3. Dove ci si pongono interrogativi sul prezzo delle bibite in Francia e su altre cose non meno importanti

Le strade erano deserte, non un bar, una vetrina illuminata. Tolto l’assembramento intorno al Vieux Port sembrava che il centro fosse stato evacuato.
In Rue Pollak si fece attirare da un po’ di movimento in cima alla strada. C’era un locale frequentato da beoni eterogenei, di fronte alla ciucca crolla ogni pregiudizio. Un nero gridava qualcosa a una donna, lei gli rispondeva allo stesso volume, tutto nell’indifferenza delle finestre affacciate su quel tratto di strada.
Non si fermò, aveva bevuto abbastanza e voleva solo sparire sotto una coperta e smettere di pensare.

In Place du Marché des Capucins la strada era sbarrata da pile di cassette per la frutta. Era la piazza del mercato, i banchi erano stati smantellati, ma qualcuno esponeva ancora la merce, e gli esercizi intorno sembravano in piena attività. Pasticcerie arabe, alimentari halal, un minimarket.
Gli venne fame, nella pasticceria i dolci erano accatastati in disordine come scaricati da una ruspa. Tutta quella confusione alimentare gli rendeva difficile la scelta. Si fece consigliare dal proprietario, un uomo basso con una lunga barba.

“Ti piacciono le mandorle?”, fece quello, e senza attendere risposta prese un pezzo di carta e pescò una specie di cannolo da uno dei mucchi.

Bene, per la colazione dell’indomani aveva trovato il posto giusto, pensò Gabriele tornando verso l’albergo, e bastò quella piccola determinazione per fargli ritrovare abbastanza buonumore da restare a galla.

La distesa di tavolini davanti all’hotel adesso era occupata da uomini in caffetano impegnati in chissà quale discussione molto concitata. Si sentivano anche dalla camera nonostante le finestre chiuse, e non smisero di salmodiare fin oltre le due. Il resto della notte se lo prese un bambino disperato, da qualche parte nell’edificio.

In quello stesso momento Naïma era in una casa che lui non avrebbe mai visto, probabilmente stava dormendo accanto a un uomo che lui non avrebbe mai voluto vedere. Avevano costruito un loro linguaggio comune che a Gabriele sarebbe risultato estraneo, i legami della sua storia precedente si erano sciolti, ormai per lei era poco meno che un estraneo. Era questo pensiero a non lasciarlo dormire, ben più degli strilli che echeggiavano in corridoio e del brusìo giù in strada.
Da sei mesi stava inseguendo un fantasma, manteneva una conversazione con un interlocutore che aveva la faccia di Naïma, ma di fatto era sempre lui. Se avesse dedicato i suoi pensieri a una pianta sarebbe stata la medesima cosa. E nonostante ne fosse consapevole non riusciva a tirarsene via.
Aveva ragione Pierre, doveva vederla e liberarsi di quel peso. Per sé stesso, non per ottenere qualcosa: Naïma era andata, l’aveva persa, ma per andare avanti doveva fare pace col suo ricordo, o non se ne sarebbe liberato mai.

Fece finta di dormire per ingannare il mattino, ma quello non si fece fregare e arrivò prima che potesse riposarsi.

Il mercato stava aprendo, in tutto il quartiere di Belsunce i commercianti allestivano le botteghe. Se volevi comprare un tajine, una wok, un piatto disegnato o delle babbucce colorate non avevi che da entrare in un negozio a caso e allungare una mano.
I banchi di frutta erano rigogliosi, facevano venir voglia di diventare vegani e vivere di macedonia, ma quello che cercava in quel momento era caffè. Forte. Amaro. Voleva un bar, e quella maledetta città ne sembrava sprovvista.

Superò il porto, non gli andava di sedersi ancora in quei posti fighetti. Aveva in mente un tavolino poco frequentato in cui farsi servire uno di quei deliziosi croissant caldi e una baguette con burro e marmellata con cui accompagnare il caffè.
In Place de Lenche ne trovò uno già aperto e si mangiò il fabbisogno energetico della città di Pescara.
Il croissant era ottimo, e meno male, perché quel brodo nero nella tazzina aveva un sapore che lo offendeva come essere umano.
Se vuoi vendere acqua torbida vagamente aromatizzata nessuno te lo vieta, il mercato è libero, ma almeno sii onesto coi tuoi clienti e chiamala in un altro modo. Chiamala Noncaffè, Mancoperilcazzocaffè, Eaudepalude.

