Negli anni ’80 la percentuale di giovani che abbandonavano gli studi era altissima, eppure Doppio Slalom riuscivamo a girarlo lo stesso”.

Corrado Tedeschi

“Io la Valsecchi la voglio morta. Ce l’ha con me, capisci? Mi ha preso di mira! Sono sicuro che domani mi interroga, sicuro!”, esclamava Stefano mentre attraversava la stanza del suo amico con larghe falcate, agitando le braccia.

Simone non lo ascoltava, sfogliava la rivista Paninaro con occhi sognanti e sospirava.

“Oh, ma mi ascolti?”

“Secondo te se mi presentassi in classe con un piumino Moncler la Cerelli mi noterebbe?”, chiese Simone uscendo dalla trance ipnotica che il giornaletto gli procurava.

Stefano si fermò in mezzo alla stanza e lo fissò severamente.

“A parte che mi stavo lamentando di problemi di importanza vitale, che se domani prendo un brutto voto in storia mi va a puttane la pagella del primo quadrimestre e i miei non mi lasciano andare in settimana bianca, ma ti pare che la Cerelli si interessa a uno come te? Quella c’ha il grano, mi ha detto mia sorella che suo padre è un allevatore.”

“Suo padre è quello che somiglia a Kabir Bedi? Credo di averlo incontrato una volta qui fuori.”

“Ma va, stanno in una fattoria fuori città, vedessi che posto.”

“..”

“..”

“Ma se avessi un piumino Moncler mi noterebbe per forza.”

“Se potessi permetterti un piumino Moncler non vivresti in un condominio alla Ghisolfa.”

“..”

“..”

“Uno piccolo?”

Ad un tratto Simone venne attraversato da un’illuminazione, come un gatto che ti finisce fra i fari della macchina.

“Aspetta! Chi l’ha detto che il piumino dev’essere originale?”

“Simo, quelli tarocchi fanno schifo, e quelli che non fanno schifo costano tanto che alla fine ti conviene comprarti l’originale!”

“Non se te lo fai fare da Angelo Cutrona, il mago del ricamo!”

“Chi?”

“Cutrona, il sarto calabrese che sta al sesto piano. È bravo, dice mia mamma che saprebbe fare qualsiasi cosa. Lavorava per una sartoria famosa, sai? Sono sicuro che potrebbe farci un Moncler identico all’originale con due lire.”

Coi corpi invasi dall’adrenalina i due amici si precipitarono dal sarto e gli spiegarono il piano.

Cutrona era un omino dai capelli ricci legati in una coda di cavallo che gridava vendetta, i baffetti spavaldi e lo sguardo da playboy, che viveva da solo in mezzo a rotoli di stoffa buttati ovunque, manichini sdruciti e scampoli di ogni colore possibile a ricoprire il pavimento come macerie dopo un bombardamento. Sarebbe stato un ambiente perfino allegro con tutti quei colori, ma i cumuli di spazzatura che emergevano dal casino e quel giallo malato diffuso da una lampadina da 30 watt davano al quadro un aspetto deprimente, come prendere la Notte Stellata di Van Gogh e virarla seppia.

Non fece domande, non era certo la prima volta che falsificava un marchio, e per la stoffa non c’era problema, ma la difficoltà sarebbe stata reperire l’imbottitura.

“Il piumino d’oca è caro, mi ci vorranno un’ottantina di mila..”

“Ce ne occupiamo noi!”, lo interruppe Simone.

“Ah si?”, chiese Stefano.

Il sarto non fece una piega. “Questo abbasserà parecchio i costi”, disse.

Cinque minuti dopo i due ragazzi erano per strada, e con passo da bersagliere puntavano l’edicola in fondo alla via.

“Perché questa dell’inserzione su Secondamano mi sembra una cazzata?”, sbuffava Stefano.

“E’ geniale invece!”, ribattè l’amico, “Ci facciamo regalare un’oca, la spenniamo e portiamo le piume a Cutrona, e in un paio di giorni abbiamo un Moncler originale a ventimila lire!”

“E credi che siano tante le persone a Milano che regalano oche?”

Simone si arrestò di colpo e puntò un indice carico di minacce sul petto dell’amico:

“Allora chiederemo di farci regalare un’anatra!”.

Stefano non insistette oltre.

2.

