17/07/2015

Teresa.

Scrivo questa roba un po’ per riprendere l’attività sul pablog, e un po’ perché è il compleanno di una persona a cui voglio molto bene, e siccome è vanitosa le farà piacere leggerlo qui sopra, e siccome io sono più vanitoso di lei mi fa un sacco piacere scrivercelo.

Anche perché non le ho comprato nessun regalo, ed è vero che qualche giorno fa è venuta a casa mia e si è fregata un avocado, ma considerare quello il mio regalo di compleanno è veramente da micragnosi, nonostante il prezzo al chilo di un avocado acerbo, che poi avocado maturi non li ha mai visti nessuno, in natura l’avocado ha due soli stadi, acerbo e marcio, e a tutt’oggi e nonostante siano stati organizzati numerosi convegni per discutere l’argomento, nessuno sa se il plurale di avocado sia avocado o avocados, di certo non avocadi, quelli sono i penalisdi e i civilisdi, e dopo questa saluto gli ultimi tre o quattro lettori del pablog e torno a scrivere per me soltanto, alla faccia del voler essere sempre al centro dell’attenzione.

La prima volta che ho visto Teresa è stato alla festa di compleanno di Giulia, che è un’altra persona a cui voglio molto bene e di cui dovrei raccontare cose, ma il suo compleanno è già passato, casomai lo scrivo in occasione del prossimo, anche perché sennò non arrivo più in fondo e questo post per celebrare il compleanno di Teresa lo finisco il giorno del compleanno di qualcun altro.

Quel compleanno lì eravamo tutti agli Alabardieri, che è un locale a tema medievale dove i gestori sono così antipatici che ti verrebbe da augurargli la peste nera, e Giulia aveva avuto l’idea bizzarra di farci vestire tutti come i personaggi del Trono di Spade, la saga che non sto a spiegarvi cos’è perché oramai la conoscono anche i sassi. Teresa è arrivata vestita da Melisandre, la strega rossa, ed era un tale spettacolo che ho dovuto acchiapparmi la mascella al volo per non farmela finire nel piatto, che quello che c’era nel piatto era già abbastanza cattivo di suo, poi mi sono girato verso la ragazza che mi sedeva accanto e le ho chiesto chi fosse quella meraviglia, e non è un dettaglio da poco, perché la ragazza era quella che mi scriveva lettere bellissime e si ritagliava ogni momento possibile per vedermi, e io in una scala che va da zero a venerazione mistica ero innamorato di lei livello arrivare al concerto del tuo gruppo preferito alle sette di mattina per assicurarti la prima fila.

È passato un anno, ed è stato un anno difficile per quello che augura compleanni e per quella che li festeggia. Abbiamo preso degli abbagli stratosferici insieme e insieme siamo andati ad annegarli, e in dodici mesi abbiamo capito che i problemi li hanno gli altri, noi abbiamo solo dei contrattempi, e risolvendoli siamo diventati amici, e adesso vorrei raccogliere qui sotto le cose belle che ho scoperto di lei, quelle a cui penso ogni tanto per ritrovare quel sorriso che chissà dove si era nascosto.

  • i suoi gatti: per trovare dei felini più belli dei suoi bisogna cercarli fra i grandi predatori, oppure venire a casa mia a vedere il gatto più bello del Sistema Solare, non esagero, gatti belli come quello che vive con me non se ne vedono neanche spingendosi fino a Urano. Oltre non so, non ci sono andato, magari qualcosa si trova. E dopo João ci sono i gatti di Teresa: una specie di albicocca gigante con l’espressione di chi non ha capito bene cosa stia succedendo, ma nel dubbio si sposta, e un tigrato con la faccia che buca la scena, come certi attori di Hollywood che quando ci sono loro non vedi altro;
  • il bellissimo silenzio che resta in macchina quando Teresa scende: non ho mai apprezzato così tanto i rumori distanti della città di notte come da quando accompagno a casa Teresa, ma con questo non voglio insinuare che parli troppo eh? Lei parla il giusto. È in grado di ripetere a memoria ogni messaggio che si è scambiata con chiunque negli ultimi sedici anni, perciò quando ti racconta che ieri sera è uscita con una persona che frequenta dal 2006 ti recita tutta la loro conversazione dall’inizio, comprese le faccine di whatsapp. Io una che sappia fare così bene la faccina stupita non l’ho mai vista;
  • la sua cura nello scegliere i vestiti: accompagnare Teresa all’outlet è un’esperienza piacevolissima. Non è come molte donne che ti vogliono accanto per tutta la durata della loro processione nelle varie boutiques e ti tempestano di domande, e vogliono consigli, e si incazzano se dopo tre ore cominci a distrarti e giochi con la rubrica del telefono in cerca di un sicario. Teresa no, ti chiede di aiutarla a scegliere fra due abiti e basta. Esce dal camerino col primo e poi col secondo, poi torna dentro e tu puoi andare a fare la spesa nel centro commerciale che sta a dieci chilometri da lì, portarla a casa, metterla in frigo, fare una doccia, suonare la chitarra, guardare finire l’ultimo episodio di True Detective, tornare con calma ed essere di nuovo al tuo posto quando uscirà dal camerino dicendo “alla fine ho scelto questo”;
  • la sua perfetta padronanza dello spagnolo: Teresa parla lo spagnolo come una madrilena, ne imita l’accento e sa dire anche le parolacce, e più di una persona le ha chiesto se abbia dei parenti iberici o lo debba parlare per lavoro. Niente di tutto questo, è un dono naturale, ma come tutte le fortune ha il suo lato negativo. Teresa infatti parla spagnolo solamente quand’è ubriaca sfatta, da sobria non sa dire neanche carramba. Lo so che sembra un espediente cretino da commedia italiana, dove c’è Christian De Sica che si finge straniero per rimorchiare la biondona maggiorata e poi ci prova Massimo Boldi e gli viene l’accento milanese e la bionda se ne va e De Sica gli dice aò e Boldi dice bestiachefigura e in sala tutti ridono e che bello essere italiani. Per fortuna adesso le cose sono cambiate, nel senso che al posto di De Sica e Boldi ci sono due comici televisivi trentenni di cui ignoro il nome.

