Io fuori sembro una persona normale, oddio normale magari no, ma perlomeno una persona che se dovessi aprirla penseresti di trovarci le cose che hanno di solito dentro le persone quando le apri, metti che sei uno che apre le persone, tipo un chirurgo o un maniaco della Londra vittoriana. E invece no, io se mi apri, dentro sono fatto di criceti. Piccoli roditori marroncini schiacciati uno davanti all’altro per la lunghezza di un braccio, raccolti in una fascina criceta a tre o quattro alla volta e infilati fascina dopo fascina lungo tutta la gamba, suddivisi per compiti all’interno del tronco, criceti che masticano bene il cibo, altri che lo portano più giù ad altri criceti che lo rimescolano e lo separano e fanno tutte quelle cose che nella pancia delle persone sono compito di un sano apparato digerente.
Ho criceti in testa, che corrono fortissimo sulla ruota e non ti ascoltano quando gli parli, ne ho altri al posto del cuore, che stanno lì e non sanno bene cosa fare, suonano il tamburo per riprodurre il classico battito e fregano qualunque stetoscopio, ma il rumore rimbomba nella cassa toracica buia, e spesso i criceti si pigliano paura. Se fossi un chirurgo o un maniaco di Whitechapel mi aprirei il torace e proverei ad accarezzarli, i miei criceti. Direi loro di stare tranquilli, che non succede niente, è il normale battito di un tamburo che simula quello cardiaco, non c’è niente lì dentro che possa far loro del male. E probabilmente accarezzandoli finirei per danneggiarli, che il criceto è un animale delicato, e se lo sfiori un po’ più forte lo ammacchi, come quando provi a raccogliere i papaveri che crescono ai bordi dell’autostrada e ti restano in mano solo dei gambi.
Così non apro niente e non accarezzo nessuno, indosso un bel maglione scuro difficile da sfilare che scoraggi eventuali salvatori di criceti e imparo un sacco di aneddoti divertenti con cui distrarre chi si avvicina troppo.

Tipo di quella volta che non sapevo come parlare a una tizia e per non dare nell’occhio e farle capire che mi interessava ho parlato con tutte le persone presenti, e ce n’erano come a tre cerimonie d’insediamento di Obama. Dopo due ore avevo rivolto la parola solo al mio vicino di posto, un ragazzone con la barba che lavorava per una rivista di poesia ermetica e contenitori tupperware, ed ero troppo timido per spingermi oltre, così mi sono bevuto l’equivalente alcolico del Campari, inteso non come bottiglia ma come stabilimento di Via Nazioni Unite 1, 15067 Novi Ligure AL, e sono partito baldanzoso. A metà pomeriggio avevo parlato con la tizia che mi interessava già quattro volte, la prima ero stato simpatico, la seconda ripetitivo, la terza molesto e la quarta non sono sicuro se ho parlato con lei o con uno dei tre Obami insediantisi. Verso sera mi ricordo che stavo sul tetto dell’edificio con un inglese, un francese e un tedesco a raccontarci barzellette, e riuscivo a biascicare in tutte e tre le loro lingue, spesso mescolandole per rendermi incomprensibile a più persone contemporaneamente. Però si divertivano, l’unico che non rideva era il tedesco, ma l’umorismo dei tedeschi è tuttora oggetto di studio da parte di un’equipe internazionale di scienziati presso il Massa Institute Of Technology, costola toscana della prestigiosa università statunitense.
Alla fine devo essermene andato in qualche modo, perché mi sono risvegliato il giorno dopo nel mio letto, con indosso ancora la camicia elegante e un calzino. I criceti al mio interno erano tutti buttati qua e là e non si sentivano per niente in forma, sono andato in bagno a vedere se per caso ne avessi vomitato qualcuno, e in quel momento ho visto che c’era un messaggio sul cellulare da un numero sconosciuto. Trattenendo il fiato sia io che i criceti abbiamo aperto il messaggio. Diceva “Questo è il mio numero, ciao, De”. De sta per? Denise? Debborah? De Gasperi? Ho cercato di rimettermi dritto, ho assunto un aspetto decente manco avessi dovuto fare una videochiamata, ma stavo talmente in confusione che poteva partirmene una per sbaglio, ho fatto qualche prova di voce sexy come ho visto fare una volta in un tutorial su Youtube condotto da Enzo Cannavale e ho composto il numero.

“Ciao, sono Demetrio, volevo confermarti che sabato prossimo verremo a casa tua per quella dimostrazione di contenitori tupperware. Grazie ancora per la disponibilità!”

