4. Dove l’estinzione appare inevitabile

Esistono diverse vie d’accesso alla terrazza del MUCEM, a seconda di ciò che vi spinge lì.
Un turista interessato alla mostra su Picasso può munirsi di biglietto ed entrare dal pianterreno, e solo in un secondo tempo decidere di terminare la visita salendo all’ultimo piano per rinfrescarsi al bar con una bibita che costa più del biglietto stesso, un po’ per via del già citato paradosso francese e un po’ perché sono dei ladri.
Un free climber si arrampicherebbe lungo la facciata, ma con un certo scazzo, quella è gente abituata a imprese ben più ardue, salirebbe tenendosi con una mano e facendosi foto al cellulare con l’altra.
Un commando di teste di cuoio si calerebbe dall’elicottero dopo aver cosparso la terrazza di fumogeni, quindi ucciderebbe tutti i terroristi, e prima di dichiarare il tetto sicuro missione compiuta andrebbe a saccheggiare il bar, più per rappresaglia che per necessità, che sotto sotto questa truffa delle bibite non va giù neanche ai francesi più patriottici.

Se stai entrando nell’edificio per rivedere la tua ex dopo mesi dal vostro ultimo incontro in cui le hai dato, senza troppi giri di parole, della troia opportunista, la passerella lunga e nera che collega museo e forte diventa una scelta obbligata:
oltre ad essere un indiscutibile oggetto d’arte ti offre un panorama inedito sulla città, un bellissimo scorcio del porto e della basilica sulla collina, e soprattutto ti fa sentire come un dannato alle porte dell’inferno molto meglio di come farebbe l’anonimo ingresso principale.
La griglia che riveste la facciata si alza oltre il parapetto e si ripiega all’interno, diventando una specie di tettoia, e l’effetto che dà al visitatore sospeso sulla passerella è quello di una gigantesca bocca irta di zanne pronta a dilaniarlo.
Il Louvre, per esempio, sembra essere erbivoro. Forse è per quello che attira più visitatori.

Gabriele si guardò intorno, non c’erano facce familiari. Turisti anche lì, che entravano nel museo, leggevano i cartelloni con la storia della costruzione, fotografavano il castello d’If attraverso la griglia metallica, si allontanavano in fretta dal bar dopo aver chiesto un prezzo.
Si stese su una chaise longue e guardò il castello anche lui, e anche lui si tenne la sete, nonostante la gola fosse diventata sabbia, chissà perché.

Il telefono vibrò discretamente, non riuscì a imitarlo e scattò in piedi ruotando la testa come la lampada del faro.

Naïma si era tagliata i capelli molto corti, indossava un abito formale che tuttavia non riusciva a renderla meno desiderabile: la camicia abbottonata fino in cima gli faceva muovere le dita nelle tasche. Stava benissimo. Maledizione, era splendida.
Gli venne incontro con un sorriso capace di disinnescare bombe, avrebbe voluto abbracciarla e basta, abbracciarla e abbandonarsi a quello che sarebbe venuto: qualunque cosa fosse sarebbe stato bellissimo e definitivo. Sarebbe stato così semplice.

Restò immobile, incapace di sciogliere l’espressione tesa che aveva in volto, e bastò quello perché anche lei saltasse giù dal quadretto dell’utopia, per atterrare nel solito vecchio corridoio gelido pieno di vetri rotti.

Sul terreno della battaglia i due eserciti si fronteggiavano in un silenzio carico di morte. I primi a rompere la tregua furono gli arcieri, che fecero piovere sul nemico i loro saluti. Molte sicurezze caddero sotto quella prima ondata, e i loro compagni giurarono vendetta con le mani già imbrattate di sangue. Non ci sarebbe stata pietà, nessuno la meritava.
Uscirono i cavalieri, e abbracciarono l’esercito avversario con le spade in pugno. Gli altri schierarono picche e scudi. Le frasi di circostanza calpestavano le prime file e venivano trafitte da risposte appuntite sulla fiamma. Ritirarsi non era più possibile, era uccidere o essere uccisi.
Finalmente l’assalto della fanteria ruppe gli ultimi indugi, adesso non c’erano più schemi, solo sopravvivenza, brutale efficacia, parole scagliate per distruggere.

Sarebbe stato così semplice.