Ci sono tante altre cose che mi piacciono di Teresa, ma non le so descrivere: hanno i contorni sfumati che contraddistinguono i rapporti fra persone complicate. Sono quelle cose che stanno fra un piatto di gnocchi e un bicchiere di vino, affinità elettive, capirsi in tre parole. Sarà che entrambi ci sentiamo a casa davanti a un foglio bianco, e quelle persone fatte così comunicano su canali che voi neanche possedete, ma sta di fatto che io a Teresa voglio bene per un sacco di ragioni e qui sopra non ce n’è neanche una, ma sono sicuro che lei ce le ha trovate tutte lo stesso.

La partenza è prevista per le quattro, sono le due e mezza, sul piazzale ci siamo io e le mosche. Cielo coperto, temperatura secondo WeatherPro 24°C, secondo me lebestemmie, che c’è umido e le mosche sono nervose e mi ronzano sulla faccia e non mi lasciano leggere.
Alle tre e un quarto arriva una signora con due grosse borse della spesa: a parte il foulard e la gonna potrebbe benissimo essere Giampiero Galeazzi, ma anche così non è detto, la mia conoscenza di Bisteccone si limita a un paio di telecronache di canottaggio, che ne so cosa fa nella vita privata? Nel dubbio azzardo un “buongiorno” in italiano, per cercare di sgamarla, ma non ci casca, mi studia un momento e mi chiede qualcosa che suona come “‘ndo cojo cojo golasso”.

“Mi spiace, non capisco”, le rispondo in italiano, sperando in una botta di culo.
“Ci sta il cacao?”
“I’m sorry, I don’t understand”
“Con lo Jesi, che partita!”
“Si, vabbè”

Poco alla volta il piazzale si riempie di persone in attesa del pullman: c’è una coppia sulla cinquantina in tenuta escursionistica, zaino e scarponcini tecnici, che rispetto a come sto messo io, con le All Star e la maglietta di Batman, sembra organizzata molto meglio; c’è un ragazzino col baffo di primo pelo, in mimetica e borsone, che ha la tipica faccia da licenza; una coppia cerca di capire come abbassare il volume a quegli aggeggi alti ottanta centimetri che si muovono sempre e piangono fortissimo se non fai subito quel che ti chiedono, tipo comprargli il gelato o scendere dall’aereo perché sono stufi, e mi chiedo perché non accontentarli, specie nel caso dell’aereo; c’è una bella ragazza mora, indossa un vestito leggero che le lascia le gambe scoperte, e non sembra accompagnata da nessuno, e ho trovato la mia compagna di viaggio, le chiederò come si chiama e la affascinerò coi miei modi gentili, e siccome starà sicuramente andando anche lei a Sarajevo ci vedremo anche nei prossimi giorni e insomma una cosa tira l’altra, quando torno devo pensare seriamente a trasferirmi in una casa più grande.

