Quando lo scrittore non ha niente da pubblicare e una scadenza che gli rosicchia i piedi di solito s’inventa le cose. Tanto è uno scrittore, può.
Il casino è che le sue libertà sono male accettate dai lettori, e capita che in seguito alla pubblicazione su feisbu di un video in cui sta ai giardini di plastica a bere la birra più amara del mondo, riceva una miriade di commenti velenosi che gli suggeriscono di chiudersi in casa a scrivere. Non c’è Neil Gaiman a perorare la sua causa dicendo “No, neanche Pablo Renzi è la vostra puttana, fatevene una ragione”, l’unica soluzione è raccontare le cose come stanno veramente, senza palle.
Quindi, cari lettori, la verità quella vera veramente è che non sto pubblicando niente per una ragione alquanto triste.

È successo che è morta Marta, e sono andato a Milano al rosario, perché eravamo amici di famiglia.
C’era tutta la Milano che conta, il conte Crodini, il presidente dell’Inter, la blogger che viaggia e mangia, e due mariachi con la tromba e la chitarra che vivacizzavano l’open bar, che di solito questi rosari son di una noia..

Ero lì che porgevo le più sentite condoglianze alla povera nipote, cercando di non guardarle dentro la scollatura, quando ho notato una figura familiare che si nascondeva dietro al feretro.
Era Ambrogio il maggiordomo. Ho cercato di non far vedere che l’avevo notato, ma sul volto mi si è dipinta una smorfia, perché dove c’è lui c’è sempre la sua padrona, la contessa Serbelloni Mazzate Sulle Palle, con la quale condivido della ruggine antica.
La bionda nipote di Marta ha capito che qualcosa non andava e mi ha suggerito di accompagnarla in terrazza a prendere una boccata d’aria, ma così facendo siamo passati proprio davanti all’ambrogiordomo, che preso da imbarazzo si è infilato nella bara. La cassa era solida, che i becchini milanesi non lesinano certo sul palissandro quando si tratta di sotterrare un personaggio famoso, ma lo stesso non si poteva dire dei cavalletti su cui appoggiava. Chi li ha scelti nel reparto pittura di Leroy Merlin non poteva certo immaginare che avrebbero dovuto sostenere il peso di un cadavere più un uomo sulla quarantina tendente alla pinguetudine, che la vita di un autista maggiordomo non è proprio quella dell’atleta, soprattutto da quando ha sostituito i cioccolatini con le mozzarelle ciliegine.

Lo scricchiolio è stato coperto dalla tromba dei mariachi, ma lo schianto ha fatto girare proprio tutti.
C’era Ambrogio per terra abbracciato alla fu Marta. Le aveva anche mezzo sfilato l’abito. Non voglio pensar male, sono sicuro che è stato un tentativo di aggrapparsi a qualcosa e non un bisogno così impellente di riprodursi da non guardare in faccia nessuno neanche i morti, anche perché ho sentito dire che ogni tanto la contessa gli paga lo straordinario in natura, e ha ancora una discreta carrozzeria, considerati gli anni. Fatto sta che quando ci siamo girati c’era Ambrogio con la faccia premuta contro le tette nude di Marta, che erano già rinsecchite quand’era viva.

La nipote ancora un po’ sviene, sono intervenuti in tre per portarle chi i sali, chi un gin tonic, chi un paio di grammi di peruviana. Io non avevo più niente da fare, mi sono diretto al bar, rimasto incustodito. E ci ho incontrato la contessa.

Il gelo. Non poteva fare finta di non vedermi, le ero di fronte, e visto il risultato ottenuto dal suo accompagnatore ha preferito affrontarmi senza troppe menate. “Ciao”, mi ha detto, come avrebbe potuto dirlo la protagonista della serata da dentro la bara.
“Ciao il cazzo”, ho risposto, che a me la falsa cortesia fa girare i coglioni, e se devo prenderti a calci preferisco saltare i preliminari e puntare dritto al tuo culone.
“Quand’è che sgomberi i tuoi stracci?”, ho aggiunto, perché capisse subito dove volevo arrivare.

È successo che io e la contessa ci stiamo litigando da anni un antico maniero in Scozia. Il giudice sostiene che il legittimo proprietario sia io, avendolo acquistato a un’asta di oggetti smarriti l’anno scorso; lei dice che è un cimelio di famiglia, che è ancora abitato dal fantasma di suo nonno e quindi diventa suo per una sorta di usucapione metafisica.
È vero, un fantasma in effetti c’è, ma non è quello di suo nonno. È Mike Bongiorno. Quando venne trafugata la sua salma lo nascosero nella cantina del castello, e all’avvenuto pagamento del riscatto (perché è stato pagato un riscatto, non credete ai giornali) i sequestratori buttarono i resti di una cena a base di cinghiale in un sacco di iuta e restituirono quelli.
Ora, a meno che la contessa non sia una nipote illegittima del re del telequiz, ha cercato di rifilarmi una delle sue solite minchiate.
Non è nuova a questo tipo di atteggiamento, è il tipo di persona che ti entra in casa quando non ci sei per prendersi una bottiglia di vino da offrire all’ospite, e siccome non ha le chiavi ti fa buttare giù la porta da un suo cugino che fa quei mestieri in cui ci si arrangia poverino è quello sfortunato della famiglia cerchiamo di aiutarlo un po’ tutti, e per non svegliare tutto il quartiere ti avvelena i cani da guardia.

“Non mi sembra il luogo adatto”, ha tentato di difendersi lei, ma visto che non accennavo a smettere di aggredirla ha adottato la tecnica di difesa del riccio, si è appallottolata sul pavimento e ha aspettato che passasse l’ondata di merda.
Non avete idea del fastidio che mi da litigare con qualcuno che neanche ci prova a difendersi. È un’ammissione implicita delle proprie colpe, e va bene, ma mi toglie tutto il divertimento della retorica. È come vincere una causa per telefono, ma che gusto c’è? Perry Mason sarebbe d’accordo con me.

Non potendo averla vinta sul piano verbale le ho versato addosso il secchiello del ghiaccio, tanto la bottiglia di Veuve Cliquot non c’era più, se l’era bevuta un famoso blogger che si chiama come il Presidente del Consiglio neanche mezz’ora prima, e me ne sono andato.

Mi ha fermato Ambrogio, scampato chissà come al linciaggio e desideroso di riscatto agli occhi della sua padrona. “Eh no! Questo è troppo!”, ha esclamato.
“E quindi?”, gli ho chiesto.
“Eh.. beh.. magari bisognerebbe.. ecco.. un po’ meno..”

Me ne sono andato, se c’è una cosa che mi fa cagare sono i pavidi. Ma soprattutto è arrivato il marito della povera nipote, che ha fatto chiudere l’open bar e la bara, dichiarato concluso il rosario e distribuito inviti non trasferibili per partecipare al funerale vichingo sullo yacht di famiglia presso l’isola di Terceira, nelle Azzorre.

Sto preparando la valigia, dovrei tornare entro la metà di agosto. Se trovo il tempo scrivo due righe da là, ma non so se c’è il wi-fi. Sennò ci rivediamo a settembre.
Buone vacanze!

4. Dove l’estinzione appare inevitabile

Esistono diverse vie d’accesso alla terrazza del MUCEM, a seconda di ciò che vi spinge lì.
Un turista interessato alla mostra su Picasso può munirsi di biglietto ed entrare dal pianterreno, e solo in un secondo tempo decidere di terminare la visita salendo all’ultimo piano per rinfrescarsi al bar con una bibita che costa più del biglietto stesso, un po’ per via del già citato paradosso francese e un po’ perché sono dei ladri.
Un free climber si arrampicherebbe lungo la facciata, ma con un certo scazzo, quella è gente abituata a imprese ben più ardue, salirebbe tenendosi con una mano e facendosi foto al cellulare con l’altra.
Un commando di teste di cuoio si calerebbe dall’elicottero dopo aver cosparso la terrazza di fumogeni, quindi ucciderebbe tutti i terroristi, e prima di dichiarare il tetto sicuro missione compiuta andrebbe a saccheggiare il bar, più per rappresaglia che per necessità, che sotto sotto questa truffa delle bibite non va giù neanche ai francesi più patriottici.

Se stai entrando nell’edificio per rivedere la tua ex dopo mesi dal vostro ultimo incontro in cui le hai dato, senza troppi giri di parole, della troia opportunista, la passerella lunga e nera che collega museo e forte diventa una scelta obbligata:
oltre ad essere un indiscutibile oggetto d’arte ti offre un panorama inedito sulla città, un bellissimo scorcio del porto e della basilica sulla collina, e soprattutto ti fa sentire come un dannato alle porte dell’inferno molto meglio di come farebbe l’anonimo ingresso principale.
La griglia che riveste la facciata si alza oltre il parapetto e si ripiega all’interno, diventando una specie di tettoia, e l’effetto che dà al visitatore sospeso sulla passerella è quello di una gigantesca bocca irta di zanne pronta a dilaniarlo.
Il Louvre, per esempio, sembra essere erbivoro. Forse è per quello che attira più visitatori.

Gabriele si guardò intorno, non c’erano facce familiari. Turisti anche lì, che entravano nel museo, leggevano i cartelloni con la storia della costruzione, fotografavano il castello d’If attraverso la griglia metallica, si allontanavano in fretta dal bar dopo aver chiesto un prezzo.
Si stese su una chaise longue e guardò il castello anche lui, e anche lui si tenne la sete, nonostante la gola fosse diventata sabbia, chissà perché.

Il telefono vibrò discretamente, non riuscì a imitarlo e scattò in piedi ruotando la testa come la lampada del faro.

Naïma si era tagliata i capelli molto corti, indossava un abito formale che tuttavia non riusciva a renderla meno desiderabile: la camicia abbottonata fino in cima gli faceva muovere le dita nelle tasche. Stava benissimo. Maledizione, era splendida.
Gli venne incontro con un sorriso capace di disinnescare bombe, avrebbe voluto abbracciarla e basta, abbracciarla e abbandonarsi a quello che sarebbe venuto: qualunque cosa fosse sarebbe stato bellissimo e definitivo. Sarebbe stato così semplice.

Restò immobile, incapace di sciogliere l’espressione tesa che aveva in volto, e bastò quello perché anche lei saltasse giù dal quadretto dell’utopia, per atterrare nel solito vecchio corridoio gelido pieno di vetri rotti.

Sul terreno della battaglia i due eserciti si fronteggiavano in un silenzio carico di morte. I primi a rompere la tregua furono gli arcieri, che fecero piovere sul nemico i loro saluti. Molte sicurezze caddero sotto quella prima ondata, e i loro compagni giurarono vendetta con le mani già imbrattate di sangue. Non ci sarebbe stata pietà, nessuno la meritava.
Uscirono i cavalieri, e abbracciarono l’esercito avversario con le spade in pugno. Gli altri schierarono picche e scudi. Le frasi di circostanza calpestavano le prime file e venivano trafitte da risposte appuntite sulla fiamma. Ritirarsi non era più possibile, era uccidere o essere uccisi.
Finalmente l’assalto della fanteria ruppe gli ultimi indugi, adesso non c’erano più schemi, solo sopravvivenza, brutale efficacia, parole scagliate per distruggere.

