Ho piantato lì con improvvisazione teatrale perché non sapevo finire le storie. E quando scrivo è uguale, vado avanti per pagine senza sapere come tirarmi fuori dal mio Meereenese knot. E vuoi che nella vita mi comporti diversamente? Certo, come no.
È che a me non piace chiudere con le cose, andarmene, dire che basta. Basta è una parola così brutta, dai. Intanto non ha che una sola vocale ripetuta, la a, che per essere una vocale è molto bella (per esempio la u non ha lo stesso fascino), ma denota poca fantasia. E poi le consonanti sono scivolose, la s ti accompagna su per la salita dove incontrerai la t che ti taglierà le gambe (è per questo che le salite spezzano, mica per lo scarso allenamento), e tutto questo sforzo viene presentato da una b, consonante da sempre impiegata per lavorare sul dubbio.
Sarà per questo che non riesco mai ad andarmene, perché ho sempre il dubbio che non sia la decisione più saggia, e rimando all’infinito anche quando in quel posto lì non ho più niente da fare, piove e ho i piedi bagnati, e tutti compreso l’autista del 104 (Indipendenza Della Verdura) mi dicono di levarmi dalle palle, più per me che per loro, che ad un certo punto basta è Basta.

Così indosso il vestito della risolutezza e me ne vado, solo che il vestito della risolutezza non ce l’ho, mai comprato, aveva dei colori troppo vivaci, non mi ci sentivo a mio agio io abituato ai grigini, e così mi metto quello che indosso di solito quando viene il momento di fare come Baglioni.
Ne ho due: uno è quello della morte, tutto nero color finestre sprangate e musica drammatica, superslimfit, che dai troppi lavaggi si è ristretto e mi costringe a saltare pasti su pasti per rientrarci senza soffocare. Poi soffoco lo stesso, ma se mangiassi, signora mia, non mi starebbe mai ma mai;
l’altro è quello della bile, di un bel verde ramarro, mi sta come le scarpe da tennis preferite e non me lo toglierei più, tanto che neanche lo lavo, me lo infilo così com’è e ci vado in giro convinto che basti un po’ d’aria a levargli quella puzza di acido. Ovviamente non è così, se ne accorgono tutti e mi girano alla larga, ma io sono talmente soddisfatto del mio aspetto da rettile che non me ne curo. Almeno finché non mi capita una di quelle epifanie in cui mi annuso le ascelle e svengo. Sono rare, il mio naso percepisce meno odori del vostro per via di una malformazione, ma ogni tanto capita anche a me. E allora è il momento di una lavatrice veloce e tante scuse per aver imposto a chiunque i miei miasmi.

Cambiare casa, lavoro, città, amici, fidanzata, abitudini, bar, musica nell’autoradio, pettinatura, occhiali, alimentazione, mezzo di trasporto, è altrettanto difficile.
Perché, quindi, cambiare blog dovrebbe essere una passeggiata? Guarda quanto bello spazio bianco c’è ancora su cui scrivere le mie fesserie, non è uno spreco lasciarlo vuoto? Fammi buttare giù due righe, dai.

Ecco, no.
Stare a casa a postare liste infinite di buoni propositi è bello e utile se poi si mettono in pratica, sennò è solo vanità e correre dietro al vento, e non se ne trae alcun profitto sotto il sole. Me l’ha detto Qoelet, che in questi giorni è venuto a stare da me perché se accumula abbastanza ricchezze per pagarsi una camera in un albergo di infima categoria poi Dio si adira perché le sue ricchezze verranno poi godute dall’empio, e lo punisce. Invece si vede che scroccare un divano è cosa buona e giusta.

“Ho visto tutto questo nei giorni della mia vanità”, mi ha detto. “C’è un tale giusto che perisce per la sua giustizia, e c’è un tale empio che prolunga la sua vita con la sua malvagità. Non essere troppo giusto, e non farti troppo saggio: perché vorresti rovinarti?”

Gli ho risposto che mi basterebbe farmi i cazzi miei e non essere tormentato da chi vuole cambiarmi a tutti i costi e poi non gli vado bene comunque.

“Non essere troppo empio, e non essere stolto; perché dovresti morire prima del tempo? È bene che tu ti attenga fermamente a questo, e che non allontani la mano da quello; chi teme Dio infatti evita tutte queste cose”

Anche i superstiziosi, gli ho risposto, strusciandomi le balle.

“La saggezza dà al saggio più forza che non facciano dieci capi in una città. Certo, non c’è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai. Non porre dunque mente a tutte le parole che si dicono, per non sentirti maledire dal tuo servo; poiché il tuo cuore sa che spesso anche tu hai maledetto altri”

E a quel punto mi sono sentito autorizzato a cacciarlo di casa, che il divano serve a me e Jack per guardare le serie tv e addormentarci verso il minuto ventitré.

Ma non è di questo che volevo parlare, maledetti pensieri associativi. Volevo dire che è inutile fare liste e non seguirle, rilasciare dogmi tramite ufficio stampa e ignorarli nella pagina successiva, predicare bene e razzolare peggio che male, maledire lo sciampismo come la peggior piaga dell’animo umano e poi finire a lavare scale come una portinaia qualunque. No, cari miei, sarò anche bionda nell’animo, ma portinaia mai. Se non altro le sciampiste hanno una dignità. Quindi non posso che assecondare questa rivincita delle coatte tacco dodici, e indossare fieramente la mia parrucca rossa gridando “Col cazzo! È ora di agire!”. Sarebbe andato bene anche “È ora di agire col cazzo!”, visto che ultimamente si chiacchiera tanto ma si conclude pochino, ma il concetto è un altro: è ora di muoversi. E quindi mi muovo, e butto giù dei pilastri che manco Sansone il Capellone dopo che gli è scesa la depre per un taglio sbagliato.

Niente, tutto questo giro di parole per dire che ho delle difficoltà a non scrivere più niente sul vecchio blog, ma preferisco mantenere qui sopra le cose più serie. Tipo questo post, che voi non ci crederete, ma è serissimo. E che sto facendo delle cose importanti fuori dalla pagina, non ne parlo perché non sono ancora certo di riuscirci, ma solo il fatto di provarci è per me un grande risultato. Il 2016 è iniziato benissimo, si è girato subito in un pozzo artesiano dove la camorra va a svuotare di nascosto i camion dello spurgo, ma sul finale potrebbe rivelarsi l’anno del Grande Rinnovamento. Anche senza tagliarmi i capelli, che io mi trovo così bene da quello di via Maragliano.

L’anno scorso, dopo mille peripezie, ho finito di scrivere un racconto di una ventina di pagine, iniziato una sera per gioco e portato avanti in quel modo balengo che ho di scrivere i racconti, senza sapere assolutamente se riuscirò a finirli e scoprendo cosa succede solo nel momento in cui li scrivo. Avevo delle cose da dire a qualcuno e ho cominciato a raccontare una storia per arrivarci col tempo necessario, poi si sono aggiunte delle cose da dire a qualcun altro, altre cose mi sono morte in bocca e questo spiegherebbe certi problemi di alitosi, e insomma, quando l’ho finito era diventata una storia del tutto diversa da quella che avevo in mente all’inizio.
C’è un personaggio che si chiama Pedro o Pablo, e infatti non sono io oppure sì, e questa esposizione con filtro a scomparsa mi pesava un po’, tanto che invece di pubblicarlo subito sul blog l’ho messo su issuu per farlo leggere solo a un paio di amici, e poi me lo sono dimenticato.

Fino a venerdì sera, quando ho incontrato uno dei personaggi del racconto. Se il tizio seduto a due metri da me si fosse girato avrebbe visto due persone ben vestite che chiacchieravano amichevolmente di cose senza importanza, ma gli sarebbe bastato mettersi al mio posto per scoprire che su quelle due piastrelle che occupavo non era più il 13 maggio 2016:
era il 20 luglio 1969, io indossavo una tuta da astronauta e sotto di me si stendeva un terreno mai calcato da piede umano. O perlomeno così mi sentivo nell’affrontare quella persona per la prima volta, dopo due anni di vogliomorirequiora e senonpossomorireioalmenofallotugrazie possibilmentemalissimo ogni volta che ci si incontrava.
È passato del tempo e sono successe delle cose a tutti e due, per cui incontrarsi e parlare ha smesso di somigliare al vertice di Camp David. E meno male, perché io interpretavo sempre Arafat.