Per quanto cercassero di evitarlo sentivano che ogni parola li faceva scivolare verso i vecchi discorsi. Anche le frasi più innocue nascondevano la miccia che poteva dar vita all’incendio, i silenzi erano carichi di tensione che demoliva invece di costruire.
Non era ancora il momento di seppellire le incomprensioni, avrebbero dovuto accorgersene prima.
Si arresero all’evidenza.

“Stai ancora con lui?”, iniziò Gabriele.

Naïma lo colpì con un’occhiata bipenne capace di sfondare toraci.

“Scusa, credevo fosse una domanda legittima”
“Non lo è, e lo sai benissimo”
“Quindi ci sono argomenti da evitare? Se devo stare attento a quello che dico è meglio saperlo prima”
“Perché sei venuto fin qui? Cosa vuoi ancora da me?”

La domanda più semplice del mondo è quella a cui non sai rispondere.

“Perché mi manchi” sarebbe l’unica risposta, ma non risolverebbe più niente. Metterebbe solo chi la pronuncia di fronte all’ennesima porta chiusa, e i fallimenti pesano, i buchi nella pancia ci mettono sempre di più a rimarginarsi, e allora scusa ma è meglio il rancore che mi tiene dalla parte del più forte, se non altro mi permette di difendermi, di non sentirmi sconfitto. È orgoglio, certo, ma meglio quello, meglio soffrire in due che da solo.
Quello che ci estinguerà non saranno le bombe, ma le sovrastrutture.

“Mi spiace averti detto quelle cose, l’ultima volta, ma ero ferito. Mi hai fatto molto male, sei stata disonesta con me.”
“Non ci credo che sei venuto fino a Marsiglia solo per litigare ancora, dopo tutto questo tempo! Gabri, è finita, sto con un altro, fattene una ragione! Vai avanti!”
“Quindi stai ancora con lui. Beh, certo, quando ti ricapita un’occasione del genere? Va tenuta stretta. Mi domando se lo ami davvero. Mi domando se hai mai amato me, davvero.”
“Se è questa l’opinione che hai di me non capisco perché sei venuto a cercarmi.”
“Forse volevo sapere perché ci siamo lasciati.”

“Possibile che dopo tutto questo tempo tu non l’abbia ancora capito? Esiste ancora solo quello che provi tu? Come stavo io non te lo sei mai chiesto, eppure te l’ho spiegato in tutti i modi. Ti ho detto che stavo male. Ti ho detto che mi stavi perdendo, e la tua risposta è stata va bene. Va bene? Fermami, cazzo! Non lo voglio fare, sono innamorata, ma non mi vedi? Ho bisogno che tu ci sia davvero vicino a me, non mi basta una sagoma di cartone! Mi sono umiliata, ti ho implorato di considerarmi, e tu ti sei girato di là! Cos’avrei dovuto fare, restare lì a elemosinare attenzione? Umiliarmi un’altra volta?”

“Ti ho detto di fare la scelta migliore per te, non significava disinteresse. Ho messo i tuoi bisogni prima dei miei, perché non lo vuoi capire?”

“Hai messo te stesso prima di tutto! Che è il modo in cui sono andate sempre le cose fra noi! Tu, tu, ancora tu e poi se avanzava un po’ di tempo, magari io. Lo sai che la sera tornavo a casa e piangevo? Mi sentivo sola. Avevo passato tutta la sera con te, e mi sentivo sola.”

“E adesso sei felice?”

“Neanche questo sei stato capace di capire. Hai visto l’ingiustizia dove c’era un tentativo di salvarsi. Ti sei sentito tradito, ma perché? Tu non c’eri più, non c’eri mai stato, che diritto avevi di protestare?
Ti sei sentito la vittima di un sopruso, ma cos’è che ti ho portato via? Un po’ di tempo? Ti ho dato tutto quello che avevo e l’hai trattato come spazzatura. Mi hai fatto sentire inutile, addirittura disprezzata. Mi sono detta che era colpa mia perché non riuscivo a essere abbastanza bella o interessante per te.
Adesso ho qualcuno che me lo ricorda ogni giorno, glielo leggo negli occhi ogni volta che mi guarda, e io ci vivo di quelle parole non dette, di quelle attenzioni.
Non lo capisci, io non mi basto da sola come fai tu. Io certe volte faccio fatica a reggere il mio sguardo nello specchio, se neanche negli occhi dell’uomo che amo riesco a trovarmi dei pregi non è più vita.”