Sarebbe stato così semplice.

Per quanto cercassero di evitarlo sentivano che ogni parola li faceva scivolare verso i vecchi discorsi. Anche le frasi più innocue nascondevano la miccia che poteva dar vita all’incendio, i silenzi erano carichi di tensione che demoliva invece di costruire.
Non era ancora il momento di seppellire le incomprensioni, avrebbero dovuto accorgersene prima.
Si arresero all’evidenza.

“Stai ancora con lui?”, iniziò Gabriele.

Naïma lo colpì con un’occhiata bipenne capace di sfondare toraci.

“Scusa, credevo fosse una domanda legittima”
“Non lo è, e lo sai benissimo”
“Quindi ci sono argomenti da evitare? Se devo stare attento a quello che dico è meglio saperlo prima”
“Perché sei venuto fin qui? Cosa vuoi ancora da me?”

La domanda più semplice del mondo è quella a cui non sai rispondere.

“Perché mi manchi” sarebbe l’unica risposta, ma non risolverebbe più niente. Metterebbe solo chi la pronuncia di fronte all’ennesima porta chiusa, e i fallimenti pesano, i buchi nella pancia ci mettono sempre di più a rimarginarsi, e allora scusa ma è meglio il rancore che mi tiene dalla parte del più forte, se non altro mi permette di difendermi, di non sentirmi sconfitto. È orgoglio, certo, ma meglio quello, meglio soffrire in due che da solo.
Quello che ci estinguerà non saranno le bombe, ma le sovrastrutture.

“Mi spiace averti detto quelle cose, l’ultima volta, ma ero ferito. Mi hai fatto molto male, sei stata disonesta con me.”
“Non ci credo che sei venuto fino a Marsiglia solo per litigare ancora, dopo tutto questo tempo! Gabri, è finita, sto con un altro, fattene una ragione! Vai avanti!”
“Quindi stai ancora con lui. Beh, certo, quando ti ricapita un’occasione del genere? Va tenuta stretta. Mi domando se lo ami davvero. Mi domando se hai mai amato me, davvero.”
“Se è questa l’opinione che hai di me non capisco perché sei venuto a cercarmi.”
“Forse volevo sapere perché ci siamo lasciati.”

“Possibile che dopo tutto questo tempo tu non l’abbia ancora capito? Esiste ancora solo quello che provi tu? Come stavo io non te lo sei mai chiesto, eppure te l’ho spiegato in tutti i modi. Ti ho detto che stavo male. Ti ho detto che mi stavi perdendo, e la tua risposta è stata va bene. Va bene? Fermami, cazzo! Non lo voglio fare, sono innamorata, ma non mi vedi? Ho bisogno che tu ci sia davvero vicino a me, non mi basta una sagoma di cartone! Mi sono umiliata, ti ho implorato di considerarmi, e tu ti sei girato di là! Cos’avrei dovuto fare, restare lì a elemosinare attenzione? Umiliarmi un’altra volta?”

“Ti ho detto di fare la scelta migliore per te, non significava disinteresse. Ho messo i tuoi bisogni prima dei miei, perché non lo vuoi capire?”

“Hai messo te stesso prima di tutto! Che è il modo in cui sono andate sempre le cose fra noi! Tu, tu, ancora tu e poi se avanzava un po’ di tempo, magari io. Lo sai che la sera tornavo a casa e piangevo? Mi sentivo sola. Avevo passato tutta la sera con te, e mi sentivo sola.”

“E adesso sei felice?”

“Neanche questo sei stato capace di capire. Hai visto l’ingiustizia dove c’era un tentativo di salvarsi. Ti sei sentito tradito, ma perché? Tu non c’eri più, non c’eri mai stato, che diritto avevi di protestare?
Ti sei sentito la vittima di un sopruso, ma cos’è che ti ho portato via? Un po’ di tempo? Ti ho dato tutto quello che avevo e l’hai trattato come spazzatura. Mi hai fatto sentire inutile, addirittura disprezzata. Mi sono detta che era colpa mia perché non riuscivo a essere abbastanza bella o interessante per te.
Adesso ho qualcuno che me lo ricorda ogni giorno, glielo leggo negli occhi ogni volta che mi guarda, e io ci vivo di quelle parole non dette, di quelle attenzioni.
Non lo capisci, io non mi basto da sola come fai tu. Io certe volte faccio fatica a reggere il mio sguardo nello specchio, se neanche negli occhi dell’uomo che amo riesco a trovarmi dei pregi non è più vita.”

“Tu vuoi vedere solo quello che ti fa comodo, Naïma. Hai voluto tutto e subito e neanche ti è bastato. Ho passato mesi a discutere, a metterti davanti le cose che facevo per te, e tu ti voltavi di là e ripetevi che non c’ero. Non c’ero mai, neanche quando ti stavo davanti. Quando sei partita mi sono sentito liberato di un peso, ma non eri tu, erano tutte le tue paure idiote che mi pesavano. Era il non riuscire a zittirle. Mi sono confrontato per tutto il tempo con loro invece che con te, ripetendomi che prima o poi se ne sarebbero andate, e invece erano sempre lì, e alla fine ci hanno schiacciato. Loro e il tuo egoismo del cazzo.”

“Certo, alla fine è comunque colpa mia. Io sono l’egoista, l’opportunista, l’insensibile. Tu poverino sei un santo, puoi trattare gli altri come oggetti, ma la tua noncuranza è buona, non va toccata. Tutto quello che fai tu è lecito, anche se mi scava dentro e mi ammazza un po’ alla volta, è un gesto d’amore, bisogna accettarlo. Sei tu l’egoista, non io. Sei tu l’insensibile.”

“Io sono rimasto solo quando mi hai lasciato, e sono venuto qui per parlarti. Non mi sono trovato un’altra persona dopo due giorni. Non ho pescato nel mazzo il più ricco di tutti, quello che mi serviva nel lavoro. Sono rimasto dov’ero a leccarmi le ferite, io.”

“Tu non vedi altro che quello, non riesci ad andare oltre. Mi dispiace, Gabriele, è inutile continuare a parlare, ci facciamo del male e basta. Adesso devo tornare al lavoro. Per favore, non cercarmi più.”

Naïma sparì dalla terrazza come una visione: un attimo prima era lì, con gli occhi lucidi e i muscoli tesi a non esplodere, quello dopo c’era solo lui a confrontarsi col suo ricordo. Come a casa, come sempre. Era andato fin lì per portare a spasso il suo fantasma, adesso lo avrebbe semplicemente riportato indietro e non sarebbe cambiato niente, non lo aveva rimpicciolito, non lo aveva reso più innocuo. Lo aveva solo portato a fare una gita.

Un paio d’ore più tardi, seduto sul pullman per Genova, Gabriele cercava di ricostruire la conversazione, di osservarla dal punto di vista di lei. Quando gli sembrava di esserci riuscito saltava fuori qualcosa, una frase detta chissà quando, che tirava giù tutta la struttura e lo lasciava a masticare altro veleno. Non riusciva a chiudere. Doveva capire dov’era l’errore, doveva capire tutto, le ragioni di lei, le sue, chi aveva sbagliato cosa. C’erano delle responsabilità, era in un tribunale dove interpretava accusa, difesa e giuria, per forza che non ci stava capendo più niente. Un momento si dava ragione e un altro torto, e un altro ancora voleva solo uscire e andarsene, al limite anche farsi sbattere in prigione e scontare la sua pena, bastava finirla. Era spossato, ma non cedeva. Aveva bisogno di arrivare a una risposta, anche se non ci sarebbe stato più nessuno a cui sottoporla. Naïma era il passato, adesso più di prima, eppure continuava a considerarla parte del disegno. Immaginava di arrivare finalmente a una soluzione, di tornare da lei come un uomo nuovo ed essere finalmente la persona che lei desiderava.
Non erano passate neanche due ore e si era già scordato tutto quello che era appena successo. stava ricominciando da capo, come se vivesse in un mondo che aveva perso ogni contatto con quello reale.
Era davvero ripiegato su sé stesso, ignaro dei bisogni di chi aveva vicino, e quando non vedi altro che il tuo ego come puoi capire chi ti sta intorno, o confrontarti con un punto di vista diverso dal tuo? Come lo capisci che stai sbagliando, se è il tuo stesso errore a impedirtelo?

Se non ci estingueranno le sovrastrutture lo faranno le teste di cazzo.

3. Dove ci si pongono interrogativi sul prezzo delle bibite in Francia e su altre cose non meno importanti

Le strade erano deserte, non un bar, una vetrina illuminata. Tolto l’assembramento intorno al Vieux Port sembrava che il centro fosse stato evacuato.
In Rue Pollak si fece attirare da un po’ di movimento in cima alla strada. C’era un locale frequentato da beoni eterogenei, di fronte alla ciucca crolla ogni pregiudizio. Un nero gridava qualcosa a una donna, lei gli rispondeva allo stesso volume, tutto nell’indifferenza delle finestre affacciate su quel tratto di strada.
Non si fermò, aveva bevuto abbastanza e voleva solo sparire sotto una coperta e smettere di pensare.

In Place du Marché des Capucins la strada era sbarrata da pile di cassette per la frutta. Era la piazza del mercato, i banchi erano stati smantellati, ma qualcuno esponeva ancora la merce, e gli esercizi intorno sembravano in piena attività. Pasticcerie arabe, alimentari halal, un minimarket.
Gli venne fame, nella pasticceria i dolci erano accatastati in disordine come scaricati da una ruspa. Tutta quella confusione alimentare gli rendeva difficile la scelta. Si fece consigliare dal proprietario, un uomo basso con una lunga barba.

“Ti piacciono le mandorle?”, fece quello, e senza attendere risposta prese un pezzo di carta e pescò una specie di cannolo da uno dei mucchi.

Bene, per la colazione dell’indomani aveva trovato il posto giusto, pensò Gabriele tornando verso l’albergo, e bastò quella piccola determinazione per fargli ritrovare abbastanza buonumore da restare a galla.

La distesa di tavolini davanti all’hotel adesso era occupata da uomini in caffetano impegnati in chissà quale discussione molto concitata. Si sentivano anche dalla camera nonostante le finestre chiuse, e non smisero di salmodiare fin oltre le due. Il resto della notte se lo prese un bambino disperato, da qualche parte nell’edificio.