È stato come togliersi gli scarponi dopo due anni che cammini per i monti. Ho fatto pace col Pablo di due anni fa e ho rimbrottato quello di questi ultimi mesi, che se la stava raccontando e ce lo cacava che era un martire.

E ho caricato il racconto sul pablog, lo potete scaricare dal link qui a sinistra sotto il titolo. L’ho convertito in EPUB, leggibile da qualunque supporto digitale compreso l’orologio da polso di Batman. Non so se ci sono riuscito benebene, se trovate degli errori segnalatemeli, così li correggo e lo riposto con la fascetta “seconda ristampa”, che fa sempre bello.

Il mito di Orfeo mi ha attraversato la strada tante di quelle volte che o lo investivo o me ne innamoravo. Ho scelto la seconda: un paio di volte l’ho infilato nei miei racconti, e sono molte di più quelle in cui me lo sono cucito addosso facendo quello che canta e soffre. Non che ci voglia molto, la storia si presta a qualunque fallimento sentimentale, e chi non ne ha almeno uno?

Euridice muore, il suo sposo Orfeo soffre come una bestia e scende a cercarla fino agli Inferi, dove fa una testa così a tutti finché Ade si arrende e gliela restituisce. Avrà una seconda possibilità, qualcosa che non a tutti è concesso. L’unica clausola è che torni nel mondo dei vivi camminando davanti a lei, e che non si volti mai a guardarla, neanche una volta, altrimenti la perderà per sempre.
Una prova di fiducia, in un certo senso. Che poi è quello che si chiede a una seconda possibilità; perché se è finita una volta vuol dire che qualcosa non andava, e il mito ci suggerisce proprio quello, se vuoi che vada diversamente devi comportarti diversamente.


Orfeo ci prova, ma alla fine non si fida: si volta a guardare Euridice, e così le butta addosso i suoi dubbi che non è stato mai capace di superare. Lei se ne va, ovvio. Tutte le donne a casa a fare il tifo. Brava! Quello lì non ti merita! Basta fare la balia ai ragazzini e accontentarsi di uomini insicuri, lascialo perdere! Piangerà la tua scomparsa per un po’, poi si troverà un’altra cretina su tinder e si dimenticherà di te, a dimostrazione di quanto fosse sincero. Stronzo!

A metà del secolo scorso ci ha pensato Cesare Pavese a riportare equilibrio (non so se anche lui si sia rifatto a versioni precedenti, scusate): secondo lui Orfeo è sceso nell’Ade, ha convinto gli dei a restituirgli l’amore, ma quando stava risalendo verso la superficie si è reso conto che era una cazzata gigantesca, e si è voltato apposta. Cioè, questa mi ha lasciato e io la rivoglio ancora indietro? Mi ha fatto soffrire come un cane e io mi dichiaro pronto a rifare tutto da capo?
Ma cosa sono, cretino?

Roberto Vecchioni ci ha scritto una canzone bellissima su questa versione del mito, dove fa dire al protagonista “Tutto quello che si piange non è amore”.
È tutto in quella frase lì. Orfeo si volta perché la vita va avanti, ed è ridicolo crocifiggersi a un ricordo, per bello e magico che sia.

E Pavese ci dice anche un paio di cose sull’ego: Euridice se n’è andata, è venuta giù negli Inferi, che francamente sono proprio un bel posto di merda, e adesso questa è casa sua, ed è giusto che stia qui, fra i morti. Vuole stare con Ade il pallidone? E perché dovrei convincerla che sbaglia? Se è contenta così..
E se ne va. Perché chi non mi vuole non mi merita. Alla fine Euridice si merita esattamente quello che ha: buio e freddo. E io ho di meglio da fare lassù, fra i vivi. Ciaone.

Secondo me c’è anche un po’ di risentimento, stiamo parlando di uno che alla fine per una donna si è ammazzato, però il concetto è giusto: Orfeo scende all’inferno perché l’inferno ce l’ha dentro, non ha scelta, sta malissimo; affronta la morte per cercare una felicità effimera, ma capisce che la felicità te la costruisci da solo, e a quel punto lei non gli serve più a niente. Torna alla luce completo, e suggerisce a Bacca di farselo anche lei un viaggetto da quelle parti, che le fa solo bene. Lei non la prende sportivamente, come si vedrà.

Orfeo Rave, lo spettacolo messo in scena dal Teatro della Tosse di Genova, sposa questa versione. E lo fa rivestendo il mito di atmosfere sudamericane, con un protagonista truccato come il dio del vudù haitiano, con un funerale brasiliano che è una gioia per gli occhi, con la capoeira, con uno strumento che non ho capito se è una kora o kosa.
C’è un sacco di altra roba nel capannone della Fiera, Mercurio chirurgo che recita in videoconferenza, morti che ballano all’obitorio, discoteche e chitarristi che svisano sul carrozzone come quello di Mad Max.
La storia è, invero, un po’ frammentata, Orfeo è un pupazzone snodato del tutto inespressivo, soffro più io seduto sul gabinetto, e gli altri intermezzi recitati non veicolano granché a parte sé stessi. Ma il risultato finale ti cattura, vuoi per la scenografia, vuoi per i ballerini, la musica, la suggestione arriva e ti convinci che l’amore fa più paura della morte e tutto ciò che ti muove è solo il tuo maledetto ego. Sticazzi di Euridice, piangevi la perdita del tuo orgoglio, perché qui se c’è uno che se ne va sbattendo la porta quello devo essere io, chiaro?

E così, tornato a casa, non ho rifatto la punta alle mie ragioni, ma mi sono letto per l’ennesima volta il brano di Pavese, e poi sono andato a dormire, che ne avevo bisogno.

Ciao Dolores,

questa non è la lettera che volevo spedirti. Ne ho scritta un’altra, lunghissima, in cui ti spiegavo il mio punto di vista nel solito modo puntiglioso che conosci. Sono un ragioniere, me lo dici sempre.
Ho trascritto fedelmente ogni pensiero, ogni dubbio che potevo avere riguardo noi due. Ho cercato di rispondere alle tue critiche in modo convincente, e ti ho rivolto domande precise su quello che di te non sono stato capace di comprendere. E quando ho finito di scrivere mi sono chiesto “e ora?”.

Se te l’avessi spedita non avrei fatto altro che prolungare quest’agonia in cui ci dibattiamo da.. quanto? Ho perso il conto, mi sembra che stiamo discutendo da sempre, con te da una parte a farmi l’elenco dei difetti e io dall’altra a difendermi e rimarcare i tuoi.
Forse mi avresti risposto, ma le mie domande sarebbero state comunque inevase, le spiegazioni che ti avrei fornito ancora insufficienti.

La verità è che io e te non siamo capaci di stare insieme. Tutte le parole che ci mettiamo davanti servono solo a nascondere la paura di ammetterlo. Ci desideriamo, ma il desiderio appartiene a chi lo prova, non lo si può condividere, e l’amore dovrebbe essere condivisione.
Io e te vogliamo qualcosa, lo vogliamo fortissimo, ma non siamo pronti a dare niente in cambio.
È per questo che litighiamo, perché nessuno dei due è disposto a cedere. Perché siamo due egoisti, ci siamo derubati a vicenda finché ce n’era e adesso che non è rimasto niente battiamo i piedi e gridiamo.

Non so se immagini quanto mi costi ammettere questa cosa. Perché sono orgoglioso e anche stavolta vorrei l’ultima parola, e dimostrarti che ho ragione io.
E perché, maledizione, rinunciare a quello che sei capace di darmi è difficilissimo. A quello che abbiamo buttato avanti per poterlo raggiungere insieme, alla meraviglia del tempo che abbiamo condiviso, a tutto quello che avevo disegnato in testa e aspettavo paziente, e che adesso non tornerà più.
Ma sto cercando di diventare adulto, e pare che ammettere i propri errori sia parte del processo.

