepe dove fino al giorno prima stava una vetrina, e probabilmente è per questo che le commesse hanno una faccia che pensi che sia il caso di ordinare alla svelta, mangiare e andare prima che ti menino.

Un altro caffè, un altro pastel, una roba panosa dolce ricoperta del solito tuorlo d’uovo. Alessandro ci casca di nuovo e prende la pesantezza: quando l’inghiotte si apre la porta del locale ed entra l’avvocato del suo stomaco con una citazione per danni.

Al momento di pagare dobbiamo aspettare due ragazzine che si sono comprate un frigo di Super Bock, e non sono neanche le dieci, e stavo appunto dicendo dei problemi di alcolismo.

Foto di gruppo con gatto

Bisogna digerire, che i dolci portoghesi non sono una passeggiata per nessuno, e il modo migliore dicono sia fare due passi, quindi approfittiamo della giornata bellissima e andiamo a piedi fino al ponte di Arrabida, e da lì in traghetto ad Afurada. Il marciapiede è bello largo e pieno di pescatori che tirano su balene, e di ciclisti che tirano su i pedoni perché la pista ciclabile non c’è e se non cammini rasente al muretto ti arrotano, ma il fiume è bello da guardare, e questa parte di città fuori dal centro storico non sarà granché medievale, ma non è del tutto orrenda. Vabbè, tranne quel palazzo lì che proprio non si può vedere.

Passiamo di là donando un euro a un vecchio, bianco per antico pelo, che ci grida di rimando qualcosa in portoghese che non so tradurre, ma che suona così: “O céu nunca vereis, desesperados! Por mim à treva eterna, na outra riva, sereis ao fogo, ao gelo transportados!”.

Ce n’è di gente strana, lascia perdere..

Non è ancora ora di pranzo, ma il mercato del pesce emana profumi che rendono il digiuno una scelta complicata. In un mercatino nel posteggio di fronte c’è un banchetto che vende formaggi e salumi, e ci facciamo tagliare del prosciutto da infilare nel panino. Il banchettaro taglia sei fette spesse un dito e le pesa con cotenna e tutto perché è un astuto venditore, poi ci presenta il conto ed è il momento ilare della giornata: sei etti di crudo affumicato e tre ciabatte a neanche sette euri.

Lucilla e il brontosauro

Dopo il panino col brontosauro sarei anche a posto, ma vuoi rinunciare alla Taberna do São Pedro? È la ragione principale del nostro viaggio a Porto!

Mi faccio, nell’ordine, un’insalata, quattro sardone alla griglia, una patata bollita e due birre, ma sono finiti i tempi in cui con 3.50 ti facevi un piatto di pesce, ora ce ne vogliono addirittura sei, e alla fine il mio conto personale ammonta a nove e spicci. Che scandalo.

Vabbè, bisogna tornare indietro, ma se riattraversiamo poi ci tocca arrivare alla Ribeira e fare il ponte per raggiungere le cantine, che sono la nostra meta successiva, nonché la ragione principale del nostro viaggio a Porto. Si, ma da questo lato non ci sono gli autobus, come si fa?

Provo a chiedere a una vecchietta, che però quando le dico “desculpe, a che oras passau l’autobus por Gaia?” mi guarda come se fossi cretino e se ne va.

Ce la rifacciamo a piedi, tanto è ancora una bella giornata e si cammina volentieri.

Marzia e Paola non ci hanno seguito, hanno ripreso il traghetto per andare a visitare i fantomatici giardini liberty di cui avevamo letto nella Santa Lonely Planet, e che dovrebbero trovarsi a metà strada fra lì e il centro storico. Scopriremo in seguito che di liberty non hanno niente, e sono popolati da pavoni carnivori ghiotti di turisti. Buon per noi che abbiamo preferito infilarci da Ramos Pinto per una visita alle cantine.

