Ho bisogno di una parola.

Da un po’ c’è questa moda di divulgare termini in lingue straniere che sembrano circoscrivere con precisione concetti per natura vaghi, come l’odore di ascelle e piedi sull’autobus che ti porta in centro nelle mattine di agosto.

Pare che in tedesco si dica Augustmorgenbusfüßeachselhöhlengeruch.
Sembra quasi una ninnananna, lontanissima dall’immagine che descrive.

Credevo che una lingua aspra come il tedesco funzionasse solo con gli insulti, ma è anche vero che è stato un poeta di lingua tedesca a scrivere questo sonetto bellissimo.

Sii oltre ogni addio, come se fosse già dietro
di te – come l’inverno che appunto se ne va.
Perché tra i tanti inverni c’è un inverno talmente infinito
che, se il tuo cuore lo sverna, allora sopporta ogni cosa.

Sii sempre morto in Euridice – innalzati cantando
e, nella pura relazione, ridiscendi celebrando!
Qui tra quelli che svaniscono, nel regno del declino,
sii risonante cristallo che già nel suono s’è infranto.

Sii – e insieme sappi la condizione del non-essere,
fondamento interminato della tua interna oscillazione –
che tu possa compierla appieno, quest’unica volta.

Alle risorse già usate, come a quelle oscure e mute
della natura ricolma, alle somme indicibili,
aggiungi con gioia te stesso, pareggia il conto!

A me basta una cosa più semplice, credo.

Ho bisogno di una parola per descrivere quella malinconia che ti prende quando pensi a una città dove sei stato una volta, ed è troppo lontana per tornarci ancora.

Ma non solo.

Dovrebbe descrivere il momento in cui ti capita sotto gli occhi una sua foto, e ti prende il desiderio di rivederla, camminare fra i suoi palazzi, respirarne l’odore. La voglia di perderti in angoli che non hai avuto il tempo di esplorare, di scoprire aspetti di lei che ancora non conosci.

E questo desiderio dovrebbe impastarsi con la tristezza di sapere che probabilmente non la ritroverai più, perché è davvero troppo lontana.

Mi serve una parola che trasmetta le giuste dimensioni di quel piccolo dolore che non fa davvero male, tanto che ti piace coltivarlo, fossero tutti così i dolori, in un paio di sospiri se ne vanno.

Non lo so se in qualche lingua esiste una parola che spieghi tutto questo.

Magari in eschimese, loro ci stanno attenti a questi dettagli, hanno tremila parole per dire neve, figurati se non ne hanno una per spiegare che un posto lo senti tuo anche se non ci hai mai abitato abbastanza, ma se potessi chissà, forse lo faresti.
Che sopporteresti il rumore che fa una città, anche una rumorosa e scomoda e fredda e caotica.

Ma quanta vita c’è in una città, quanta ne puoi assorbire, eh, eschimesi?
Lo sapete voi?

Come si dice che del tuo luogo preferito al mondo ami anche i difetti, e oggi li rimpiangi tutti?
Che sei dall’altra parte del mondo a guardare la sua fotografia e vorresti essere lì, seduto sui gradini di un portone qualsiasi a guardarla per un po’, questa foresta di palazzi e persone che non si fermano mai, e camminarle accanto senza una destinazione, solo per il piacere di respirarla ancora un po’ e sentirti il suo odore addosso.

Stasera mi serve quella parola lì.

Non è che puoi chiamare Central Park e dirgli che ti manca.
Il Chrysler Building non lo incontri per strada e fai il distaccato per non mostrargli quanto è brutto girarti e andare via.
Non te lo sogni di notte, un newyorkese, e se succede non ti svegli come se ti fosse caduto dal letto il cuore.

Ci vuole una parola che sostituisca tutto questo, non importa in che lingua, mi basta che sia una parola sola.

E che magari si possa usare anche per le persone.