Ti saluto qui, con queste due righe, che non sono neanche un centesimo di quelle che ci siamo scambiati quando parlavamo solo di cose belle.
Vorrei che le mie ultime parole per te fossero più dolci, e ti lasciassero un ricordo con cui scaldarti di quando in quando. Ma non riesco a trovare niente di meglio, sto salutando la donna che ho nel cuore. Non so neanche se esistono parole adatte.
Ti porterò sempre con me, come un oggetto raro, e ti rimpiangerò ogni volta.

Ti voglio bene,

Dino

2.

Scendi dalla macchina e corri mentre dietro di te lo schiocco degli spari somiglia a quello dei popcorn nel pentolino e non pensi a Tano Catarella accasciato sul sedile non pensi ai tuoi amici saranno dietro saranno fermi li avranno visti non pensi a niente pensi ai popcorn pensi alle piastrelle della cucina alle sedie coi cuscini deformati vuoi tornare a casa non ti interessa altro fanculo a Tano Catarella fanculo questa città fanculo voglio vivere nascondermi vivere cazzo vivere!

Non poteva scendere, lo sapeva. E non poteva restare lì a guardare mentre ammazzavano una persona, chiunque fosse.

Non pensò a niente, allungò una mano e la piantò sul clacson e restò lì con gli occhi sbarrati ad aspettare che succedesse qualcosa, la morte. Qualcosa.

Le due figure dietro il furgone corsero via senza voltarsi e si infilarono in un vicolo lì accanto. La macchina di Catarella fece fischiare le gomme e superò quella dei tre ragazzi sparendo in fondo alla strada.

Silenzio.

“Raga”
“…”
“Raga siamo vivi”
“…”
“Raga siamo vivi!”
“Cazzo”
“RAGA SIAMO VIVI! PORTIAMO VIA IL CULO!”

In quel momento bussarono nel vetro.

Enzino, che stava seduto dietro, si voltò a guardare e c’era la canna di una pistola che lo fissava. Non disse niente, si voltò, si mise composto e aspettò di morire come un bravo cristiano.

Toni, che stava seduto nel sedile del passeggero, continuava a sbraitare partipartiparti e non si accorse di niente, così la pistola bussò più forte, e stavolta se ne accorse, e nella macchina si diffuse un vago odore acido.

Dal finestrino del guidatore, che era abbassato, comparve la faccia di un uomo.

“Voi chi siete?”

Tutti e tre alzarono le mani, anche se l’uomo non li stava minacciando altro che col proprio dito. Dal finestrino opposto erano scomparse le armi, adesso sembrava una semplice conversazione notturna fra un uomo in strada e tre ragazzi su un’auto. Auto che puzzava sempre più di piscio.

“Siamo amici di Toni. Lui è Toni. Abita qui. Lo stavamo portando a casa. A Toni. Abita qui Toni.”
“Siete stati voi a suonare?”
“Minchia è uno di quelli col mitra siamo fottuti”

L’uomo si fece da parte e nel riquadro del finestrino prese il suo posto il nasone di Tano Catarella.

“Vi devo ringraziare”, disse. “Se non li facevate scappare adesso io stavo all’altro mondo”.

Il giorno seguente, intorno all’ora di pranzo, i tre furono ricevuti da un boss in canottiera in un modesto appartamento dall’altra parte della città. Offrì loro vino e salame e spiegò che quello vicino a casa di Toni era uno dei tanti rifugi di cui si serviva per non essere trovato dai suoi nemici.

“Certe volte mi domando chiccazzo me lo fa fare, sapete? Ma che volete, sono fatto così. E poi ho tante persone che mi vogliono bene, e se smettessi li renderei infelici. Così sopporto tutti sti scazzi e vado avanti. E grazie a voi adesso ci sono tante persone che possono continuare a volermi bene invece di venire al mio funerale, che i funerali sono una tale rottura di coglioni, mamma mia! Gli avete fatto un grande favore a queste persone, e vi voglio mostrare riconoscenza. Chiedetemi quello che volete.”

Nessuno rispose.

“Allora? Che volete?”
“È che tutto quello che vogliamo è tanta roba, non è facile decidere”, balbettò Enzino.

“Basta che non mi chiedi di diventare un astronauta, che quello non lo posso fare. Vuoi diventare astronauta?”
“Beh no”
“Allora che minchia vuoi?”
“Mi.. piacerebbe cambiare macchina..”
“Tutto lì? Scegli la macchina e domani ce l’hai. Nuova. Vuoi altro?”
“Posso chiedere altro?”
“E se te lo dico!”
“Vorrei un appartamento in centro.”
“Allora ti metto in una delle mie case in centro. Tranquillo, è tutto a spese mie, non mi devi pagare affitti o cose così. Ci stai dentro quanto vuoi, pure per sempre se ti va. E voialtri?”

Toni, che aveva capito come funzionava, ebbe meno esitazioni.

“Vorrei lavorare in un grosso albergo. Alla reception. Essere vestito bene e incontrare le attrici che vengono in città per il festival.”
“Bravo furbo. Così che si ragiona. Nient’altro?”
“E voglio farmi un viaggio in America!”
“Allora vai a casa e prepara la valigia. E quando torni vai a lavorare al Majestic. Conosco un amico che può farti entrare. Nessun problema.”

Dino sapeva cosa chiedere, e ottenne la promessa di un bell’appartamento in centro vista mare. Ma poi non gli sembrò di poter chiedere altro, e disse che bastava così.

“E basta?”, insistette Catarella. “Tu sei quello che ha suonato il clacson, a te voglio fare il regalo più grosso.”
“Ma le cose che voglio io non si possono comprare”, cercò di spiegargli Dino.
“Amico, io posso comprare tutto. Cosa vuoi?”

Fu Toni a spiegarlo al posto suo.

“A Dino piacerebbe diventare uno scrittore. È bravo! Però si è convinto che un meccanico di Santo Vito non può diventare uno scrittore, e le cose che scrive le fa leggere solo a noi.”
“Allora Dino lo facciamo diventare uno scrittore. Domani mandi le tue cose all’editore Brancucci, che mi deve dei favori, e lui ti ci fa uscire un libro.”
“E se poi non gli piace la roba che scrivo?”
“E noi gliela facciamo piacere.”

Ci sarebbe stato anche il terzo desiderio, ma anche se sei l’uomo più potente di Santo Vito non puoi convincere Dolores a innamorarsi di qualcuno, specie di qualcuno che non conosce. Così non chiese altro e dopo un po’ i tre vennero congedati.

3.

Sei mesi più tardi Dino contemplava il mare dalla piccola terrazza del suo appartamento.

Il boss era stato generoso, la vista era impagabile: tutto il golfo si apriva davanti a lui, e se guardava in basso poteva vedere gli atleti della squadra di canottaggio che rientravano dall’allenamento.

Anche l’altra metà della promessa era stata esaudita: ora Dino aveva un agente che gli organizzava incontri quasi ogni giorno, e un contratto in cui l’editore si impegnava a pubblicare e promuovere i successivi tre romanzi che avrebbe scritto, uno all’anno.

Il casino era che adesso doveva scriverli, e non sapeva da dove cominciare.

All’inizio aveva cercato di essere metodico: sveglia presto, tre ore al computer, pranzo, passeggiata distensiva, altre tre ore, resto della giornata libero. Gli sembrava un buon piano di lavoro, ed era riuscito a rispettarlo per tre giorni interi, ma la sera del terzo aveva litigato con Dolores, e il resto della settimana l’aveva passato a scrivere a lei invece che il suo romanzo.

Già, alla fine l’aveva conosciuta.

Era successo un paio di mesi prima. Con Toni dall’altra parte del mondo aveva messo da parte gli scrupoli e aveva scritto a Enrica per chiederle aiuto.

Avevano organizzato un’uscita a quattro, Enrica e Dolores, lui ed Enzino, che in questa cosa si sentiva parecchio a disagio, e mentre andavano all’appuntamento continuava a ripetere “Vabbè, ma io che ci guadagno, scusa? Una piace a te, e non è che posso mettermi con l’ex di Toni, quello mi ammazza”.

Era stata una serata piacevole, Dino aveva sfoggiato il suo nuovo ruolo di scrittore single con appartamento in centro, e Dolores quello di ragazza che sta vedendo uno ma non è una cosa seria e ha sempre nutrito la curiosità di conoscere da vicino uno scrittore single con appartamento in centro.