La nostra guida è una ragazza dall’espressione simpatica, parla un inglese comprensibile più a noi che agli stessi anglofoni, e non dà neanche troppo l’impressione di odiarci tutti come la sua collega hostess della Tap, o la maggior parte dei camerieri del suo paese. A un americano sessantenne del Connecticut, che la subissa di domande cretine, mostra un sorriso credibile e ride perfino, quando questo si sente incoraggiato a fare lo spiritoso, come se gli americani sessantenni del Connecticut avessero una vaga idea di cosa sia l’umorismo, che la volta che un americano sessantenne del Connecticut si è avvicinato di più al concetto di umorismo ha invaso l’Afghanistan. Il resto della cumpa è composto perlopiù da anziani beoni che vogliono arrivare prima possibile all’assaggio finale.

Il giro è comunque interessante, Ramos Pinto era un vecchio volpone che sapeva vendere, e il suo vecchio ufficio è una meraviglia, su tutto campeggia una cassaforte a due ante che vorresti indossare un cappello a tesa larga e farla saltare con la dinamite, per poi scappare a cavallo inseguito dagli agenti della Pinkerton.

La cantina di Ramos Pinto

Sembra arrivato il momento di provare la nuova funicolare, che dalla passeggiata ti porta in cima al ponte Dom Luis I, tanto a Gaia non c’è altro da fare, e per tornare a mangiare da Casa Adao è presto. Il biglietto costa solo 5 euri, e comprende un assaggio gratuito in un’altra cantina, e chi siamo noi per rifiutare un altro assaggio gratis? Ci infiliamo decisi nei vicoli dietro il lungofiume, scoprendo che quella parte della città è in realtà un set cinematografico: davanti è molto appariscente, dietro fa stracagare.

La cantina ha un aspetto recente, dev’essere sul mercato da poco. Immagino che a Porto non ci siano molte alternative per un lavoro indipendente, o apri una cantina oppure organizzi gite in motoscafo sul Douro, ma in quel caso ti auguro di morire male, che se c’è una cosa irritante è vedere questi barconi da corsa sfrecciare avanti e indietro facendo un casino pauroso e rovinando tutta la bellezza di quell’angolo di mondo, che è davvero uno degli angoli più belli del pianeta. Il vino non è niente di che, e insieme non ci danno i promessi lupini. Per quanto mi riguarda possono anche andare a organizzare gite in motoscafo sul Douro.

Saliamo sulla funicolare che siamo un po’ cotti e ci lanciamo in una sessione fotografica delirante, tutti che fotografano tutto, soprattutto sé stessi, e facendo oscillare la cabina in modo preoccupante.

L’appuntamento con le due disperse dovrebbe essere davanti São Bento, ma non ce n’è traccia. Ci si presentano due opzioni, o sono state rapite o si sono infilate da Zara. “Che vogliamo fare?”, ci chiediamo, “Aspettiamo ancora un po’ o cominciamo a mettere via i soldi per un eventuale riscatto?”.

“Io dovrei ritirare”, fa Antonio, la cui consorte è stata inserita nell’elenco dei dispersi.

“Allora potremmo cercare un bancomat, e ce n’è uno proprio vicino al negozio dei souvenirs orrendi”, risponde ghignando Lucilla, che soffre di una strana malattia che la obbliga a comprare ovunque magneti da frigo.

Ci spostiamo quindi dall’altra parte della strada e cominciamo a passare in rassegna una serie di riproduzioni in plastica di attrazioni del Portogallo, tutte prodotte da un’azienda che dopo averle stampate e colorate le sbatte in un forno e le scalda finché non perdono la loro forma originaria.

Resto per un po’ indeciso se buttare via i miei soldi su una miniatura della francesinha, il piatto tipico portoghese a forma di animale spiaccicato sull’asfalto, o su quella della Torre dos Clerigos sciolta dal raggio della morte, poi un messaggio di Marzia mi riporta a più miti consigli: non sono state rapite, erano da Zara, e un po’ mi spiace, che pagare un riscatto costava meno.

Ci riuniamo in ostello, e dopo una breve sosta in camera per mollare chi i sacchetti e chi la cacca, ci consultiamo per la cena. Su tripadvisor vengono proposti diversi ristoranti mai provati, e optiamo per uno che si chiama tipo Alfasud. Si trova vicino alla chiesa di Trindade, sopra Aliados, la grossa piazza del municipio. Quindi per questo viaggio basta Ribeira. Vabbè.