Arriva la corriera, un bel mezzo moderno dai sedili confortevoli. Ci disponiamo a salire e cerco di mettermi dietro la ragazza, ma non troppo attaccato, lascio che qualcuno si frapponga fra noi, così da darle il tempo di sistemare la borsa nella cappelliera e sedersi, e capitare lì per caso e chiederle se il posto accanto al suo è libero e donarle il sorriso accattivante che mi ha reso celebre nelle balere da Cesenatico a Foggia, e insomma una cosa tira l’altra, chissà se limoneremo duro già prima del capolinea.
Si ferma a metà, sceglie il posto accanto al finestrino e mi accingo a fare la mossa del giaguaro, ma la coppia di escursionisti che ci separa si separa, e la moglie va ad occupare il mio sedile. Perché? Che è successo? Non stavate bene insieme? Cosa siete, una coppia in crisi che va in vacanza per dare un’ultima possibilità alla relazione, ma nel piazzale della stazione di Banja Luka, attorniata dalle mosche, capisce che ogni tentativo sarebbe inutile e decide di terminare il viaggio mantenendo una dignitosa ma eloquente distanza? Macheccazzo.

I posti intorno sono tutti presi, mi piglio il primo finestrino che trovo, molte file più indietro, e tiro fuori il telefono, che fra i vari comfort del mezzo c’è anche la presa elettrica. Perlomeno ho da leggere, penso.

“Sono Cita”
“Oh no!”
“Se dimmi ovvie, paciugo Previti busto”
“Sarà un viaggio lunghissimo..”

Come provocare un infarto al segretario della Lega Nord in Alto Adige

Il paesaggio è collinare a tratti, alpino a sprazzi, non capisci mai se stai vedendo il Sudtirolo o le colline toscane. I minareti al posto dei campanili aggiungono irrealtà, che sono abituato ad associarli a panorami più aridi, così mi aspetto Heidi che porta a pascolare i cammelli su alla baita, sono confuso.

“Signora, sono confuso”
“Ne riassume il governo”

Il resto del viaggio passa senza incidenti, la ragazza scende in un posto che si chiama Busovača, su cui non riesco a pensare niente di più eloquente, e alla fermata c’è il suo fidanzato che la aspetta e se la abbraccia contento, e mi viene in mente il video che mi ha spedito Andrea qualche giorno fa, ma il telefono che ho in mano è il mio, mi limito a ricordarlo e ghignare.

 Alle nove siamo a Sarajevo, ho l’indirizzo di un albergo in centro che dalle foto sembra molto interessante, e provo a farmici portare con un taxi: in fondo si deve pur morire di qualcosa, e peggio dei tassisti turchi credo sia impossibile. Mi siedo davanti, che dietro tutti quanti, e mostro la via all’autista grazie al fido telefono: 3 euri al giorno per navigare dall’estero mi stanno togliendo da un sacco di impicci, altro che storie. Inoltre ho imparato a Istanbul che se stai seduto davanti puoi tenere il volante mentre l’autista usa entrambe le mani per mandare sms a suo cugino.

L’albergo si trova alla Baščaršija, che potete pronunciare Bascarsia o Shambawambawè, non mi fa alcuna differenza, tanto non ho idea di come si dica; è la strada che porta al quartiere turco, quindi vedi che il mio commento sui tassisti di Istanbul non era a sproposito. Vengo scaricato nei paraggi, che l’area è pedonale, e l’autista mi indica la direzione giusta.
Ci metto un po’ per trovarlo, è in un vicolo laterale, nascosto fra il muro di cinta di un giardino e la facciata di un negozio, e ammetto di essermi fatto qualche scrupolo nell’avvicinarmi, ma erano timori scemi legati alla mia difficoltà nel comunicare: non conoscere la lingua del posto e sapere che pochi parlano inglese non mi fa sentire sicuro. Non ha senso, e quando ci rifletto mi passa alla svelta, ma mai del tutto a quanto pare.

Vengo ricevuto da una signora con gli occhiali e un sacco di riccioli rossi legati sopra la nuca. Dev’essere una discendente degli irlandesi che scoprirono la Bosnia prima dell’Impero Romano, ma le tracce della sua origine finiscono sulla targhetta che tiene appuntata alla camicia, dove c’è scritto Lamija, che si pronuncia Lamia, che è la figura alla base del mito dei vampiri, che è la ragione per cui adesso mi infilo in camera e sbarro la porta e la finestra e mi chiudo nell’armadio finché non sorge il sole, perché lo so che stanotte mi sveglio e c’è questa donna in piedi accanto al letto che si tiene gli occhi in mano e incombe su di me con le sue orbite vuote, e come lo mandi via un vampiro islamico, con la mezzaluna? Non ce l’ho neanche a casa io, la mezzaluna, il prezzemolo lo frullo, maledizione a me e alla mia disorganizzazione del cazzo! Finirò divorato nel cuore dell’Europa, e se non succede niente è pure peggio, perché mi resterà questa febbre dentro, l’assuefazione all’adrenalina, e dovrò buttarmi in attività sempre più pericolose per provare ancora quel brivido di cui ormai non posso più fare a meno, e finirò per prenotare le vacanze dell’anno prossimo in Transilvania o a Formentera con un gruppo di punzapunza.