Aneddoti così. Solo che alla lunga cavarsela con le storielle è come lo sportello del freezer che si chiude male a causa del ghiaccio formatosi in alto, e chiudendosi male se ne forma altro, e alla fine devi staccare la spina e lasciarlo sciogliere tutta la notte, e di solito non succede il venerdì sera, succede la domenica dopo cena verso le nove e mezza, e l’unica cosa che puoi fare per portarti avanti col lavoro è anticipare le madonne che tirerai domani mattina a tirare su acqua invece di fare colazione e andare a lavorare. Non bisognerebbe accumulare ghiaccio, fa male ai criceti. Ogni tanto bisognerebbe lasciare sportello aperto e spina staccata e sciogliere tutti quei nodi che abbiamo dentro. Ma come si fa? I minestroni surgelati dove li metti finché il lavoro non è finito? Quando vai in vacanza puoi lasciare il cane in una pensione per cani dove viene custodito e nutrito finché non torni. È una soluzione più triste del portare tua madre all’ospizio perché è anziana, soprattutto se hai una madre come la mia e un sacco di ospizi economici nei paraggi, ma per certe persone che non sanno a chi lasciarlo non c’è altra soluzione, o così o rinunci alle vacanze. Per i minestroni surgelati non esistono pensioni, ti devi mangiare tutta la riserva del freezer prima di adoperarti nello sbrinamento. Va bene, sarebbe meglio, nel mio freezer sono ancora conservati frammenti dell’Arca di Noè, dovrei buttarli via altro che mangiarli, e chissà nei vostri cosa verrebbe fuori a fare carotaggi nel permafrost.
Ma c’è gente che ci si affeziona alla pallina di pasta per la pizza avanzata sei anni fa, ogni tanto la capovolge per evitarle le piaghe da decubito, è come una vecchia amica. La tira fuori, la accarezza, si domanda dove sono adesso i suoi sberleffi, le burle e le canzoni. Chi si fa più beffa ora del suo sogghigno, con questa sua smorfia?

C’è anche gente che il freezer non lo sbrina apposta, ogni tanto la sera ci si siede davanti, sportello spalancato, sfila i cassetti e con la punta di un coltello ne stacca qualche scheggia e se la infila in bocca. Ha un sapore disgustoso, ma non riesce a smettere.

Non so come facevano i nostri genitori a superare queste crisi ai loro tempi, quando non disponevano della tecnologia odierna. Come la pipetta di ventolin per un asmatico io non esco mai di casa senza il mio blister di ansie tascabili, la mia pastiglia di veleno per le emergenze. Mi sono infilato in un vicolo e, al riparo da occhi indiscreti, ho preso il cellulare e mi sono fatto una pera di facebook. Ognuno ha i suoi metodi preferiti, c’è chi prima scalda il cucchiaino con qualche commento salace e chi si infila diretto nel calderone dell’odio politico. Io cercavo dolore, è quella la mia droga. Più efficace, pulita e nobile dell’odio. Quello casomai viene dopo, per rifare la punta al paletto che mi pianto nel cuore.
Ho aperto la bacheca e li ho letti tutti, i vostri messaggi. Quelli dove siete in vacanza e non vorreste tornare più. Quelli dove scrivete RIP per commentare la morte di un personaggio famoso. Quelli dove avete ragione voi, che sono la maggior parte, avete sempre ragione voi su qualunque cosa, la ragazzina violentata e il cane abbandonato e la dieta salutista e i migranti e il referendum.
Avete. Sempre. Ragione. E questa cosa mi fa sentire solo, perché io ragione non ce l’ho mai, neanche quando vi vengo davanti e urlo, quando vi pugnalo al buio, quando vi ignoro, dentro di me lo so che sto sbagliando, e vorrei sedermi e chiedere scusa per tutte le volte che non sono stato all’altezza delle vostre aspettative, ma ho un orgoglio così duro e radicato che non lo sposto più, e l’unica cosa che posso fare è fingere. E intanto dentro si spande un’altra mano di catrame sul giardino dei miei buoni sentimenti.

Sono uscito dal vicolo che tremavo, ma mi sentivo meglio, più stabile. Sarei riuscito a tornare a casa.
Una signora con un cagnolino al guinzaglio mi ha chiesto se avevo bisogno d’aiuto, dovevo avere un aspetto orrendo. L’ho guardata, avrà avuto cinquant’anni, bionda, elegante. All’altra estremità del nastro colorato una specie di topo dal muso piatto mi fissava coi suoi occhi a palla.
In un’altra occasione avrei provato un sentimento di amore sincero per quella donna, ma ero in pieno rush vittimista, li volevo solo tutti morti. Ho dato una pedata al cane e me ne sono andato via, lasciando la donna a strillare “Gaetano! Gaetano!”. Dopo un momento è arrivato uno spilungone, evidentemente Gaetano, che mi ha inseguito e mi ha preso per un braccio.

“Perché hai picchiato Gaetano?”
“Eh non ho capito un cazzo”, ho risposto, divincolandomi e riprendendo a camminare.
“Sei un uomo di merda!”, ha insistito quello che a quanto pare non era Gaetano.

Ho sentito un istinto fortissimo a dipingermi un teschio sulla maglietta, imbracciare un Zastava M70 e dispensare giustizia dal marcato accento balcanico.
In tasca avevo solo le chiavi di casa, le ho strette nel pugno e ho colpito il tizio al volto, con tutta la forza di cui ero capace. Mi sono fatto malissimo. Lui no, non ha battuto ciglio e mi ha preso a scappellotti fino a farsi venire il fiatone. Non era molto in forma, sennò stavamo lì ancora adesso.