Non era Alfasud, era Antùnes, che sta in una stradina insignificante a metà fra la decadenza del centro storico e lo squallore di una periferia. La specialità del ristorante è il pernil de porco, che traduciamo frettolosamente in stinco di maiale, stupendoci delle sue dimensioni quando ce ne presentano in tavola uno, smezzato fra me e Alessandro.

“Ragazzi, questo non può essere un maiale, quale mostro ha uno stinco grosso come un casco da motociclista?”

Plesiosauro al forno

Non è maiale, è il segreto dell’economia portuense, come scopro qualche tempo dopo, consultando un libro. In pratica funziona così, i pescatori prendono il mare, catturano un plesiosauro e, dopo averlo macellato, lo dividono fra i ristoranti della città. Alcune parti della coda vengono servite con le patate e si chiamano pernil de porco, con le pinne carnose si fanno i prosciutti, che poi ritrovi al banchetto dei salumi del mercato di Afurada, e dalla carne del collo più tenera si ricava il bacalhau.

A questo punto devo aprire una parentesi e raccontare un episodio risalente a due anni fa, durante la nostra visita precedente.

A quei tempi Lucilla aveva sviluppato una sorta di psicosi nei confronti delle patate fritte tagliate a rondelle. Sosteneva che erano più buone, si cucinavano meglio e non so più quali cazzi, e ogni volta che si andava al ristorante, cioè sempre, le chiedeva al cameriere, spiegandogli a gesti che non voleva quelle a bastoncino, ma quelle rotonde. Potete immaginare la faccia di un tizio che vede una donna straniera agitarglisi davanti, parlargli in una lingua incomprensibile ed esibirsi in una serie di gesti palesemente scurrili. Alla fine la malcapitata riceveva comunque le patatine a bastoncino, e andava su tutte le furie. L’ultimo giorno di vacanza, in un ristorante di Lisbona, si risolse ad acchiappare per il bavero il cameriere e a trascinarlo fino al tavolo accanto, per mostrargli il piatto di patate fritte a rondelle che era stato servito a un signore coi baffi.

“Voglio quelle, capito? Quelle! Occhei? Occhei? Quelle!”

Naturalmente ci trattarono malissimo per tutta la cena, e non oso immaginare quali fluidi organici finirono nelle nostre ordinazioni prima di essere servite.

Insomma, presentarsi con Lucilla in un ristorante portoghese era una cosa che ci riempiva di apprensione, nonostante il suo fidanzato ci avesse garantito che nei due anni trascorsi da quell’episodio si era messa in terapia, ed era migliorata parecchio:

“Il medico che l’ha seguita è riuscito ad eliminare il suo comportamento maniacale quasi del tutto”, ci aveva raccontato all’aeroporto di Milano. “Ora presenta un’ossessione maniacale per i magneti da frigo, ma almeno non rischio la denuncia ogni volta che si va a cena fuori.”

In effetti Lucilla appare mansueta, nonostante ai tavoli vicini vengano servite porzioni mastodontiche di patate fritte a rondelle non sembra farci caso, ordina un’orata al forno con le foglioline di insalata e sorride compiaciuta al cameriere.

Tutto sembra procedere senza intoppi, finché ad Antonio arriva il bacalhau, che quasi non si vede, completamente immerso nelle patate fritte.

Sul tavolo cala il silenzio, tutti guardano Lucilla, Lucilla fissa il piatto di Antonio, Alessandro sbianca, Marzia cerca di allontanare i camerieri dalla sala.

“Ne.. ne vuoi una?”, chiede Antonio con un filo di voce.

“No, grazie Antonio”, replica Lucilla in un tono assolutamente normale, come se gli avesse detto “le tre e un quarto”, e tutti riprendiamo a respirare.

Poi si alza.

“Lucilla, dove vai? Tutto bene?”, le chiediamo allarmati.