Erano le nove, aveva ancora del tempo per sé, e anche per avvisare Naïma.
Il pensiero gli fece contrarre lo stomaco, e visto quello che ci stava versando dentro fu un bene.

“Ma toddetto che se va de la! Nun la sai legge staccartina!”

Gli italiani all’estero sono rumorosi, i romani sono i più rumorosi di tutti. E lui ne aveva un paio alle spalle. Non è che volesse aiutare dei compatrioti in difficoltà, ma quel berciare gli stava guastando la colazione.

“Cosa state cercando?”, chiese.
“Oh! Uno che ce capisce! Sia ringrazziata lamadonna!”, esultò la donna. Era bassa, secca e rugosa. Ricordava un cagnolino con gli occhi a palla, disidratato. Nervosa, puntava le dita verso il bar e la piazza e la strada e il porto e diceva cose a vanvera senza rispondere alla domanda, peraltro circostanziata, e si fermava e rimbrottava il marito.
Lui era molto più alto, indossava un cappellino da baseball con scritto Ischia e teneva una videocamera appesa al polso di cui sembrava essersi dimenticato. Ciondolava come sotto l’effetto di un oppiaceo, e come dargli torto? Stordirsi di narcotici doveva essere l’unico modo legale per gestire una moglie come quella.
Era la classica coppia in vacanza con cui ti andrebbe di socializzare tenendo in mano una scure.

“Questo prima che chiede ninformazzione stamo freschi! Cercamo a cattedrale!”
“In fondo alla via”, tagliò corto Gabriele, indicando il cartello Rue de la Cathédrale.
“Ma ce stava pure a scritta! Vedi a sapè le lingue!”

Già, Marsiglia ha anche una cattedrale, che lui nel suo trip neoromantico postatomico si era dimenticato di considerare. Doveva trovarsi a un paio di minuti da lì, tanto valeva darci un’occhiata.

“Non dovevi chiamare qualcuno, prima?”, gli chiese a tradimento la sua coscienza.
“Vabbè, dopo lo faccio”, le rispose in una scrollata di spalle non troppo immaginaria.

La vide spuntare appena imboccato il vicolo, ma era una falsa prospettiva: l’edificio stava lontano dalle case, slegato dal contesto urbano. Era grande, non bella. Neobizantina, qualunque cosa volesse dire. Per lui era solo un’altra grossa chiesa a righe con la cupolona e i campanili in facciata, e in mezzo a quella distesa spoglia sembrava un’astronave in sosta. I turisti venivano scaricati dai pullman e intruppati al suo interno in ranghi stretti. Da un portone laterale atrettanti plotoni armati di macchina fotografica e selfie stick venivano espulsi e si dirigevano sotto il sole verso il grosso cubo nero che dominava l’estremità opposta di quel piazzale metafisico. Il MUCEM.

“Adesso però la devi chiamare”
“Magari prima ci faccio un giro sotto per vedere se è aperto”

Era una costruzione splendida. Sembrava una scatola nera intarsiata da un gigante, e si stagliava sul bianco della banchina come un adesivo. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, era inquietante come una visione del futuro. Per quanto lo riguardava era anche dello stesso colore.

“Apre fra un’ora, chiamala”
“Magari faccio due passi qui sotto e la incontro che sta andando a lavorare”

Non la incontrò lì sotto e neanche un po’ più in là. Si avvicinò all’ingresso dei dipendenti con la cautela di un artificiere, ma non riuscì a fermarsi abbastanza per guardare oltre la porta a vetri, gli sembrava di essere nudo, pitturato di rosso, con una freccia luminosa a gravitargli sopra la testa e che appena avesse rallentato e allungato il collo sarebbe risuonata una sirena e tutti l’avrebbero visto e additato. È lui! È venuto a vedere Naïma!

Il resto della fantasia proseguiva con insulti nella sua direzione da parte di tutta Marsiglia compreso il sindaco, che lo raggiungeva seguito da una scorta in abito da parata e gli consegnava su un cuscino la chiave di un’altra città con l’invito ad andarsene immediatamente.