La signora al telefono aveva una voce profonda da cantante, ma il difetto di pronuncia che le faceva dire le effe al posto delle esse le avrebbe precluso un’eventuale carriera artistica. E poi piagnucolava, ma quello doveva essere legato allo scopo della telefonata.

L’anatra gliel’avrebbe regalata, ma era una separazione dolorosa, e non l’avrebbe mai fatto se non ci fosse stata costretta: da qualche giorno una faina aveva preso di mira la sua fattoria e ogni mattina doveva sopportare lo strazio di trovare un cadavere mutilato nel pollaio. Era bastato un consulto breve coi suoi familiari per decidere che gli animali superstiti andavano portati via, compresa Anna, l’anatra preferita di sua figlia. Ma dovevano prometterle che l’avrebbero trattata con tutte le attenzioni, e che mai e poi mai l’avrebbero ficcata in una pentola.

I ragazzi promisero ridacchiando, e si organizzò il ritiro presso una stazione della metro dalle parti di Bovisa.

“Secondo me è una cicciona”, azzardò Stefano.

“Ricordati la promessa, niente pentola”, rise Simone.

“Allora spero che mia mamma abbia una padella abbastanza grande!”

Poche ore dopo nella camera da letto di Simone sembrava stessero girando un remake in economia de I Predatori Dell’Arca Perduta, con loro due nei panni dei nazisti e una scatola di cartone in quelli dell’Arca dell’Alleanza: Stefano sollevò il coperchio con la stessa sacralità di Paul Freeman, mentre Simone assisteva a poca distanza brandendo due coltelli da cucina così grossi che parevano appartenere a un altro film, un horror ambientato in un campeggio.

Ciò che accadde a quel punto rispecchiò fedelmente la sceneggiatura originale, l’anatra saltò fuori dalla scatola con la stessa furia degli spiriti nel film di Spielberg, e come quelli si mise a imperversare per tutta la stanza, spargendo piume ovunque; i due ragazzi cercarono invano di acchiapparla, l’anatra era veloce, scartava a destra e sinistra come un calciatore brasiliano, dribblava gli inseguitori e li beccava alle caviglie, si liberava da una presa come un cane dall’acqua sul pelo e li sbeffeggiava da sotto il letto, tornava pancia a terra sul tappeto e dichiarava la sua assoluta superiorità liberandoci proprio nel mezzo una cagata da pellicano.

Da pellicano con problemi intestinali, peraltro.

“Nooh! Il tappetoooh! Mia madre mi ucciderà!”, gemette Simone.

Stefano decise che l’inseguimento era durato anche troppo e col braccio a spazzaneve rovesciò sul pennuto tutta la collezione di oggetti che stavano sul comodino.

“Nooh! I soprammobili di cristalloooh! Mia madre mi ucciderà!”

“E quante volte hai intenzione di morire?”, lo canzonò Stefano, mentre estraeva libri da uno scaffale e li tirava contro l’anatra.

Quella non si faceva intimorire, l’aver assistito al crudele assassinio delle sue compagne di pollaio doveva averla resa dura e fredda come un iceberg, schivava i proiettili con facilità e intanto continuava a disseminare il suo percorso da un mobile all’altro di chiazze grigiastre.

Alla fine saltò sull’armadio.

“Dobbiamo tirarla giù prima che torni mia madre! Guarda che casino!”, gemette Simone osservando il campo di battaglia che fino a cinque minuti prima chiamava camera da letto.

“Spostati!”, gli intimò Stefano. Era invasato, catturare quell’anatra era diventata la sua missione, sembrava aver raccolto in quell’azione lo scopo di tutta un’esistenza; trascinò la scrivania dell’amico contro l’armadio senza curarsi di quel che cascava a terra. Per fortuna l’era dei personal computer era lontana, o l’entità dei danni avrebbe superato il prezzo di un intero guardaroba da paninaro.

Simone osservava l’assalto al suo armadio con l’attenzione di un catatonico. Ormai non si trattava più di dare una scopata al pavimento, per far tornare la stanza alle condizioni originarie sarebbe servita un’impresa di pulizie. E sua madre sarebbe tornata entro un paio d’ore.

Andò ad aprire la finestra con l’intenzione di buttarsi di sotto.

“Noo! Chiudii!”

L’anatra non aspettava altro che una via di fuga da quei due deficienti, si gettò nel vuoto senza esitare e atterrò nel giardino sottostante con la sicurezza di uno stuntman navigato.