“Tu vuoi vedere solo quello che ti fa comodo, Naïma. Hai voluto tutto e subito e neanche ti è bastato. Ho passato mesi a discutere, a metterti davanti le cose che facevo per te, e tu ti voltavi di là e ripetevi che non c’ero. Non c’ero mai, neanche quando ti stavo davanti. Quando sei partita mi sono sentito liberato di un peso, ma non eri tu, erano tutte le tue paure idiote che mi pesavano. Era il non riuscire a zittirle. Mi sono confrontato per tutto il tempo con loro invece che con te, ripetendomi che prima o poi se ne sarebbero andate, e invece erano sempre lì, e alla fine ci hanno schiacciato. Loro e il tuo egoismo del cazzo.”

“Certo, alla fine è comunque colpa mia. Io sono l’egoista, l’opportunista, l’insensibile. Tu poverino sei un santo, puoi trattare gli altri come oggetti, ma la tua noncuranza è buona, non va toccata. Tutto quello che fai tu è lecito, anche se mi scava dentro e mi ammazza un po’ alla volta, è un gesto d’amore, bisogna accettarlo. Sei tu l’egoista, non io. Sei tu l’insensibile.”

“Io sono rimasto solo quando mi hai lasciato, e sono venuto qui per parlarti. Non mi sono trovato un’altra persona dopo due giorni. Non ho pescato nel mazzo il più ricco di tutti, quello che mi serviva nel lavoro. Sono rimasto dov’ero a leccarmi le ferite, io.”

“Tu non vedi altro che quello, non riesci ad andare oltre. Mi dispiace, Gabriele, è inutile continuare a parlare, ci facciamo del male e basta. Adesso devo tornare al lavoro. Per favore, non cercarmi più.”

Naïma sparì dalla terrazza come una visione: un attimo prima era lì, con gli occhi lucidi e i muscoli tesi a non esplodere, quello dopo c’era solo lui a confrontarsi col suo ricordo. Come a casa, come sempre. Era andato fin lì per portare a spasso il suo fantasma, adesso lo avrebbe semplicemente riportato indietro e non sarebbe cambiato niente, non lo aveva rimpicciolito, non lo aveva reso più innocuo. Lo aveva solo portato a fare una gita.

Un paio d’ore più tardi, seduto sul pullman per Genova, Gabriele cercava di ricostruire la conversazione, di osservarla dal punto di vista di lei. Quando gli sembrava di esserci riuscito saltava fuori qualcosa, una frase detta chissà quando, che tirava giù tutta la struttura e lo lasciava a masticare altro veleno. Non riusciva a chiudere. Doveva capire dov’era l’errore, doveva capire tutto, le ragioni di lei, le sue, chi aveva sbagliato cosa. C’erano delle responsabilità, era in un tribunale dove interpretava accusa, difesa e giuria, per forza che non ci stava capendo più niente. Un momento si dava ragione e un altro torto, e un altro ancora voleva solo uscire e andarsene, al limite anche farsi sbattere in prigione e scontare la sua pena, bastava finirla. Era spossato, ma non cedeva. Aveva bisogno di arrivare a una risposta, anche se non ci sarebbe stato più nessuno a cui sottoporla. Naïma era il passato, adesso più di prima, eppure continuava a considerarla parte del disegno. Immaginava di arrivare finalmente a una soluzione, di tornare da lei come un uomo nuovo ed essere finalmente la persona che lei desiderava.
Non erano passate neanche due ore e si era già scordato tutto quello che era appena successo. stava ricominciando da capo, come se vivesse in un mondo che aveva perso ogni contatto con quello reale.
Era davvero ripiegato su sé stesso, ignaro dei bisogni di chi aveva vicino, e quando non vedi altro che il tuo ego come puoi capire chi ti sta intorno, o confrontarti con un punto di vista diverso dal tuo? Come lo capisci che stai sbagliando, se è il tuo stesso errore a impedirtelo?

Se non ci estingueranno le sovrastrutture lo faranno le teste di cazzo.

Sveglia alle 5, madonne, zaino in spalla e l’aria fresca di Midtown fino alla sede dell’Onu. Di fronte ci sono le torri di Tudor City, dove Sam Raimi ha fatto svolazzare a profusione il suo Spiderman, dall’altra parte Queens è immerso nella bruma e sembra perfino un bel posto. Recuperiamo la macchina e partenza. Sarà la città che non dorme mai, ma in giro alle sei e mezza c’è davvero poca gente.