Si erano visti ancora da soli, e le cose avevano preso una piega interessante, e da lì era nata una frequentazione cui ognuno dava un nome diverso: per Dino era la Storia Importante, per Dolores non c’era modo di capirlo, ogni giorno sembrava viverla in modo diverso, e questo li portava a litigare più o meno sempre, con le conseguenze di cui sopra.

Dino chiamò il suo confidente di fiducia e lo aggiornò sul contenuto dell’ultima discussione.

Dall’altra parte del telefono Enzino trovò il nome adatto a quel rapporto complicato:

“Ancora!! Minchia ma questo è l’inferno! Ma perché non la mandi affanculo a quella? È evidente che non state bene insieme, lasciala e mettiti a scrivere che hai un romanzo da finire!”
“Ma che ne sai tu di come stiamo insieme, Enzino. Tu non ci sei nella mia testa, non lo sai come mi sento io quando le cose funzionano. È che è difficile farle funzionare, tutto lì.”
“Io non lo so cosa ci sia nella tua testa, ma so cosa c’è nella mia da una settimana. E ci siete voi due, minchia, non ne posso più! Tutti i giorni trovate una scusa per litigare, ma non vi volete lasciare e continuate a litigare. Ma ficcate almeno, ogni tanto? Lo trovate il tempo?”
“Sì, ogni tanto lo troviamo.”
“E allora basta! Fate quello e state sereni! E finisci sto libro! Quando lo devi consegnare?”
“Devo mandare una bozza la settimana prossima.”
“E ce l’hai?”
“No.”
“E lo sapevo io.”
“Non riesco a concentrarmi, ogni volta che provo a mettere giù due righe mi sembra di scrivere cazzate. Sono troppo incazzato per scrivere.. Senti Enzino, ma secondo te il boss ci ha fatto un regalo? Perché a me sembra che stavo meglio prima.”
“Ma quando? Quando smontavi carburatori? Ma sei scemo?”
“Non lo so, forse le cose bisogna guadagnarsele, se ti arrivano tutte addosso da un giorno all’altro vai fuori di testa. Prima era più facile.”
“Ma ti sembra che Toni stia male?”

Toni aveva fatto il turista negli Stati Uniti per tutta l’estate, poi si era reso conto che non voleva più tornare, e così aveva scambiato il posto in albergo con un po’ di contante, e si era aperto una pizzeria in California. Era contento, stava imparando a fare surf e non gli veniva più in mente Santo Vito, Catarella e tutti i casini e la miseria che aveva lasciato a casa. No, lui non stava male per niente, e se lo avesse sentito fare certi discorsi gli avrebbe dato dello stronzo.

“Dino, le occasioni bisogna saperle raccogliere quando arrivano, non c’entra niente come succede. L’importante è che succede, e a te è successo. Adesso vuoi mettere la testa a posto e lavorare o preferisci buttare tutto nel cesso e pentirti per il resto della tua vita? Perché è quello che farai se molli ora, sappilo.”

Dino tornò a sedersi al computer, scrisse un’altra mezza pagina, ma il ronzio nella testa era così forte che copriva tutto. Non gliene fregava niente del suo romanzo e del contratto con l’editore, pensava solo a dov’era e a come ci era arrivato. Pensava al diavolo che ti illude di darti quello che vuoi, ma ti regala solo illusioni. Pensava a Dolores, a quello che avevano messo via in quei pochi mesi che avevano trascorso insieme.

Prese tutto il lavoro che aveva fatto fino a lì e lo buttò nel cestino. Non era lui quello lì dentro. Poi aprì una nuova pagina e scrisse una lettera a Dolores, in cui le chiedeva scusa, ma questa storia doveva finire perché stava distruggendo tutti e due. Perché in quei pochi mesi insieme quello che avevano saputo mettere insieme era niente. Non era lui neanche in quel frangente.

Poi raccolse tutta la sua roba e uscì a cercare degli scatoloni per infilarcela dentro. Inutile restare chiusi in una scatola che non ti contiene, se prendi una decisione la prendi fino in fondo.

Mentre camminava per la strada con le mani in tasca si chiese chi era lui, se non era tutte quelle cose, e cosa avrebbe fatto adesso, ed entrambe le domande restarono senza risposta.

FINE

Santo Vito è un quartiere alla periferia di una grande città del Sud Italia. Una vecchia frazione di campagna che la città ha corteggiato a lungo, fino a ingravidarla di palazzi e lasciarla ad accudire i suoi figli senza padre. Poi ti stupisci che in periferia vengono su tutti delinquenti.

Dino è uno di qui. Da ragazzo ha mollato gli studi e si è messo a lavorare in officina, ma non si è mai immischiato in brutti affari, più per timidezza che per onestà. Mentre i suoi coetanei tentavano la prima rapina alla lottomatica lui era a casa a scrivere racconti. Perché Dino sogna di fare lo scrittore. Ha quaderni pieni di storie che fa leggere agli amici, e ripete che un giorno le spedirà a un editore e diventerà famoso. Sarà il giorno in cui mollerà l’officina, il quartiere e andrà a vivere in città, in un bell’appartamento vista mare lontano dal degrado di qui, dai tossici nel sottopassaggio della stazione, dalle facce sconfitte che incontra ogni giorno sul binario. Di quelli che hanno gettato le armi ancora prima che il nemico dichiarasse guerra.

E sarà il giorno in cui si presenterà a Dolores.

L’ha conosciuta una sera in un bar del centro, era con la ragazza del suo amico Toni. L’ha guardata tutta la sera, ma non ha avuto il coraggio di dirle niente. Gli è piaciuto come beveva la birra dalla bottiglia, come si guardava intorno senza vedere nessuno, e quando si è tolta i capelli dagli occhi non avrebbe più saputo dire se gli erano piaciuti più i suoi occhi scuri da araba o quelle mani piccole come le hanno solo certe bambole di porcellana. Aveva pensato subito alla porcellana, a come trasmetta messaggi dal passato, ti parli di case grandi e di mobili antichi che hanno attraversato gli anni fino ad arrivare a te con una dignità che ti mette soggezione, al punto di provare una certa reverenza a buttare il giubbotto sulla sedia imbottita.

Quella ragazza parlava di malinconia, di cassetti pieni di cose raccolte in una vita curiosa. Parlava di porte chiuse su stanze dove non entrava nessuno. Parlava un sacco, per una che non aveva pronunciato una parola in tutta la sera. Ma Dino era bravo ad ascoltare anche il silenzio, e quelle cose era sicuro di averle capite.

Si era innamorato di Dolores la prima sera, e aveva dovuto tenersi quella passione nel cuore, perché la prima sera era stata anche l’ultima: Dolores non si era fatta più vedere.

Toni si era lasciato con la ragazza una settimana più tardi, e non ci pensava neanche a organizzare un incontro. Gli diceva “Guarda che quella non è cosa, è una sofisticata”, e non aggiungeva altro. E che voleva dire?

Attraverso molte insistenze era riuscito a farsi rivelare almeno dove abitava: stava nel Bronx, che sarebbe una delle zone malfamate della città, un posto da sparatorie. Il vero nome del quartiere era un altro, ma ormai tutti lo chiamavano così. Se volevi spedire una cartolina a un amico che abitava lì scrivevi

Ciccio Panella
Palazzo sopra il macellaio
Bronx

e la cartolina arrivava. Se non arrivava era perché avevano di nuovo sparato al postino, tu non c’entravi niente.

Dino aveva un paio di amici d’infanzia con cui passava il sabato sera: Toni ed Enzino. Erano sempre insieme, prendevano la macchina di Enzino e scendevano in città. Ultimamente avevano preso il giro di fare i sofisticati pure loro: da quando Dino si era fissato con l’idea di incontrare Dolores passavano il fine settimana a frequentare il giro degli intellettuali, sperando di incontrarla.

Non era male evitare i posti più modaioli, spesso rischiavi di incontrare qualche tuo compaesano planato in città a caccia di prede. Parlavano tutti a voce troppo alta e gesticolavano tantissimo, e se ti incontravano mentre parlavi con una ragazza ti si fiondavano addosso e ti piallavano le spalle a pacche amichevoli finché non gliela presentavi. Ovviamente lei si ricordava di avere un impegno dopo un paio di minuti.