I due ragazzi si guardarono un secondo, poi optarono per la via più lunga.

3.

Si schiantarono fuori dal portone con la violenza di una slavina, ma si fermarono di colpo dopo due passi.

Quello che avevano davanti era sbagliato. Completamente sbagliato. Come vedere Gianfranco D’Angelo con un pugnale in mano e il costume da Tenerone imbrattato di sangue, quel livello di sbagliato lì.

C’era l’anatra, viva e incolume come l’avevano vista l’ultima volta da quattro piani più su, ma non stava scappando all’ineluttabile destino, non sembrava affatto la belva che era saltata fuori dalla scatola, se ne stava accoccolata in braccio all’uomo come se fosse l’unico suo amico in questa vita crudele e li guardava con aria di sfida. Forse era di quelle che subiscono il fascino della divisa, ma in quel momento il carabiniere del primo piano non la stava indossando. L’espressione sul suo volto era comunque minacciosa come al posto di blocco.

L’appuntato Loscalzo stava uscendo di casa per recarsi al consueto lavoro presso la caserma di Porta Sempione sita in via Tolentino, quando un animale di grossa taglia di colore marrone bianco e grigio identificato come oca o forse anitra lo colpiva sulla spalla sinistra in seguito a una chiara caduta da luogo da accertarsi, ma certamente situato entro uno degli appartamenti del palazzo affacciantisi sul cortile. L’appuntato Loscalzo prontamente catturava l’animale e procedeva a una più accurata identificazione quando dal portone del suddetto palazzo fuoriuscivano due ragazzi riconosciuti come Grisanti Simone del quarto piano e un suo amico con la faccia da delinquente ignoto agli inquirenti, visibilmente alterati. L’appuntato subito collegava la loro presenza e lo stato di agitazione in cui versavano con la caduta dell’animale, e provvedeva ad interrogarli.

“Grisanti, documenti!”

Tutta la foga scomparsa, Simone e Stefano stavano impalati di fronte all’appuntato come quei tizi che non sanno farsi fare le foto e non hanno idea di dove mettere le mani. Quando hai diciassette anni l’ordine costituito intimorisce quasi come le sfuriate di tuo padre.

“Non.. non ce l’ho i documenti.. cioè.. ce li ho, ma.. dovrei..”

“E’ vostra quest’oca?”

“..ee.. ee..”

“Anatra!”, si intromise Stefano. “E’ la nostra anatra, si. Ci è scappata dalla finestra, ma per fortuna l’ha trovata lei, maresciallo, grazie al cielo!”

“Appuntato. E lei chi sarebbe? Favorisca i documenti.”

“Stefano Della Rosa, per servirla. Purtroppo anche i miei documenti si trovano in casa di Grisanti, ma se mi dà due minuti vado su a prenderli!”

Simone assisteva allo show dell’amico e gli veniva da vomitare: quel cretino ostentava una sicurezza da teleimbonitore assolutamente fuori luogo, da un momento all’altro il carabiniere se ne sarebbe accorto e li avrebbe arrestati. Doveva fermarlo.

L’appuntato Loscalzo, provveduto all’identificazione dei due soggetti, passava all’accertamento delle cause che avevano condotto l’uccello anitra a scontrarsi con la sua spalla sinistra.

“eee”, disse Simone con la bocca impastata e la fronte che colava sudore come una bibita ghiacciata sotto il sole d’agosto.

“Si tratta di un esperimento scientifico-letterario che ci hanno affidato a scuola”, riprese Stefano con un sorrisone da ergastolo stampato in faccia, “Stiamo cercando di dimostrare che le anatre di Central Park quando il laghetto gela vengono a svernare al Parco Sempione”.

Loscalzo non faceva in tempo a formulare la domanda successiva, che un uomo veniva fuori dal portone imprecando in un forte accento del sud Italia. L’appuntato questa volta era in grado di riconoscere il soggetto come Angelo Cutrona, già iscritto nel registro degli indagati per casi di truffa, contraffazione ed evasione fiscale. Il Cutrona non dava segno di avere a sua volta riconosciuto il carabiniere e si rivolgeva direttamente al Della Rosa apostrofandolo con l’appellativo di “coglione testa di cazzo”.

“Appunto, il Giovane Holden”, lo indicò Stefano, sempre sorridendo.

“Ma non sapete riconoscere un’oca da un’anatra, brutti cazzoni? Ma checcazzo vi insegnano a scuola?”