Attraversiamo il New Jersey fino in Pennsylvania, ma giusto per lasciare Marzia alle porte di Philadelphia, in un paesino pieno di villette nascoste dagli alberi dove l’unico rumore sono le cicale. Quando esci da Manhattan ti accorgi di quanto sia rumorosa quella città, anche quando sei in casa si sente sempre il ronzio perenne dei condizionatori del palazzo, per strada è una cacofonia di clacson, ci sono quei camion col muso in fuori che hanno delle trombe che abbattono i muri, poi arrivi in un posto dove si sentono le cicale e l’aria è fredda e umida e sa di bosco e pensi che vabbè, però in un casino del genere non ci potresti mai vivere.

Ma bando alle bande, bisogna lasciare il Subcomandante nelle mani della sua amica e partire, che questa è una vacanza da uomini. Via di nuovo verso Washington, che dovrebbe distare due ore, ma capita un piccolo imprevisto. Questo.

Immaginate un’autostrada a tre corsie dritta e piatta invasa da un biscione di harley-davidson che avanzano ai trenta all’ora con sopra barbuti sovrappeso. Milleottocento. Un’armata, un battaglione di ciccioni in bandana che salutano gli automobilisti fermi nella carreggiata opposta, e la cosa incredibile è che gli automobilisti costretti a rallentare rispondono al saluto e sembrano contenti di quello spettacolo improvviso che sta facendo loro perdere più di mezz’ora.

In Italia sarebbero stati ricevuti da una pioggia di sputi e consigli professionali per le loro madri, ma qui no, sono tutti felici di questa banda di scavezzacollo al colesterolo e scendono dalla macchina contenti e fanno loro ciaociao e se li ammirano felici. Che fosse un corteo commemorativo l’ho saputo dopo, e mi sono anche spiegato l’entusiasmo, ma in quel momento è stato uno spettacolo da non credere. E comunque, undici settembre o no, non so quanto siano stati felici quelli che seguivano il corteo a passo d’uomo, e avevano davanti un interminabile viaggio fino a New York.

Una cosa che noti viaggiando in autostrada sono le targhe. Ogni stato ha la sua, con tanto di motto stampato sopra. Quello di New York ricorda essere The Empire State, le macchine del North Carolina hanno scritto dietro First In Flight, con tanto di aereo dei fratelli Wright disegnato sullo sfondo. Sulle targhe del District Of Columbia c’è scritto Taxation Without Representation, che sembra una frase polemica, ma lo è davvero, e rimanda a una questione abbastanza spinosa. In pratica lo stato in cui risiede il governo non è uno stato, ma un distretto federale, creato appositamente per ospitare il governo, e i suoi abitanti non hanno diritto di essere rappresentati al Congresso. La frase riprende uno slogan del 1750 che fu tra le ragioni della Guerra di Indipendenza americana, e che citava “No taxation without representation”: i coloni non volevano essere tassati dal governo inglese senza avere una rappresentanza diretta in parlamento a Londra. Allora imbracciarono le armi, oggi scrivono slogan polemici sulle targhe, come cambiano i tempi..

Ma dicevo delle targhe, che è una faccenda divertente. Tu puoi viaggiare e studiarti la storia americana dagli slogan scritti sui bagagliai. Il Kentucky ricorda di essere “The bluegrass state”, come se ci fosse da vantarsi, il Wyoming non ha mai trovato niente di cui andare fiero e non ha nessuno slogan, ma lo capisco, se fossi lo Stato natale di Dick Cheney farei di tutto anch’io per non farmi notare.

Un’altra caratteristica delle targhe americane sono le personalizzazioni. In autostrada ne vedi a pacchi, soprattutto quando un’orda di motociclisti nell’altra corsia ti obbliga a lunghe code. Lobsta, Boysfan, Gooool sono solo alcune e neanche le più cretine che mi siano capitate.

E poi siamo arrivati a Washington.

Una città costruita per essere capitale, la sede del potere giuridico e legislativo e amministrativo e sticazzi. Uno se pensa alle capitali che ha visitato fin lì si trova spiazzato, che Washington è diversa da tutte quante, e soprattutto quando arrivi da quel gigantesco frullatore che è New York non puoi fare a meno di notare l’enorme differenza di questo posto. Ochei, NY non è l’America, ma neanche questo posto si può dire che le somigli, a meno che l’America non sia un grosso museo.