“Vado a prendere una boccata d’aria”, replica, ed esce. La ritroveremo in ostello molto più tardi, seduta sul letto, con la bocca piena di magneti da frigo.

Nel frattempo la cena va avanti, il cameriere somiglia a Diego Milito quand’è arrivato al Genoa, coi capelli leccati dalla mucca e la faccia da ragazzino sfigato. Ci vengono serviti i dolci, che sono una cosa agghiacciante come ormai ci aspettiamo tutti: Alessandro prende una vecchia conoscenza coi biscotti e la crema, io e Antonio ordiniamo la goiabada, che è la sostanza più densa dell’universo, anche più dell‘inertron. Avete presente la cotognata? La goiabada è più densa. Avete presente la ghisa? La goiabada è più pesante. Avete presente il Mar Morto? La forchetta nel Mar Morto si immerge più facilmente che nella goiabada. Perlomeno è buona, ma ci vuole un bicchiere di digestivo per mandarla giù, e il padrone del ristorante che mi ha visto terminarla viene a congratularsi di persona e mi offre una brocca di stravecchio che ci vogliamo in sei a finirla.

E poi anche questo viaggio è finito ed è ora di tornare a casa. Ci mettiamo la sveglia prestissimo, poi la rimettiamo presto, che il mio telefono è ancora impostato sull’ora italiana e alle quattro non devi andare da nessuna parte, poi chiediamo alla ragazza alla reception di chiamarci un taxi, ma non è capace a trovare il numero e ci chiede se lo vogliamo davvero.

“No, volevamo fare gli spiritosi!”, ribatte acida Marzia, cui non è andata giù la doppia levataccia.

Alla fine dobbiamo comunque andare in metro, che la ragazza della reception sta cercando il numero ancora adesso.

La biglietteria alla stazione di São Bento non accetta né banconote né lusinghe, vuole gli spicci, ma non ne abbiamo, perciò decidiamo di fare i portoghesi, che quando ti ricapita di poterti sentire veramente uno di loro? Che poi lo so che è un detto che non ha niente a che vedere con questo popolo, ma mi faceva ridere, l’ho detta.

Il Portogallo che mi sono portato a casa.

 

L’ultimo pastel de nata all’aeroporto spero che non fosse davvero l’ultimo perché l’ho scaldato nel microonde ed è venuto fuori una merda.

C’è questa passeggiata sul lungofiume che parte dal porto e arriva a quella spiaggia di cui sopra, è una bella strada larga, pianeggiante, con un sacco di panchine, scommetto che a percorrerla in primavera è anche piacevole. Sotto il sole d’agosto è una tortura, non c’è neanche un albero a farti ombra, arriviamo a metà che sudiamo come gli ultimi classificati alla maratona di New York, quelli che neanche la gioia di essere arrivati in fondo, quelli che puzzano e basta.

E la fame aumenta, così torniamo indietro e ci infiliamo in quella trattoria che abbiamo visto in mezzo al paese, quella che non sembra un posto da turisti, la Taberna do São Pedro.
In effetti turisti non ce n’è, ma il locale è pieno. Buon segno.

Ci sediamo in un angolo e la cameriera ci porta subito una bella insalata. Alle nostre spalle, fuori dal locale, due uomini si danno da fare intorno a un grosso barbecue su cui buttano a cuocere il pesce. È una cosa che noti in paese, tutti hanno un piccolo braciere fuori dalla porta dove mettono a cucinare le sarde, qui la pesca dà veramente da vivere a tutti.

Rispettiamo la tradizione locale e ordiniamo pescato alla griglia (anche perché non c’è altro): sardinhas per Marzia e calamari per me. Ed è l’epifania. Un pesce così buono non l’abbiamo mai mangiato, soprattutto mai a questo prezzo, tre euri e mezzo. Va bene, non è eviscerato, ma in Portogallo il pesce si serve così dappertutto, e ha un sapore di mare che ci fa pulire i piatti in un secondo e poi cercare la cameriera per il bis. Pigliamo anche un’orata in due, e il prezzo non cambia, alla fine di tre piatti di pesce, un antipasto, un’acqua e una bottiglia di vino spendiamo 24 euri, ed è il pranzo migliore della vacanza.