Tirò dritto a passo spedito, rosso in viso e svoltò oltre l’angolo. Era il retro del museo, non c’era niente lì tranne uno specchio d’acqua condiviso col forte Saint-Jean che stava di fronte. Si chiese se fosse permesso stare lì, se fosse arrivato un guardiano a scacciarlo avrebbe dovuto buttarsi in acqua e scappare a nuoto. Cosa che peraltro gli avrebbe permesso di non passare più davanti all’entrata principale.
Si obbligò a rallentare il respiro e i passi, uscì dall’altra parte e andò a sedersi su una panchina davanti al mare. Le mura del castello d’If si indovinavano sull’isolotto di fronte, confuse con la desolazione della spiaggia rocciosa. Il mare era dello stesso colore del cielo, invitava a tuffarsi. Se invece di quel pellegrinaggio si fosse spinto fino al Parc des Calanques avrebbe respirato aria migliore e ci sarebbe scappato anche una nuotata fra gli scogli. Ormai era tardi, il battello ci metteva troppo tempo, rischiava di perdere il pullman. Niente da fare, era lì e doveva fare quello per cui era venuto, parlare a Naïma e chiederle.. scusa? Torniamo insieme? Sei felice? Stai ancora con quel tizio? Cosa le voleva chiedere davvero? Il sole gli sovraesponeva i pensieri, eliminava tutte le sfumature. Riusciva a ragionare solo per assoluti. E gli faceva venire sete. Tornò sulla strada, e sotto i portici del porto vecchio prese una bibita gassata che costava come un Veuve Clicquot.
Qualcuno avrebbe dovuto spiegargli il paradosso tutto francese per cui le bibite costano più care della birra e per una bottiglietta d’acqua devi prima fermarti al bancomat.

Lo schermo del telefono lo fissava per un po’, poi si spegneva e lui lo stuzzicava un’altra volta. Non voleva essere lasciato solo nel momento delle decisioni importanti, ma poi non decideva niente e restavano lì a sostenere una gara di sguardi in cui l’unica sconfitta era la batteria, già al 34%.

“Sono a Marsiglia. Ti va un caffè?”

Tutta la mattina a pensarci e se ne veniva fuori col messaggio più laconico della storia. Aveva dovuto prendersi di sorpresa o non avrebbe mai scritto niente, sarebbe rimasto lì ad aspettare finché non fosse diventato troppo tardi per fare qualunque cosa. Aveva cominciato a scrivere perché e se fosse il caso e a risalire fino alle ragioni in cui, poi si era sentito ridicolo e aveva scritto la cosa più diretta possibile. Pure troppo.
Riprese il gioco di sguardi con lo schermo, in attesa che la spunta raddoppiasse e si colorasse di blu.

“Prende qualcos’altro?”, lo interruppe la cameriera.
“Sì, prendo un..”
DING, fece il telefono.
Argh, disse lui.
“Niente”, aggiunse, e se ne andò col cuore pieno di elio.

La risposta era divisa in qualcosa come sedici messaggi: Naïma apparteneva a quella categoria di persone che non riescono a sostenere il peso di una finestra carica di parole, e ogni due o tre devono spedire. Quando stavano insieme il telefono gli vibrava in tasca per minuti interi ogni volta che dovevano organizzarsi per uscire. Se litigavano lo stillicidio durava ore, una volta aveva dovuto spegnere il telefono per non scaricarlo.

Era sorpresa che fosse lì. Ma non sembrava irritata. E si diceva disposta a vederlo. Appena possibile. Quando finiva di lavorare. Verso le cinque. Che bella sorpresa. Ma cosa ci faceva a Marsiglia.

Le rispose che era a cinque minuti dal suo posto di lavoro e che avrebbero potuto vedersi al bar del museo, sulla terrazza. Dopo non poteva, aveva il viaggio di ritorno e doveva ancora raggiungere la periferia orrenda senza perdersi né venire sequestrato dalle bande criminali che scorrazzano da quelle parti sui loro veicoli truccati e privi di tagliando assicurativo.

Disse che andava bene, ma poteva dedicargli solo poco tempo, mentre le sarebbe piaciuto andare a cena, era tanto che non si vedevano, chissà quante cose avrebbero avuto da dirsi. Lo disse in dieci messaggi.

(continua)