Simone non cercò neanche di minimizzare, ormai si vedeva piegato a novanta nella doccia di un carcere di massima sicurezza, tanto valeva giocare a carte scoperte. “Credevamo che fosse la stessa cosa”, rispose.

“E non è la stessa cosa neanche per il cazzo! Se fosse la stessa cosa si userebbe il piumino d’anatra, no? E io cosa credete che ci sto a fare, la figura del cazzone? Io sono un professionista, cosa credete? Quant’è vero che mi chiamo..”

“Angelo Cutrona”, lo anticipò il carabiniere, sempre con l’anatra in mano.

Il sarto sembrava lusingato di quella dimostrazione di notorietà, e si rivolse al portatore d’anatra con un sorriso e la mano tesa. “E con chi ho il piacere di parlare?”

“Anna!”, esclamò qualcuno dall’ingresso del giardino. Si voltarono tutti, sarto, carabiniere e ragazzini, e tutti insieme esclamarono all’unisono “Minchia!”.

Perché non c’è estrazione sociale o divario culturale o generazionale che tenga, quando ti volti e davanti a casa tua c’è Sandokan non puoi che esclamare minchia!

“Anna!”, ripetè Sandokan precipitandosi verso l’appuntato. L’anatra si mise a sbattere le ali, il carabiniere la lasciò e tutti restarono ammutoliti quando la videro correre incontro al nuovo arrivato, saltargli sulle scarpe emettendo squittii di gioia, lasciarsi abbracciare. Sembrava un documentario, di quelli che trasmettevano al cinema prima dei cartoni di natale, che ti facevano deglutire spesso e ti lasciavano gli occhi lucidi.

“Lei conosce quell’anatra?”, chiese l’appuntato Loscalzo spezzando l’incantesimo.

“Certo, è l’anatra di mia figlia!”

“Lei è.. il signor Cerelli?”, balbettò Simone, pallidissimo.

“Ci conosciamo?”, rispose lui.

“Ma volevate farmi spiumare l’anatra di Sandokan?”, chiese Cutrona, completamente a sproposito.

“Insomma, documenti, tutti quanti!”, intimò l’appuntato Loscalzo.

Venne fuori che il signor Cerelli si trovava spesso in quella parte della città per questioni di lavoro, e aveva riconosciuto l’animale passando sul marciapiede; gli venne restituito dalle mani dell’appuntato con tante scuse per il disturbo. Angelo Cutrona non fu altrettanto fortunato, un’ispezione al suo appartamento portò alla formulazione di nuovi ed emozionanti capi d’accusa, fra cui detenzione di sostanze stupefacenti e ricettazione. Stefano e Simone abbandonarono la scuola quel giorno, andando a incrementare le statistiche sulla mancata scolarizzazione nella provincia di Milano.

L’anatra Anna tornò a casa, accolta dagli onori che si riservano ai reduci, e visse il resto della sua vita circondata dall’affetto della famiglia Cerelli; della faina non si seppe più nulla.

“Beato te che te ne stai in casa a riposare!”, mi dicono, come se le ferie fossero per me un periodo dedicato all’ozio più bieco. Io? Riposare? Ma quando mai! Giusto l’altro giorno ci ho provato, che dopo un’estenuante partita al gioco del Signore Degli Anelli avevo bisogno di staccare, ormai vedevo orchetti ovunque, armati di scale, accorrere sotto le mura del Fosso di Helm e fare a pezzi le mie difese sguarnite.

Me ne sono andato al mare, da solo, senza cane e fidanzata, per godermi quel po’ di sole di fine agosto che mi avrebbe regalato un colorito meno salmastro (termine che deriva da salma, ovviamente). Ho scelto Sori, bella vicina, tranquilla, popolata solo da vecchietti innocui, “metto su il vibro, leggo un bel libro, cerco un po’ di relax”. Mi sono addormentato, e al risveglio la luce era andata via.

“Ammazza quanto ho dormito”, mi sono detto, prima di rendermi conto che non stavo più in spiaggia, ma in una specie di cantina piena di roba.

“Maccheccaz..”, l’esclamazione mi è morta in gola alla vista dell’individuo che mi osservava dall’alto dello sgabello su cui era seduto: un tizio lungagnone, la faccia feroce, un tatuaggio raffigurante un fungo porcino che lotta con un’orata. L’ho riconosciuto subito, avevo già visto quell’espressione feroce al telegiornale in un servizio sulla pirateria nel mar Ligure, era il bieco Capitan Secchin, Terrore Del Tigullio, e mi aveva fatto prigioniero!

