Ultimo giorno di punti, quindi torno all’Inail a perdere mezza mattinata nelle sadiche mani del professor Mengele. Ho appuntamento fra le dieci e mezza e le undici e mezza, ma siccome il dottor Morte mi ha chiesto di essere lì un po’ prima per non ritardargli la pausa pranzo faccio in modo di palesarmi in sala d’aspetto verso le undici meno dieci. Faccio anche bene, che tanto prima di mezzogiorno e mezzo non mi riceve.
Probabilmente sono io che non capisco e immagino i medici chiusi nei loro stanzini a chiacchierare di calcio e bere caffè, col Secolo XIX davanti, in quei venti-quaranta minuti che passano fra l’ingresso di un paziente e il successivo. È che mi sembra inverosimile che ci voglia tutto quel tempo, se io stesso per farmi togliere quattro punti ci perdo meno di cinque minuti a botta.
Ma è certo il frutto della mia mente abituata a pensar male, la verità è che questi poveri schiavi del lavoro passano tutte le quattro ore giornaliere a ricucire sistemi nervosi spezzati, si sfiancano in delicati interventi a cuore aperto e i miei cinque minuti di scucitura sono l’unico svago che riescono a concedersi. Un monumento ci vorrebbe, altroché.

Esco che c’è il sole. Mi compro un panino merlino e uno alla salsiccia di cinghiale al Gran Ristoro di Sottoripa e me li vado a mangiare sugli scalini di Matteotti, ma è una sosta breve.

Nonostante il bel caldo e la posizione invidiabile sui passanti fra il figo e il bizzarro che escono dall’androne del palazzo preferisco dirigermi subito in stazione invece di provare il wifi gratuito del centro. È che non mi riesce di fermarmi a godere del presente, sono sempre proiettato verso qualcosa che deve arrivare, un posto diverso, qualcuno che non c’è. E poi dicono che viaggiare nel tempo sia impossibile. Come me lo chiamano allora questo muoversi sempre al di fuori del presente? Stamattina leggevo un articolo serio sui viaggi nel tempo, in cui si sosteneva che spostarsi all’interno della quarta dimensione crea una curva chiusa con delle sue regole precise, tipo che non puoi uccidere tuo nonno e sperare di non nascere più, o non spostare niente altrimenti Homer si troverà a vivere in una realtà paradossale che non ricordo bene, che quella puntata l’ho vista tanti anni fa. Il discorso è da ampliare, io ne sono la prova.

Sul binario di Brignole ci sono due tizie che hanno deciso di condividere il mio spazio sulla panchina, e si sono messe una sulla mia e una su quella di fronte, per potermi disturbare meglio col loro chiacchericcio. Una si chiama Celestina come non so più quale papa, ed è nata il 18 maggio come lui. L’altra raccoglie l’assist dell’amica e le racconta di aver voluto chiamare sua figlia Celeste, ma suo marito insisteva nel volerla chiamare Bianca. E lei si impuntava, Celeste! E lui Bianca! Alla fine è nato un maschio, e l’hanno chiamato..

Avrei voluto intervenire e dire “Cartazucchero!”, ma rischiavo di farmi coinvolgere in una conversazione, e non avrei più potuto raccontare questo simpatico aneddoto. E poi era una battuta un po’ stantia.

Comunque l’hanno chiamato Andrea, perciò alla fine Cartazucchero sarebbe stato anche meglio come nome.

Prima di pranzo sono passato ai Grandi Magazzini Le Predon e ho finalmente venduto il mio libro a Lucilla, dopo settimane che mi tampinava con messaggi sul cellulare, telefonate a qualunque ora del giorno e della notte, email lunghissime e alla fine anche qualche minaccia. Mi sono sentito una puttana a farmi dare i 10 euri del prezzo di copertina, nonostante sia una gran scassacazzi è pur sempre un’amica, e non mi piace prendere soldi dagli amici; oramai dovrei averci fatto l’abitudine, li ho chiesti anche a mia nonna quando gliel’ho portato all’ospedale, il giorno prima che morisse. Poverina, le tremavano le mani mentre frugava nel portafoglio, raccoglieva le monete, le sparpagliava sulle coperte cercando di contarle. E come mi guardava quando si è resa conto che mancava un euro e settanta! Le ho detto che non importava, che sarei passato il giorno dopo a prenderli, e il libro gliel’ho lasciato lo stesso.

Aver saputo che sarebbe morta il giorno dopo mi sarei portato via almeno la bottiglietta di acqua minerale.

Coi dieci euri di Lucilla invece mi sono ubriacato come un poeta maledetto, ma non trovando bar che vendono l’assenzio a due euri a bicchiere li ho spesi tutti in boeri. Non so se alla fine stavo più male per il rum del ripieno o per la cioccolata nauseante. Che vuoi farci? Non si è mai sentito di poeti maledetti che si bruciavano l’esistenza in gelati al pistacchio, ho dovuto adattarmi, e poi si sa che la strada verso il successo è irta di ostacoli come i 4000 siepi.

A casa ho aspettato l’idraulico, che doveva controllarmi la vaschetta del bagno, ma ha detto che sarebbe arrivato tardi, lasciandomi il tempo di andare a comprare per la cena.

Ho preparato una suprème di pollo, che ha un nome parecchio ridondante per essere della carne bollita con la maionese, ma in fondo è colpa mia, devo smetterla di cercare le ricette su “In cucina con Ronald McDonald”.

Per non subire gli strali della cuoca di casa ho preparato in fretta un piatto di riserva, nel caso il primo non fosse andato a buon fine, e in quel momento è arrivato l’idraulico, tutto sporco di calce. Sta costruendo l’acquedotto appena fuori del paese, un’opera colossale visibile anche dallo spazio, con ponti a sei piani di arcate, statue raffiguranti Giove Pluvio e tutte le divinità minori, che lo spazio è tanto e solo con le maggiori non lo riempiva. Dice che vuole entrare nel guinness dei primati come l’idraulico che ha costruito l’acquedotto romano più grande del mondo, ma secondo me non glielo omologano, lui mica è romano, è calabrese.