In quello stesso momento Naïma era in una casa che lui non avrebbe mai visto, probabilmente stava dormendo accanto a un uomo che lui non avrebbe mai voluto vedere. Avevano costruito un loro linguaggio comune che a Gabriele sarebbe risultato estraneo, i legami della sua storia precedente si erano sciolti, ormai per lei era poco meno che un estraneo. Era questo pensiero a non lasciarlo dormire, ben più degli strilli che echeggiavano in corridoio e del brusìo giù in strada.
Da sei mesi stava inseguendo un fantasma, manteneva una conversazione con un interlocutore che aveva la faccia di Naïma, ma di fatto era sempre lui. Se avesse dedicato i suoi pensieri a una pianta sarebbe stata la medesima cosa. E nonostante ne fosse consapevole non riusciva a tirarsene via.
Aveva ragione Pierre, doveva vederla e liberarsi di quel peso. Per sé stesso, non per ottenere qualcosa: Naïma era andata, l’aveva persa, ma per andare avanti doveva fare pace col suo ricordo, o non se ne sarebbe liberato mai.

Fece finta di dormire per ingannare il mattino, ma quello non si fece fregare e arrivò prima che potesse riposarsi.

Il mercato stava aprendo, in tutto il quartiere di Belsunce i commercianti allestivano le botteghe. Se volevi comprare un tajine, una wok, un piatto disegnato o delle babbucce colorate non avevi che da entrare in un negozio a caso e allungare una mano.
I banchi di frutta erano rigogliosi, facevano venir voglia di diventare vegani e vivere di macedonia, ma quello che cercava in quel momento era caffè. Forte. Amaro. Voleva un bar, e quella maledetta città ne sembrava sprovvista.

Superò il porto, non gli andava di sedersi ancora in quei posti fighetti. Aveva in mente un tavolino poco frequentato in cui farsi servire uno di quei deliziosi croissant caldi e una baguette con burro e marmellata con cui accompagnare il caffè.
In Place de Lenche ne trovò uno già aperto e si mangiò il fabbisogno energetico della città di Pescara.
Il croissant era ottimo, e meno male, perché quel brodo nero nella tazzina aveva un sapore che lo offendeva come essere umano.
Se vuoi vendere acqua torbida vagamente aromatizzata nessuno te lo vieta, il mercato è libero, ma almeno sii onesto coi tuoi clienti e chiamala in un altro modo. Chiamala Noncaffè, Mancoperilcazzocaffè, Eaudepalude.

Erano le nove, aveva ancora del tempo per sé, e anche per avvisare Naïma.
Il pensiero gli fece contrarre lo stomaco, e visto quello che ci stava versando dentro fu un bene.

“Ma toddetto che se va de la! Nun la sai legge staccartina!”

Gli italiani all’estero sono rumorosi, i romani sono i più rumorosi di tutti. E lui ne aveva un paio alle spalle. Non è che volesse aiutare dei compatrioti in difficoltà, ma quel berciare gli stava guastando la colazione.

“Cosa state cercando?”, chiese.
“Oh! Uno che ce capisce! Sia ringrazziata lamadonna!”, esultò la donna. Era bassa, secca e rugosa. Ricordava un cagnolino con gli occhi a palla, disidratato. Nervosa, puntava le dita verso il bar e la piazza e la strada e il porto e diceva cose a vanvera senza rispondere alla domanda, peraltro circostanziata, e si fermava e rimbrottava il marito.
Lui era molto più alto, indossava un cappellino da baseball con scritto Ischia e teneva una videocamera appesa al polso di cui sembrava essersi dimenticato. Ciondolava come sotto l’effetto di un oppiaceo, e come dargli torto? Stordirsi di narcotici doveva essere l’unico modo legale per gestire una moglie come quella.
Era la classica coppia in vacanza con cui ti andrebbe di socializzare tenendo in mano una scure.

“Questo prima che chiede ninformazzione stamo freschi! Cercamo a cattedrale!”
“In fondo alla via”, tagliò corto Gabriele, indicando il cartello Rue de la Cathédrale.
“Ma ce stava pure a scritta! Vedi a sapè le lingue!”

Già, Marsiglia ha anche una cattedrale, che lui nel suo trip neoromantico postatomico si era dimenticato di considerare. Doveva trovarsi a un paio di minuti da lì, tanto valeva darci un’occhiata.

“Non dovevi chiamare qualcuno, prima?”, gli chiese a tradimento la sua coscienza.
“Vabbè, dopo lo faccio”, le rispose in una scrollata di spalle non troppo immaginaria.

La vide spuntare appena imboccato il vicolo, ma era una falsa prospettiva: l’edificio stava lontano dalle case, slegato dal contesto urbano. Era grande, non bella. Neobizantina, qualunque cosa volesse dire. Per lui era solo un’altra grossa chiesa a righe con la cupolona e i campanili in facciata, e in mezzo a quella distesa spoglia sembrava un’astronave in sosta. I turisti venivano scaricati dai pullman e intruppati al suo interno in ranghi stretti. Da un portone laterale atrettanti plotoni armati di macchina fotografica e selfie stick venivano espulsi e si dirigevano sotto il sole verso il grosso cubo nero che dominava l’estremità opposta di quel piazzale metafisico. Il MUCEM.

“Adesso però la devi chiamare”
“Magari prima ci faccio un giro sotto per vedere se è aperto”

Era una costruzione splendida. Sembrava una scatola nera intarsiata da un gigante, e si stagliava sul bianco della banchina come un adesivo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, era inquietante come una visione del futuro. Per quanto lo riguardava era anche dello stesso colore.

“Apre fra un’ora, chiamala”
“Magari faccio due passi qui sotto e la incontro che sta andando a lavorare”

Non la incontrò lì sotto e neanche un po’ più in là. Si avvicinò all’ingresso dei dipendenti con la cautela di un artificiere, ma non riuscì a fermarsi abbastanza per guardare oltre la porta a vetri, gli sembrava di essere nudo, pitturato di rosso, con una freccia luminosa a gravitargli sopra la testa e che appena avesse rallentato e allungato il collo sarebbe risuonata una sirena e tutti l’avrebbero visto e additato. È lui! È venuto a vedere Naïma!

Il resto della fantasia proseguiva con insulti nella sua direzione da parte di tutta Marsiglia compreso il sindaco, che lo raggiungeva seguito da una scorta in abito da parata e gli consegnava su un cuscino la chiave di un’altra città con l’invito ad andarsene immediatamente.

Tirò dritto a passo spedito, rosso in viso e svoltò oltre l’angolo. Era il retro del museo, non c’era niente lì tranne uno specchio d’acqua condiviso col forte Saint-Jean che stava di fronte. Si chiese se fosse permesso stare lì, se fosse arrivato un guardiano a scacciarlo avrebbe dovuto buttarsi in acqua e scappare a nuoto. Cosa che peraltro gli avrebbe permesso di non passare più davanti all’entrata principale.
Si obbligò a rallentare il respiro e i passi, uscì dall’altra parte e andò a sedersi su una panchina davanti al mare. Le mura del castello d’If si indovinavano sull’isolotto di fronte, confuse con la desolazione della spiaggia rocciosa. Il mare era dello stesso colore del cielo, invitava a tuffarsi. Se invece di quel pellegrinaggio si fosse spinto fino al Parc des Calanques avrebbe respirato aria migliore e ci sarebbe scappato anche una nuotata fra gli scogli. Ormai era tardi, il battello ci metteva troppo tempo, rischiava di perdere il pullman. Niente da fare, era lì e doveva fare quello per cui era venuto, parlare a Naïma e chiederle.. scusa? Torniamo insieme? Sei felice? Stai ancora con quel tizio? Cosa le voleva chiedere davvero? Il sole gli sovraesponeva i pensieri, eliminava tutte le sfumature. Riusciva a ragionare solo per assoluti. E gli faceva venire sete. Tornò sulla strada, e sotto i portici del porto vecchio prese una bibita gassata che costava come un Veuve Clicquot.
Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli il paradosso tutto francese per cui le bibite costano più care della birra e per una bottiglietta d’acqua devi prima fermarti al bancomat.

Lo schermo del telefono lo fissava per un po’, poi si spegneva e lui lo stuzzicava un’altra volta. Non voleva essere lasciato solo nel momento delle decisioni importanti, ma poi non decideva niente e restavano lì a sostenere una gara di sguardi in cui l’unica sconfitta era la batteria, già al 34%.

“Sono a Marsiglia. Ti va un caffè?”

Tutta la mattina a pensarci e se ne veniva fuori col messaggio più laconico della storia. Aveva dovuto prendersi di sorpresa o non avrebbe mai scritto niente, sarebbe rimasto lì ad aspettare finché non fosse diventato troppo tardi per fare qualunque cosa. Aveva cominciato a scrivere perché e se fosse il caso e a risalire fino alle ragioni in cui, poi si era sentito ridicolo e aveva scritto la cosa più diretta possibile. Pure troppo.
Riprese il gioco di sguardi con lo schermo, in attesa che la spunta raddoppiasse e si colorasse di blu.

“Prende qualcos’altro?”, lo interruppe la cameriera.
“Sì, prendo un..”
DING, fece il telefono.
Argh, disse lui.
“Niente”, aggiunse, e se ne andò col cuore pieno di elio.

La risposta era divisa in qualcosa come sedici messaggi: Naïma apparteneva a quella categoria di persone che non riescono a sostenere il peso di una finestra carica di parole, e ogni due o tre devono spedire. Quando stavano insieme il telefono gli vibrava in tasca per minuti interi ogni volta che dovevano organizzarsi per uscire. Se litigavano lo stillicidio durava ore, una volta aveva dovuto spegnere il telefono per non scaricarlo.

Era sorpresa che fosse lì. Ma non sembrava irritata. E si diceva disposta a vederlo. Appena possibile. Quando finiva di lavorare. Verso le cinque. Che bella sorpresa. Ma cosa ci faceva a Marsiglia.

Le rispose che era a cinque minuti dal suo posto di lavoro e che avrebbero potuto vedersi al bar del museo, sulla terrazza. Dopo non poteva, aveva il viaggio di ritorno e doveva ancora raggiungere la periferia orrenda senza perdersi né venire sequestrato dalle bande criminali che scorrazzano da quelle parti sui loro veicoli truccati e privi di tagliando assicurativo.

Disse che andava bene, ma poteva dedicargli solo poco tempo, mentre le sarebbe piaciuto andare a cena, era tanto che non si vedevano, chissà quante cose avrebbero avuto da dirsi. Lo disse in dieci messaggi.

(continua)

2. Dove non ci si aspetta l’inaspettato e trovare la verità diventa molto più difficile

I tavolini sulla terrazza erano quasi tutti occupati da possibili lettori di noir francese. L’ombra degli alberi e uno schermo acceso sulla partita riportavano quell’angolo di Francia a una dimensione più prosaica.
Ordinò una birra e un guacamole alla cameriera lesbica. Ce n’erano due, una che sembrava un camionista appassionato di boxe e l’altra appena saltata giù da un poster di pin ups anni ’50, con tanto di cerchietti rosa sulle guance paffute.

All’angolo opposto del bar un negozio specializzato in pastis suggeriva di assaggiare la bevanda tipica della città. Secondo Izzo bisogna berne tre per apprezzarne il sapore; Gabriele era convinto che bisognasse fermarsi prima. A zero.
Due negozi di carabattole turistiche si affacciavano sulla strada, entrambi offrivano variazioni sul tema della sardina. Perché la sardina a Marsiglia è considerata così importante? Sardine marinate nel pastis, chissà se ci aveva mai pensato qualcuno. Sarebbe potuta essere la svolta.