Mi sono riavviato verso casa con uno zigomo gonfio, la camicia stropicciata, gli occhiali storti. Dentro stavo messo peggio, che non lo sapevo come stavo dentro. Avevo voglia di piangere, ma mi sentivo stranamente reattivo, come se le botte fossero state quello che segretamente anelavo di ricevere da tempo. Una punizione per le mie brutture, una ragione per il mio perenne senso di colpa, mi sentivo come se avessi trovato finalmente il mio posto nel mondo. Ce ne volevano di più.

Ho chiamato un numero a caso della rubrica e ho insultato la persona che stava di là, così, gratis. Poi l’ho fatto col numero successivo e con quello dopo ancora. A quelli che non rispondevano spedivo un messaggio vocale su whatsapp in cui offendevo i loro genitori. Era pazzesco come mi facesse sentire libero! Fra una telefonata e l’altra mostravo il medio agli automobilisti, ma non si è fermato nessuno e finalmente ho raggiunto il portone di casa, miracolosamente vivo.

Ho scoperto di non avere più le chiavi: me le aveva strappate di mano il padrone di Gaetano e le aveva tirate oltre un muro, ma al momento ero troppo indaffarato a guardare l’altra sua mano che mi si schiantava in faccia. Dopo la colluttazione mi ero dimenticato di andarle a riprendere. Avrei dovuto farlo adesso.
Il mio corpo mi diceva di no, tutta l’adrenalina era stata riassorbita, lasciandomi esausto, e così le sostanze di cui andavo ghiotto. Mi sentivo svuotato e privo di scopi. La vita mi faceva di nuovo schifo. Di colpo l’eventualità di prendere altre botte mi faceva stare male, chissà perché.
E se fossi tornato indietro avrei rischiato di incontrare alcune delle persone cui avevo fatto gestacci, c’era la possibilità di rendere lo schifo attuale il gradino più alto di un disfacimento pericoloso.

Non riuscivo a trovare un equilibrio, mi sentivo sballottato su questo tagadà emotivo senza maniglie né orario di chiusura. Avevo paura che sarebbe durato per sempre, con me al centro a cercare di tenermi in equilibrio e a sbattere continuamente contro le persone che mi stavano intorno, fino alla totale distruzione. Era inevitabile che sarei morto, prima o poi, ma avevo sempre nutrito la speranza di arrivarci vivo.

È stato allora che ho deciso di uccidermi.

Perché se il destino di chiunque è morire bisogna cercare di rendere l’attesa un percorso piacevole, sfruttare quel poco che si ha nella maniera migliore, allontanare i guai, tenersi vicine le cose belle quando le si incontra, imparare e crescere e affastellare ricordi come fotografie su una parete, una addosso all’altra, una migliore dell’altra, tanto da spendere il proprio ozio a non saper decidere quale riguardare prima.
Ma se ogni passo verso l’inevitabile traguardo è in sottrazione, se quando guardi la tua parete la trovi spoglia e ogni foto che riprendi in mano, per ingiallita che sia, è migliore di quello che le sta di fronte, se la cosa più bella che hai è un letto dove spegnere la luce e il dolore ogni sera un po’ prima, se non trovi niente, non vedi niente, non senti di avere niente per cui andare avanti, allora non è più vita, è stare in coda ad aspettare il tuo turno per restituire questa roba che ti hanno prestato, e che non sei mai stato capace di far funzionare.
E allora meglio prima che poi. Meglio subito.

In casa avevo coltelli in quantità, prese elettriche, finestre abbastanza alte, corde.. Ero sicuro che il materiale non mi sarebbe mancato..
Ma come è meglio uccidersi? Perché questa cosa va pianificata, non è un gesto che si può improvvisare. Se poi non funziona rischi di ritrovarti disabile, in una condizione peggiore di quella di prima, e senza alcuna possibilità di porvi rimedio. Allora sì che diventa davvero aspettare di andarsene.
No, dovevo farlo per bene.
Il dolore non mi spaventava, ma avevo capito che mi faceva sentire meglio, e non c’è come sentirsi meglio appena prima di ammazzarsi per vanificare il gesto. Avrei dovuto trovare un modo indolore di togliermi di mezzo.
I sonniferi mi sembravano una soluzione perfetta: te ne cali trenta quaranta pastiglie, ti viene sonno, non ti svegli più. Pulita, sicura, senza sangue che fa brutto da trovare e se uno volesse riciclare il mobilio avrebbe dei problemi.
In casa non avevo sonniferi, come ho detto le mie droghe sono tutte endogene, e nessuna farmacia me le avrebbe vendute senza la ricetta. Avrei dovuto consultare un medico.

Fu così che mi decisi a farmi seguire da uno psicanalista.

(continua)