A questo punto non resta che andare a vedere quest’oceano di cui tutti parlano, no?

Dalla parte della passeggiata abbiamo già visto che è lunga e noiosa, la faremo nei prossimi giorni, quando avremo una macchina. Per il momento si può tornare al traghetto e proseguire nella direzione iniziale fino alla foce del Douro, saranno cinque minuti di autobus.

Il traghetto non c’è ancora, ma non siamo soli ad aspettarlo, c’è un tizio dall’aria alcolica con un grosso sacchetto pieno di sarde che ciondola nei paraggi. È sulla sessantina, la panza e il parlare trascinato raccontano molto su come ami spendere i suoi pomeriggi. Mi si avvicina e mi domanda un euro per attraversare il fiume, poi cerca di ricambiare donandomi il suo sacchetto pieno di pesce fresco. E cosa me ne faccio di due chili di sarde? Per un attimo sono tentato di accettare, poi alla fine no grazie, che non ho neanche un frigo dove metterle. Se ne va sbuffando verso il primo bar, e di lui non so altro.

Una volta sbarcati sulla riva opposta prendiamo un autobus fino alla spiaggia all’estuario del fiume.

Eccolo lì”, dico a Marzia, “L’oceano.”
E lei subito: “Il Pacifico è più bello!”
E allora vattene sul Pacifico!”
Non posso, non ho la patente e a quest’ora non ci sono treni!”

Le chiedo se vuole scendere a bagnarsi i piedi, ma dice che no, preferisce camminare sul molo e guardare i pescatori che sfidano le onde per procurarsi il cibo in una lotta impari contro la natura selvaggia.
Il primo che incontriamo ha piantato la canna nel muro e se ne sta allungato a prendere il sole.

Tira vento sul molo, tiene lontano il caldo opprimente dei pomeriggi portoghesi, che con tutte le piastrelle che stanno intorno a riflettere i raggi solari pare certe volte di stare in un microonde. Sarebbe da passarci il pomeriggio qui a guardare l’orizzonte, immaginando di veder spuntare qualcosa da quella distesa d’acqua. La Corsica, magari.

Retrocediamo lentamente verso la spiaggia, superando un capannello di uomini intenti ad osservare la sfida dell’anno fra Gei Ar col cappello di paglia e un anonimo portoghese, a briscola.

Superiamo il Jardim do Passeio Alegre, un parco in stile liberty dove fotografo l’orinatoio più bello che abbia mai visto (e ci si può immaginare la scena di un tizio con una macchina fotografica appostato all’uscita dei bagni pubblici), superiamo un sacco di barche con e senza pescatori al seguito, superiamo la zona vivace della passeggiata e finiamo in quella desolata e caldissima, niente più da fotografare, ci accasciamo sul marciapiede e aspettiamo o eletrico che ci porti indietro.

Sul Muro dos Bacalhoeiros, ai margini della Ribeira, ci concediamo una sosta presso un circolo di velisti o pescatori o giocatori di freccette, sinceramente non ricordo. Quello che ricordo bene invece è il cameriere, che mi ha fatto assaporare per la prima volta dal mio arrivo in terra lusitana il sapore acido dell’incomunicabilità.

IO – Cosa vuoi bere?
MARZIA – Qualcosa di analcolico, una bibita gassata magari.
IO – Uma cerveja e.. algo.. con gas?
CAMERIERE – Mgrrr?
MARZIA – Quella roba rossa che ho bevuto ieri al bar!
IO – Come si chiamava?
CAMERIERE – Mgrrr?? Raurr!
MARZIA – Non mi ricordo! Va bene anche un tè!
IO – Un tè!
CAMERIERE – Raurr! Groarr aruarr! Mrrr!
IO – Tè! Tea! Ice tea!
CAMERIERE – Raurgh!! Graaah!! Mgrraaa!! Roooaarrrr!!
IO – D
uas cervejas! Duas! Duas! Mamma mia!