L’incubo ricorrente di Dino era di incontrare uno di quei predatori molesti mentre cercava di parlare a Dolores, così si teneva alla larga da quei posti, correndo il rischio che fossero proprio quelli i locali preferiti dalla sua amata, e vanificando così per sempre ogni possibile incontro.

Alla lunga ci avevano preso gusto, era stimolante. Toni, che era coatto perso, stava cominciando a coltivare una passione per il whisky scozzese, e pure Enzino un giorno si era fatto beccare da Feltrinelli a comprarsi un libro.

Una sera stavano in macchina sotto casa di Toni, a discutere di quello che avevano appena sentito a una conferenza sulla Siria.

“Oh Dino, va bene l’amore e tutto, ma una serata così io mai più, eh?”
“Ma dai, è stato interessante!”
“La prossima volta si entra, si guarda se c’è la tua bella e se non c’è VIA. Da Scannabuoi stasera suonava quel matto francese, quello che suona tre chitarre per volta.”
“Ma poi a te chi te lo dice che quella frequenta ste rotture di cazzo?”
“Me l’ha detto una”
“Chi?”
“Eh una.. una”
“Una chi?”
“Enrica”

Toni quasi saltò sul sedile davanti. “Minchia Enrica? Hai visto la mia ex? Brutto bastardo, e non me lo dici? Infame dimmerda!”
“Ma no, le ho mandato un messaggio. Le ho chiesto di aiutarmi, sto girando a vuoto da settimane, e mi ha detto che forse veniva qui. Non le ho chiesto nient’altro, lo so che ci stai male.”
“Ma chi è che ci sta male, oh! Io non ci sto male! Semmai sarà lei che ci sta male! Sta zoc..”
“Ehi ma che fa quello?”

Guardarono tutti e tre nella direzione indicata da Enzino, e in fondo alla linea invisibile tracciata dal suo dito c’erano due figure vestite di scuro con un passamontagna sulla faccia, che si stavano aqquattando dietro un furgone con qualcosa in mano: potevano essere telai di biciclette per nani o armi automatiche.

“Porca troia, lì ci sta Tano Catarella!”
“Minchia, vogliono far fuori il boss!”
“Minchia che facciamo? Se ci vedono siamo morti!”
“Andiamo via!”
“E come cazzo andiamo via senza che ci vedano!”
“Se stiamo qui siamo morti!”
“Anche se andiamo via!”
“Minchia!”

In fondo alla strada comparvero le luci di una macchina. Tutti desiderarono fortissimo che fosse la polizia.

Era una BMW grigia.

Era Tano Catarella che tornava a casa.

(continua)

Il tappetino davanti alla porta dice “Mi casa es mi casa, vattene via!”. Me l’ha disegnato un amico perso per strada, e mi piace molto più dei soliti messaggi scontati che ti trovi sotto le scarpe quando fai visita a qualcuno.
È buffo da usare come frase di benvenuto per un nuovo blog, anche per uno che tanto nuovo non è: ho preso tutto il contenuto di quello vecchio e l’ho travasato qui sopra, ma è nuovo per me, e soprattutto è mio.

Nel 1975, dopo un tour mondiale per promuovere il disco The Lamb Lies Down On Broadway, Peter Gabriel decide di lasciare i Genesis. La scusa che gli è nata una bambina e non ha più tempo per fare la popstar è, appunto, una scusa. La ragione vera è che i Genesis da un po’ gli stanno stretti, vorrebbe seguire strade diverse, scrivere la musica che piace a lui, e non ne può più di vedere la manina che si alza ogni volta che prova a suggerire un’idea innovativa: “Peter, scusa, non ti sembra che vestirsi tutti da grossi cazzi e cantare Shama-Lama-Ding-Dong potrebbe risultare eccessivo per il nostro pubblico?”.

Peter Gabriel ha bisogno di trovare la propria direzione, così molla quegli sfigati e si fa un disco da solo. E se domani gli viene voglia di cantare a testa in giù appeso al soffitto, sai cosa? Lo fa, perché può.

Io un gruppo da abbandonare non ce l’ho, ho soltanto quello di teatro, ma non sono ancora abbastanza bravo per bastarmi da solo, e poi ho degli impegni con loro fino alla fine di maggio, tocca tenerselo.
Così ho abbandonato altre cose meno importanti, che mi portavano via tempo e non mi davano niente, e per dare più spinta alla mia piccola rivoluzione mi sono trasferito su questo spazio, che si chiama come me.
L’aspetto è ancora da definire, come ancora da capire è il funzionamento delle mille applicazioni che mi vengono offerte e di cui ignoro l’utilità.
Ho alcune idee, andando avanti cercherò di metterle in pratica.

Nel 1977 Peter Gabriel pubblica il suo primo singolo, una canzone che parla di “essere pronti a perdere ciò che si ha per ciò che si potrebbe avere”. Liberarsi del passato, tagliare, trovare la propria strada. È un testo abbastanza chiaro, accompagnato da un ritmo accattivante, e diventa un successo. Non voglio dire che sia sempre così, certe volte rovesci il tavolo e te ne vai e ti ritrovano due mesi dopo che dormi in uno scatolone davanti al McDonald’s, ma preferisco prendere esempio dai casi positivi, e quello lo è stato: non sto a raccontarvi chi sia oggi Peter Gabriel e cosa rappresenti la sua musica (e la sua etichetta discografica), anche perché quest’anno se sei un grande musicista e hai superato i cinquanta preferisci non dare troppo nell’occhio.

Se questo post fosse la mia Solsbury Hill dovrebbe avere ritmo, essere intrisa di una spiritualità e di una voglia di rinascita che qualcuno troverebbe eccessive, ma sarebbe di nuovo lui, il sosia di Giorgio Faletti e inventore della world music, a rispondere che non è la causa l’importante, ma l’effetto. Poi salterebbe sulla bici e via di pedalare lungo il bordo del palco rotondo. E avrebbe ragione. Per cui no, non sarà questo il trampolino del mio successo, ma che almeno rappresenti una piccola crescita personale e mi smarchi una volta per tutte da quei comportamenti deleteri che mi porto dietro.
E per me riuscirci sarebbe già una specie di rivoluzione.

Nel frattempo sul vecchio blog sono stato sostituito da Phil Collins.

 

Mi considero una persona abbastanza equilibrata. Ho i miei punti di forza e le mie debolezze, come tutti. Diciamo che sono nella media, che non vuol dire niente, è dove sta chiunque tranne Pietro Pacciani e il Dalai Lama.

Però ho un buco. Mi manca un pezzo. Non è una debolezza, qualcosa che si può rinforzare, è proprio che non c’è. Se un medico potesse guardarmi con una macchina che legge lo spettro psicologico, emotivo, il software toh, vedrebbe in un punto non meglio determinato, un punto che chiameremo comodamente “laggiù”, una grossa macchia nera. Se fosse una tac ci sarebbe da cagarsi addosso, ma per fortuna non è una presenza aliena, è piuttosto un’assenza. È un buco. Ci guarderebbe attraverso e vedrebbe il suo assistente di laboratorio fare lo stesso dall’altra parte.

In quella casella vuota ci dovrebbe stare la sicurezza di sé. Dico ci dovrebbe, perché in realtà nel mio caso non ci ho mai messo niente. Più o meno. Da ragazzino mi è venuto il dubbio che tenersi un buco laggiù non fosse una cosa sana, così ci ho lasciato nidificare una colonia di topi. Però squittivano, non mi lasciavano dormire, e dopo un po’ l’ho liberato di nuovo. Credevo che con la maturità sarebbe arrivata anche la sicurezza. Un po’ come i peli, no? Non è successo. Però ho ricevuto doppia razione di peli, e forse avrei dovuto reclamare allora, ma non sapevo a chi rivolgermi, e poi quando sei in piena pubertà hai un sacco di altre cose da scoprire, mi sono distratto, ho lasciato perdere. Ho sperato che non succedesse niente a tenermi il buco.