Ma piantala! È una signora coi capelli rossi, cosa potrà farti di male? Sarà simpatica, chiedile una stanza!
Mmm, so mica. L’ultima mi ha trascinato in una tomba etrusca.
Ma che cazzo c’entra, piantala di vivere di suggestioni! Sei una persona reale, quando comincerai a comportarti come tale?

“Benvenuto in mia casa”, dice in un italiano stentato. “Entrate e lasciate un po’ della felicità che recate.”

Viavia! Scappiamo!
Ma come scappiamo? E il mondo reale?
Nel mondo reale una sospetta progenitrice di vampiri non si presenta citando il Dracula di Coppola!
Ma parla italiano. Dove la troviamo a quest’ora un’altra albergatrice che parli la nostra lingua?
Al Best Western!
Io al Best Western non ci vengo! Adesso taci e lascia parlare me!
Vaffanculo, se rinasco spero di essere la personalità multipla di qualcuno più saggio.

“Buonasera, non ho prenotato. C’è una stanza libera?”
“Certo. Per quante notti?”
“Tre”
“Perché ha citato Dracula?”
“Perché hai un pipistrello sulla maglietta.”
“E perché mi ha parlato in italiano?”
“Perché ti sei fermato fuori dalla porta a guardare quel manifesto, che è scritto in italiano.”

In effetti è vero, sono arrivato in città con la maglietta di Batman, e mi sono fermato a leggere il manifesto di un circo, appiccicato fuori dalla porta dell’albergo. Ci sono disegnati due zingari, uno suona i piatti e l’altro l’organetto a manovella, ed è scritto in italiano.

Still better than punzapunza.

Still better than punzapunza.

Se fossi in Francia o in Portogallo liquiderei il duo come i soliti italiani arrabattoni e me ne terrei a debita distanza, ma come ho già detto mi inquieta trovarmi in un paese che non sento per nulla familiare, e la presenza di due connazionali non mi irrita come al solito, anzi. Sono stranamente intrigato da queste due figure, soprattutto da quello con la pancia prominente e la barba rossa che mi ricorda Lothar, l’aiutante di Mandrake.
Vabbè, sticazzi, adesso ho fame e sonno, mi faccio tentare da uno dei vari ristoranti del quartiere e vado a dormire.

Il mercato è mezzo chiuso, cammino fra edifici bassi e butto un occhio alle vetrine ancora aperte, piene di oggetti in rame, teiere dal collo lungo e intarsiato, penne ricavate dai bossoli delle mitragliatrici e piatti con la scritta Sarajevo. In un baretto piglio due borek, che sono degli involtini col formaggio e le erbe, e li innaffio con una birra che si chiama come la città. Il minareto che domina il quartiere mi permette di orientarmi facilmente, e quando decido di rientrare mi basta fare due rapidi calcoli per trovarmi chissà dove, tornare indietro per una strada che però non ho percorso all’andata e attraversare un ponte (??) che mi porta sotto un altro minareto, che però non distinguo dal precedente perché quando a scuola spiegavano i minareti io avevo la varicella, e finisco davanti a una chiesa con un campanile. In questa città a prevalenza musulmana convivono tranquillamente entrambi i culti, o perlomeno convivevano: dopo la guerra sono cambiate diverse cose, il clima si è inasprito, diverse chiese sono state chiuse, le strade sono state invase da italiani che si fingono zingari e allestiscono circhi dove c’è uno che fa finta di essere una scimmia ammaestrata, e per le strade può capitare di imbatterti in questi buchi di mortaio tappati con della resina rossa che non puoi non vederli, e ti ricordano cos’ha passato questo paese, e ti si stringe il cuore, e a me stasera si stringe anche perché non ho idea di dove sono finito, c’è una chiesa rossa, sarà dedita al culto di R’hllor, magari, Melisandre mi fa discretamente sesso, ma no, non credo, sembra fatta di Lego come gli edifici del nord Europa, e poi c’è questa costruzione dietro, rossa pure lei, magari è dove vive Stannis, sono finito a Dragonstone, no aspetta, c’è scritto Brauerei. Cazzo, non è Dragonstone, è il birrificio della Sarajevska! Ho un intero birrificio dietro casa! Voglio venire a vivere qui.

Però domani, adesso guardiamo sulla mappa dove siamo finiti e andiamo a dormire, da bravi.