“Cosa vuoi da me? Lasciami andare, non ho niente, solo un telefonino pieno di canzoni scaricate illegalmente dalla rete e un romanzo in edizione economica!”

“Voglio il tuo aiuto”, mi ha risposto, lasciandomi basito. Come il mio aiuto? Il pirata più feroce dei sette mari ha bisogno di aiuto? E per fare cosa?

“E per fare cosa?”, ho ripetuto ad alta voce, dato che dubitavo che potesse leggere la voce narrante.

“Per andare a pesca di mormore!”, mi ha detto. “Carica tutta questa roba in barca!”, mi ha indicato dei grossi secchi blu, i remi, il motore e un salvagente.

“Grazie signor pirata, ma non occorre disturbarsi, sono un provetto nuotatore!”

“Non è per te, idiota, è per lui!”, mi ha risposto indicando un altro losco figuro che stava in silenzio a osservarmi, nell’oscurità. Era il suo socio, il Piratarquata, il secondo filibustiere più feroce che abbia mai solcato i mari. Giusto per dare un’idea, si dice che sia talmente sanguinario che anche il mare ha paura di lui, e la prima volta che ha messo in acqua il suo vascello le onde si siano ritirate fino a farlo incagliare, e da allora sta là, ad Arquata, ad aspettare che torni la marea per poter salpare.

Fino ad allora presta il proprio servizio ai bucanieri più feroci e barcadotati, come Secchin.

Il Piratarquata è venuto verso di me e mi ha porto un secchio, suggerendomi di adoperarlo se volevo vomitare. Ho ringraziato, rassicurandolo sulle mie condizioni di salute, e lui me l’ha sbattuto in testa strillando “E allora alza il culo e carica la barca!”.

Appena tutto il materiale è stato messo a bordo abbiamo preso il mare, Capitan Secchin di poppa, a vegliare sul motore, il Piratarquata nel mezzo, a controllare che non ci speronasse una lampara, e io ai remi, a vogare come una bestia, che la benzina costa e il motore spaventa i pesci.

Una volta raggiunto il (lontanissimo) punto di pesca Secchin e il Piratarquata hanno gettato il palamito, mentre io boccheggiavo per la fatica.

“Allora? Che fai, ti riposi?”, mi ha detto il terribile secondo. “Pant!”, ho cercato di rispondere, ma lui mi ha sbattuto il solito secchio sulla testa e si è messo a strillare “Riportaci a riva! E’ ora di andare a dormire!”.

A dormire loro, chissà dove, io sono stato legato alla barca a vegliare sul motore e sul salvagente fino all’alba.

Il mattino successivo capitan Secchin si è presentato di nuovo, con un altro equipaggio. Stavolta si trattava del ferocissimo Capitan Filippo Barbanera e del suo aiutante, Medusa Occhioditriglia, ricercati fino alle Barbados per atti di pirateria e furto di focaccia. Ho saputo da loro che il Piratarquata è stato catturato da James Brooke, il rajah di Sarawak, ma è subito riuscito a fuggire portando con sè la nipote del tiranno, Marianna. I due sono convolati a nozze e partiti in luna di miele in Canada, o negli Stati Uniti, o forse in Australia, il racconto a questo punto non è molto chiaro.

Chiarissima invece era la mia condizione di prigioniero, costretto a riprendere il mare per tirare su il palamito. Razze, stelle marine, pericolosissime agne (agne? agne, agne..), gronchi, polmoni, subbaqui, pesci paduli, di tutto abbiamo tirato su sotto quel sole a picco che ci squagliava il cervello, e quando sono finiti gli ami e la pesca non è stata sufficiente qualcuno ha suggerito di buttare in mare me, per cercare di attirare qualche pesce più grosso. A quel punto mi sono dato alla fuga nel modo più veloce che conoscevo, cambiando canale.

Capitani coraggiosi

Sul terzo infatti trasmettevano Alle Falde Del Kilimangiaro, con quella scassacazzi di Licia Colò, che la detesto da quando faceva Bimbumbam. Il servizio parlava del Monte Reale, e della difficile impresa tentata dai due scalatori Compabloni e Lajackelli. Qui sotto le foto.

Monte Reale