Devo dire che sono stato un po’ in ansia, certe notti mi svegliavo e mi chiedevo se mi stavo ammalando, mi toccavo la fronte, mi ascoltavo il cuore, muovevo le dita dei piedi. Mi sembrava tutto in ordine, trovavo solo qualche pelo nuovo.
Passa un anno, ne passano venti, e sono sempre vivo. Nessuna malattia psicosomatica, nessun organo marcito. Vabbè, tranne il fegato, ma quello dice il dottore che basterebbe uscire meno il sabato sera.
Mi sono rilassato, ho pensato che un buco laggiù non è una cosa così grave, e dopo un po’ ho anche smesso di pensarci.

Quando si sono manifestati i primi effetti non li ho collegati al buco, a tutti capita di non avere il coraggio di buttarsi da uno scoglio, e non provarci con una che ti piace è un po’ la stessa cosa: è vero che nessuno sbatte sugli scogli, ma se ogni tanto qualcuno muore vuol dire che è solo una questione di probabilità.
Poi è stato il momento di continuare gli studi, e mi sa che non me la sento. Io mica ne ho voglia, magari mi trovo un lavoro, che è più facile. Poi il lavoro che avevo trovato mi sembrava troppo complicato per me, e ne ho cercato uno più alla mia portata, solo che neanche quello mi andava bene, e scendi che ti riscendi sono finito a farne uno dove ci lavorava anche il mio compagno di scuola ritardato. Va detto che lui lo fa meglio di me, comunque.

La mia vita sentimentale non è andata meglio, per evitare di sbattere sugli scogli mi sono sempre accontentato di stare fermo in spiaggia ad aspettare che qualche ragazza meno sveglia delle altre mi inciampasse addosso. Non che mi lamenti, eh? Ho avuto una sfilza di fidanzate straordinarie dalle quali ho imparato un sacco di cose utili. Per esempio so cucinare il gallo pinto, che sarebbe un piatto a base di fagioli neri e riso, e adoro Calvin & Hobbes. Però, ecco. Per esempio quella di terza A che mi piaceva tantissimo non sono mai riuscito a parlarle, neanche quando ho scoperto che mi stava dietro. Bloccato, proprio. E allora ho capito che quel buco lì non ci doveva stare, che la sicurezza di sé è importante per spronarti a cercare il meglio per te stesso e non accontentarti di quel che arriva, perché se ti accontenti di quel che arriva non otterrai mai niente di buono. E mi sono detto che avrei cambiato le cose e sarei diventato finalmente padrone della mia vita!

È stato allora che ho scoperto il demone della procrastinazione. Perché io la volevo cambiare la mia vita, cazzo! Solo che prima dovevo scrivere delle cose, perché nel frattempo avevo scoperto di essere bravo a scrivere, o perlomeno che senza alcuno sforzo potevo tirare fuori delle cose decenti. Se ci fosse stato da sforzarmi non l’avrei mai fatto, perché tutti gli sforzi che faccio per portare a termine qualcosa finiscono rigorosamente nel buco, e pianto lì.

Sono arrivato a tre anni fa che mi era rimasto ancora qualcosa da scrivere, ma avevo quasi finito eh, poi mi sarei dedicato a cambiare la mia vita, e la mia fidanzata ha deciso che la vita me la cambiava lei, e mi ha spedito di casa. L’ho presa malissimo, ho fatto scenate, rotto le balle a tutti i miei amici e ai suoi, l’ho insultata, le ho detto che non la volevo vedere mai più, ma la verità è che avevo solo paura del mio buco. Cosa potevo fare se non sapevo fare niente? Chi lo avrebbe voluto uno con un buco laggiù? No, stavolta avrei fatto qualcosa di buono. E qualcosa di buono l’ho fatto, mi sono scelto un passatempo, e piano piano il buco è sembrato rimpicciolire, e col passatempo ho trovato anche una ragazza che il mio buco non l’aveva notato, oppure sì ma non sembrava dargli importanza, perché ne aveva uno grosso anche lei.

Fico! Magari riusciamo a riempirceli insieme! Poi mi sono reso conto che la frase si prestava a un casino di malintesi e sono arrossito. Lei ha riso e io mi sono innamorato del suo sorriso, perché era il sorriso più bello del mondo. Siamo stati innamorati come due adolescenti per esattamente 54 giorni, 17 ore, 51 minuti e 10 secondi, e sono stati il periodo più felice della mia vita, perché per una volta non ero stato fermo a farmi scegliere come nell’ora di ginnastica quando il prof decideva due capisquadra e loro chiamavano a turno quelli bravi, poi quelli decenti, poi gli stazzi, poi quelli che proprio non si potevano guardare, poi la bidella, poi il quadro svedese, e poi finalmente io. No, finalmente avevo voluto una cosa e mi ero sbattuto per ottenerla! Poi vabbè, sbattuto, le avevo detto che mi piaceva e lei aveva risposto anche tu, capirai, è stato più che altro culo, ma non toglie che sia stato un periodo in cui vedevo la mia vita a una svolta e mi sentivo pronto a raddrizzare ogni cosa, avrei cambiato lavoro, avrei cambiato città, animale domestico, marca di automobili, titolo di film, sarebbe stato fighissimo!!
Lei si è limitata a cambiare fidanzato. Ma neanche, si è ripresa quello che aveva prima.

È stato il momento in cui il mio buco che si era ridotto fino a sparire è diventato così grosso che ci sono caduto dentro, e per tirarmene fuori ho dovuto buttare via tutto quello che avevo nelle tasche, e poi tutto quello che avevo nella pancia, e poi tutto quello che avevo in testa, ed era veramente tantissimo. Ci ho buttato cose di me che neanche pensavo di avere, ci ho buttato altre persone, ci ho buttato mio padre, ci ho buttato famiglie di rospi e la colonia di topi che credevo se ne fosse andata e invece era ancora acquattata dietro la bile, ci ho buttato anche la bile, e il fegato, che tanto era da cambiare. C’è voluto un sacco di tempo, ogni volta che mi sembrava di riuscire a tirar fuori la testa scivolavo di nuovo e dovevo ricominciare, ma alla fine mi sono liberato, e mi sono sentito più forte di prima. Sarà che il buco era talmente pieno di roba che ci avevo buttato dentro che credevo si sarebbe limitato a sparire.

Mi sono messo a fare altre cose da capo, pensando che se era servito la prima volta sarebbe servito di nuovo, e infatti ho trovato altri stimoli, conosciuto altre persone, e quando è stato il momento di rimettermi in gioco ho sentito muovere delle cose laggiù, e ci ho trovato il mio amico buco. Si era mangiato tutto quello che ci avevo buttato dentro, e mi sorrideva. “Che c’è per cena?”, chiedeva.

“Eh, ci sarebbe questa ragazza..”
“Un’altra? Devo ricordarti com’è finita l’ultima volta?”
“Ma questa è diversa, dai. Mi sta dando prove certe che.. insomma.. sembra che ci tenga davvero”
“Certo, come quell’altra. Te lo sei fatto lasciare un curriculum?”
“Bah, non mi sembrava il caso..”
“Bravo scemo! E il libretto sanitario? E la fedina penale? E le referenze dei fidanzati precedenti? Che ne sappiamo che non è una scammurriata che scappa col malloppo appena ti giri?”
“Per quel che c’è da rubare, oramai. Ti sei mangiato tutto tu.”
“Metti che è una ladra di buchi!”
“Mi pare che ne abbia uno bello grande anche lei, se devo dirti.”
“Ah! Pure! E allora lo fai apposta! Hai visto cosa succede con quelle lì! Perché non te ne trovi una diversa, per cambiare?”
“Eh, non tutte le ragazze escono col buco.”

A dire il vero non lo sapevo se qualche ragazza si sarebbe detta disposta a uscire con un portatore non troppo sano di buco, mi ero di nuovo messo lì da una parte ad aspettare di vederne inciampare qualcuna, avevo notato questa e mentre ero lì che decidevo se ero pronto a buttarmi mi era crollata addosso, decretando così l’inizio della nostra relazione e anche un’ottima ragione per terminarla.
E sì perché la sicurezza di sé è una roba che quando costruiscono le persone non ce n’è mica abbastanza per tutti. Sarà che qualcuno fa il giro due volte e se la frega, ma secondo me il conto non torna comunque, perché quelli che non ce l’hanno sono troppi, e sembra che li incontro tutti io. Nella gara delle insicurezze certe volte arrivo secondo, ma non vinco un cazzo ugualmente.