Un uomo invecchiato male, il cui odore di anice lo identificava come cliente abituale del negozio di pastis, andò a sederglisi vicino. Aveva una camicia cachi troppo grande a sventolargli sul petto rinsecchito, pantaloncini della stessa tonalità e sandali. Sembra un reduce della Legione disidratato dal sole sahariano. Doveva essere del posto, la cameriera pin up lo chiamò per nome. Stette qualche minuto a osservare distratto la partita, con un calice in mano pieno di liquido giallino, poi si alzò e fece un giro fra gli avventori della terrazza. Trovato uno che gli piaceva ne occupò la sedia accanto, senza troppe cerimonie, e si mise a raccontargli le sue disavventure. Così, senza aspettarsi alcuna risposta, raccontava per buttare fuori. Il suo interlocutore era chiaramente un turista straniero, forse inglese a giudicare dalla scottatura del viso. Era a disagio, si sarebbe alzato e avrebbe cambiato tavolo, o più probabilmente città, se non fosse stato un gesto maleducato. Così stava lì a dissimulare naturalezza livello condannato al patibolo.

Gabriele si sentiva in sintonia ora con uno, ora con l’altro. Aveva anche lui voglia di acchiappare qualcuno per un braccio e raccontargli di essere venuto fin lì per praticare un esorcismo, farsi rassicurare sull’esito positivo di una pratica così pericolosa, magari trovare un’anima compassionevole disposta ad accollarsi tutta l’operazione, vedere Naïma, convincerla che c’è ancora una speranza, farla innamorare ancora, cancellare tutto quel tempo inutile della loro separazione. Lui sarebbe rimasto in albergo ad aspettare, avrebbero bussato e dietro la porta ci sarebbe stato il turista inglese insieme a lei. Gli avrebbe detto è tutto risolto, e l’avrebbe fatta entrare, chiudendosi la porta alle spalle mentre se ne andava. Ci sarebbe stato un sottofondo di pianoforte, ad un certo punto della storia.
La parte in cui si sentiva tremendamente a disagio occupava il resto del tempo in cui non si perdeva in fantasie ridicole.

Avrebbe voluto scriverle ora, rompere quel silenzio e dirle che era lì, chiederle di raggiungerlo. Esserle amico, se proprio non poteva essere il suo compagno. Era per quello che si era sobbarcato sette ore di pullman, no?
Solo pensarlo glielo rendeva impossibile. Nella solitudine del suo tavolino in mezzo a una terrazza piena di gente nella seconda città più popolosa di Francia dovette ammettere che rinunciare a qualcosa che volevano entrambi gli era inaccettabile. Vederla con un altro uomo gli tirava fuori dei giudizi che non voleva più dare. Era stufo di quella guerra senza senso, e allora meglio stare lontano, dove non poteva nuocere neanche a sé stesso.

Ho cercato di ucciderti sperando che mi facesse meno male, e mi sono trovato a combattere contro i miei stessi desideri.
Sono seduto al tavolino del tuo bar e ho gli occhi lucidi. Dimmi se si può andare in gita così.

Il senso di ragno empatico squillò come una sveglia nella testa dell’ubriacachi, che si voltò di scatto a guardare Gabriele. I loro sguardi si incrociarono, la preda e il predatore.
Ogni pomeriggio all’ora dell’aperitivo, a Marsiglia, un avventore del 13 Coins si sveglia e sa che dovrà correre più in fretta dell’ubriacone molesto se vuole restare vivo.

Gabriele finì in un sorso la birra e abbandonò il guacamole quasi intonso, lo avevano fatto con la maionese, quei barbari! Colpa sua, nel Panier devi ordinare l’hummus.
Si alzarono insieme, ma le sue gambe non erano appesantite dall’alcool come quelle dell’avversario, e riuscì a guadagnare la strada prima di essere catturato.
Era ora di cena, il quartiere era ricco di piccole trattorie caratteristiche che ricordavano molto i locali intorno a Montmartre e quelli nella Plaka. I ristoranti nei quartieri turistici si somigliano tutti in tutto il mondo, stanno a metà fra l’atelier del pittore e la cantina di paese, e il menu è pieno di cifre sopra il 15.

In Rue du Refuge un signore vestito da cuoco allestiva un piccolo tavolino, mentre la moglie scriveva i piatti del giorno su una lavagna. L’etnia della coppia rispecchiava la selezione dei cibi: quella sera tajine e tarte aux pommes.

“Non ho prenotato. Posso sedermi?”. Era l’unico cliente. Il cuoco ridacchiò e gli indicò il tavolino.

Non aveva mai mangiato un tajine così buono: i ceci gli scoppiavano sotto i denti e davano solidità al sapore incorporeo della curcuma e della cannella, che potevano invaderti la bocca mentre la lingua era distratta dal sapore dolce delle prugne. La salsa piccante nel piccolo piatto di terracotta che porta il medesimo nome garantiva la fuga dalla realtà. Non era più una cena, era una rapina a mano armata, impossibile opporre resistenza.
Tuttavia qualcosa lo tratteneva lì, come la sensazione di uno sguardo posato su di lui. Una luce calda che lo avvolgeva, un refolo di brezza fra i capelli, qualcosa di familiare.
Il respiro gli restò bloccato in gola, si voltò come tuffarsi in un lago, certo di cadere dritto negli occhi di Naïma.

L’uomo in cachi restò a fissarlo in silenzio, dando il tempo alla sua faccia di ricomporre un’espressione adeguata.

“Kadir, mi puoi portare un succo all’ananas, per favore?”
“Certo Pierre, con ghiaccio come al solito?”
“Da un arabo non puoi farti servire alcolici decenti”, spiegò a bassa voce a Gabriele, indicando la bottiglia di Cagole in mezzo al tavolo.
“Sbrigati a finire il tajine, ti porto in un posto migliore”

Attraversarono il Panier verso il porto, seguendo una strada diversa da quella dell’andata. Ebbe una fugace visione della piazza in cui aveva abitato Naïma, ma Pierre non gli dava il tempo di fermarsi a sospirare, aveva un passo da fondista difficile da seguire.
Sbucarono sulla Grand Rue che erano quasi le nove. La basilica sulla collina era rossa, come il luogo di culto di qualche romanzo sanguinario. Gli sarebbe piaciuto vedere la città da lì, ma forse dopo il tramonto ci praticavano sacrifici umani.
E comunque il suo anfitrione sembrava dirigersi altrove.
“Vite! Vite!”, gli intimava quando restava indietro.
Ma perché aveva seguito un matto del genere?

Perché non avevi altro da fare che stare seduto a piangere davanti a una massa di sconosciuti, e allora perfino la compagnia di un matto alcolista diventa un’alternativa migliore.
Ah già.

“Non per sapere i cazzi tuoi, ma dove stiamo andando?”
“Vers la vie”, rispose Pierre, indicando le case dall’altra parte del molo.
Se non altro il rischio di venire sbudellato dagli adepti di R’hllor sembrava scongiurato, pensò Gabriele buttando un occhio alla collina, che aveva assunto il colore del sangue secco.

La loro destinazione risultò essere una piazza lunga e stretta dietro il porto, dal nome troppo lungo per essere ricordato. Un lato era occupato da locali pieni di ragazzi, la vie di cui parlava Pierre; l’altro era senz’altro le sommeil, palazzi silenziosi uso ufficio. Anche la redazione della Marseillaise sembrava deserta.

Un trio composto da sax, susafono e batteria proponeva una selezione di ottimi standard jazz fuori da una pizzeria. Era il Peano.
Gabriele si chiese se con l’apertura al capitalismo anche la Bodeguita del Medio sarebbe diventata uno Starbucks.
Le vibrazioni negative riattivarono l’empatia del compagno, che lo prese per un braccio e lo mise a sedere davanti a un vodka tonic.

“Adesso ci ubriachiamo e mi racconti cosa ti è successo”
“Ma non mi conosci neanche, cosa ne sai che mi è successo qualcosa?”
“Ho fatto l’assistente sociale a Belle De Mai per vent’anni. Mi sono trovato davanti ogni tipo di disagio, mogli picchiate e minorenni che si prostituivano per pagarsi la droga. Ormai il dolore lo riconosco da lontano. Non so perché cerco ancora di aiutarvi, deformazione professionale, idealismo, che ne so. Ma vi vedo questo peso addosso e devo cercare di togliervelo. Fammi indovinare, lutto o divorzio?”
“Ma tu sei scemo.”
“Dai dimmelo, lutto o divorzio?”
“Omicidio preterintenzionale”
“Divorzio rancoroso! Lo sapevo! È il mio preferito, racconta!”

Erano passate solo poche ore da quando si era ripromesso di non diventare mai un depresso alcolizzato rompicazzo, e guardalo adesso. Era davvero così privo di dignità?
Quel che si uccide si diventa, diceva Pavese.
Raccontò.

“È una storia bellissima, mi fa venire da piangere! E piangerei, eh? Ma un ubriaco che piange è talmente banale.. Adesso cosa fai, la chiami?”
“Pensavo di no.”
“Ma come no? Sei venuto fin qui apposta!”

Era stata un’idea del cazzo. Quando Naïma era tornata a Genova per prendere le sue cose si erano incontrati, avevano litigato per ore. Lui le aveva riversato addosso una cisterna di liquame puzzolente, era andato via giurandole che l’avrebbe rivista mai più. Ci voleva una bella faccia per presentarsi di nuovo.

“Sono passati mesi. Una persona cambia opinione nel frattempo. Ragiona, capisce di avere avuto torto.”
“Ma io non lo so mica se ho avuto torto. Non vorrei più litigare, quello no, ma ho paura che se ci confrontassimo tornerebbero le ragioni per cui ci siamo scontrati la prima volta. Quelle sono sempre lì, e sono sempre vere. Non si può alternare carezze e bastonate, se prendi una posizione devi mantenerla.”
“Quindi preferisci essere coerente con un comportamento anche se sai che è sbagliato? Mi sembra stupido.”
“L’orgoglio è stupido.”

Pierre attirò la cameriera con un gesto troppo ampio e chiese un altro vodka tonic. Gesticolava un sacco, un paio di volte aveva scontrato il suo bicchiere, e non erano finiti a bagno solo perché era già vuoto. Gesticolava troppo e beveva veloce. E parlava, parlava..
Era convinto che il rapporto fra Gabriele e Naïma andasse ricucito ad ogni costo, non c’era equilibrio e secondo lui le cose prive di equilibrio richiedono un’energia enorme per impedire loro di cadere. Non sembrava interessargli il sentimento fra loro due, per lui l’importante era smettere di sprecare energia. Parlava come un attivista di Greenpeace a cui avessero modificato il vocabolario, sostituendo l’ecologia con termini più legati agli affari di cuore.