Eppure da bambino immaginavo il mio incontro con un personaggio di Guerre Stellari come un momento di gioia! Ma forse non era Chewbacca pelato, doveva essere qualche comparsa della nuova trilogia.

Guida all’acquisto intelligente

Allora, cosa ci resta da vedere?”
Ci sarebbe..”
Cosa?”
Beh..”
Beh?”
Ecco..”
Un’altra chiesa? Ma tu sei malato!”
Ma è quella barocca! A te il barocco piace! Ti ricordi a Palermo?”
Come minimo ci sarà da pagare.”
E poi in questa dice Alessandro che ci sono i diorami sanguinolenti e le statue dell’orrore!”
Uff. Vabbè.”

Sette euri. No, dico. Che Marzia il diorama sanguinolento me lo voleva fare in faccia. Poi non è neanche il prezzo, fossero stati due era uguale, ti girano le balle pagare per entrare in chiesa, anche se hanno un bel dirti che ci restaurano, che ci mantengono, l’istituto cattolico ha delle entrate che manco la british petroleum, e inquina parecchio di più, e a me dargli dei soldi non mi va bene. E poi non sono due euri, sono sette, e con sette euri alla Taberna do São Pedro ci mangi un’orata e un piatto di calamari che sembra li abbiano tirati su dal mare direttamente sulla piastra, e ti danno pure tante patate bollite da farti venire la pellagra.
Comunque entriamo, che i soldi per l’arte son sempre ben spesi.

Ben spesi una bella merda!”, ribadisce ancora una volta la vocina della mia coscienza.

Ben spesi, poi, effettivamente una bella merda, che dentro a parte il diorama coi mori che fanno a fette quattro cinque martiri cristiani e un altro tizio con un albero che gli esce dalla pancia non è che ci sia ‘sta gran baroccheria da vedere, sebbene la guida ne parli come di un capolavoro di qui e di là, ma abbiamo già visto che la Santa non è da prendere proprio sempre alla lettera.

Con l’ultima chiesa dichiariamo terminata la visita della città. Lo sappiamo che ci sono ancora un mucchio di cose, musei, altre chiese, tutta la parte moderna, parchi, o Estádio do Dragão, che da quando ho scoperto che la squadra di calcio cittadina è stata fondata nel 1893 ne sono subito diventato tifoso, ma ce li terremo per la prossima visita, che tanto a Porto ci torniamo secco.

Andiamo invece a comprare il porto, che domani si va via col treno e si torna tardi, e dopodomani si va via con la macchina e si torna più, perciò o si piglia adesso o ce lo si piglia dove non si dice.
Torna giù alla Ribeira, arifai il ponte, percorri di nuovo il lungofiume di Gaia fin da Ramos Pinto. E trovalo chiuso. Nooo! Il dramma! E ora?

Marzia suggerisce di andare da Càlem, che è sempre indipendente e continua a darle quest’idea di giovane cantina rivoluzionaria che si ribella alle potenti multinazionali e perciò da sostenere, solo che lì c’è da fare la gita alle cantine e sembra obbligatoria, e non ne abbiamo per le balle. E poi ci devono essere i nostri amici in giro per bevute a scrocco, e lo sappiamo come va a finire, che ci incontriamo davanti a una distesa di bicchieri e bevi questo e assaggia quello e tu l’hai provato quest’altro e alla fine ci distruggiamo come e più che se fossimo andati da soli. No no, lascia perdere, chiediamo se si può comprare senza fare tutto il giro e stiamocene.