C’è questo buco, laggiù, che si mangia qualunque cosa. Si mangia i tentativi che fai di vivere una vita normale, di avere una relazione stabile, un lavoro appagante. Si mangia la dignità di dire basta quando ti rubano dalle tasche, quando ti trattano come un cretino, quando ti usano. Si mangia il futuro perché non ti permette di immaginarne uno, si mangia il passato e te ne lascia una copia falsificata male, dove tutto era migliore di ciò che hai, anche quello che volevi buttare via.
L’unica cosa che non si mangia sono i topi, quelli non se ne vanno mai, e squittiscono e ti mordono le dita, e di notte non ti lasciano dormire più.

Siamo arrivati al 2016 con una tecnologia talmente evoluta da poter fotografare un alieno su Plutone e taggarlo su facebook, possiamo ricostruire il passato del nostro pianeta con una precisione tale da riuscire ad affermare che i dinosauri si sono estinti un lunedì mattina di febbraio, abbiamo robot che si costruiscono da soli, software di riconoscimento vocale, tattile, anche facciale, sebbene mi confondano sempre col mio amico Francesco, eppure il nostro mondo interiore è governato da leggi che non sappiamo gestire. Siamo più in grado di orientarci in mezzo a Pechino senza conoscere una parola di cinese che nella nostra sfera affettiva.

Guardo una foto della mia ex su facebook e non sono in grado di definire l’emozione che mi suscita: è astio o desiderio? Da una parte vorrei strangolarla, ho preso più calci con lei che in una partita a calcetto fra ubriachi, ma dall’altra mi sento ancora disposto a sedermi a un tavolo e capire cosa si può aggiustare. E non è che quando stavamo insieme fosse più facile, il mio pendolo emotivo si spostava senza sosta dalla voglia di costruire qualcosa insieme a quella di correre il più lontano possibile dai pericoli di una relazione. Che poi era la ragione per cui mi pigliava a calci, sostanzialmente.

E se mi guardo intorno non vedo una situazione migliore. Una mia conoscente si è innamorata del bello e dannato dei fumetti giapponesi, quello talmente finto e pieno di sé che perfino l’autore ad un certo punto lo odia e gli fa fare una fine orrenda. Peggio per lei, mi ha rifiutato e per questo si merita le ragnatele nelle mutande, ma il punto è che il disagio è diffuso e nessuno ha idea di come arginarlo.

Quelli bravi pongono il limite molto in alto, e salvo evidenti ragioni per chiudere e andarsene, tipo tendenza al tradimento, scarsa igiene intima, genocidio, investono in ciò che hanno e lo fanno diventare la storia della vita, quella che ti completa e ti fa morire sentendoti una persona fortunata.

Gli altri, quelli come me, come la mia ex, come Ragninellemutande, vogliono tutto e subito, e rifiutano il compromesso, la costruzione. Ma quello non è amore, è egoismo, paura e coda alle poste. Che poi sono una grossa fetta degli ingredienti che la compongono, quella cosa che per convenzione definiamo amore.

Ci siamo imbevuti di racconti fantastici di persone che sbattono contro qualcuno sulla porta di una libreria e la loro vita è cambiata. Non dico che non possa succedere, ma è molto raro che avvenga, e se stai ad aspettare l’incontro magico rischi di trovarti a quarant’anni con tanto trucco sulla faccia da somigliare più a Bozo il clown che a una donna, nel vano tentativo di nascondere le rughe e il terrore di restare da sola. Nel caso di un uomo il passaggio a Bozo è più facile perché non usi cosmetici, devi solo fare il cazzone e sbattere torte in faccia ai conoscenti, haha, sei proprio una sagoma.

Sto parlando di amore perché tutto il mio ragionamento è scaturito da lì, ma la nostra incapacità si manifesta in un sacco di altri campi, ed è sempre letale. Non c’è bisogno di essere una cellula dormiente di Al Qaeda per sapere che la nostra condotta ci rovinerà la vita, basta un lavoro insoddisfacente o vivere in un posto orrendo. Non sto parlando necessariamente di me, sono sicuro che Ronco Scrivia sia un paese meraviglioso e ricco di cose da fare; se non sono un cinghiale il problema è soltanto mio.

E anche qui ci sono persone che si scrollano di dosso l’apatia e lavorano sodo per correggere ciò che non funziona, e altre che il momento più alto della loro giornata è quando litigano col tizio che vuole essere l’unico a portare a spasso il cane senza guinzaglio.

È come essere avvolti da una pellicola trasparente, che ci permette di percepire quel che avviene all’esterno, ma ci blocca i movimenti, e certe volte anche le emozioni, e tutto quello che ricevi e trasmetti è attutito.

Ci è nevicato dentro. All’inizio è figo, fai i pupazzi, ti prendi a palle da solo, e il freddo impedisce alle terminazioni nervose di farti provare dolore, ti scivola tutto addosso, possiamo restare così per sempre? Alla peggio quando mi stufo vado a farmi una cioccolata calda e rimetto a posto, tanto è solo acqua, no? Se alzi la temperatura asciuga da sola..

Oymyakon è un villaggio della Siberia, dove la temperatura media durante l’inverno è -45°, e l’inverno dura più o meno tutto l’anno, visto che il ghiaccio sulle strade non si scioglie mai. Tu ci arrivi e pensi di aver trovato il paradiso dello slittino, ma quando scopri che c’è gente che il sole l’ha visto l’ultima volta venticinque anni fa e che per far partire la macchina devi accenderci un fuoco sotto capisci che forse avresti dovuto informarti meglio del perché la casa che hai comprato in pieno centro costava così poco.

Dicevi, della cioccolata calda?

Eppure dovrebbe essere facile. Cosa ci impedisce di attivare le misure necessarie a migliorarci quando sono bene evidenti e si tratterebbe solo di seguire i punti da A a Ndatevenaffanculo? In milioni di anni di evoluzione non siamo stati in grado di sviluppare un rilevatore di cazzate che ci avvisi quando la nostra vita sta andando a puttane, eppure dovrebbe essere più facile che farsi crescere un pollice!

E invece andiamo avanti a caso, sperando che vada bene, e non ci rendiamo conto che magari il nostro comportamento sta facendo male a qualcuno, finché un giorno non riceviamo un messaggio riassumibile in “sei un bastardo, muori”.

Dovesse capitarvi di ricevere un messaggio del genere vi consiglio un esame di coscienza piuttosto dettagliato, partendo dalle seguenti domande:

  • Alla persona in questione ho sterminato la famiglia a colpi d’ascia?
  • L’ho abbandonata in autostrada?
  • Mi sono intrattenuto con altre donne/uomini/cavalli?
  • L’ho offesa, maltrattata, obbligata ad accompagnarmi al cinema a vedere Deadpool?

Se la risposta a tutte le domande è no è probabile che anche voi siate stati vittima del Comportamento Del Cazzo Involontario, una conseguenza diretta di tutti i discorsi qui sopra e di altri fattori non meno importanti, quali paura di assumersi una qualsivoglia responsabilità, esperienze negative pregresse, aridità di spirito, secchezza delle fauci.

Pare determinante anche il fatto che la vostra ragazza sia una testa di cazzo. Perché non è mica facile mettere d’accordo due personalità già formate e inquadrate, gli angoli si smussano meglio finché sono teneri, poi ti tocca tenerli così, e l’unica possibilità per non sbucciarti le caviglie è ricordarti dove sono e tenertici alla larga. Le persone complicate si somigliano tutte, e generalmente non vanno d’accordo fra loro, perché i problemi non si escludono a vicenda. Non è impossibile, è anche divertente e di sicuro non ci si annoia mai, ma ci vuole tempo e parecchio impegno. Se ti aspetti di trovare la strada spianata e una storia da romanzo rosa è meglio che cerchi altrove, le possibilità non mancano.

