“La sofferenza stimola l’organismo a rilasciare endorfine. Le endorfine sono sostanze analgesiche in grado di procurare stati d’animo piacevoli. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì: ci si può drogare di emozioni forti.”

Guardo il professor Hans Delbruck con rispetto e timore. Ogni volta che vengo a trovarlo è come aprirmi un chakra, ma col trapano, che comunque è un modo come un altro per migliorarsi, guarda il dentista, ogni volta che ti buca la faccia il suo conto corrente migliora tantissimo.

“Ma perché il dolore e non il piacere? O un bello spavento, tipo?”
“Perché il dolore è un’emozione economica, facile da procurarsi, e non ha bisogno di collaboratori, basti tu. Anzi, se sei da solo riesce pure meglio.”
“Allora è per questo che penso sempre a cose dolorose, o mi perdo nei ricordi malinconici, o trovo così appagante piangermi addosso!”
“No vabbè, che c’entra, quello è perché sei un narcisista, ma il pianto in generale è un’attività troppo piacevole per non destare sospetti.  È perverso quanto ti pare, ma se ci sono persone che amano farsi picchiare perché a uno non dovrebbe bastare farsi un pianto ogni tot? Oltretutto tu sei un insicuro, e il dolore è un alibi straordinario per commettere qualunque bassezza: se soffri hai sempre ragione, e se oltre a soffrire riesci ad accusare qualcun altro del tuo dolore sei a posto!”

Insomma, il professor Hans Delbruck mi ha aperto gli occhi sulla mia condizione di drogato. Mi ha suggerito di procurarmi la stessa sostanza tramite emozioni positive, che costano un po’ di più, ma non mi riducono come un consumatore di metanfetamine, che è grossomodo il mio aspetto attuale.

“Proverei la gioia. Non trascurerei neanche il divertimento, finché ce n’è. Ma al tuo posto mi farei prima di tutto un giro nell’altruismo, la generosità, quelle robe lì. Magari potresti fare volontariato.”

Intanto che decidevo mi sono messo da bravo in coda al SerT, che loro di tossici se ne intendono, e in attesa della dose di serotonina mi sono lamentato un po’ per lo squallore del posto in cui mi trovavo, che insomma, io merito di meglio, e guarda un po’ che gente.
È arrivata un’infermiera col culone e un grosso porro in mezzo alla faccia, mi ha dato una tavoletta di cioccolata per placarmi l’astinenza e mi ha detto di avere pazienza. Aveva una bella voce, e il suo gesto è stato così gentile e inaspettato che mi sono innamorato di lei seduta stante e le ho chiesto di uscire.
Ho sentito subito un lavorìo all’ipofisi, mi si è contratto lo stomaco, e un carico di neurotrasmettitori si è sparato in vena urlando di gioia. Perché noi drogati di emozioni siamo soggetti all’innamoramento facile, basta tenerci su l’autostima e ci facciamo piacere anche i morti.
Lei purtroppo o per fortuna aveva una consapevolezza di sé molto superiore alla mia, e mi ha liquidato con un sorriso:
“Vedrà che dopo l’iniezione si sentirà subito meglio”
“Per te invece ci vorrebbe una rinoplastica”, ho sibilato, livido di insoddisfazione. Il mio stomaco si è contratto di nuovo, altra dose di alcaloidi in circolo a rimescolar le carte.
Ma aveva ragione, una volta riportato a galla l’umore ho cominciato a vedere il mondo con più raziocinio, a capire cosa voglio davvero e cosa cerco solo per noia.
Sono andato su Amazon e mi sono comprato un altro ukulele, una camicia, un caricabatterie, un tablet, dei fumetti a caso e poi ci ho provato con la mia vicina di casa. Perché un conto è sapere cosa vuoi e un altro è cercare di ottenerlo.

Ci voleva un altro due di picche per farmi finalmente ascoltare il consiglio del professor Delbruck: ho cercato un’attività di volontariato che mi permettesse di sostituire le emozioni negative con altre positive in grado di stimolarmi l’ipofisi, e magari di trombare, che mettila come ti pare mi sembra ancora il modo più spiccio di riportare l’autostima a livello.
Mi andava bene chiunque, il lusso di scegliere lo avrei lasciato a quelli che hanno tempo da perdere con fesserie come l’amore, a me bastava ficcare.
Quindi no ospizi, no barboni e no bambini. Tutto il resto era grasso che cola.

Le malate terminali vanno bene, non sono molto più magre delle ragazze con cui sono solito uscire, e rispetto a certi personaggi che ho frequentato sono di gran lunga più spiritose.

Mi sono presentato al reparto dell’ospedale dicendo che sono un attore, ho proposto delle letture che aiutassero le pazienti a sopportare la loro condizione, e soprattutto mi sono detto disposto a farlo gratis. Lo staff era entusiasta, mi ha lasciato subito libertà d’azione, entra dove vuoi, scegli chi ti pare, ce ne fossero come te!