“Stai tenendo in mano una pietra da tirarle addosso, non sai se la userai o no, ma preferisci tenerla in caso di necessità. Alla fine è un peso inutile, buttala. Dici che le ragioni sono ancora lì, ma quali sarebbero?”
“Il tizio, Grimaldi. Non riesco ancora ad accettarlo.”
“Perché ti aspetti ancora qualcosa da lei, è quello l’errore. Devi fare pace per te stesso, non per ottenere qualcosa.”
“Non puoi obbligarti a non desiderare.”
“Puoi desiderare senza soffrire. È a quello che devi arrivare. Adesso scusa, ma devo andare a pisciare.”

Si alzò con una certa difficoltà e sparì in mezzo a un gruppetto, urtando una ragazza e proseguendo senza scusarsi.
Dieci minuti più tardi la cameriera si presentò al tavolo col conto.

“Non stiamo andando via, il mio amico è in bagno”, le spiegò lui.
“Il tuo amico se n’è andato dieci minuti fa.”
“Ma no, è in bagno, ti dico!”
“Ti ha fregato, lo fa sempre. Cosa ti ha raccontato? Quella dell’assistente sociale o quella del malato che vuole vivere fino in fondo?”

Gli piombò addosso una voglia feroce di tornare a casa, come se qualcuno gli avesse ficcato un sacco in testa e spento la luce. Se ci fosse stato un pullman a quell’ora sarebbe corso a prenderlo. Guardò sul telefono se fosse possibile spostare la prenotazione per l’indomani mattina, e come succede sempre nei viaggi particolarmente economici scoprì che la minima modifica imponeva il pagamento di penali più care del biglietto stesso.

Pazienza, domani farò un giro in città, magari salgo sulla collina. Faccio venire le tre e torno a casa. Io e le mie idee del cazzo.

Si incamminò in una strada silenziosa e in un paio di minuti si trovò davanti all’imponente prefettura. Non era un edificio granché interessante, somigliava ai tipici palazzi francesi del’800 che ti stufi di vedere girando per Parigi. L’illuminazione però era perfetta, lo trasformava in una bomboniera.
Forse è l’illuminazione sbagliata, pensò. Magari vedrei la mia situazione molto meglio di così se solo la illuminassi meglio. Aggiungo due faretti sui sabati sera in città ricche di fascino, ne tolgo uno agli incontri fortuiti e deleteri, lascio al buio le storie passate e tengo una lampada accesa per vedere dove sto andando, e la prospettiva cambia di colpo e divento un figo che vive avventure esotiche e si tiene lontano dalla tristezza.

Ricontrollò le condizioni di viaggio di Flixbus, magari gli era sfuggita la clausola “Modifica del contratto di acquisto in caso di manifesta incapacità di vivere”.

(continua)

  1. Dove si piange la scomparsa di Jean-Claude Izzo e non solo la sua

Se questo fosse un romanzo di Jean-Claude Izzo comincerebbe con un uomo appena arrivato in città..

Il flixbus lo scaricò accanto a un campo da pallone polveroso e senza porte, fra capannoni deserti e palazzi sdentati con una finestra intera per piano.
Appena dietro il tetto in lamiera del lungo edificio a bordo strada si vedeva spuntare, lucida come un blocco di granito, la torre CMA, simbolo del rinnovamento che si stava mangiando la città come un virus. Il Panier, le case intorno alla cattedrale, il vecchio porto: Marsiglia stava diventando una piazza di cemento per diportisti e uomini di commercio. Più sicura e proiettata verso il futuro, era il motto. Il prezzo da pagare non era alto, soltanto l’anima.

E tu, Gabriele Di Raimondo, a quale voce darai ascolto? Scenderai al porto e raggiungerai il centro accompagnato dalle lusinghe dei cantieri, dal ronzio soporifero della nuova tramvia sopraelevata e dal fruscìo dei soldi che corrono da una mano all’altra? O abbraccerai il degrado della periferia, delle utilitarie ammaccate, dei negozi di magliette di plastica, degli alimentari halal, fino a trovare la strada che passa sotto l’Arco di Trionfo Delle Vittorie Generiche e diventa Canebière, e porto, e Marsiglia, quella che hai conosciuto sui libri e nelle parole di lei?

C’è sempre una lei nei romanzi di Izzo, e ce n’è una anche qui. Naïma.

Si erano conosciuti a Genova che era quasi un anno. Lei seguiva un master in architettura in un laboratorio prestigioso sulle colline fuori città, lui seguiva le serie tv americane sul computer dell’hotel in cui faceva il portiere, durante i turni di notte. Si erano trovati pascolando sui gradini di una chiesa nel centro storico, insieme ad altri avventori di un bar fighetto lì accanto.
Gabriele conosceva un paio dei colleghi di Naïma, si era avvicinato per salutarli e non se n’era più andato. Una settimana più tardi ci erano tornati insieme, sui gradini della chiesa, incuranti di ciò che accadeva oltre i loro sorrisi stupefatti.

Due mesi, poi lei era tornata a Marsiglia senza preavviso: un’assunzione al MUCEM, il museo più importante della città, era il sogno della vita, sarebbe stato folle rinunciarvi per una storia senza futuro come la loro. O perlomeno questo era ciò che le aveva detto con la faccia più convinta che era stato capace di venderle. Perché sarebbe stato egoista chiederle di restare per lui, e soprattutto sarebbe stata una responsabilità che non si sentiva pronto a sobbarcarsi.
Una decisione adulta, di cui non si era pentito per due settimane intere. Poi l’aveva chiamata e le aveva detto che erano degli irresponsabili, non si butta via una relazione così bella, potevano trovare lo stesso il modo di vedersi, magari la prossima settimana vengo a trovarti, eh?

“No”
“Come no? Dai!”
“Ho detto no, non ti voglio vedere”
“Ma ti sei offesa? Lo so che ti ho detto io di andare, ma cerca di capire, mi sembrava la decisione migliore per te”
“Ci ho pensato molto, e ho capito che con te non stavo andando nella direzione che voglio. Ho fatto una scelta, non cambio idea.”

E in un attimo si era trovato dentro un romanzo giallo: c’era il morto, c’era l’assassino, mancava solo il movente del delitto.
Per fortuna non ci vollero 350 pagine di indagini, bastarono un paio di domande dirette e qualche silenzio fin troppo eloquente perché saltasse fuori il nome di Serge Grimaldi, capo della sezione Sviluppo Culturale E Relazioni Internazionali. Naïma era mezza araba ed era stata assunta mentre viveva in Italia: sullo sviluppo culturale aveva dei dubbi, ma la relazione internazionale c’era tutta.

Dal romanzo giallo all’Harmony più becero. Povera Marsiglia, ridotta a cornice di una storiella così squallida.
Gabriele era più deluso che ferito, aveva giurato a sé stesso che non l’avrebbe cercata più: la memoria di Jean-Claude Izzo non meritava di essere accostata a certe vicende da portinaie. Avrebbe voltato pagina e si sarebbe costruito un’immagine nuova, più letteraria: un portiere d’albergo deluso dalla vita che cerca consolazione in fondo alle bottiglie. A proposito di clichès, eh?

Fino all’Arco di Trionfo era stato sfascio e miseria, poi si era trovato in cours Belsunce e l’impressione di stare in un film di Rossellini era svanita. Al di qua del monumento era di nuovo Europa, marche di negozi familiari, la linea del tram e un ampio viale alberato.
Non che prima si fosse sentito a disagio, comunque. Naïma gli raccontava che quando arrivi in città corri il rischio di venire scippato già sui gradini della stazione Saint-Charles.
Da Arenc a lì non se l’era cagato nessuno, forse il pericolo valeva solo per chi viaggiava in treno. Magari gli scippatori trovavano più da lavorare davanti alla stazione ferroviaria che a un campetto di periferia. Naïma era sempre un po’ melodrammatica, certe volte gli dava proprio sui nervi.

Svoltò sulla Canebière. Le parole di lei saltavano fuori nella descrizione dei suoi anni di ragazzina, quando percorreva quei marciapiedi avanti e indietro con le amiche, a farsi avvicinare dai ragazzi e ad allontanarli con sufficienza.
A quell’ora non c’era molta vita. Tre algerini si facevano foto improbabili davanti a ogni edificio vistoso, una signora anziana portava a spasso un cagnolino minuscolo. Un ragazzino gli passò vicino su uno scooter. Aveva il casco, ma per essere almeno un po’ contro il sistema stava in ginocchio sul sedile.

L’albergo era nella traversa dopo, schiacciato fra un kebabbaro e un bar di arabi. Per raggiungere il portone dovette farsi largo fra i tavolini che si estendevano lungo tutto il marciapiede, fin quasi alla strada.
Oltre il piccolo ingresso il portiere guardava in tv la partita degli Europei: giocavano Galles e Irlanda del Nord, e dalla sua espressione non si stavano impegnando granché.
Salì in camera, fece una doccia e stette per un po’ seduto sul letto a guardare la sua immagine nello specchio vicino alla porta.
Ma cosa ci faceva lì?

Una gita. Nient’altro. Non sono qui per vedere lei.
Poi, se è il caso, se me la sento, ci possiamo prendere un caffè insieme, parlare un po’.
Se capita, dieci minuti per cancellare la tensione, fare pace.
Non vale più la pena di mantenere questo stato di guerra, scommetto che pesa anche a lei. Sono sicuro che se la chiamassi per dirle che sono qui mi vorrebbe vedere subito.
Magari domani la chiamo, le chiedo come sta.
Se ne è valsa la pena.
Ma domani. Forse.
Stasera me la prendo per me.

Dieci minuti più tardi osservava perplesso l’area del vecchio porto. Lo specchio d’acqua davanti a lui era chiuso su tre lati da una spianata di cemento, e la vista sul mare è sempre stata nascosta dalla collina su cui sorge Notre Dame de la Garde. Barche da diporto coprivano una buona metà della superficie. Ebbe l’impressione di trovarsi in un parcheggio.

Marsiglia ospitava alcune partite del campionato europeo in corso in quel periodo. Per l’occasione erano state allestite nel piazzale una ruota panoramica e una scatola grande come un camion su cui campeggiava il logo della radio locale. Entrambe emettevano suoni molesti.
Sotto il cubo della radio quattro coppie di ballerini si destreggiavano in una dimostrazione di qualche danza latina. C’erano poche cose capaci di deprimere Gabriele come la musica latina. Quando la sua vicina di casa la ascoltava lui interrompeva qualsiasi attività e andava a mettere su i Clash.
Quel giorno aveva lasciato la musica in albergo, dovette allontanarsi in fretta verso uno dei dehors sul frontemare.

Scelse quello con la cameriera carina. Bionda, occhi chiari, un bel fisico. Una per cui perdere la testa, insomma.
Le fece un sorriso accattivante quando gli portò la birra. Ne ricevette uno cordiale e distaccato che lo fece sentire solo. E neanche due patatine.
Vuotò il bicchiere in fretta e riprese a camminare.