Già. Ho detto che ci sono due categorie, quelli bravi e quelli come me, ma ne esiste una terza, la più ampia, quella che comprende tutti gli altri, gli ignari, quelli che leggono questo post e commentano “ma quanti problemi inutili ti fai!”. E hanno ragione, perché se appartieni a quella categoria non contempli l’esistenza di nessun’altra, è inutile crearsi dei problemi dove non ci sono.

Sono quelli che per insegnare a un muto a parlare gli dicono che basta aprire la bocca e parlare, e il muto vorrebbe potergli rispondere graziealcazzo, ma la sua condizione di muto non glielo permette, così li ignora. Lo facciamo anche noi, e ci stanno pure sul cazzo, così proiettati verso una vita serena. “Troppo facile avere la lucidità di quelli che non sanno camminare”, diciamo, e torniamo a sbirciare le foto dell’ex, chiedendoci se a loro sarebbe andata diversamente.

“Nah, la mia ex fidanzata è troppo sofisticata per cascare fra le braccia di questi cialtroni”, ti dici. Poi la incontri dopo un mese avvinghiata a uno con la felpa AVIAZIONE o PALESTRADACICCIO o quello che andrà di moda in quel momento, basta che sia scritto gigante, sennò dall’altra parte della città non lo capiscono che sei un fico, e pensi che allora non avevi capito proprio un cazzo, e ricominci a porti le stesse domande da capo.

Due anni fa scrivevo quelli per il Quattordici appena incominciato, delle cose che mi riproponevo di fare non ne ho realizzata neanche una per sbaglio, e sono sicuro che quest’anno sarà lo stesso, perciò questo diventa un mero esercizio stilistico per farmi perdonare il post buttato là che lo precede. Che poi farmi perdonare da chi, questo blog lo leggono solo i miei quattro amici e quello che cerca foto delle gemelle Kessler nude, che continua a cercarle qui per una sua perversione francamente incomprensibile. Che poi questo verrà fuori buttato là tanto quanto, e non è che tutti i giorni posso scrivere un post di merda per farmi perdonare quello di merda scritto il giorno prima, devo anche vivere e fare cose di cui parlerò nei post di merda che seguiranno.

Due sere fa ho visto A Perfect Day, un film con Benicio Del Toro e Tim Robbins che fanno i volontari umanitari in Bosnia alla fine della guerra. Il regista è quello de I Lunedì Al Sole, che era una pellicola splendida, se riuscivi a non suicidarti appena uscito dalla sala, ma qui l’atmosfera è un po’ più allegra, soprattutto grazie a Tim Robbins che fa lo splendido con le vacche morte. I titoli di testa ti catturano e ti fanno dire sì a voce alta, e per il resto della pellicola non fai che ripetere che sì, questo film è senza dubbio il migliore che ho visto quest’anno, ha una colonna sonora punk rock e mi ha fatto tornare la voglia di balcanizzarmi al più presto.
Ecco, non fatelo. Io sono stato rimbrottato dalla signora seduta dietro, che già è entrata in ritardo per colpa del cassiere in acido vatti a drogare a casa tua che non riusciva a stamparle il biglietto, ci manco solo io che commento a voce alta, e oltretutto il film è stato girato tutto in Spagna, che Balcani?
Io però voglio balcanizzarmi lo stesso, quindi il mio primo buonoproposito per il il 2016 sarà partire per i Balcani. Al limite anche con la signora seduta dietro, però la sua parte se la paga lei.

io comunque tengo per l’interprete

Mi è andata bene che il film di Woody Allen l’ho visto alla fine dell’anno scorso, perché avrei dovuto inserire fra i buoni propositi quello di uccidere Emma Stone, diventare un nichilista con la panza e trombarmi una milfona in cerca di sè stessa.
Poi il film non mi è neanche piaciuto, gli attori che parlano come nelle istruzioni per pulire il filtro della lavatrice mi hanno impedito di immedesimarmi nella storia, e i doppiatori di merda hanno fatto il resto.
Da un punto di vista cinematografico il 2015 non mi ha dato granché, spero che il prossimo sia migliore, e il secondo buonoproposito sarà andare più spesso al cinema, che i film ben fatti ci sono, sono io che poi vado a vedere Spectre.

una locandina sprecata, e sì che ci avevo creduto tantissimo

Ecco, di Spectre mi sento di parlare male, anche se l’inizio è spettacolare e ti fa dire dei grossi sì e anche battere i pugni sul bracciolo, almeno finché la signora seduta dietro non ti chiede di smetterla.
Capiamoci, i film di James Bond seguono delle regole molto precise che funzionano solo per loro, non sono “d’azione”, o “di spionaggio”, se dovessimo inserirli in una categoria specifica sarebbe “film di James Bond”, perciò quando vai a vederne uno sai già praticamente tutta la storia: c’è lui impegnato in una missione breve e spettacolare che porta a termine con successo e trova un aggancio per quella che sarà la trama principale; poi parte la sigla, un pezzo lento con arrangiamenti orchestrali su silhouettes di donne nude e proiettili che vanno a frantumare cose; durante il film Bond guiderà macchine di lusso, si farà donne bellissime, visiterà luoghi esotici e prometterà a Q di trattare bene i suoi costosi giocattoli ultrasofisticati. Il cattivo è sempre uno psicopatico che vuole conquistare il mondo, ostenta una sicurezza di sé che lo porta a cincischiare per ore invece di darci una botta e terminare con successo il proprio piano diabolico, e parla-sempre-lentamente. E sorride un casino. Io non ho mai visto un cattivo di Bond incazzato col mondo, che voglia distruggere tutto solo perché lo hanno licenziato e ha litigato con la moglie. Non ricordo di avere mai visto un cattivo donna, ma probabilmente c’è stato.
Il cattivo di James Bond vive in una base segreta, spesso subacquea, dove l’agente arriva quasi sempre prigioniero o invitato direttamente. Ogni tanto ci si infiltra, ma in realtà lo aspettavano e lo beccano in due minuti. Poi lui si libera grazie a qualcosa che è sempre nascosto nell’orologio, ma levaglielo, no?? Non l’avete ancora capito? Macché, gli prendono la pistola e gli lasciano l’orologio. Ma tanto se lo vuoi ammazzare a che gli serve sapere che ore sono?
Poi Bond scappa con la figa e fa saltare tutto per aria, battuta spiritosa e sguardo charmante, titoli di coda.

Anche questo segue la medesima trafila, solo che è una merda. Perché gli ultimi Bond ci stavano abituando a un rinnovamento della serie, era tutto più moderno, al passo coi tempi. Niente più donnine sceme che appaiono cinque minuti e solo per togliersi i vestiti, comprimari più interessanti, una trama più solida, Daniel Craig che fa traballare la mia eterosessualità. Qui no, si torna a Roger Moore che fa le facce ammiccanti, si fa la Bellucci-santodiorinchiudetelanonfatelarecitaremaipiù, cazzeggia col cattivo più inutile dai tempi di 007 contro l’allevatore di pulci, ad un certo punto sbadiglia pure lui.

Proseguendo sulla scia dei film che sembravano interessanti e si sono rivelati peggio di Cristina D’Avena ieri sera in piazza Matteotti coi tuoi amici nerd vestiti da puffo e hai finito le benzo vorrei segnalare Dio Esiste E Vive A Bruxelles, ennesimo prodotto del genere “Ho studiato il cinema di Tarantino e mi imbottisco di videoclip, ma non chiedetemi di scrivere una storia originale perché alle lezioni di sceneggiatura avevo la varicella”. Sinceramente, la gag di quello che prova a camminare sull’acqua? Nel 2015? E il pubblico in sala rideva. Roba che ti fa rivalutare Checco Zalone.

E fu così che, partendo da un post sui buoni propositi per l’anno a venire, quella vecchia volpe di Pablo si mise in pari con le recensioni non richieste, tirò via un po’ di polvere dal blog e preparò il terreno per le nuove incredibili avventure di cui avrebbe parlato in seguito, tipo quella volta in cui si addormentò durante la proiezione di Francofonia, quell’altra in cui si addormentò a teatro davanti a Paravidino e quella pazzesca in cui si addormentò in piedi a Torino alla mostra di Monet.

Restate nei paraggi, si prospetta un 2016 sensazionale!