La totale libertà di entrare nelle camere e studiare le cartelle cliniche mi ha permesso di effettuare una cernita accurata, e dopo poco ho puntato la mia preda: Jessica. Single, accudita dalla madre anziana, quindi in pratica sempre sola. Capello biondo cenere sfumatura topo, occhio di colore non pervenuto in quanto rivoltato. Zero inclinazione al dialogo, quindi zero menate e zero interruzioni mentre parlo. Poteva essere la mia donna ideale.

Ho chiuso la porta e iniziato a leggere delle cose simpatiche, per rompere il ghiaccio, ma la mia voglia di buttarglielo era così pressante che ho posato il libro e le ho chiesto secco come si veste una malata smaliziella. Non mi ha risposto, ma non mi ha neanche detto di no, al che ho dedotto che ci stava e sono andato a verificare di persona.

Non è stato soddisfacente. Sarà che sono un romantico e il sesso tanto per farlo non mi piace, ma se non ci avessi messo tanta convinzione io sarebbe stato come scopare da solo. Comodo, ma come dire, poca soddisfazione.
No, ci voleva un minimo di coinvolgimento, avrei dovuto avvicinare una donna ancora cosciente che mi facesse sentire desiderato e stuzzicasse la mia autostima.

Ho conosciuto Sabrina, una mora affetta da un male che non aveva ancora cominciato a divorarla da dentro, o perlomeno non ne portava troppi segni. Sotto il pigiama si indovinava un fisico interessante. Mi sono fatto avanti.

“Ciao, mi chiamo Pablo. Vorrei alleviare la tua sofferenza leggendoti qualcosa. Ti va?”
“Preferisco la sofferenza.”
“Ma perché? Non vorresti stare meglio?”
“Perché la vita fa schifo, è un pozzo di dolore e ogni sforzo che faccio per migliorarla finisce in un bagno di sangue, e sono stufa di accollarmi tutte queste croci da sola e non essere capita e voglio morire sola in un angolo.”
“Posso provare a convincerti? Magari scopri che esiste un sottile filo di speranza a cui aggrapparti, e basta tirarsi fuori un paio di centimetri per ritrovare la voglia di andare avanti”
“L’unica speranza è la benzodiazepina”
“Eh mi spiace, non ne ho. Però ho un racconto di Stefano Benni. Te lo posso leggere?”
“Ce l’hai John O’Brien?”
“Se devo scegliere un suicida preferisco Hemingway”
“Hemingway non ha capito un cazzo, la vita non è un safari in Tanzania o un panfilo a Cuba, la vita è su un marciapiede di Las Vegas a fare marchette. Il dolore vero che ti svuota è quello che ti spinge a lasciarti morire di alcool, non una cazzo di paranoia insensata che ti fa vedere mostri dappertutto.”
“Non mi sembra un giudizio accurato. Come se si potesse fare una classifica del dolore, poi.”
“Certo che si può! Io in questo letto soffro più di te che stai seduto su quella sedia a leggere il cazzo di Stefano Benni del cazzo!”
“A parte che non vedo come potresti soffrire, dato che non ho ancora cominciato a leggere, ma sei una presuntuosa. Vabbè, sei malata, ma non mi sembri così sofferente. Nella stanza di là c’è una messa molto peggio, è catatonica, sbava e soffre pure di secchezza vaginale.”
“Ma come ti permetti? Ma cosa ne sai di quel che ho passato io? Io ho tutto il diritto di dispensare giudizi, e voi dovete starvene tutti zitti e accettarli, perché nessuno di voi ha sofferto quanto me! Io sono la Disperazione e la Morte! Io sono l’angoscia del futuro, il peso del passato e l’aridità del presente! Io mi sono reincarnata mille volte nelle peggiori forme di dolore per poter ascendere al sublime e guardarvi tutti dall’alto della mia saggezza distillata da ettolitri di lacrime!”

Me ne sono andato sennò gliela mostravo a schiaffi, la sofferenza. Madonna che presuntuosa di merda! Dalla porta aperta la sentivo ancora gridare “Io sono sposata al degrado! Io ascolto i rapper di Scampìa!”.
Sulla porta ho incontrato Briatore che le portava i fiori. Mi ha detto che era la sua fidanzata, si era fatta ricoverare per un gonfiore alle caviglie, ma aveva voluto farsi mettere fra i terminali per sentirsi più vicina alla loro condizione e provare empatia verso le persone sfortunate. Era così altruista, la sua fidanzata!

Ochei karma, il volontariato è una cazzata, me l’hai fatto capire benissimo, grazie. Alla fine siamo solo un branco di egoisti in cerca di gratificazione. Ma se neanche questa è la strada cosa mi resta da fare?
Camminando verso casa ho iniziato a sentire le fitte dell’astinenza, le vetrine mi restituivano l’immagine di un omino sciatto, mi sono chiesto che razza di futuro può avere uno sfigato come me e quando mi renderò conto che le porte aperte sono finite e non mi resta che arrendermi alla solitudine e alla miseria.

Ero preda di un violento calo di endorfine, mi serviva subito qualcosa di forte o mi sarei ritrovato sul divano a singhiozzare davanti alla foto di qualche ex.

(continua)