La freccia a destra diceva Panier. Una scalinata saliva verso delle case poco attraenti e ancor meno antiche. A meno che il centro storico non cominciasse subito dietro sembrava che anche quella parte di città avesse vissuto il trauma della ristrutturazione.
Esitò, quello era il quartiere di Naïma. Era nata lì, aveva abitato in Rue des Moulins prima di trasferirsi con la famiglia fuori città, verso Cassis. Se la sentiva di infilarsi in quel campo minato di malinconie?
D’altronde se avesse continuato a camminare in quella direzione sarebbe arrivato al MUCEM, dove probabilmente si trovava lei ora. Meglio affrontare il suo ricordo, almeno per il momento.

Place de Lenche. Il nome era familiare, probabilmente compariva in un romanzo, magari ci si sparava qualcuno, vai a sapere. Troppo pulita, piena di tavolini. Sembrava la tipica piazzetta genovese restituita alla movida del venerdì sera. Non c’era niente da vedere lì, tranne il piccolo Bar de la Place, dove un vecchietto leggeva La Marseillaise all’ombra della tenda rossa all’ingresso.
Non certo un locale da turisti quello, ma non ci si fermò lo stesso, se avesse voluto andare al bar della bocciofila ne aveva uno anche vicino a casa. Costeggiò la piazza per il lungo e proseguì in Rue de l’Évêché, lasciandosi guidare solo dalla curiosità.
Nessun ragazzino a fregarsi motorini, né puzza di piscio e sacchi dell’immondizia abbandonati agli angoli. La Marsiglia di Izzo sembrava essersi trasferita altrove.

Un negozio con la facciata dipinta attirò la sua attenzione. Lo conosceva, l’aveva visto su google maps una sera a casa sua. Alzò gli occhi, in cima alla strada i tavolini del 13 Coins gli fecero l’effetto di un pugno.

“Ti faccio vedere una cosa”, gli aveva detto, sedendoglisi in braccio. Si era messa ad armeggiare su internet e lui ne aveva approfittato per annusarle il collo, che sapeva di sandalo e tabacco. Le aveva infilato il naso fra i capelli, scoprendole un orecchio.
“Hai delle orecchie perfette”
“Che scemo, chi è che guarda le orecchie delle donne?”
“Io, e le tue sono perfette”. Ci aveva infilato la lingua.
Le mani erano scivolate sotto la maglietta, ad abbracciare la pancia rotonda.
“Dai, smettila. Lo sai che bar è questo?”
“No”, rispose lui senza guardare, per non disturbare il fiume di emozioni che stava ricevendo dagli altri sensi, tutti sveglissimi. Il corpo di Naïma era il suono di un pianoforte, le note morbide, talvolta sussurrate, altre gridate, erano piene e calde sotto le sue dita.
“Come no? Ma sei pazzo? È il 13 Coins, il bar di Izzo! È in tutti i suoi romanzi! Non mi avevi detto che ti piaceva?”
“Non me lo ricordo”, tagliò corto. La letteratura che aveva in mente in quel momento veniva venduta in librerie sordide con la luce bassa frequentata da uomini dall’aspetto equivoco. Ed era accompagnata da un sacco di fotografie.
Naïma gli piantò addosso i suoi occhi di onice nera.
“Gabriele Di Raimondo! Mi hai avvicinato parlandomi di Jean-Claude Izzo e adesso viene fuori che neanche conosci il 13 Coins? Era solo una scusa per rimorchiare?”
Restò un momento in bilico su quello sguardo, poi fece quello che faceva ogni volta che lei lo guardava. Ci cadde dentro.

(continua)

Lasci briciole come Pollicino sperando che vengano trovate, ma temi di doverle spiegare a chi le trova, quindi mangi il tuo panino come se al posto dei denti avessi una motosega, anche se non hai davvero fame, solo per poter lasciare la tua scia e sgravarti delle responsabilità.

“Io? E io che ne so! Stai farneticando!”, mi sembra di vederti scuotere la testa di fronte a una richiesta di spiegazioni che sapevo benissimo non sarebbero mai arrivate, perché la prima regola è negare, la seconda non tornare mai indietro neanche se lo vorresti, la terza è che tu non hai regole, così ti metti la coscienza a posto anche con le prime due.

E intanto io ho le briciole nel letto e non dormo più.

Anche Jon Snow aveva detto seh figurati non ci casco in questi trucchetti di merda, poi gli hanno infiocinato il fratellino e non ci ha più visto ed è caduto nel trappolone con tutti e due i piedi, perché se sei emotivo hai poco da fingere, quello che senti ti scappa dalle mani anche se ti giri di là e vai a letto presto.

Che poi non serve a niente andare a letto presto se stai fino alle tre a fissare il deserto e sognare Medina e ripeterti che non stai facendo niente di male. E allora perché non dormi? Perché non te ne vai? Le porte chiuse non sono fatte per starci davanti e appoggiarci l’orecchio, per quello esistono le maniglie: funzionano, basta metterci una mano e premere. Basta volerlo.

Una caratteristica delle briciole è quella di saltar fuori dove avevi già passato l’aspirapolvere, come i coriandoli, a tradimento.
Ma qui non c’era più niente! E invece no, sei tu che non ci hai guardato bene, c’era ancora questo. E quest’altro. E ore dopo ne trovi un’altra. Sono bastarde, le briciole.

Il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di psicanalisi, sebbene non fosse iscritto all’albo. Diamine, il professor Delbruck aveva delle conoscenze approfondite di qualunque cosa, era la mia wikipedia personale, se avevo bisogno di scoprire quale specie di scarafaggio infestasse la città di New York e quale quartiere ne fosse maggiormente colpito non avevo che da chiedere a lui: mi avrebbe fornito tabelle, filmati e interviste ai cittadini e agli scarafaggi.
Solo che di uno psicanalista non iscritto all’albo non sapevo che fare, a me ne serviva uno in grado di prescrivermi il farmaco con cui andare in overdose e farla finita con questa vita di merda.

Però il professor Delbruck aveva una copia delle mie chiavi di casa, che al momento stavano in cima alla lista delle priorità.

L’ho trovato seduto sulla finestra con la chitarra in mano che cercava di suonare Io Sono Fatto Di Neve. Non si è accorto di me, e me ne sono stato un po’ lì ad ascoltare questa canzone triste che mi stringeva lo stomaco e irradiava alcaloidi saturi di rancore.

Una volta una ragazza mi aveva dedicato una canzone di questo gruppo, un po’ di tempo dopo che ci eravamo lasciati. Si intitolava Una Palude, e parlava di come dopo la fine di una storia il cantante si sentisse di merda. L’avevo interpretato come un tentativo di ricostruire il rapporto fra di noi, ma mi sbagliavo. C’ero anche rimasto male, che scherzo del cazzo, ma vabbè, magari per lei il testo significava tutt’altro, non era molto brava ad interpretare le canzoni dei Ministri.
Mi ricordo che considerava Lei Non Deve Stare Male Mai come l’emblema della devozione cieca che un uomo deve avere verso la donna che ama, e io obiettavo che dietro quella venerazione veniva mostrato l’annullamento dell’individuo, e insomma, mi sembrava un rapporto parecchio egoista, ma la ragazza voleva quel tipo di relazione lì, non ci eravamo lasciati benissimo.

Da allora “cercare con estrema cura possibili compagni di avventura” era diventata una regola ferrea, per evitare sorprese.
Però mi spiaceva non averle dedicato anch’io una canzone, è un gesto che unisce la passione per la musica alla necessità di mandare un messaggio, ed è la cosa più pratica se non possiedi talento artistico, né una casa discografica, uno studio di registrazione e un album in uscita entro breve.
Scrivere un racconto non è altrettanto efficace, magari lei non legge racconti. Magari l’ultimo libro che ha letto è il libretto del dvd di Beyoncè che regalava TV Sorrisi E Canzoni. Magari è una capra. Ci sta di innamorarsi di una capra, le capre hanno belle tette e uno sguardo intelligente nel loro viso semita.
Chiedilo a Saba, quante cose trovi nel suo belato.

Ecco, con una canzone queste cose non succedono. Arriva dappertutto, la passa la radio.
Pensa a quando Tom Waits ha scritto Who Are You, pensa alla donna cui era dedicata. Pensa a come dev’essersi sentita ogni volta che la ascoltava alla radio e sapeva di essere lei quella che continua a scappare dalle finestre in abiti costosi.
Dio, come avrei voluto una ex stronza a cui dedicare Who Are You di Tom Waits.

Un rapido conteggio sulla punta delle dita mi ha fatto realizzare che ex stronze non ne avevo neanche una. Al limite squallide, ma non valevano la pena di essere ricordate.
Il pensiero mi ha gettato addosso nuovo sconforto, che mi ha riacceso l’ipofisi, che mi ha aiutato a sopportare il dolore, che mi ha reso di umore migliore, che mi ha quasi fatto desistere dal piano autodistruttivo.
Ma è stato solo un momento, ormai la decisione era presa. Mi sono mostrato al professor Delbruck e gli ho chiesto le chiavi di casa e un cocktail di barbiturici.
Mi ha dato solo le prime. Per l’altro ha detto di non volersi assumere la responsabilità. Però conosceva un buon analista in grado di aiutarmi.

Tempo una settimana e stavo seduto in uno studiolo a fissare una signora in pile coi capelli brizzolati, divisi nel mezzo in un taglio piuttosto mascolino. Più che una psicoterapeuta sembrava una guida alpina. Mi è venuto da chiederle se le piacevano le capre.

“Mi parli del suo rapporto con suo padre”

Ma che gliene frega a questa del mio rapporto con mio padre?

“Lei non si è sentito amato da bambino e sta inseguendo l’approvazione di suo padre”

Ma non mi può prescrivere del temazepam e lasciarmi abbracciare il mio destino senza tante menate?

“Mi descriva il rapporto con sua madre utilizzando solo aggettivi di tre sillabe”

Maledetti altruisti devoti alla salvezza dell’umanità, ma perché non vi salvate fra voi e ci lasciate in pace?

“Sua madre è stata iperprotettiva e le ha fatto perdere il valore della gratificazione. Perciò adesso lei si sente inadeguato qualunque cosa faccia.”

Il giuramento di Ippocrate comprenderebbe anche il rifiuto a operare i calcoli renali, se vogliamo essere coerenti fino in fondo.

Poi mi ha messo in mano dei fogli e una matita.

“Disegni il suo posto nel mondo, come si vede e come la vedono gli altri. Disegni le cose importanti per lei, disegni sé stesso mentre compie la sua azione preferita.”

L’ho guardata, ho guardato il foglio. Non so disegnare neanche l’omino stecco, mi viene tutto sproporzionato. L’ho guardata di nuovo.

“Se glielo mimassi?”

Mi ha fissato in silenzio.

Il figurativo era oltre le mie capacità, ho improvvisato un’opera astratta.
Mondrian, per esempio, coi suoi spazi regolari avrebbe rappresentato al meglio il mio bisogno di equilibrio, e di dare una forma a tutto ciò che vedo.
Non è facile andare dritti senza un righello, mi tremavano le mani per l’ansia da prestazione, e il prodotto finale sembrava più un Mirò. Ho cercato di aggiustarlo, ma ogni tratto di matita non faceva che peggiorare il lavoro. Alla fine ho consegnato un Pollock.