Da Càlem funziona così: appena entri ti implotonano in base al paese d’origine e ti fanno fare il giro dello stabilimento con una guida molto preparata. Prima ti fanno camminare per ore attraverso tunnel bui e umidi e pieni di pipistrelli, dicendoti che l’odore di muffa che senti sono le botti più antiche, quelle dove si conserva il vino più pregiato, e tu fai aaa e vorresti scattare una foto ricordo a quell’oscurità puzzolente, ma non te lo lasciano fare, che si rovina la stagionatura, ti dicono; in realtà stai camminando per una fogna dismessa sotto il Douro e l’odore che senti sono infiltrazioni vecchie di secoli e qualche topo morto da quarant’anni; una volta tornato alla luce ti portano in una stanza con un ritratto gigante di Nonno Càlem, il fondatore della cantina, un tizio coi baffoni e il cappello da contadino fotografato in piedi nella sua vigna mentre tiene in mano un rastrello. Nessuno ha mai usato rastrelli in una vigna, che se c’è uno strumento inutile in una vigna è un rastrello, ma la foto l’hanno scattata l’anno scorso e hanno pensato che faceva agricolo. Ti portano al cospetto di Nonno Càlem, dicevo, e c’è una che ti tiene fermo in piedi per un’ora e venticinque a raccontarti la storia della cantina, dal fondatore in avanti, in spagnolo. O in portoghese, se capisci lo spagnolo. O in olandese, se parli entrambe le lingue e mastichi anche un po’ di inglese. Pare che a una comitiva di giapponesi poliglotti, ferratissimi in tutte le lingue europee, abbiano propinato una spiegazione in un raro dialetto delle steppe caucasiche infilandoci in mezzo delle parole inventate sul momento.

Alla prova finale ci arrivano in pochi, in genere uno su sette otto: ti portano al negozio e finalmente ti fanno assaggiare il vino. Tutto. Ci sono ventiquattro qualità diverse di porto, più i vini da tavola per un totale approssimativo di novanta etichette, e te le fanno assaggiare tutte, una dopo l’altra, senza darti il tempo di respirare, ti strappano via il vuoto dalle mani e te ne danno uno pieno, e stanno lì e ti guardano severi finché non lo hai trangugiato, e fanno anche taptaptap col piede per metterti più a disagio. È la politica della cantina per evitare che il culto del vino venga rovinato dalle masse di turisti. Perché lo sanno che la maggior parte dei visitatori vuole solo bere del porto a scrocco e della visita alle botti e della fase di produzione non gliene frega niente, così loro estremizzano tutto, trasformano un’innocua gita scolastica in un percorso iniziatico per veri appassionati. Solo ai più degni sarà permesso di accedere al Sancta Sanctorum e accostare le labbra al Graal.
E a quelli che vogliono comprarsi una bottiglia, ovviamente, difatti a noi ci fanno passare dalla porta sul retro e in un attimo ci troviamo davanti alle casse, con un impiegato gentile che ci domanda cosa ci interessa.

L’idea sarebbe di prendere quel dieci anni che abbiamo assaggiato da Ramos Pinto, ma a scatola chiusa non si prende niente, che già ci hanno infinocchiato quelli dell’ostello di Lisbona che ci hanno fatto pagare in anticipo tutte le notti a venire, stavolta chiediamo di assaggiarlo.
Ci portano al bar e una signorina che ha già versato tanto vino da farsi venire il gomito del tennista beone ci porge due calici di Càlem dieci anni.

Secondo te com’è?”
Secondo te?”
L’ho chiesto prima io.”
Te lo devo proprio dire?”
Dai.”
E’ una merda.”
Già.”
E adesso come facciamo? Non possiamo uscire senza comprare niente, e se ci obbligano a fare il giro punitivo che dura il doppio di quello normale e comprende anche l’interrogazione alla fine?”
Prendiamone una bottiglia piccola, alla fine la sbolognamo a qualcuno.”
Ochei dai. Poverini però.”
Chi, Càlem?”
No, quelli che gli regaliamo la bottiglia.”

Ce la caviamo con un’elegante confezione mignon che la imbelinerei nel fiume appena usciti, a pensare che quello di Ramos Pinto è ormai inarrivabile, chiuso dietro una solida cancellata.
Però la città è piena di bottiglierie! Potremmo comprarcelo in un negozio!
Marzia applaude alla mia idea, e animati da nuovo spirito ci arrampichiamo per l’ennesima volta su per la salita verso la stazione di São Bento, che c’è da vedere un po’ a che ora partire domani.