Tutti gli edifici bassi, nessuno che superi i tre piani, strade larghissime e quasi vuote, un’atmosfera sonnacchiosa che ricorda casa mia, palazzoni austeri con pochi negozi. Molliamo i bagagli e la macchina e ci incamminiamo verso la zona dei musei, ma essendo già le due e non avendo mangiato niente accettiamo l’invito di una cameriera elegante e ci piazziamo sotto l’ombrellone di un ristorante molto fico che però fa solo hamburger e birroni. Un pub ripulito, insomma.

Mentre mangiamo noto che il piano regolatore cittadino prevede anche delle vie di evacuazione, indicate da cartelli appositi. Non ci vuole una grande fantasia per capire che non sono state progettate per scappare da un incendio, ed è il momento in cui realizzo davvero dove mi trovo: nel centro del potere, quello vero, da cui dipendono tutti gli altri. Il cortile della casa di Galactus, il divoratore di mondi.

A conferma del mio ragionamento noto qua e là dei cartelli che indicano come nel tale palazzo sia stato costruito un rifugio antiatomico.

Washington è una città costruita a tavolino, un po’ come Brasilia, ma a differenza di quest’ultima il piano regolatore non è ispirato a un aeroplano. A giudicare dall’estensione della metropolitana uno potrebbe pensare che sia stata ispirata piuttosto da una grossa minchia: immaginate che la città copra la superficie di un campo da calcio, i treni sotterranei arrivano solo fino alla metà sinistra e la zona dei musei si estende sul cerchio di centrocampo; nella parte destra del campo c’è il resto dell’abitato, che sarà anche interessante, ma ci passano solo gli autobus, e il vostro albergo sta dalla parte di qua, tipo in mezzo alla gradinata, e già così la stazione della metro più vicina è sulla bandierina del calcio d’angolo. Insomma, una scarpinata della madonna.
Dal viale da cui proveniamo arriviamo dritti davanti alla Casa Bianca, di cui però conosciamo meglio il lato posteriore, quello con la facciata rotonda. Ci sono dei tizi accampati sul marciapiede che protestano e pochissima polizia, perlomeno pochissima visibile: sono sicuro che se accennassi a tirar fuori un’arma verrei abbattuto prima di pensare bang.

Dietro il giardino del presidente si estende il prato più ampio che abbia mai visto, su cui sorge, lì davanti, il monumento a George Washington, e laggiù in fondo, ma proprio in fondo, quello ad Abramo Lincoln.

Il primo sorge su una collina ed è uno dei simboli più celebri dell’impero americano; è lungo ed eretto e si vede da tutta la città. Per fortuna il progetto originale di circondarlo da un basso colonnato non è stato mantenuto, che già così le allusioni si sprecano. Chissà cosa ne pensava Freud.

Dando le spalle al memoriale di Lincoln, andando verso il Campidoglio, si arriva al viale dei musei, e lì c’è da ridere. Ne visitiamo tre, due di arte e uno di testosterone, e ci sarebbe da parlarne per ore solo per decidere quale mi sia piaciuto di più. Vi rimando ai siti, molto dettagliati e con tanto di catalogo delle opere esposte, e poi ditemi se esagero.

Comunque Hopper è il mio pittore preferito, non ci sono cazzi, e trovarmi davanti questo è stato uno dei momenti più emozionanti della vacanza, roba che neanche il cowboy nudo, guarda.

Dopo i musei i memoriali, sempre a piedi, figurati, vuoi mica rinunciare a una bella camminata? Che ti fregano, parti per vedere quello a Lincoln e finisci in quello ai caduti in Vietnam, e ti viene subito da guardarti intorno per cercare un veterano che ti regali uno zippo con scritto “Fuck communism”. Poi torni indietro e ti viene voglia di passare a vederne un altro che è di strada, ma a quel punto ce ne sarebbe di strada alla strada anche un altro, e questi memoriali sono come le ciliegie, però alla fine hai i piedi che ne meriterebbero uno per loro.
La metropolitana di Washington è corta, passa subito sotto la strada e ha dei bei soffitti a cassettoni. Però la fermata più vicina all’albergo resta a puttane e mi pare che abbiamo già camminato abbastanza, no?

Il giorno dopo un altro museo d’arte e la stanza dei bambini più grande del mondo, tanto che riesce a contenere un bombardiere, un concorde e uno shuttle. E la mia erezione.

 

(continua)