bisognerebbe impararsela a memoria solo per i nomi bellissimi che riporta

« Piramide al capo più meridionale del Nilo, come segno dell’inizio del fiume delle Piramidi – Eretta nel 1938, sotto la protezione del proconsole Jungers e con l’aiuto dei Padri Colle e Gerardine e di Monteyne, dal dr. Burkhart Waldecker in memoria di tutti coloro che hanno cercato il capo del Nilo, [che sono] Eratostene Tolomeo Speke Stanley e altri – Sono nomi del Nilo Kasumo-Mukesenyi-Kigira Luvironza-Ruvubu-Kagera Lago Vittoria-Nilo Vittoria Lago Kyoga-Mwita Nzige (Lago Alberto) Bahr el Gebel-Kir-Bahr el Abiad Nilo. »


Ogni tanto unisco i palmi delle mani e ne tengo uno un po’ più indietro, per sentirlo più piccolo. Se chiudo gli occhi posso fingere che quella mano sia tua. Non funziona benissimo, eh? Manca il tuo viso perplesso quando riapro gli occhi, manca il profumo del tuo collo quando attraverso la distanza che ci separa e mi nascondo sotto la coperta dei tuoi capelli, e il mento e l’angolo della bocca che assaporo prima che la tua lingua mi travolga come una piena di fiume.

Mi mancano tutti i tuoi baci, quelli timidi e quelli affamati, e la tua mano che si infila nella mia quando non me l’aspetto, e il tuo sedere che mi scivola in mano, e tutto quello che ho assaggiato e morsicato e toccato, e il tuo respiro e quello che ho trovato nel tuo abbraccio, che è come sedersi sul dondolo e leggere un libro che racconta di te.

Ti ho conosciuta un po’ per volta, ho unito i puntini di quel che mi hai mostrato e il disegno è venuto fuori un po’ incerto, misterioso, ma più andavo avanti a tirare righe più i particolari mi facevano correre la penna sul foglio. Intorno al trentacinque ho cominciato a intuire che in quel ghirigoro si nascondeva qualcosa di prezioso. I tuoi pantaloni stretti, gli scalini di casa tua, l’anello della nonna, la passione per gli ombrelli, finestre senza le tende su un paese che non conosco, dove si parla una lingua così diversa dalla mia. Abitudini che non comprendo, così diverse dalle mie da farmi domandare se ci sia davvero qualcosa che ci unisce.

È che mi fai sentire un esploratore, di quelli che nell’Ottocento risalivano il Nilo per individuarne l’origine, coi binocoli e la bussola.

Mi affido al telefono, ti mando un messaggio per sapere dove sei, mi rispondi con una faccina. Ti dico che mi manchi, ricevo un’altra faccina. Potrei arrendermi e chiedere all’elefante se ti ha visto passare, ma io con gli elefanti non ci parlo.

Così ti scopro da solo, una faccina alla volta, quella per quando ti prendo in giro, quella per quando ti guardo ad alta voce, e vorresti che mi voltassi di là, che non lo sai sostenere uno sguardo, e non capisci lo spreco a non essere guardati da occhi come i tuoi.

Cammino lentamente, come uno che cerca posteggio, e ho paura che quando arriverò te ne sarai già andata, e mi guardo le mani, le unisco insieme e chiudo gli occhi. Non basta mica.