“Interessante. Lei dovrebbe imparare a valorizzarsi di più, vincere le sue paure ed essere più indulgente verso sé stesso. Si ricordi che i fallimenti fanno parte del gioco, e sono indispensabili per potersi migliorare, pertanto vanno accolti, e non demonizzati.”

“Va bene. Adesso potrei avere le mie pastiglie, per cortesia?”

“Mi spiace, io sono freudiana, credo nella guarigione attraverso una lenta e dolorosa presa di coscienza. Se vuole la strada facile deve rivolgersi a quei cazzari degli junghiani. Oltretutto non ci vuole molto a capire che lei e le dipendenze avete un bellissimo rapporto. Se le prescrivessi un oppiaceo non farei che spostarla da una prigione a un’altra, mentre quello che le serve davvero è di liberarsi.”

“Il mio piano era quello”, confessai. “Vorrei uccidermi.”

“Glielo leggo in faccia. E non cercherò di dissuaderla, i consigli non servono a niente, se non a farci sentire ancora più incapaci di seguirli. Ma ci sono diversi modi di arrendersi, e non tutti contemplano la morte. Non quella fisica, perlomeno.”

“Mi sta suggerendo di diventare un sommelier?”

“No, di trasformare i suoi fallimenti in un obiettivo.”

“Meno male, preferisco la ciucca anarchica a quella regolamentata”

“Lei sta spingendo un masso in cima a un monte, e ogni volta si frustra vedendolo rotolare di nuovo giù. Il fallimento le toglie la voglia di riprovare, e adesso ha deciso di arrendersi. Perché a cosa serve impegnarsi se il risultato è sempre zero?”

“Va bene non dissuadermi, ma non credo che l’istigazione al suicidio sia etico, dottoressa.”

“No, ma che suicidio. L’unico suicidio utile è quello della ragione. Lasci perdere il buon senso e si affidi alla pancia. Cerca sempre una ragione a tutto, ma non è detto che debba esserci per forza. Certe cose succedono e basta. Lo scopo non dev’essere per forza arrivare in cima, potrebbe essere anche solo spingere la pietra.”

“Uscirebbe con me domani sera?”

“Mi è proibito dal codice deontologico uscire con un paziente.”

“E se non fossi un paziente uscirebbe con me?”

“No”

“Questo danneggia la mia autostima”

“Ma preserva la mia. E comunque imparare ad accettare i rifiuti è un passo verso la guarigione.”

“Lo farò, grazie mille!”

Sono uscito più sollevato. Adesso sapevo cosa fare: avrei accettato i rifiuti. Anzi, di più, me li sarei presi in casa!

(continua)

“La sofferenza stimola l’organismo a rilasciare endorfine. Le endorfine sono sostanze analgesiche in grado di procurare stati d’animo piacevoli. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì: ci si può drogare di emozioni forti.”

Guardo il professor Hans Delbruck con rispetto e timore. Ogni volta che vengo a trovarlo è come aprirmi un chakra, ma col trapano, che comunque è un modo come un altro per migliorarsi, guarda il dentista, ogni volta che ti buca la faccia il suo conto corrente migliora tantissimo.

“Ma perché il dolore e non il piacere? O un bello spavento, tipo?”
“Perché il dolore è un’emozione economica, facile da procurarsi, e non ha bisogno di collaboratori, basti tu. Anzi, se sei da solo riesce pure meglio.”
“Allora è per questo che penso sempre a cose dolorose, o mi perdo nei ricordi malinconici, o trovo così appagante piangermi addosso!”
“No vabbè, che c’entra, quello è perché sei un narcisista, ma il pianto in generale è un’attività troppo piacevole per non destare sospetti.  È perverso quanto ti pare, ma se ci sono persone che amano farsi picchiare perché a uno non dovrebbe bastare farsi un pianto ogni tot? Oltretutto tu sei un insicuro, e il dolore è un alibi straordinario per commettere qualunque bassezza: se soffri hai sempre ragione, e se oltre a soffrire riesci ad accusare qualcun altro del tuo dolore sei a posto!”

Insomma, il professor Hans Delbruck mi ha aperto gli occhi sulla mia condizione di drogato. Mi ha suggerito di procurarmi la stessa sostanza tramite emozioni positive, che costano un po’ di più, ma non mi riducono come un consumatore di metanfetamine, che è grossomodo il mio aspetto attuale.

“Proverei la gioia. Non trascurerei neanche il divertimento, finché ce n’è. Ma al tuo posto mi farei prima di tutto un giro nell’altruismo, la generosità, quelle robe lì. Magari potresti fare volontariato.”

Intanto che decidevo mi sono messo da bravo in coda al SerT, che loro di tossici se ne intendono, e in attesa della dose di serotonina mi sono lamentato un po’ per lo squallore del posto in cui mi trovavo, che insomma, io merito di meglio, e guarda un po’ che gente.
È arrivata un’infermiera col culone e un grosso porro in mezzo alla faccia, mi ha dato una tavoletta di cioccolata per placarmi l’astinenza e mi ha detto di avere pazienza. Aveva una bella voce, e il suo gesto è stato così gentile e inaspettato che mi sono innamorato di lei seduta stante e le ho chiesto di uscire.
Ho sentito subito un lavorìo all’ipofisi, mi si è contratto lo stomaco, e un carico di neurotrasmettitori si è sparato in vena urlando di gioia. Perché noi drogati di emozioni siamo soggetti all’innamoramento facile, basta tenerci su l’autostima e ci facciamo piacere anche i morti.
Lei purtroppo o per fortuna aveva una consapevolezza di sé molto superiore alla mia, e mi ha liquidato con un sorriso:
“Vedrà che dopo l’iniezione si sentirà subito meglio”
“Per te invece ci vorrebbe una rinoplastica”, ho sibilato, livido di insoddisfazione. Il mio stomaco si è contratto di nuovo, altra dose di alcaloidi in circolo a rimescolar le carte.
Ma aveva ragione, una volta riportato a galla l’umore ho cominciato a vedere il mondo con più raziocinio, a capire cosa voglio davvero e cosa cerco solo per noia.
Sono andato su Amazon e mi sono comprato un altro ukulele, una camicia, un caricabatterie, un tablet, dei fumetti a caso e poi ci ho provato con la mia vicina di casa. Perché un conto è sapere cosa vuoi e un altro è cercare di ottenerlo.

Ci voleva un altro due di picche per farmi finalmente ascoltare il consiglio del professor Delbruck: ho cercato un’attività di volontariato che mi permettesse di sostituire le emozioni negative con altre positive in grado di stimolarmi l’ipofisi, e magari di trombare, che mettila come ti pare mi sembra ancora il modo più spiccio di riportare l’autostima a livello.
Mi andava bene chiunque, il lusso di scegliere lo avrei lasciato a quelli che hanno tempo da perdere con fesserie come l’amore, a me bastava ficcare.
Quindi no ospizi, no barboni e no bambini. Tutto il resto era grasso che cola.

Le malate terminali vanno bene, non sono molto più magre delle ragazze con cui sono solito uscire, e rispetto a certi personaggi che ho frequentato sono di gran lunga più spiritose.

Mi sono presentato al reparto dell’ospedale dicendo che sono un attore, ho proposto delle letture che aiutassero le pazienti a sopportare la loro condizione, e soprattutto mi sono detto disposto a farlo gratis. Lo staff era entusiasta, mi ha lasciato subito libertà d’azione, entra dove vuoi, scegli chi ti pare, ce ne fossero come te!

La totale libertà di entrare nelle camere e studiare le cartelle cliniche mi ha permesso di effettuare una cernita accurata, e dopo poco ho puntato la mia preda: Jessica. Single, accudita dalla madre anziana, quindi in pratica sempre sola. Capello biondo cenere sfumatura topo, occhio di colore non pervenuto in quanto rivoltato. Zero inclinazione al dialogo, quindi zero menate e zero interruzioni mentre parlo. Poteva essere la mia donna ideale.

Ho chiuso la porta e iniziato a leggere delle cose simpatiche, per rompere il ghiaccio, ma la mia voglia di buttarglielo era così pressante che ho posato il libro e le ho chiesto secco come si veste una malata smaliziella. Non mi ha risposto, ma non mi ha neanche detto di no, al che ho dedotto che ci stava e sono andato a verificare di persona.

Non è stato soddisfacente. Sarà che sono un romantico e il sesso tanto per farlo non mi piace, ma se non ci avessi messo tanta convinzione io sarebbe stato come scopare da solo. Comodo, ma come dire, poca soddisfazione.
No, ci voleva un minimo di coinvolgimento, avrei dovuto avvicinare una donna ancora cosciente che mi facesse sentire desiderato e stuzzicasse la mia autostima.

Ho conosciuto Sabrina, una mora affetta da un male che non aveva ancora cominciato a divorarla da dentro, o perlomeno non ne portava troppi segni. Sotto il pigiama si indovinava un fisico interessante. Mi sono fatto avanti.

“Ciao, mi chiamo Pablo. Vorrei alleviare la tua sofferenza leggendoti qualcosa. Ti va?”
“Preferisco la sofferenza.”
“Ma perché? Non vorresti stare meglio?”
“Perché la vita fa schifo, è un pozzo di dolore e ogni sforzo che faccio per migliorarla finisce in un bagno di sangue, e sono stufa di accollarmi tutte queste croci da sola e non essere capita e voglio morire sola in un angolo.”
“Posso provare a convincerti? Magari scopri che esiste un sottile filo di speranza a cui aggrapparti, e basta tirarsi fuori un paio di centimetri per ritrovare la voglia di andare avanti”
“L’unica speranza è la benzodiazepina”
“Eh mi spiace, non ne ho. Però ho un racconto di Stefano Benni. Te lo posso leggere?”
“Ce l’hai John O’Brien?”
“Se devo scegliere un suicida preferisco Hemingway”
“Hemingway non ha capito un cazzo, la vita non è un safari in Tanzania o un panfilo a Cuba, la vita è su un marciapiede di Las Vegas a fare marchette. Il dolore vero che ti svuota è quello che ti spinge a lasciarti morire di alcool, non una cazzo di paranoia insensata che ti fa vedere mostri dappertutto.”
“Non mi sembra un giudizio accurato. Come se si potesse fare una classifica del dolore, poi.”
“Certo che si può! Io in questo letto soffro più di te che stai seduto su quella sedia a leggere il cazzo di Stefano Benni del cazzo!”
“A parte che non vedo come potresti soffrire, dato che non ho ancora cominciato a leggere, ma sei una presuntuosa. Vabbè, sei malata, ma non mi sembri così sofferente. Nella stanza di là c’è una messa molto peggio, è catatonica, sbava e soffre pure di secchezza vaginale.”
“Ma come ti permetti? Ma cosa ne sai di quel che ho passato io? Io ho tutto il diritto di dispensare giudizi, e voi dovete starvene tutti zitti e accettarli, perché nessuno di voi ha sofferto quanto me! Io sono la Disperazione e la Morte! Io sono l’angoscia del futuro, il peso del passato e l’aridità del presente! Io mi sono reincarnata mille volte nelle peggiori forme di dolore per poter ascendere al sublime e guardarvi tutti dall’alto della mia saggezza distillata da ettolitri di lacrime!”

Me ne sono andato sennò gliela mostravo a schiaffi, la sofferenza. Madonna che presuntuosa di merda! Dalla porta aperta la sentivo ancora gridare “Io sono sposata al degrado! Io ascolto i rapper di Scampìa!”.
Sulla porta ho incontrato Briatore che le portava i fiori. Mi ha detto che era la sua fidanzata, si era fatta ricoverare per un gonfiore alle caviglie, ma aveva voluto farsi mettere fra i terminali per sentirsi più vicina alla loro condizione e provare empatia verso le persone sfortunate. Era così altruista, la sua fidanzata!

Ochei karma, il volontariato è una cazzata, me l’hai fatto capire benissimo, grazie. Alla fine siamo solo un branco di egoisti in cerca di gratificazione. Ma se neanche questa è la strada cosa mi resta da fare?
Camminando verso casa ho iniziato a sentire le fitte dell’astinenza, le vetrine mi restituivano l’immagine di un omino sciatto, mi sono chiesto che razza di futuro può avere uno sfigato come me e quando mi renderò conto che le porte aperte sono finite e non mi resta che arrendermi alla solitudine e alla miseria.

Ero preda di un violento calo di endorfine, mi serviva subito qualcosa di forte o mi sarei ritrovato sul divano a singhiozzare davanti alla foto di qualche ex.

(continua)

Avevo da scrivere una cosa sul mio saggio di teatro di martedì scorso, sulla naturalezza con cui salgo sul palco e mi do in pasto al pubblico, e su come dietro le quinte sia sempre difficilissimo, vuoi per il mio ego, vuoi per quello degli altri, che col mio fa a pugni:  una primadonna e una drama queen non producono dialoghi, ma monologhi incrociati.

Ma alla fine non vale la pena dire niente. Oggi è il due giugno, festa della Repubblica e data importante per la mia emotività sbarellata: è il giorno in cui si è aperta la porta e il gestore dell’autoscontro mi ha detto che dovevo scendere, così ho fatto su la mia roba, compresa una crostata a forma di tirannosauro, e mi sono incamminato giù per la strada con tutte le ossa rotte dai colpi presi sulla giostra. Colpi che comunque avrei preso fino allo sbriciolo, se necessario. Perché ne valeva la pena, perché quello era casa, dove potevo svuotarmi le tasche e tirare fuori tutto senza paura di non essere capito, e ricevere parole che nessun altro avrebbe ascoltato mai.

Oggi me le sono rilette, gran parte di quelle parole: avevo bisogno di confrontarmi col me stesso di allora per non imbrogliarmi da solo con quello che mi sta succedendo ora. Non ci è voluto molto per riconoscere la differenza: ho attraversato due conflitti molto simili, ma solo nei termini necessari a descriverli, che sono sempre gli stessi quando c’è qualcuno che si spara addosso.
Sono le motivazioni a fare la differenza fra una battaglia di Castelfidardo e una Guerra delle Falkland, non il numero dei caduti; e di combattere non ne ho più voglia, specialmente quando la posta in gioco non è casa mia, ma uno scoglio in mezzo al mare.

Domani preparerò un’altra torta, sono due anni che non ne cucino una. Sarà come chiudere una parentesi sulle scelte sbagliate, sui comportamenti irrazionali, sull’ego di Pablo, e sul bagaglio ingombrante che ognuno si porta dietro e che deve imparare a trascinarsi da solo, invece di accollarlo agli altri.

Comunque il saggio è andato bene, mi hanno fatto un occhio nero e neanche per il motivo giusto. Inoltre, a rivedermi nelle foto sembro un tossico troppo asimmetrico, e appare evidente che dovrei dormire di più, mangiare di più, pensare di meno.

Le foto sono tutte nella pagina flickr del fotografo del teatro, Donato Aquaro, divise in capitoli:
la prova generale, il debutto, i camerini. Sono bellissime.

Movimento FF

Sei di nuovo qua.
Piantala.
Lo sapevo che saresti tornata.
Zitta! Lasciami in pace!
L’hai capita finalmente? Tu non appartieni a quel mondo, il tuo posto è di qua. Vieni, dai.

[non si muove]

Beh? Ti muovi o no? Alice!

Non ci credo. Ancora non sei convinta!
Non lo so, devo pensarci.
E quanto ci devi pensare ancora? Tutte le volte la stessa manfrina, arrivi qui davanti carica di sicurezze, stavolta lo attraverso, mi lascio tutto indietro, poi ti fermi, dai un’occhiata, ci ripensi e te ne vai.
Ma credi che sia facile? Lasciarsi alle spalle tutta un’esistenza, tagliare i ponti col passato. Forse per te è una cosa semplice, ma io non sono te, ho bisogno di tempo.
Tecnicamente tu sei me, perlomeno metà di. E comunque non ho detto che sia facile, ma ciò non toglie che vada fatto.
E se non fosse così? Forse io appartengo a questo mondo più di quanto tu credi, forse una parte di me l’ha capito e..
Non la parte dietro lo specchio, questo è sicuro.
Magari sei tu che sbagli.
Magari hai soltanto paura.
E se invece avessi ragione? Altrimenti avrei già attraversato lo specchio, non ti pare? E invece me ne sono sempre andata!
Ma sei sempre tornata qui. Questo non conta?
Il mio ritorno non ha valore se ogni volta me ne vado.
La tua rinuncia non ha valore se non è definitiva.
Qui non si va da nessuna parte..
Bene, vedo che hai inquadrato il problema.
Non mi sei di nessun aiuto, io dico una cosa e tu l’esatto contrario. È uno stallo.
Beh, il fatto che io sia dentro uno specchio dovrebbe suggerirti qualcosa.. Sebbene, dal mio punto di vista, quella nello specchio sei tu.

[sbuffa]

Sì, brava, fai dell’ironia. Io non riesco più a dormire la notte, ho la testa piena di pensieri, non so davvero cosa fare. È come essere tirata da due forze opposte che mi stanno strappando in due. Non ho più forze per vivere con questa indecisione.
Alice, perché vuoi andare via, ci hai pensato?
Perché non sono felice. E non capisco, non mi manca niente, ho un uomo che mi ama, un lavoro che mi appaga, una vita serena. Ho tutto ciò che mi serve, ma non riesco a sentirmi soddisfatta, non lo sento mio. Mi sembra di indossare vestiti della taglia sbagliata.
Ho capito, stai vedendo la gabbia.
Che gabbia?
Tu sei lì che cammini nella tua vita felice, e ad un certo punto, all’orizzonte, vedi qualcosa, nella foschia. Continui a camminare e strizzi gli occhi, e ad un certo punto le riconosci, sono ancora lontane, ma non ti puoi sbagliare, sono sbarre, e tu ci stai andando dritto contro. Allora cambi direzione, e per un po’ va bene, ma un giorno ti accorgi che c’è di nuovo qualcosa all’orizzonte, e stavolta non ti chiedi cos’è. Cambiare ancora è inutile, è chiaramente una gabbia, e tu ci sei dentro, così smetti di camminare, perché prima o poi arriveresti a toccarle, e il pensiero di quel che c’è fuori, e che non raggiungerai mai, è insopportabile. Ti fermi nel mezzo, dove l’orizzonte è libero in ogni direzione, e decidi che puoi accontentarti di vivere lì, lì hai tutto quello che ti occorre, che siano gli altri a camminare sempre, tu puoi stare lì, quello sarà il tuo posto felice. Solo che in quel modo ti sei costruita un’altra gabbia più piccola, e prima o poi ne vedrai le sbarre.
Sì, tu hai una risposta per tutto, sei sempre sicura, ma se è vero che siamo una il riflesso dell’altra per ogni tua certezza c’è una mia incertezza, e io sono l’eterna indecisa. E lo sarò sempre, anche al di là di questo specchio, mi porterò dietro le mie insicurezze, e la mia gabbia, come la chiami tu. Mi faccio prendere dall’entusiasmo, mollo tutto e parto senza voltarmi, ma quanto durerà se i problemi che ho qui verranno via con me? Credo sia ora di crescere, non posso rifare sempre gli stessi errori, non posso scappare sempre. Devo restare qui e far funzionare quello che ho.
E credi di riuscirci?
Almeno potrò dire di averci provato. Se scappo mi resterà sempre il dubbio di non essermi impegnata abbastanza.
È la stessa cosa che dici sempre. Ritorni alla tua vita carica di buoni propositi, ma non durano mai più di un mese. Provi a far funzionare le cose, a farti bastare quel che hai, ma dopo un po’ ti ripresenti qui, e rifacciamo da capo lo stesso discorso.
Magari è quella la chiave di tutto. Ho bisogno di confrontarmi con le mie paure, come quelle persone che solo quando rischiano di perdere qualcosa ne capiscono il valore. Vengo qui per ricaricarmi e trovare nuovi stimoli. Ti ho sempre considerata un’alternativa, ma non puoi esserlo, sei l’altra parte di me. Ci completiamo solo stando separate, adesso l’ho capito!
Come quelle persone che solo davanti alla morte capiscono il valore della propria vita..
Esatto! Vedi che mi capisci!
Quelli sono i suicidi, Alice. Per uno che ce la fa dieci hanno buttato via la propria vita e non hanno capito neanche perché. Te la senti di rischiare? La felicità si trova e si cerca di conservarla, e non è detto che ci si riesca, spesso ti scivola via anche se la tieni stretta. Ma quando cerchi di inventarla non è felicità, è rassegnazione, ed è quello che stai mettendo insieme. Un po’ di tranquillità, un po’ di equilibrio, una manciata di sicurezze, ma se non ci metti la passione è un piatto insipido, e ti voglio vedere a mangiare tutta la vita cibi sani e nutrienti, che non sanno di niente.
Io questa vita la conosco, me la sono costruita io. Sarà insipida, ma è la mia! E devo farla funzionare io, non puoi insegnarmi tu a vivere, cosa ne sai tu di quello che mi è costato essere così? Parli come se mi fossi svegliata una mattina dentro la persona che sono, col mio lavoro, la mia casa e il mio uomo già belli e pronti. Cosa ne sai dei sacrifici, della fatica che ho fatto? Buttare via la mia vita vorrebbe dire non darle alcun valore, significa ammettere di averla sprecata, e io non credo di avere sprecato niente. Non ho rimpianti per quello che sono, credo che potrei essere migliore, ma se per arrivarci devo ricominciare da capo allora no, grazie. Preferisco tenermi stretta la mia mediocrità.
Certe volte la felicità è un lusso che non ci possiamo permettere. Arrivederci Alice, alla prossima visita.
[se ne va]